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«Il boom di dossieraggi? Troppo pochi controlli»

Tra i massimi esperti di sicurezza informatica, Alessandro Curioni è la persona giusta per orientarci nel ginepraio di dossieraggi, spionaggi, hackeraggi che, a dispetto dell’era incombente dell’Intelligenza artificiale, o forse proprio per questo, ci fa sentire sempre meno al sicuro. Docente universitario, giornalista, fondatore e presidente di Di.Gi. Academy, azienda specializzata nel campo della cybersecurity, autore di saggi e romanzi ambientati nel mondo della criminalità digitale (Il giorno del bianconiglio), ha appena pubblicato per Chiarelettere Hacker. Storie di uomini e di macchine.
Professor Curioni, chi sono gli hacker?
«Il termine nasce per definire persone particolarmente dotate e brillanti nel trovare soluzioni insolite a problemi tecnologici o usi insoliti di tecnologie esistenti».
Sembrano brave persone, perché invece se ne ha un’immagine negativa?
«Perché in una sessantina d’anni il termine ha subito un’evoluzione ed è stato associato al crimine informatico».
Mentre nel suo saggio lei parla di «etica hacker».
«Esiste un’etica originale, secondo la quale nessun sistema andava danneggiato. Anzi, era un dovere migliorarlo».
In passato alcuni di loro furono addirittura assunti nelle aziende di cui avevano violato i sistemi.
«Non solo sono stati assunti dalle aziende che in un certo senso erano state loro vittime, ma hanno inventato vere e proprie tecnologie, come la open source, favorendo uno sviluppo di cui tutti oggi godiamo. Per esempio, il Web funziona in buona parte basandosi su queste tecnologie nelle quali il codice programmato è accessibile a tutti e può essere migliorato in modo cooperativo».
È una situazione reale o una visione un tantino idilliaca?
«Infatti, parliamo di etica originale».
Negli ultimi tempi, invece, i fenomeni di spionaggio informatico sono in aumento.
«Perché gran parte delle informazioni stanno dentro sistemi informatici e le informazioni sono il denaro del XXI secolo».
Però le violazioni aumentano in modo esponenziale.
«Questo è vero in parte: in un Paese come l’Italia la digitalizzazione a tappe forzate è iniziata meno di 10 anni fa».
E questo che cosa comporta?
«Che prima non c’era molto in digitale. Man mano che la carta scompare i dati si spostano online. A partire dalla pandemia si è assistito a uno sviluppo vertiginoso delle attività criminali sul Web. C’erano 40 milioni di italiani davanti a un pc o a uno smartphone 16 ore al giorno».
La pandemia ha cambiato lo scenario. Oggi prevalgono le azioni di lobby, spie, servizi e organismi deviati o di persone singole?
«C’è di tutto. Ci sono gruppi criminali che agiscono per scopi di lucro, così come singoli che lo fanno per le stesse ragioni. Poi ci sono entità parastatali che, poiché l’informazione è denaro, anzi, potere, sono attratte da quelle notizie riservate che possono determinare un vantaggio».
Come dobbiamo catalogare quel funzionario della filiale di Barletta di un grande istituto bancario che spiava i conti correnti dei vip?
«Premesso che non ha le caratteristiche dell’hacker e che le indagini ci diranno qualcosa di più, potrebbe aver avuto una motivazione banale come la curiosità o una, altrettanto banale ma un po’ più criminosa, come vendere quelle informazioni a chi ha voglia di pagarle».
Molto più grave la denuncia fatta oltre un anno fa dal ministro della Difesa Guido Crosetto su un ampio dossieraggio che coinvolge il tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano.
«Da una parte la possibilità di accedere a queste banche dati è relativamente semplice, dall’altra abbiamo una carenza di monitoraggi. Esistono i sistemi che consentono di attuarli, ma se poi nessuno li controlla, è chiaro che chiunque può fare 20.000 accessi senza essere scoperto. Siamo alle solite».
Poi c’è il caso dell’agenzia Equalize di Milano di cui si sarebbe servito Lorenzo Maria Del Vecchio e che sarebbe arrivata a spiare il presidente del Senato Ignazio la Russa. I cittadini devono sentirsi minacciati?
«A quanto si sa dalle intercettazioni sembra che si tratti di spionaggio a scopo di lucro. I cittadini devono sentirsi minacciati perché un’azione di questa natura riguarda dati riservati alle forze dell’ordine. Più che per il sistema in generale, è una minaccia per le istituzioni. Non a caso su tutta la materia si è applicato il segreto istruttorio».
Altro accesso abusivo è quello dell’hacker Carmelo Miano.
«Questo ragazzo si dedicava ad attività criminali online ed era ossessionato dalle indagini in corso su alcune di queste attività, perciò spiava i magistrati penetrando nelle loro caselle di posta elettronica».
Banche dati, archivi e sistemi informatici sono meno sicuri?
«Sono più sicuri, ma sono anche molto complessi e articolati. E un sistema complesso è molto più difficile da proteggere. È fragile proprio perché complesso».
Lei cita Kevin Mitnick che sosteneva che gli hackeraggi sono spesso dovuti al fattore umano, cioè al personale di una società pubblica o privata che subisce raggiri e finisce per rivelare informazioni riservate. È davvero così?
«L’anello debole della catena è quasi sempre l’uomo. Cade in qualche trappola per ingenuità, fretta, distrazione».
