Sarà pure Realpolitik, ma sembra un talk di La7

Dopo 2 ore e 14 minuti di servizi e interventi la costruzione di Realpolitik è crollata come un castello di carte scosso da un urto al tavolo su cui era allestito. Il copione seguito fino a quel momento era tutta la Flotilla minuto per minuto, con l’abbordaggio della Marina militare israeliana e i collegamenti dalle piazze d’Italia, Roma, Milano e tutte le altre date per scontate, per dire che dietro la «missione umanitaria» c’è un’adesione diffusa e unanime. Questo schema si era protratto con pochi dissensi degli ospiti non allineati, quando Tommaso Labate ha dato la parola a Federico Rampini, collegato da casa sua negli States. L’abbordaggio alla Flotilla e l’adesione delle piazze alla missione era quello che si aspettava? «Devo dire che qui negli Stati Uniti se ne parla abbastanza poco», ha esordito lo scrittore ed editorialista del Corriere della Sera, «se guardate il sito del New York Times, che pure è un giornale molto attento alle questioni internazionali e al Medio Oriente e con una linea editoriale pro palestinese, la Flotilla non è fra i dieci titoli principali. Qui si parla piuttosto del Piano per Gaza e della possibilità che Hamas lo accetti. Io seguo anche molti giornali internazionali e tutti, come anche qui in America, ritengono che il futuro del popolo palestinese dipenda più dal Piano Gaza che non dalle sorti della Flotilla». Castello crollato e gioco finito.
Fino a quel momento, il Pååiano per Gaza come pure l’intervento di Sergio Mattarella e la disponibilità del Patriarcato latino di Gerusalemme a distribuire il cibo ai palestinesi, non erano quasi stati citati. È bastato allargare lo sguardo per accorgersi che la narrazione dominante in Italia è frutto del provincialismo ideologizzato dei nostri media. Stupisce che, da qualche tempo, vi si stia accodando anche Rete 4, in particolare con il nuovo programma di Labate (mercoledì, ore 21,30, share del 5% e 650.000 spettatori). Walter Veltroni, Vincenzo De Luca, Virginia Raggi, Giuseppe Conte, Elly Schlein in collegamento e Maurizio Landini sono stati protagonisti dei faccia a faccia delle prime due puntate (3,7 e 3,6% di share). La terza, mentre scorrevano le immagini dalle barche degli attivisti e dalle piazze pro Pal e dopo un collegamento con Francesca Albanese, ha visto fronteggiarsi prima Debora Serracchiani e Galeazzo Bignami ai quali si è aggiunto Nicola Fratoianni, e poi due giornalisti di Libero e della Stampa, tra i quali è spuntato Stefano Bonaccini da Bruxelles. Il parterre di Realpolitik è un piano inclinato sempre da una parte. Anche per questo, oltre che per l’insistenza degli applausi in uno studio che ricorda quello di DiMartedì, vien da chiedersi se si è sintonizzati su Rete 4 o su La7.

 

La Verità, 3 ottobre 2025

Il Tg1 dà buca a Donald e Bibi per Renato Zero

Da qualche tempo, più di prima, gli ultimi dieci minuti di molti telegiornali sono dedicati a notizie leggere, moda, musica e cinema. Se ne capiscono le ragioni: la prima parte dei notiziari e un’infilata di tragedie, dai fronti bellici con relativi scenari di morte, alla cronaca nera e nerissima, perciò i servizi di alleggerimento sono sempre più indispensabili, per compensare. Poi c’è anche un altro motivo, le news frivole portano ascolti e, dunque, bisogna farsene una ragione. Che, tuttavia, a volte non regge. Solitamente, a quel punto del tg, inizia il mio zapping perché dell’ultimo tour di Damiano dei Maneskin, per dire, m’interessa il giusto. Lunedì sera, a due terzi del Tg1 è partito un servizio sui 50 anni della griffe Armani con tanto di elogi di Richard Gere e Glen Close, ma una volta migrato su La7 mi sono trovato in diretta con la Casa Bianca. «Entrano il vicepresidente JD Vance e il segretario di Stato Mark Rubio», stava dicendo Enrico Mentana che, di seguito, elencava alcuni dei 20 punti dell’accordo di pace siglato da Donald Trump e Benjamin Netanyahu. I quali, di lì a poco, facevano il loro ingresso nella sala delle conferenze e con l’enfasi che conosciamo annunciavano di essere protagonisti di «una giornata storica» (parole del tycoon). Mantenendo i piedi per terra sono tornato sul Tg1 dove c’era Renato Zero che cantava mentre sul Tg5 si annunciava un servizio sulla Ruota della fortuna. Erano da poco passate le 20,25 e ho ripiegato nuovamente sul TgLa7. Un Trump trionfante e minaccioso ribadiva che se Hamas non avesse accettato il nuovo piano di pace avrebbe aiutato Israele a finire il lavoro. Un ulteriore controllo sul Tg1 mi permetteva di apprendere dell’esistenza di Bad Bunny, un rapper portoricano di successo. Mentana sforava scusandosi per aver sacrificato le altre notizie, ma l’annuncio proveniente dalla Casa Bianca doveva avere priorità. In contemporanea, anche 4 di sera su Rete 4 si era collegato con la sala delle conferenze per ascoltare Trump e Netanyahu, mentre su La7 partiva il consueto, interminabile, blocco pubblicitario che precede Otto e mezzo. Intanto, su Ra 1 iniziava Cinque minuti, ospite il ministro della Difesa Guido Crosetto, l’uomo giusto, ho pensato. Invece, si parlava della Flotilla e dei rischi connessi alla violazione del blocco navale. In un passaggio, il ministro auspicava l’arrivo in serata di buone notizie dall’incontro tra il presidente americano e il premier israeliano così da rendere ancor più superflua la missione «umanitaria» delle imbarcazioni nel Mediterraneo. Erano già arrivate quelle notizie, ma a Rai 1 ancora non lo sapevano.

