D’Agostino: «Dove nasce la mia psichedelia televisiva»
Si apre la porta e davanti ai Bronzi di Riace in legno a grandezza naturale capisci subito di essere capitato in un altro mondo. «Prenda quella scala a chiocciola». Un budello in salita, ma è una discesa nelle viscere del kitsch. Bambole gonfiabili e crocifissi. Falli e statue del presepio. Foto di pornostar ed ex voto. Oggettistica varia, fruste, quadri di Padre Pio, raccolte di vinili, statuine, flipper, teschi, organi genitali, scarpe colorate incollate al soffitto, giornali, pupazzi fetish, installazioni, neon alla rinfusa. Un postribolo post moderno. Un set cinematografico. Un bazar del trash e dell’ultrapop. Un hangar di memorabilie che potrebbe appagare gli scenografi di Wes Anderson e Tim Burton. Invece è la casa di Roberto D’Agostino, alias Dagospia, alias Dago in the Sky. Da una parte il Tevere e Castel sant’Angelo, dall’altra Piazza Navona. Tutto si tiene, tutto si connette e tutto s’incrocia nelle stanze di questo attico brulicante di citazioni della pop art, del riflusso anni ’80, del vintage, della video arte. Tutto alimenta la sua psichedelia televisiva. Ogni tanto Dago caccia un urlo: «Mettiamo la mostra di Letizia Battaglia, ma cambiamo la foto…». Da un’altra stanza qualcono risponde ed esegue. «Maurì, vieni qui… Vedi questo programma? Si chiama Linkpulse. Mi dà la reazione in tempo reale ai contenuti, quello che tira e quello che va di meno. Avevo messo in apertura Nanni Moretti, ma ’sta cosa di Brugnaro, il sindaco di Venezia che sbrocca con un ragazzo, funziona di più. E io cambio. Riccardoooo». Riccardo Panzetta, Francesco Parsili e Giorgio Rutelli compongono la redazione di Dagospia, poi ci sono altri collaboratori segreti più gli esterni che mandano i post. Dago in the Sky invece è il programma culto del momento, dieci serate di 30 minuti in onda al venerdì su Sky Arte, realizzato in queste stanze a costo zero o quasi, insieme con il direttore della rete Roberto Pisoni, la società di produzione Magnolia e la coautrice Anna Cerofolini. In coda ai titoli di coda si legge: «Tutto il materiale è preso da internet».
Un piacere per gli occhi. Come ti è venuto in mente?
«Mi ero stancato della tv dei telemorenti. Ma anche di criticare e basta. Il critico televisivo è diventato un becchino. Invece, siamo in pieno Rinascimento. La scoperta di internet è come la scoperta della stampa di Gutenberg. Prima il sapere era di pochi e le immagini nelle chiese servivano a dire al popolo chi erano i padroni. Con la stampa e la lettura il sapere è a disposizione di tutti».
È così rivoluzionaria internet?
«Ha messo fine alla casta dell’informazione. Finite le gerarchie, le riunioni di redazione, tutto quel piccolo mondo antico. Con lo smartphone abbiamo un computer in tasca con cui possiamo fare tutto. Un pastore della Nuova Zelanda ha le stesse possibilità di un ricercatore di New York. Uno che ha filmato una cosa interessante per strada e me la manda va dritto in rete».
Tutto destrutturato e fluido. Però ci sono meno controlli.
«È una jungla, ma la rete ha gli anticorpi e fa la selezione. Lo stesso processo sta avvenendo in televisione».
Tu parli di telemorenti, ma la tv generalista è dura a morire.
«Resistono i grandi eventi e le disgrazie. Allora la tv diventa messa cantata. Oppure le partite di calcio, se sei tifoso le vivi in tempo reale. Per il resto non c’è più il palinsesto fisso: registro e guardo quando voglio. Ci sono tg a tutte le ore, siamo dentro un continuo photo call. La tv è il monitor, i contenuti sono fluidi. La stessa cosa sta accadendo in politica…».
Squilla il cellulare. «Sì, mi dica… D’accordo, me lo mandi e lo pubblico… Vedi: era il portavoce di Brugnaro, il sindaco di Venezia. Mi manda il video dove si vede la reazione del ragazzo. Tutto avviene in tempo reale. Tra poco questo video è in rete, i giornali sono troppo lenti. Per questo il distico del programma è la frase del saggio di Guerre stellari: “Il futuro è”».
Quando è cominciato il futuro?
«Internet è arrivata nel 1989, come la caduta del Muro di Berlino. Dieci anni dopo ho fondato Dagospia. Mi dicevano che ero pazzo».
Rispetto alla rete anche la televisione è più lenta o più brutta?
«La tv non è bella o brutta: non serve. La cosa peggiore che puoi dire a una persona non è: ti licenzio perché lavori male, ma perché non servi più. Tutto sta cambiando velocemente. Ti ho mostrato quel programma che misura gli indici di interesse: non sono io che lavoro e do la linea, sono le macchine che lavorano. Io mi adeguo. Scelgo gli articoli in base al mio gusto e all’attualità, se un pezzo è scritto bene ma non è attuale non lo metto. Guarda Trump. La globalizzazione…».