Per malizia e corruzione?
«Quelle ci sono da parte di chi cerca di raggirare la vittima».
Che può essere complice?
«E siamo alla corruzione. In questi casi si parla di insider, un infiltrato all’interno di un’organizzazione agisce per favorire i criminali. È uno schema tradizionale».
La sicurezza informatica cresce più o meno lentamente dei vantaggi che promuove?
«È un po’ come giocare a guardia e ladri. Se io sono la guardia, il ladro sta davanti a me altrimenti non lo vedo e non posso prenderlo. Quindi, c’è una relazione di mosse e contromosse: si scopre qualcosa di nuovo e allora si cerca la contromisura».
Non si previene ma si rincorre?
«Come la sicurezza nell’automobile. Fino a qualche anno fa la cintura di sicurezza e l’airbag non li avevamo, oggi li abbiamo».
Il mondo digitale, che è relativamente giovane e ha un sottomondo dark, favorisce una visione complottistica della realtà?
«La favorisce perché tante volte fatichiamo a comprenderlo e quindi, cercando delle spiegazioni, utilizziamo strumenti cognitivi e mentali legati al mondo analogico e non digitale».
Per esempio?
«Quando non riusciamo a spiegarci come sia stato possibile che qualcuno sia penetrato nelle caselle di posta elettronica di 40 giudici immaginiamo che ci sia una regia occulta che ha reso possibile questa azione».
Invece sono solo degli hacker, secondo la nuova accezione del termine?
«Che magari hanno comprato in un mercato del dark web lo username e la password di quelle caselle di posta».
Man mano che andiamo avanti aumenta il mio senso d’insicurezza.
«Purtroppo siamo immersi in un mondo che è tanto digitale e dobbiamo accettarne sia le opportunità che i rischi».
In questo mondo giovane e nel suo lato oscuro nascono e proliferano i complotti?
«Le rispondo con una battuta: l’occasione fa l’uomo ladro».
Qual è la soluzione?
«Quella per cui tutti dobbiamo prendere coscienza che, come è fondamentale guidare un’auto con prudenza, così le tecnologie devono essere guidate con altrettanta prudenza».
Per regolamentare la guida dell’auto però c’è il codice della strada.
«Negli ultimi anni l’Unione europea ha sviluppato il sistema normativo più articolato e complesso per regolamentare le nuove tecnologie e il loro utilizzo».
Dopo anni d’innamoramento si cominciano a sperimentare gli effetti collaterali della rivoluzione digitale?
«Manteniamo il paragone con l’auto: ha motorizzato il mondo, ci ha reso tutti felici dandoci una libertà eccezionale di movimento. Poi qualcuno ha cominciato a dire: sì, però inquina».
Crede che sia destinata a crescere più la visione idilliaca della new technology o la diffidenza verso la stessa?
«C’è una fortissima spinta alla digitalizzazione. Ho il timore che un giorno possa succedere qualcosa di molto grave».
Per esempio?
«Un paragone verosimile è con l’energia nucleare dopo Chernobyl. Molti la abbandonarono. E anche quella strategia non era del tutto giusta. Temo che qualcuno inizierà a sostenere che è il momento di de-digitalizzare. Ma come tutti gli estremismi anche questo non sarebbe una buona idea».
Cosa pensa del fatto che mentre avanza un mondo governato dall’Intelligenza artificiale resistono sacche di popolazione offline?
«Questo è il digital divide che, in prospettiva, potrebbe determinare una nuova spaccatura tra ricchi e poveri, tra connessi e disconnessi».
Il mondo galoppa verso la digitalizzazione totale, ieri è stato annunciato il progetto che porterà tutti ad archiviare i documenti personali nello smartphone.
«Chi non sarà connesso potrebbe avere difficoltà di accesso a una notevole quantità di servizi. Il segreto dovrebbe essere la gradualità di applicazione della legge».
Il modello di riferimento è quello molto invasivo della Cina?
«In Cina c’è uno Stato che è al di sopra della legge. E in quanto tale può spiare ogni attività del cittadino. In Europa non è così».
Sarebbe la condivisione totale delle informazioni auspicata dagli hacker?
«La digitalizzazione esalta le loro qualità, come per converso offre occasioni di delinquere maggiori a coloro che hanno questi obiettivi».
Puntando alla condivisione delle informazioni gli hacker sono dei romantici sognatori della totale democrazia informatica?
«Il termine nasce con questa connotazione. Nel libro tento di spiegare che molte cose che oggi accadono erano prevedibili molti anni fa».
Accessi abusivi, dossieraggi e dark web sono situazioni che connotano negativamente questi mondi?
«Chiediamoci come si è arrivati a questo. Perché a un certo punto una fetta significativa dell’opinione pubblica e anche dei media iniziò a chiamare hacker coloro che non lo erano. Questo è l’inizio della deriva».
È solo una questione terminologica?
«Che il crimine informatico sia fiorente e fatturi più del traffico di droga è un dato di fatto. Il punto è: dobbiamo chiamarli hacker? Meglio criminali».
Però per lei la legislazione europea ci mette al riparo.
«Certo, ci sono difficoltà oggettive perché una persona può delinquere in Italia stando seduta nel suo salotto ovunque nel mondo».
C’è molto da lavorare?
«Perseguire un crimine informatico richiede tantissimo lavoro».
È ottimista?
«Non possiamo fare a meno di esserlo. Mi occupo di sicurezza e chi si occupa di sicurezza, per definizione, non è un ottimista. Diciamo che ci credo».