 

La Verità, 1 ottobre 2025

È nato prima Veltroni o Fazio? Il falso buonismo

Il rosolio gronda dalle prime righe. «Qual è il primo programma che hai visto da bambino?». Risposta: «L’allunaggio». Ma non si capisce se in diretta o in differita, nei tg del giorno dopo. Però il ricordo della mamma che gli dice «Siamo andati sulla luna», quello è «nitido». Walter Veltroni che intervista Fabio Fazio, ieri su Sette del Corriere della Sera, è un gioco di specchi. Un trionfo di emulazione reciproca. Un ping-pong tra gemelli. Del resto, Fazio è stato svezzato a pane e mainstream democratico e Veltroni si è abbeverato a decenni di interviste faziesche. Leggere le cinque pagine che danno la copertina al magazine non aiuta a capire se è nato prima il veltronismo o il fazismo. Ci terremo il dilemma. L’intervistatore intervista l’intervistato con lo stile che l’intervistato ha reso un marchio di fabbrica. Anzi, un vero e proprio format, quelli che lui disprezza perché predilige la tv artigianale. Mah. In realtà, sembra che l’intervista alla Fazio esista e si propaghi, come certifica quella di cui parliamo. Clima rilassato, complicità, zero domande scomode. Come detto, si comincia con la dolcezza di Fazio bambino e la mamma. Poi eccolo ragazzo guardare Immagini dal mondo e la sigla che «oggi definiremmo multirazziale», la tv in bianco e nero, la Carrà e Mike Bongiorno, Enrico Vaime e Angelo Guglielmi, ma non Carlo Freccero. Il vero cruccio è aver perso la capacità di sognare perché «il sogno non porta utili. Si è sostituito il sogno, il senso di giustizia e di solidarietà, con la convenienza», garantisce il conduttore ligure che nel 2023 lasciò la Rai nel bel mezzo di un cambio di dirigenza per firmare un contrattino con Discovery da 10 milioni in quattro anni (più 30% rispetto a quello con la tv pubblica). Però, il gemello gli chiede «quanto ti ha fatto soffrire lo sfratto dalla casa Rai?». Risposta un filo cervellotica: «Quello che mi ha deluso è stata la disponibilità ad acconsentire alla prepotenza». Com’è agli atti, l’amministratore delegato in quota Pd, Carlo Fuortes, non gli propose il rinnovo del contratto e lui firmò per la concorrenza il giorno prima che si insediassero in Viale Mazzini Roberto Sergio e Giampaolo Rossi. Verosimilmente, la Rai gli avrebbe offerto una cifra più contenuta e lui avrebbe dovuto scegliere tra il portafoglio e la sbandierata appartenenza alla tv pubblica. Però, si sa, oggi non siamo più capaci di sognare perché si cerca solo il guadagno. O la restituzione degli spiccioli anticipati a Mick Jagger per pagare un parcheggio. Insomma, niente. Prima il veltronismo o prima il fazismo? Forse, prima di tutto il buonismo. Ipocrita.