Trump ha vinto senza televisione, anzi perdendo i confronti. La democrazia orizzontale di internet sembra favorire i populismi. Non sarà sopravvalutata la globalizzazione?
«ma no, guardati attorno. La rete taglia le caste. Trump aveva tutti contro, giornali e televisioni. Come Grillo e Farage: sono senza tv e con i poteri forti contro. Eppure… Internet cambia il modo di far politica. Spero che Trump porti una trasformazione come quella di Reagan, che inaugurò la belle epoque degli anni ’80. Dopo dieci anni in vetta, per la sinistra è dura accettare la sconfitta. La casta se ne stava bella comoda a Capalbio, a giocare all’avanguardia che dà la linea alle masse… Un bel trauma».
Come nasce Dago in the Sky?
«È la prima volta che faccio una cosa con il mio nome. Ho sempre fatto l’ospite. Mi sono chiesto che politica c’è dopo internet? Che arte c’è, che cibo c’è. La globalizzazione cambia la narrazione, come si vede nelle serie, in Narcos o House of Cards. Questa installazione di Nam June Paik, l’inventore della video arte, è degli anni ’80 e ancora oggi è ultra moderna. Noi siamo fermi a Carlo Conti e Fabio Fazio».
Fai psichedelia televisiva.
«Uso il linguaggio di internet e trasformo lo schermo rendendolo simile al display dello smartphone, con tante immagini che si muovono in contemporanea. Mio figlio che è ingegnere e lavora a Londra, ogni anno deve sostenere, come tutti i suoi colleghi, un esame per dimostrare il grado di aggiornamento. Anche noi dobbiamo aggiornarci a ciò che sta succedendo nella politica, nella moda, nella religione. Faccio tutto qui».
Avanguardia a basso costo?
«Bassissimo. Viene una troupe per girare i miei lanci e le interviste agli ospiti. Ma io e gli ospiti non parliamo mai tra noi, per rispetto del telespettatore. Vorrei che questo programma fosse contemporaneo anche fra due o tre anni».
Impostazione fredda e professionale, tranne nel passaggio sul «bulletto di Rignano»…
«Sì, mi è scappato…».
C’è il blogger intenazionale e colto di Sky Arte, c’è quello di Dagospia con la sua morbosità postribolare e c’è l’ospite dei talk che si schiera. Qual è il vero Roberto D’Agostino?
«Sono sempre lo stesso, ma uso linguaggi diversi. Come diceva Andy Warhol, “è la cornice che fa il quadro”. Quando andavo a Quelli della notte avevo letto su un libriccino americano la tecnica del tormentone. M’inventai l’edonismo reaganiano: aspettavo solo il momento di tirarlo fuori. Era come “Allegria!” di Mike Bongiorno. Il pubblico della tv ti ricorda per queste cose: devi dare il titolo e il sommario, stop. La spiega la fai da un’altra parte. Lì, da Arbore, non ho mai spiegato cos’era l’edonismo reaganiano. Una volta chiesi a Moravia che divertimento c’era a passare le giornate a leggere certi libroni quando fuori c’era sesso droga e rock ’n’ roll. Mi rispose che la cultura serve solo a spendere bene i soldi, a saper abbinare una poltrona con una lampada».
Tornando alla tv, è tutta una questione di contesti e linguaggi?
«Fiorello che va in onda al mattino è effervescente perché deve dare la carica. David Letterman aveva uno show dopo le 23 e usava lo swing per tenere sveglio il pubblico. Adegui il linguaggio alla situazione. In questo mondo siamo tutti un po’ Fregoli. Solo Sgarbi è sempre Sgarbi in tutti i posti dove va. Però quando è venuto a Dago in the Sky non ho avuto bisogno di spiegargli che non volevo il turpiloquio. Se vado in chiesa mi comporto in modo diverso da quando vado in discoteca».
A proposito, qui ci sono madonne e pornostar…
«Sono i due lati della mia esistenza. Sono cattolico e credente, ma anche preso dal richiamo dell’eros. Questa roba è un diario visivo delle mie emozioni, non c’è niente di casuale».
Credente e praticante?
«Credente che va in chiesa, non a messa…».
Il tuo libro di culto?
«Detti e contraddetti di Karl Kraus, un autore austriaco, fondatore tra l’altro di Die Fackel («La Fiaccola»), una rivista satirica antenata di Dagospia».
Ti è piaciuto The Young Pope?
«È piaciuto molto a mia moglie. Io non l’ho visto tutto. Come La grande bellezza, mi pare che quello di Sorrentino sia soprattutto un grande gioco visivo».
Che cosa succederà il 4 dicembre?
«Credo vincerà l’antirenzismo del No».
E poi?
«Poi niente. Sarà uno schiaffo utile per riportare Renzi con i piedi per terra e fargli capire che il mondo non finisce a Rignano sull’Arno».
La Verità, 27 novembre 2016