 

La Verità, 7 dicembre 2024

Pec, app, algoritmi… Basta, voglio scendere dal Web

Potremmo chiamarlo riflusso analogico. O fuga dal digitale. Sono le due facce della stessa medaglia, non si sa qual è il dritto e quale il rovescio, tanto i due sentimenti si alimentano a vicenda. Viene prima l’allergia montante verso tutto ciò che riguarda la tecnologia sempre più sofisticata e invadente? O, all’opposto, tutto parte dalla voglia di una vita più semplice, rassicurante e meno ansiogena? Come spesso accade, è la televisione a svelare i sintomi della nuova tendenza. Niente di clamoroso, forse è ancora solo una mutazione embrionale. Ma i segnali sono lì da interpretare.

La prima spia si è intravista con l’inizio della nuova stagione. Su Rai 1, in prima serata, nell’orario di massimo ascolto, è comparso un millennial con in mano una cornetta telefonica degli anni Sessanta. Roba da boomer. Non più lo smartphone usato da Amadeus, Stefano De Martino comunica con «il Dottore» di Affari tuoi (l’autore del programma è Pasquale Romano) con un telefono fisso a rotella. Un salto dal digitale all’analogico. Un «mix match» tra generazioni. Perché un 35enne al timone di un programma ottimista e che qualche volta fa vincere migliaia di euro, con quella cornetta trasmette un messaggio rilassante e complice anche al pubblico stagionato della tv generalista.
Il secondo sintomo dell’evoluzione è il successo della serie sugli 883, il duo pop formato da Max Pezzali e Mauro Repetto che si affermò quando De Martino andava all’asilo. Oltre al pregio di essere un racconto privo di infarinature ideologiche e ambientato in una città come Pavia poco frequentata dai media, Hanno ucciso l’uomo ragno (diretta da Sydney Sibilia, prodotta da Groenlandia per Sky Atlantic) ci ha fatto riassaporare il gusto della vita senza cellulari – ne spunta uno alla fine, ma Pezzali se lo dimentica – senza internet, senza password, senza social, senza app, senza algoritmi, senza intelligenza artificiale. In una parola, senza ansie digitali. Che pacchia, la vita senza internet!, ha annotato qualche osservatore, lasciandosi prendere dalla nostalgia di una quotidianità più easy. All’epoca, se vogliamo mantenere il telefono come paradigma, c’erano le cabine telefoniche a gettoni. Eravamo all’inizio degli anni Novanta, ultimo decennio ancora prevalentemente analogico, quando la rivoluzione dei byte stava gattonando nelle start up della Silicon Valley.

Il terzo indizio che ci avvicina al concetto della prova, ma ci fa fare un altro balzo all’indietro nella nostra macchina del tempo, è l’accoglienza trovata dall’ispettore di polizia cui dà corpo Giuseppe Battiston nella serie di Rai 2 Stucky, tratta dai racconti di Fulvio Ervas e ambientata a Treviso, altra cittadina a misura d’uomo. Muovendosi a piedi tra portici, canali e osterie dove si sorseggia del buon prosecco, Stucky non usa cellulare e conduce indagini molto vintage, annotando i suoi appunti su un taccuino e disponendoli poi sul tavolo del locale dell’amico invece di creare file da archiviare nel Cloud. Se una collaboratrice gli illustra l’esito di una ricerca su Google con l’algoritmo la invita ad andare al sodo. La parola chiave di questa rivincita del boomer è tradizione. Tradizionale è il cibo, tradizionale il metodo di archiviazione delle prove, tradizionale il ricorso alla psicologia per orientare le indagini.
Se i tre indizi hanno sfumature diverse, di comune tra loro c’è la ricerca di una vita più dolce e confortevole. Rispetto alla tecnologia digitale sempre più sofisticata, ma anche più fredda ed estranea, si cercano strumenti caldi ed empatici. A volte, anche accettando una resa inferiore o più esposta all’usura. I segnali sono diversi. Il ritorno del vinile, per esempio. Nel 2023, per il secondo anno consecutivo, negli Stati Uniti i 33 giri hanno superato i compact disc: 43 milioni contro 37 (certificati dalla Recording industry association of America, l’equivalente della nostra Federazione industria musicale italiana) e questo nonostante gli Lp costino mediamente di più dei Cd, al punto che gli incassi sono quasi il triplo (1,4 miliardi di dollari contro 537 milioni). Fatte le debite proporzioni, la situazione è la medesima anche in Italia. E la tendenza si sta espandendo. Chi predilige una fruizione agile della musica sceglie supporti digitali o attinge direttamente alle piattaforme streaming. Chi la vive come un momento di conforto personale tende a preferire il formato analogico, magari più ingombrante, ma più affettivo.
Non si tratta tanto di vagheggiare un nostalgico ritorno al passato. Il riflusso analogico è propiziato anche dagli effetti collaterali della digitalizzazione. Troppo invadente, troppo ansiogena. È sempre così: l’avvento di una rivoluzione tecnologica all’inizio evidenzia i lati positivi. E noi ci entusiasmiamo per i vantaggi che il nuovo Eldorado ci regala. E che, per carità, nessuno vuole ridimensionare. Anzi. Tuttavia, un po’ alla volta, stanno emergendo anche le conseguenze della rivoluzione. Ai tre indizi che alimentano la nostalgia analogica fanno da contraltare altrettante controprove. Per esempio: il ripetersi di violazioni di banche dati e di fenomeni di dossieraggio da parte di soggetti e lobby opache, ha messo in crisi il mito della sicurezza del Web. Esistono spie, esistono hackers, esistono truffe online, esistono start up che agiscono nelle zone grigie di un mondo ancora poco regolamentato dalle leggi. Sono situazioni nelle quali è difficile orientarsi e difendersi. Così cresce la diffidenza perché anche l’Eldorado ha i suoi difetti e i suoi costi. Bisognerebbe cambiare spesso le password per evitare gli hackeraggi e le violazioni dei virus. Bisognerebbe fare gli aggiornamenti delle app. Bisognerebbe consultare spesso la Posta elettronica certificata. O, almeno, allertare le notifiche in tempo reale perché ormai il postino non suona più nemmeno una volta. E gli enti pubblici, sia locali che centrali, hanno preso l’abitudine di comunicare sanzioni e provvedimenti via Pec.