 

La Verità, 27 settembre 2025

«Lezioni di mafie» e lezioni di marketing

Comincia dalla Locride la prima delle quattro Lezioni di mafie che Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Napoli, terrà al mercoledì sera su La7. Questa è dedicata al «Potere della ’ndrangheta», materia che il magistrato e saggista conosce a fondo quanto il territorio nel quale si muove con disinvoltura essendo originario di Gerace (ore 21,20, share del 7,1%, 1,1 milioni di telespettatori). Coadiuvato da Antonio Nicaso, docente di Storia sociale della criminalità organizzata e suo partner in numerose pubblicazioni, e da Paolo Di Giannantonio, ex conduttore del Tg1 e di Unomattina, il procuratore illustra meccanismi, storia e gerarchie delle ’ndrine, le formazioni più blindate e impenetrabili dell’arcipelago criminale nostrano. Qui non ci sono passaggi da una cosca all’altra e, a differenza dei clan camorristici e di Cosa nostra, i collaboratori di giustizia sono più unici che rari. Nonostante il titolo del format, lungi da ambizioni pedagogiche, l’approccio è investigativo, pragmatico e fattuale. Nel Teatro Palladium è stato convocato un gruppo di universitari di Roma 3 che partecipano alla lezione con domande preparate. Ci sono due cattedre e uno schermo nel quale scorrono i servizi sia per il pubblico del teatro che per quello a casa. Messa così, difficile immaginare qualcosa di più statico e antitelevisivo. Per fortuna, non si rimane a lungo nel teatro-aula, ambiente che Gratteri frequenta abitualmente quando nel tempo libero incontra gli studenti. Le parti più fruibili sono quelle in esterna, i dialoghi all’aperto con Nicaso chissà perché schermato da occhiali da sole, sugli intrecci fra religiosità e «la picciotteria», antenata della ’ndrangheta nel profondo Aspromonte, o le connessioni ramificate con gli ambienti della politica. In studio si smonta il mito dei guadagni elevati con il crimine, vero solo per i livelli gerarchici più alti. A confronto con galoppini e manovali, un idraulico o un elettricista fanno molti più soldi e soprattutto vivono meglio. C’è spazio anche per una citazione autoreferenziale quando si passa per il centro storico di Gerace, «qui sopra negli anni Ottanta c’era la prima radio privata ionica». Indovinate chi era il dj?

Non deve sorprendere il buon risultato di ascolti di un programma un filo noioso e poco accattivante. È semplicemente un format mirato sul pubblico di riferimento della rete. A differenza di quello che alla prima uscita è parso non essere Realpolitik di Tommaso Labate, altro conduttore originario della Locride. Per l’audience di Rete 4 (3,7% di share), Walter Veltroni, Vincenzo De Luca e Virginia Raggi tutti insieme in una sera, forse sono un po’ troppi.

 

La Verità, 19 settembre 2025

Scotti batte subito De Martino, sarà gara lunga

C’è partita, c’è match, direbbero i commentatori sportivi. Al di là dei comunicati e dei complicati calcoli di share e ascolto medio, tra La Ruota della fortuna e la versione rinnovata di Affari tuoi la gara è all’ultimo telespettatore. Innanzitutto, i dati: nella sovrapposizione tra i due game show (dalle 20,49 alle 21,25 di lunedì) l’ha spuntata di un soffio il programma di Rai 1: 4.210.000 spettatori e il 22,35% di share per Stefano De Martino, 4.120.000 ascoltatori e il 21,87% per Gerry Scotti. Nel conteggio complessivo dei due programmi, invece, ha vinto di poco l’access di Canale 5: 4.514.000 persone e il 24,17% di share contro 4.222.000 telespettatori e il 22,6% del gioco in onda sull’ammiraglia Rai. La notizia c’è tutta: l’anno scorso Affari tuoi distaccava la concorrenza anche di 15 punti di share. Ora i rivali si sorpassano e controsorpassano. È una sfida senza esclusione di colpi se è vero che, rispetto alle medie di un anno fa, Affari tuoi ha perso quasi 10 punti di share, mentre La Ruota della fortuna ne ha ceduti 5 in rapporto alla settimana scorsa. Certamente, è presto, anzi, prestissimo per trarre conclusioni. La stagione è appena iniziata. Ma la sensazione è che il tormentone sull’access primetime ci accompagnerà a lungo. Intanto, perché il suo andamento può influire sugli ascolti della prima serata. E poi perché può accelerare o rallentare il ritorno in onda di Striscia la notizia, la cui ripresa è prevista per il mese di novembre.