Se ai nativi digitali la giungla tecnologica non fa paura, a patirne gli effetti sono gli ultra-50enni e 60enni. Con l’espansione dell’intelligenza artificiale, la foresta digitale promette di diventare ancora più fitta. Quando si chiama il centralino di un’azienda privata con ambizioni d’inclusione e sostenibilità accade spesso che, dopo averti messo in attesa perché «tutti gli operatori sono momentaneamente occupati», risponda un’assistente virtuale dalla seducente voce femminile che ti interroga sul motivo della chiamata, per poi rinviarti alla telefonata «di un nostro operatore sul numero dal quale ci sta chiamando». Praticamente, un giro dell’isolato per tornare al punto di partenza. La circolazione stradale è un’altra prateria dell’innovazione a colpi di byte. L’amministrazione comunale di Verona ha fatto un nuovo scatto nel futuro installando in alcuni punti della città sensori dotati di intelligenza artificiale che, con la buona intenzione di migliorare lo scorrimento del traffico, potranno raccogliere dati per vedere se le auto sono in regola, se hanno commesso infrazioni e, intanto, magari elevare un po’ di multe. Perché no?

Il sistema di vita cinese è sempre più vicino. Sorvegliati, monitorati, scannerizzati. Tutto, ma proprio tutto, passa dal cellulare. Ma se gran parte degli adulti, tecnicamente naif ma dotati di spirito critico, riescono a tenere la giusta distanza da certe seducenti «diavolerie», totalmente indifesi sono i bambini e gli adolescenti. Nell’ultimo anno, in alcuni Paesi del Nordeuropa, a cominciare dalla Svezia, ci si è accorti che l’adozione dei tablet nella scuola materna ed elementare stava riducendo drasticamente la capacità di lettura degli alunni. Così, si è deciso di tornare ai libri, ai quaderni e alla penna per proteggere i loro processi cognitivi e di apprendimento. Meno sicuro è il tentativo di recupero della generazione Z, quella successiva ai millennial, che in un saggio già divenuto un testo sacro di psicologia sociale, Jonathan Haidt ha definito La generazione ansiosa (Rizzoli). L’avvento dell’ansia porta la data di nascita dell’iPhone, anno 2007, e dell’esplosione «dell’iperviralità dei social media» (2009). Un anno dopo, gli smartphone si dotano di fotocamere frontali e, nel 2012, Facebook acquisisce Instagram, completando l’escalation. «La generazione Z», prosegue Haidt, «è la prima della storia ad attraversare la pubertà con in tasca un portale che la distoglieva dalle persone vicine e la attirava verso un universo alternativo, esaltante, instabile, che creava dipendenza…». Questa attività, aggravata dai successivi lockdown pandemici, ha cancellato il gioco all’aria aperta, il contatto corporeo, il rapporto diretto con amici e famigliari, producendo quella che il grande psicologo americano chiama la «grande riconfigurazione dell’infanzia».
Chissà, forse è il caso di mettere un attimo in pausa la rivoluzione…

 

Panorama, 27 novembre 2024

Mughini: «Aiuto! Il ‘900 è morto e io non mi sento bene»

Ride spesso Giampiero Mughini, ascoltando le domande che gli porgo. Ride sonoramente come gli abbiamo visto fare tante volte in televisione. Di più in passato, in verità: ché, nel presente, di motivi per ridere ce ne sono pochi. Eppure l’intervista gli piace, tra amarezza e disincanto, tra complicità e quel godere dello spirito libero di cui è incarnazione. Il suo La stanza dei libri edito da Bompiani è, però, una sorta di grido nostalgico del Novecento in lotta con il presunto Eldorado digitale e l’euforia dei Millennials. «Lo so di essere fuori dal mio tempo. Ne sono felice», recita. «Non sono iscritto a Facebook e non so neppure bene che cosa sia». E ancora: «Casa mia è stata pensata in buona parte come un museo della memoria dei sessanta-settanta».

La copertina dell'ultimo libro di Giampiero Mughini

La copertina del libro di Mughini

Il tuo libro rappresenta la resistenza della cultura cartacea contro quella digitale. Una resistenza fiera, malinconica o rassegnata?

«Ah ah ah ah… Fiera, senza alcun dubbio. Malinconica, anche. Rassegnata non è termine giusto, perché penso che la buona cultura moderna deve nutrirsi di tanta carta, che non morirà mai. Ma deve anche approfittare di quelle che io chiamo le autostrade sconfinate di internet».

Leggendoti, sembra di vedere un generale blindato nella «stanza dei libri», con l’esercito in ritirata.

(Ride ancora). «I miei anni crescono, i miei capelli sono bianchi, il mio tempo migliore è passato e il Novecento, prima stremato, ora è definitivamente morto. Tutto ciò che accade oggi appartiene a un pianeta inedito. L’avvento di Donald Trump, l’esito del referendum dell’altro giorno: tutto questo ha niente a che vedere con sinistra e destra o con la Costituzione più bella del mondo, ma con il ceto medio che impoverisce. Il mio esercito ideale e i duelli ai quali ero abituato – su tutti, quello con i delinquenti della mia generazione avvezzi a sparare alle spalle di avvocati, giornalisti e politici – sono scomparsi. Oggi gli unici duelli derivano dagli energumeni che, sotto mentite spoglie, replicano insultando a un qualsiasi tweet che non li soddisfa. Che tristezza!».

C’è un punto in cui ammetti che se uno parla di sé attraverso i libri è perché «di cose e di persone reali nella sua vita ne ha avute poche». Bilancio malinconico?

«Non lo so, è il mio. Del resto, non ho una famiglia in senso tecnico. Ho una compagna da 25 anni, che non è poco. E una cagna adorata, che non è poco. Non ho rapporti professionali né salottieri e non sono iscritto a un partito. Né ho avuto mai un giornale che sentissi come una casa, sono stato ospite e mi sono congedato o mi hanno congedato rapidamente. Perciò, di cose reali ne ho poche. La vita reale erano gli umori e le febbri del mio tempo».

Nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana Maya Sansa dice al personaggio di Alessio Boni, poliziotto e gran lettore solitario, che i libri possono essere una forma di egoismo perché si possono chiudere quando si vuole, mentre con le persone è più difficile…

«Ma i libri sono più fedeli delle persone, più affidabili di quanto lo siano stati certi amici. Sono più fedeli anche di certe donne, pur importanti nella nostra vita. Le quali, nella nostra gioventù, passavano da un sì a un no in un arco di tempo tra i sei mesi e le poche ore».

Ovviamente non ti chiederò della direzione di Lotta continua che assumesti, in quanto iscritto all’albo, per cortesia verso Adriano Sofri…

«No, per cortesia verso la mia generazione di cui quel giornale era una voce autentica, anche quando scrissero: “Caro Luigi Calabresi i tuoi giorni sono contati”. E poi al processo, invece di assumersi le loro responsabilità, dissero: “No, per carità…”; dimostrandosi gente senza onore. Il mio libro sull’assassinio Calabresi, Gli anni della peggio gioventù, che ritengo bellissimo, ebbe un altrettanto bellissimo articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e niente più, come fosse un libro proibito. Non ebbe alcun’altra recensione, né un invito a un circolo culturale o una lettera di un militante di Lotta continua pentito, perché continuano a pensare come Dario Fo, che Leonardo Marino parlò solo per imbeccata dei carabinieri».

Il giornale «Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l'assassinio di Luigi Calabresi

«Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l’assassinio di Luigi Calabresi

Dicevo, non ti chiederò della direzione di Lotta continua ma di quale esperienza culturale sei più orgoglioso: la fondazione di Giovane critica, il lavoro all’Europeo, la tua libreria?

«La direzione di Giovane critica, senza dubbio. Avevo 21 anni e stavo a Catania, che non era esattamente Parigi né Londra. Dunque, la nascita di quella rivista, diretta da un ragazzo che negli anni sessanta era di sinistra. E poi la sua chiusura, dopo la stagione del revisionismo e l’avere raschiato via quella pelle dogmatica».

La fatuità delle amicizie online e dei followers, la vanità e l’esibizionismo fratelli dell’ignoranza e dell’arroganza: c’è una terapia?

«Ognuno la deve trovare da se stesso, anche se non è facile. I ragazzi sostituiscono la solitudine con i click e i like, attraverso i quali, in realtà, si possono incontrare delle persone. Anche a me è capitato con una ragazza, Viviana, che mi aveva inviato delle sue foto su Instagram che esprimevano questo spaesamento. Mi è spiaciuto che, dopo averlo proposto, abbia rinunciato a realizzare un libro fotografico per il quale avrei scritto volentieri. Com’è sempre delle foto, gli autoritratti di Viviana avevano una profondità narrativa che a volte manca alle parole».