Se, nel frattempo, si vuole azzardare una riflessione, certamente parziale, è il caso di dire che il primo risultato sembra dar ragione alla strategia attuata da Mediaset: lavorare tutta l’estate con un quiz in diretta, rodando il format – un gioco con una minima ambizione enigmistica tra i più longevi della televisione mondiale – e creando fidelizzazione del pubblico ai tormentoni di Gerry Scotti e alla presenza di Samira Lui. De Martino era atteso al varco dopo un paio di mesi di assenza. Una parte di pubblico si è accontentato di Techetechetè, un’altra parte si è dispersa, coagulandosi su Canale 5. Al ritorno, preparato da molti spot promozionali, il format è stato rinfrescato, con uno studio loft e la presenza evocata dall’ufficio del misterioso «Dottore». Il cui potere, però, sembra lievemente ridimensionato dal fatto che ignora il contenuto del pacco nero. Lo scopo è accrescere ulteriormente la suspence del gioco. Basterà a rendere più attrattivo l’one man show con De Martino rispetto al gioco di squadra di Scotti, Samira e della band di Canale 5?

 

La Verità, 4 settembre 2025

Watson, un giocattolino woke troppo patinato

È sbarcato l’altra sera su Canale 5 e Mediaset Infinity Watson, ennesima e liberissima derivazione dai racconti di Arthur Conan Doyle (ore 21,35, share del 12,2%, 1,4 milioni di telespettatori). Qui, nella prima stagione della serie prodotta dalla Cbs, Sherlock Holmes è appena morto (ma tornerà nella seconda, già realizzata), ucciso dall’irriducibile nemico, il professor James Moriarty. Qualche mese dopo esser riemerso dalle acque di Reichenbach in Svizzera, dove si è consumata la lotta finale, ritroviamo il fido assistente John Watson a Pittsburgh, vincolato dall’eredità del suo ex capo a mandare avanti la «Holmes clinic», un dipartimento di cura per persone affette da malattie rare. L’impegno al fianco del grande detective, però, ha comportato il distacco dalla bella moglie che, ahilui, ora ritrova nel ruolo di direttrice sanitaria della clinica. Per risolvere i casi che gli si presentano, il genetista Watson (Morris Chestnut) si contorna di un team di ricercatori disadattati, composta da due infettivologi e fratelli gemelli (interpretati da Peter Mark Kendall), da un’immunologa (Ritchie Coster) e da una neurologa (Eve Harlow) che, in teoria, dovrebbe occuparsi anche del trauma che ha colpito lo stesso Watson dopo la scomparsa del partner. Il quale, con la complicità dell’ambiguo compagno Shinwell Johnson (Ritchie Coster), si affida invece a una più rassicurante terapia farmacologica.
In un’ambientazione calda, con uffici foderati di boiserie più adatte a una prestigiosa università che a un asettico ospedale, si snodano dialoghi a metà tra la didascalia sanitaria e la gara all’ultima parola. Tutte cose già viste e sentite in Dr. House. È l’inevitabile e mortificante paragone dei medical drama che sconfinano nella detection. Watson invita ripetutamente i suoi collaboratori a essere «sia medici che detective». E anche se ora lavora in Pennsylvania, nei momenti cruciali ricorre curiosamente all’aiuto di qualche vecchio amico di Scotland Yard. È la minore delle stranezze della serie ideata dal gruppo di autori guidati da Craig Sweeny, lo stesso che, sempre dalle opere di Conan Doyle aveva tratto Elementary, dove Watson era impersonato dall’asiatica Lucy Liu. Perciò, di fronte a questo nuovo, patinato, giocattolino woke, con un Watson di colore e due spalle da nuotatore, e l’ex moglie (Rochelle Aytes) sbilanciata in una relazione omosex, la sorpresa è in modica quantità. Devono essersene resi conto anche a Canale 5 se hanno scelto di piazzare i 13 episodi in quattro serate di agosto.

 

La Verità, 21 agosto 2025

Anche gli spot di Sinner sono da numero uno

Certi spot pubblicitari sono piccoli gioielli. Capolavori di comunicazione che si rivedono senza stancarsi. Perché il protagonista è una persona gradevole. Perché il messaggio è chiaro e leggero. Perché contengono un filo di autoironia che non guasta. E, infine, perché ci dicono qualcosa di chi li interpreta. Prendiamo la campagna promozionale per la rete wifi di un’importante piattaforma digitale: Alessandro Del Piero sembra un attore consumato. «Passa, passa…», incoraggia l’amico che balza sul pallone in cortile. Sdlang. La finestra va in frantumi. «Passa a Sky che è meglio». Stesso effetto comico per un altro episodio della serie: «Ragazzi, domani ci sono. Partitona». Suona il campanello e Alessandro apre la porta in tenuta da calcio per il match con la playstation: «Ma come vi siete vestiti?». «Ma come ti sei vestito tu?».