Come quella di Tano D’Amico che ritrae Antonio Lo Muscio e tieni in sala da pranzo?

«Esattamente. Lo Muscio disteso a terra con le braccia aperte come crocifisso sembra una vittima. E invece è un lercio assassino».

Sei un provocatore?

«Certo, ci sguazzo. Se una cosa non è provocatoria non ha alcun senso. Non dirò mai che i poveri stanno male. E come vuoi che stiano? O che le donne non si toccano se non con un petalo di rosa. Banalità».

I giornali sono in crisi per troppi costi o poche idee?

«È evidente che il Corriere della Sera ha una struttura pensata per quando vendeva 650.000 copie. Ora ha venduto la sede, ma continua ad avere redazioni e amministrazione non in armonia con le 190.000 copie attuali. Il Fatto quotidiano, che funziona bene e vende 35.000 copie, ha una redazione di 20 persone. I giornaloni fatti per quando erano il vangelo dell’uomo laico sono fuori dal tempo. È una considerazione triste per chi vuol fare il giornalista, ma se avessi un figlio con queste intenzioni lo farei arrestare. Nella mia ultima dichiarazione dei redditi i proventi derivanti da collaborazione con un giornale ammontavano a 500 euro. Scrivo gratis per Dagospia. Se volessi essere pagato, cosa improponibile, dovrei chiedere 70 – 80 euro ad articolo, metà dei quali li prenderebbe lo Stato. Quello che c’è da noi è il comunismo reale, altro che la Cuba di Fidel Castro dove c’è solo miseria invece della sbandierata uguaglianza sociale».

Anche qui però le cose non vanno benissimo.

«La notizia che in Italia ci sono 17 milioni di persone dentro il confine o sul confine della povertà è scioccante. Significa che una parte notevole del ceto medio è precipitata di due o tre gradini».

È qui l’origine di certe sorprese nelle urne?

«Certamente sì. La gente va a votare non per i motivi che crede Sandra Bonsanti, per salvare la Costituzione più bella del mondo. Ma perché non ha i soldi per mantenere i figli che studiano e arrivare a fine mese».

Mancano idee ai giornali?

«Io ne compro cinque e vorrei comprarne otto. Se leggessi tutto quello che vorrei ci passerei quattro ore al dì e non l’ora e un quarto abituale. D’Agostino è un genio perché ripubblica il meglio e i giornalisti sono felici di essere ripresi. Certo, uccide il diritto d’autore, un diritto scomparso nella civiltà del furto».

Ogni due o tre giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni 2 o 3 giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni due o tre giorni su Dagospia leggiamo «La versione di Mughini».

«Sì, una specie di diario. Quando mi accende qualcosa la scrivo rapidamente e breve per non abusare del tempo dei lettori, e dopo un’ora è online».

Perché c’è quella foto in posa militaresca?

(Risata). «La trovo bellissima. Me la fece il fotografo Pino Settanni che stava allestendo un calendario per l’esercito».

Giampiero Mughini in posa militaresca per il fotografo Pino Settanni

Giampiero Mughini «militaresco» per il fotografo Pino Settanni

La rottura della collaborazione con Panorama avvenne per incomprensione o per differenza generazionale?

«Non bisogna farla lunga: è come in una coppia, quando finisce la tensione da una parte e dall’altra. Io sono antipatico, è andata così».

Però è strano che Giampiero Mughini non firmi su qualche testata importante.

«Anch’io lo trovo strano. Ho lavorato con Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Guglielmo Zucconi, Vittorio Feltri, Claudio Rinaldi, Vittorio Nisticò. Oggi con nessuno».

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ho letto che ammiri il titolo dell’ultimo libro di Galli Della Loggia: Credere, tradire, vivere.

«Bellissimo. Io ed Ernesto abbiamo gli stessi anni. Abbiamo creduto nelle stesse cose, abbiamo vissuto conoscendo la complessità e il dolore. E abbiamo tradito, restando fedelissimi all’ispirazione di partenza che era avvicinarsi alla verità della complessità».

E per la felicità che posto c’è?

«Non esiste. Esistono quantità sopportabili di dolore».

Che cos’ha da rimproverarsi la tua generazione?

«Eravamo contemporanei, però ognuno risponda di se stesso. Dissento dal grandissimo Giorgio Gaber che cantava “La mia generazione ha perso”: lui di sicuro no. Il suo unico torto è quello di essere morto, ma su questo nessuno può nulla».

Stai correggendo le bozze di un altro libro: indizi?

«Segreto industriale».

Il referendum ti ha appassionato?

«Zero. Certe liti in taverna sono più pittoresche».

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

C’è qualcuno, un autore, uno scrittore, che segui con più interesse e curiosità?

«Clint Eastwood. È difficile che veda un suo film senza che abbia l’impulso di piangere. È successo anche con l’ultimo, Sully, in cui c’è tutta la sua filosofia: ognuno risponda di se stesso e del proprio coraggio».

 

La Verità, 11 dicembre 2016 

 

 

D’Agostino: «Dove nasce la mia psichedelia televisiva»

Si apre la porta e davanti ai Bronzi di Riace in legno a grandezza naturale capisci subito di essere capitato in un altro mondo. «Prenda quella scala a chiocciola». Un budello in salita, ma è una discesa nelle viscere del kitsch. Bambole gonfiabili e crocifissi. Falli e statue del presepio. Foto di pornostar ed ex voto. Oggettistica varia, fruste, quadri di Padre Pio, raccolte di vinili, statuine, flipper, teschi, organi genitali, scarpe colorate incollate al soffitto, giornali, pupazzi fetish, installazioni, neon alla rinfusa. Un postribolo post moderno. Un set cinematografico. Un bazar del trash e dell’ultrapop. Un hangar di memorabilie che potrebbe appagare gli scenografi di Wes Anderson e Tim Burton. Invece è la casa di Roberto D’Agostino, alias Dagospia, alias Dago in the Sky. Da una parte il Tevere e Castel sant’Angelo, dall’altra Piazza Navona. Tutto si tiene, tutto si connette e tutto s’incrocia nelle stanze di questo attico brulicante di citazioni della pop art, del riflusso anni ’80, del vintage, della video arte. Tutto alimenta la sua psichedelia televisiva. Ogni tanto Dago caccia un urlo: «Mettiamo la mostra di Letizia Battaglia, ma cambiamo la foto…». Da un’altra stanza qualcono risponde ed esegue. «Maurì, vieni qui… Vedi questo programma? Si chiama Linkpulse. Mi dà la reazione in tempo reale ai contenuti, quello che tira e quello che va di meno. Avevo messo in apertura Nanni Moretti, ma ’sta cosa di Brugnaro, il sindaco di Venezia che sbrocca con un ragazzo, funziona di più. E io cambio. Riccardoooo». Riccardo Panzetta, Francesco Parsili e Giorgio Rutelli compongono la redazione di Dagospia, poi ci sono altri collaboratori segreti più gli esterni che mandano i post. Dago in the Sky invece è il programma culto del momento, dieci serate di 30 minuti in onda al venerdì su Sky Arte, realizzato in queste stanze a costo zero o quasi, insieme con il direttore della rete Roberto Pisoni, la società di produzione Magnolia e la coautrice Anna Cerofolini. In coda ai titoli di coda si legge: «Tutto il materiale è preso da internet».

Roberto D'Agostino con la moglie Anna Beatrice Federici nella loro casa sul Lungotevere

Roberto D’Agostino con la moglie Anna Beatrice Federici nella loro casa sul Lungotevere

Un piacere per gli occhi. Come ti è venuto in mente?

«Mi ero stancato della tv dei telemorenti. Ma anche di criticare e basta. Il critico televisivo è diventato un becchino. Invece, siamo in pieno Rinascimento. La scoperta di internet è come la scoperta della stampa di Gutenberg. Prima il sapere era di pochi e le immagini nelle chiese servivano a dire al popolo chi erano i padroni. Con la stampa e la lettura il sapere è a disposizione di tutti».

È così rivoluzionaria internet?

«Ha messo fine alla casta dell’informazione. Finite le gerarchie, le riunioni di redazione, tutto quel piccolo mondo antico. Con lo smartphone abbiamo un computer in tasca con cui possiamo fare tutto. Un pastore della Nuova Zelanda ha le stesse possibilità di un ricercatore di New York. Uno che ha filmato una cosa interessante per strada e me la manda va dritto in rete».

Tutto destrutturato e fluido. Però ci sono meno controlli.

«È una jungla, ma la rete ha gli anticorpi e fa la selezione. Lo stesso processo sta avvenendo in televisione».

Tu parli di telemorenti, ma la tv generalista è dura a morire.

«Resistono i grandi eventi e le disgrazie. Allora la tv diventa messa cantata. Oppure le partite di calcio, se sei tifoso le vivi in tempo reale. Per il resto non c’è più il palinsesto fisso: registro e guardo quando voglio. Ci sono tg a tutte le ore, siamo dentro un continuo photo call. La tv è il monitor, i contenuti sono fluidi. La stessa cosa sta accadendo in politica…».

Squilla il cellulare. «Sì, mi dica… D’accordo, me lo mandi e lo pubblico… Vedi: era il portavoce di Brugnaro, il sindaco di Venezia. Mi manda il video dove si vede la reazione del ragazzo. Tutto avviene in tempo reale. Tra poco questo video è in rete, i giornali sono troppo lenti. Per questo il distico del programma è la frase del saggio di Guerre stellari: “Il futuro è”».

Un'immagine della puntata sul cibo: «Il cuoco è diventato chef, il cibo food»

Un’immagine della puntata dedicata al cibo: «Il cuoco è diventato chef, il cibo food»

Quando è cominciato il futuro?

«Internet è arrivata nel 1989, come la caduta del Muro di Berlino. Dieci anni dopo ho fondato Dagospia. Mi dicevano che ero pazzo».

Rispetto alla rete anche la televisione è più lenta o più brutta?