Gli annunci più divertenti del momento sono quelli che hanno protagonista Jannik Sinner. Una quantità spropositata che rimbalza spesso tra le sue azioni in diretta nei tornei e che possono provocare un moto di rigetto. Infatti, qualche moralista in servizio permanente ha storto il naso. In realtà, sono uno più bello dell’altro. Soprattutto perché dicono qualcosa del mondo del campione, del quale siamo curiosi. Fino a qualche settimana fa ce n’era uno che reclamizzava i servizi di un grande istituto bancario. Sulle note di Requiem for a trumpet, un bambino si accingeva a iniziare la partita di doppio con molta titubanza perché non c’era traccia del suo compagno fin quando Jannik spuntava alle sue spalle. Rinfrancato, inalberava la racchetta più grande di lui: «È bello avere quello che ti serve quando ti serve». Oppure, promuovendo il marchio di una pasta, Jannik spiega: «Il tennis è uno sport semplice, basta buttare la pallina dall’altra parte; la differenza la fa il come». Concetti all’insegna dell’understatement. Ma il messaggio che svela il tratto tipico del numero 1 è quello di un importante marca di caffè. Siamo nel backstage dello spot stesso e la pignoleria del protagonista esaspera lo staff. Si prova e riprova, «Espresso, espresso perfetto…». Jannik scioglie le spalle, improvvisando un training. «Espresso a modo mio». La regista annuisce, soddisfatta. «Buona!», annuncia un cameraman. Lui scuote la testa. «Possiamo rifarla?». La regista, nella quale ci rivediamo, allarga le braccia, estenuata. Intanto, Jannik ruota la tazzina di 15 gradi perché il marchio sia ben visibile. I dettagli fanno la differenza. Chiamatelo perfezionismo maniacale. Quello che guida il nostro campione negli allenamenti con il team e che lo ha portato in cima al mondo. Certo, Jannik, rifacciamola.

 

La Verità, 13 luglio 2025

La7 e Mediaset «credono» alla fake di TeleMeloni

Poi dice che uno si butta sullo sport e le serie tv. Che altro ci sarà da guardare in televisione, ora che è stato sollevato il lenzuolo dalla programmazione della prossima stagione di Rai, La7 e Mediaset. Et voilà, novità tendenti allo zero. Fantasia latitante. Salvo rare e apprezzabili eccezioni, perché davvero proprio non si poteva fare diversamente, formule e format sono stati in gran parte confermati. La televisione che verrà sarà deprimente come quella che se n’è appena andata. Il telespettatore che si nasconde in noi è sconfortato. Dovrebbe guardare talk show vocianti con esponenti politici di terza fila mischiati a tuttologi ed esperti che surfano dall’emergenza sanitaria a quella bellica fino a quella climatica? Dovrebbe sintonizzarsi su programmi di approfondimento che in realtà sono ciclostilati di propaganda antigovernativa a prescindere? Oppure varietà ridanciani e cheap con il solito giro di ospiti, anch’essi, a loro volta conduttori o ex conduttori di programmi della medesima scuderia di agenti, quando non della medesima rete tv, in tournée promozionale? O forse il telespettatore medio dovrebbe essere soddisfatto dei morbosi contenitori di cronaca nera che riempiono i pomeriggi delle reti ammiraglie? O magari delle rubriche di gossip e infotainment sugli amorazzi transeunti dei divetti dello showbiz. O dei reality epidermici utili a promuovere mezze figure o a riciclare personaggetti in caduta libera, eppure inflazionatissimi e sovraespostissimi nei primetime delle tv commerciali? ChiareFerragne, DiletteLeotte, AndreiPennacchi, Elodie e Mahmood, StefaniMassini, StefaniFresi, RobertiBurioni, PiniInsegni, GiulieDeLellis, Luchi&Paoli, MassimiGiannini, GeppeCucciare, PaoliConticini, SareManfuso, OscarFarinetti… ci vorrebbe un altro Rino Gaetano in grado di aggiornare con un nuovo capitolo il catalogo della sua strepitosa Nuntereggae più. In assenza, si mette mano al telecomando e si cerca la via di fuga. Appunto, sport e serie tv. In acronimo: S&St. Stop, con rare eccezioni. Gli altri acronimi, Ts&R (Talk show e Reality), oppure VI&G (Varietà, Infotainment e Gossip), hanno ampiamente stancato.
Insomma, personalissima abitudine, la tv generalista non si guarda più, salvo eccezioni.
Ma andiamo con ordine.

Altro che TeleMeloni

Il 27 giugno scorso, un venerdì nel quale i giornaloni rifrangevano i lustrini dei Bezos convolati a nozze sul Canal grande, la Rai ha presentato la sua collezione autunno-inverno 2025/2026. Ci si aspettava l’epocale annuncio di un programma affidato alla reietta Barbara D’Urso. Era la notizia tanto attesa. Invece, nisba. Delusione serpeggiante fra gli addetti al pissi pissi. Barbaria (copy Dagospia) avrà forse qualche ospitata. O magari gareggerà a Ballando con le stelle. Per il resto, spulciando le cronache, si scopre Whoopi Goldberg guest star della soap Un posto al sole, Kevin Spacey bentornato protagonista di una sit com su Raiplay e l’immancabile serata evento pedagogica di Roberto Benigni che, magari con Sergio Mattarella in prima fila, ci racconterà San Pietro. Detto che l’innesto più o meno estemporaneo di tre attori non fa linea editoriale, va aggiunto che, oltre alle conferme di prammatica (Carlo Conti, Antonella Clerici, Milly Carlucci, Stefano De Martino, Marco Liorni e Francesca Fagnani), si registrano soprattutto alcune defezioni. Non che si perda chissacché con la fine di Citofonare Rai2 della coppia Paola Perego Simona Ventura – quest’ultima passa a Mediaset per condurre Il Grande fratello dei Nip. O con lo spegnimento di Epcc dell’eterno giovane Alessandro Cattelan, anche lui in rotta verso Cologno Monzese. Di buono c’è che Viale Mazzini non ha le porte girevoli e ai segnali di pentimento di Amadeus e Flavio Insinna, transfughi un anno fa da TeleMeloni, ha opposto un netto «la Rai non è un albergo». Purtroppo, e paradossalmente, segnali di vero telemelonismo non se ne sono visti. Almeno ci si sarebbe potuti dividere; si sarebbe litigato, discusso, polemizzato. Niente. Un grigiore avvilente. Con la discussa eccezione di Affari tuoi («un game al limite del gioco d’azzardo», secondo Pier Silvio Berlusconi) ci si chiede se nella Rai di questi anni si sia imposto un titolo, un volto, un format che abbia lasciato un segno degno di nota nelle abitudini dei telespettatori? Deserto. Unica possibile àncora di salvezza, Rosario Fiorello e la sua squadra.

Propaganda d’opposizione

L’inesistenza di qualcosa che possa davvero chiamarsi TeleMeloni risulta doppiamente divertente perché gli altri editori si sono strutturati per contrastare quella che si è rivelata una colossale fake news. Secondo tradizione, La7 ha presentato la nuova stagione all’Hotel Four Season di Milano. Anche qui, tante conferme e minuscole novità. Il presidente Urbano Cairo ha sottolineato il carattere indipendente della rete e rivendicato la plausibilità di una quota di canone per il servizio pubblico al quale assolve. Richiesta che è apparsa un filo sopra le righe. Se fino a qualche anno fa, quando il tg di Enrico Mentana e le sue maratone influenzavano effettivamente il palinsesto tale provocazione poteva risultare ragionevole, oggi che con i vari Otto e mezzo, La torre di Babele, DiMartedì, Piazzapulita e Propaganda Live, la linea editoriale è spiccatamente militante, questa richiesta suona velleitaria. Chissà se le paturnie trapelate ai vertici del tg siano dovute all’avvolgente contesto propagandistico del canale. Per dire, Federico Rampini, l’unico conduttore che non ha issato l’antimelonismo sul frontespizio delle sue inchieste, si sposterà su Canale 5. A La7, infatti, per non lasciare spazio a dubbi, oltre alle conferme di tutta la linea – salvo il quiz preserale In Famiglia di Flavio Insinna, cancellato – le novità del prossimo anno saranno l’innesto di Roberto Saviano con sei ritratti di personaggi della criminalità, le Lezioni di mafie di Nicola Gratteri e una serata speciale sulla storia della P2 affidata all’attore Fabrizio Gifuni, ispirato dall’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo. Un pizzico di telemagistratura non guasta mai.

Ravvedimenti e alternative

Anche le reti Mediaset hanno scartato verso sinistra per compensare la presunta correzione a destra di Viale Mazzini. È un processo iniziato un paio di anni fa, con gli innesti di Bianca Berlinguer e di Myrta Merlino. La quale, sostituita da Gianluigi Nuzzi a Pomeriggio 5, si prenderà un anno sabbatico in attesa di nuove idee. Si sa come vanno queste cose: salvo i conduttori pifferai che si portano il pubblico da casa, raramente una tessera s’incastra felicemente nel nuovo mosaico. E comunque, «il retequattrismo non esiste», ha assicurato Mauro Crippa, responsabile dell’informazione della casa. Forse no, perché da Nicola Porro, al quale verrà affidato anche il preserale Dieci minuti dopo il Tg4, alla striscia di Paolo Del Debbio alle inchieste sul campo di Mario Giordano ci sono parecchie sfumature di differenza. In ogni caso, partendo dalla chiusura di certi inguardabili reality («i programmi più brutti che abbia mai visto», Berlusconi jr. dixit) e arrivando al Risiko del già citato Rampini su Canale 5, al programma di retroscena politici di Tommaso Labate fino al ritorno in video di Toni Capuozzo con dei ritratti dei grandi del Novecento, si nota un certo, salutare ravvedimento. Insomma, qualche eccezione in attesa di conferma forse s’intravede.
Nel frattempo, ci si può consolare con il torneo di Wimbledon su Sky, il finale di stagione della strepitosa MobLand su Paramount+ prodotta da Guy Ritchie e la terza pluririnviata stagione di Teheran su Apple Tv+. Qui si va sul sicuro.

La Verità, 11 luglio 2025

Sinner dirada le nubi e ritrova il tennis migliore

Flavio Cobolli non ce l’ha fatta. Al termine di un match giocato per lunghi tratti alla pari ha dovuto inchinarsi alla maggior esperienza e abitudine a queste altitudini agonistiche del 38enne Novak Djokovic. Nelle più rosee previsioni, con la vittoria sia di Flavio che di Jannik Sinner avremmo avuto una semifinale tutta azzurra sul verde di Wimbledon, un inedito assoluto, con la certezza di un finalista italiano. Invece no. Sinner ha regolato in tre set il baldanzoso, ma ancora acerbo Ben Shelton (7-6, 6-4, 6-4 il punteggio), mettendo in mostra un tennis autorevole, solido e produttivo in una partita in cui ha evidenziato una superiorità netta e il risultato finale non è mai stato in discussione. Invece, Cobolli è uscito sconfitto, ma a testa alta, dal confronto con il diabolico Nole, vecchia volpe dell’All England club, dove ha alzato già sette volte la coppa del re. Ora Novak e Jannik si sfideranno per l’accesso alla finale (per l’ex numero 1 serbo è la quattordicesima semifinale a Wimbledon) presumibilmente contro Carlos Alcaraz che dovrebbe avere compito facile contro Taylor Fritz.
Era una delle giornate più dense e cariche di aspettative della storia recente del tennis italiano che, pure, in questi ultimi anni ci sta regalando emozioni e soddisfazioni in serie. Una giornata resa ancora più unica dall’annuncio del ritiro di Fabio Fognini, talento superlativo del nostro tennis.
Il numero 1 mondiale, un ragazzo e un campione nel quale possiamo con un certo orgoglio riconoscerci, era chiamato a diradare le nubi addensate all’orizzonte dopo la sconfitta con Alcaraz nell’apocalittica finale di Parigi, la precoce eliminazione al torneo di Halle, il salvataggio rocambolesco causa infortunio di Grigor Dimitrov che due giorni fa qui a Wimbledon lo stava dominando nel gioco, il dubbio di aver sbagliato il momento per licenziare il preparatore atletico Marco Panichi e il fisioterapista Ulises Badio. Tutti fantasmi convenuti sul campo 1 (curiosamente non il centrale), alleati del temibile mancino Ben Shelton che aveva regolato in quattro set un encomiabilissimo Lorenzo Sonego. Al contrario, Cobolli fronteggiava senza pressioni di sorta il suo idolo storico di 15 anni più vecchio di lui, ma presentatosi in grande spolvero. Flavio aveva fin qui disputato un ottimo torneo, potendo esibire gli scalpi dell’emergente Jakub Mensik e dell’esperto e ostico Marin Cilic.
Dopo le poco probanti vittorie nei primi tre turni con avversari modesti e la deludente esibizione contro Dimitrov, anche a causa dell’infortunio al gomito che fin dal primo gioco ne ha condizionato il rendimento («10 km in meno sia nel servizio che con il dritto») per Jannik, Shelton è un avversario impegnativo. Dotato di un servizio potente, di un ottimo dritto e atleticamente esuberante. Un bel banco di prova, anche se i precedenti sono 5 a 1 in favore di Sinner. L’inizio è una partita a scacchi. Jannik non appare condizionato dall’infortunio al gomito. Tiene la battuta con relativa facilità e mette in mostra un gioco ordinato e redditizio, basato sul ritmo e la profondità dei colpi. Qualche sbavatura invece per l’istintivo Shelton, finché si arriva al tiebreak: sotto 0 a 2, il campione altoatesino infila sette punti consecutivi e incassa il primo set nel quale ha limitato a zero gli errori gratuiti. Nel primo gioco del secondo set però deve subito annullare due palle break che, se trasformate, avrebbero sicuramente galvanizzato l’avversario. Shelton si tiene in corsa grazie agli ace, ma il tennis di Sinner è solidissimo. Rispetto ai match precedenti l’italiano sembra un altro giocatore: lucido, concentrato, pragmatico. Un brivido percorre il team quando, dopo aver steccato un dritto in risposta, si tocca il gomito e nel suo turno di servizio commette più errori che nel resto del match giocato finora. Ma è un attimo. Jannik si ricompone e ritrova i suoi colpi, insistendo sul rovescio dell’avversario che gli porta diversi punti. Il break al decimo gioco vale la conquista del secondo set. La partita sembra mettersi in discesa. Il campione altoatesino concede meno all’avversario e sa giocare meglio i punti decisivi. Si va avanti e il finale sembra scritto. Il gatto sa come incastrare il topo. Che infatti non ha scampo. Al decimo gioco, la prima palla break è anche un match point. Ne serviranno altri due per aggiudicarsi l’incontro, approdare alla semifinale, unico giocatore italiano ad arrivarci per due volte sul verde di Wimbledon.
Cobolli parte bene, pur dovendo salvare palle break quasi in ogni turno di servizio, finché deve cedere nell’ottavo game e Djoko va a servire per il set. Ma la reazione di Flavio è da campione e sorprende l’ex numero 1, ottenendo il controbreak immediato. Davanti al suo mito, il tennista romano gioca senza timori reverenziali e conquista il tiebreak con due ace consecutivi. Il secondo set è quasi senza storia. Dopo aver strappato il servizio all’avversario, Nole fila via fino al 6-2. C’è più battaglia nei due set successivi, che Djokovic si aggiudica per 7-5 e 6-4. A Cobolli non sono mancate le occasioni per ribaltare il pronostico in favore di un giocatore infinito di 38 anni e con sette vite a disposizione. A domarlo ci proverà Sinner domani.

 

La Verità, 10 luglio 2025

Faletti, l’eclettico non schierato (e sottovalutato)

Un grande sottovalutato. Forse non un dimenticato, ma di certo uno al quale non sono stati riconosciuti i meriti che gli spettavano. È Giorgio Faletti, morto 11 anni fa, il 4 luglio 2014. Comico, cabarettista, autore e cantautore, scrittore, attore. «Aveva il talento di avere tanti talenti», parola di Antonio Ricci che lo consacrò nel mitico Drive In regalando visibilità alle sue maschere, la guardia giurata Vito Catozzo la più popolare. Un grande sottovalutato. Quando uscì, a sorpresa, Io uccido (Baldini & Castoldi), il suo primo romanzo salutato da Antonio D’Orrico su Sette del Corriere della Sera come l’opera del più grande scrittore italiano, 5 milioni di copie vendute nel nostro Paese, si cominciò a dire che non era farina sua, ma di Jeffrey Deaver. Altre malignità circolarono anche sui romanzi successivi, sempre, per altro, di grande successo.

Un discreto tentativo di colmare il debito verso di lui è Signor Faletti prodotto da Verve Media Company in collaborazione con Rai Documentari (Rai 3, giovedì, ore 21,20, share del 5,6%, 840.000 telespettatori e ora visibile su RaiPlay). Un omaggio al suo eclettismo, alla versatilità artistica, alla curiosità a 360 gradi manifestata da quegli «occhi sempre spalancati su tutto», come ha ricordato Gigliola Cinquetti, una delle interpreti per le quali ha composto i testi. Nato ad Asti, laureato in giurisprudenza, con una marcia in più fin dalle elementari perché sapeva bene l’italiano, oltre che dalla moglie Roberta Bellesini, le mille vite e la larghezza della creatività sono testimoniate dal ventaglio infinito di amici e colleghi che hanno lavorato con lui (da Nino Frassica in un raro momento di serietà al compianto Massimo Cotto). Non tutti ricorderanno le collaborazioni con Milva e Angelo Branduardi, mentre il grande pubblico della tv non dimentica lo spiazzamento provocato da Signor tenente, seconda al Festival di Sanremo del 1994. E quello del cinema ha ancora negli occhi il professor Martinelli, soprannominato «La Carogna», in Notte prima degli esami di Fausto Brizzi.

Fuori dai set e dagli studi tv, Faletti era una persona sensibile, che faticava a tenere a distanza le cattiverie di cui a volte era oggetto, forse perché artista non schierato e per questo, a un certo punto, messo da parte. Fu allora che si reinventò scrittore. Storie come la sua, oggi non se ne sentono. Con una dose infinitesima del suo talento, ma con quote di militanza ben esibita nei programmi giusti, monologhisti e cabarettisti conquistano direzioni artistiche di teatri e di scuole per comici. Grazie, signor Faletti.

 

La Verità, 5 luglio 2025