«La tv non è bella o brutta: non serve. La cosa peggiore che puoi dire a una persona non è: ti licenzio perché lavori male, ma perché non servi più. Tutto sta cambiando velocemente. Ti ho mostrato quel programma che misura gli indici di interesse: non sono io che lavoro e do la linea, sono le macchine che lavorano. Io mi adeguo. Scelgo gli articoli in base al mio gusto e all’attualità, se un pezzo è scritto bene ma non è attuale non lo metto. Guarda Trump. La globalizzazione…».

Trump ha vinto senza televisione, anzi perdendo i confronti. La democrazia orizzontale di internet sembra favorire i populismi. Non sarà sopravvalutata la globalizzazione?

«ma no, guardati attorno. La rete taglia le caste. Trump aveva tutti contro, giornali e televisioni. Come Grillo e Farage: sono senza tv e con i poteri forti contro. Eppure… Internet cambia il modo di far politica. Spero che Trump porti una trasformazione come quella di Reagan, che inaugurò la belle epoque degli anni ’80. Dopo dieci anni in vetta, per la sinistra è dura accettare la sconfitta. La casta se ne stava bella comoda a Capalbio, a giocare all’avanguardia che dà la linea alle masse… Un bel trauma».

Il logo del programma di Sky Arte: «Tutto il materiale è preso da Internet»

Il logo del programma di Sky Arte: «Tutto il materiale è preso da Internet»

Come nasce Dago in the Sky?

«È la prima volta che faccio una cosa con il mio nome. Ho sempre fatto l’ospite. Mi sono chiesto che politica c’è dopo internet? Che arte c’è, che cibo c’è. La globalizzazione cambia la narrazione, come si vede nelle serie, in Narcos o House of Cards. Questa installazione di Nam June Paik, l’inventore della video arte, è degli anni ’80 e ancora oggi è ultra moderna. Noi siamo fermi a Carlo Conti e Fabio Fazio».

Fai psichedelia televisiva.

«Uso il linguaggio di internet e trasformo lo schermo rendendolo simile al display dello smartphone, con tante immagini che si muovono in contemporanea. Mio figlio che è ingegnere e lavora a Londra, ogni anno deve sostenere, come tutti i suoi colleghi, un esame per dimostrare il grado di aggiornamento. Anche noi dobbiamo aggiornarci a ciò che sta succedendo nella politica, nella moda, nella religione. Faccio tutto qui».

 

Roberto d'Agostino nella sua casa: «Dago in the Sky» nasce in queste stanze a costi bassissimi

Roberto d’Agostino nella sua casa: «Dago in the Sky» nasce in queste stanze a costi bassissimi

Avanguardia a basso costo?

«Bassissimo. Viene una troupe per girare i miei lanci e le interviste agli ospiti. Ma io e gli ospiti non parliamo mai tra noi, per rispetto del telespettatore. Vorrei che questo programma fosse contemporaneo anche fra due o tre anni».

Impostazione fredda e professionale, tranne nel passaggio sul «bulletto di Rignano»…

«Sì, mi è scappato…».

C’è il blogger intenazionale e colto di Sky Arte, c’è quello di Dagospia con la sua morbosità postribolare e c’è l’ospite dei talk che si schiera. Qual è il vero Roberto D’Agostino?

«Sono sempre lo stesso, ma uso linguaggi diversi. Come diceva Andy Warhol, “è la cornice che fa il quadro”. Quando andavo a Quelli della notte avevo letto su un libriccino americano la tecnica del tormentone. M’inventai l’edonismo reaganiano: aspettavo solo il momento di tirarlo fuori. Era come “Allegria!” di Mike Bongiorno. Il pubblico della tv ti ricorda per queste cose: devi dare il titolo e il sommario, stop. La spiega la fai da un’altra parte. Lì, da Arbore, non ho mai spiegato cos’era l’edonismo reaganiano. Una volta chiesi a Moravia che divertimento c’era a passare le giornate a leggere certi libroni quando fuori c’era sesso droga e rock ’n’ roll. Mi rispose che la cultura serve solo a spendere bene i soldi, a saper abbinare una poltrona con una lampada».

Tornando alla tv, è tutta una questione di contesti e linguaggi?

«Fiorello che va in onda al mattino è effervescente perché deve dare la carica. David Letterman aveva uno show dopo le 23 e usava lo swing per tenere sveglio il pubblico. Adegui il linguaggio alla situazione. In questo mondo siamo tutti un po’ Fregoli. Solo Sgarbi è sempre Sgarbi in tutti i posti dove va. Però quando è venuto a Dago in the Sky non ho avuto bisogno di spiegargli che non volevo il turpiloquio. Se vado in chiesa mi comporto in modo diverso da quando vado in discoteca».

A proposito, qui ci sono madonne e pornostar…

«Sono i due lati della mia esistenza. Sono cattolico e credente, ma anche preso dal richiamo dell’eros. Questa roba è un diario visivo delle mie emozioni, non c’è niente di casuale».

Credente e praticante?

«Credente che va in chiesa, non a messa…».

Il tuo libro di culto?

«Detti e contraddetti di Karl Kraus, un autore austriaco, fondatore tra l’altro di Die Fackel («La Fiaccola»), una rivista satirica antenata di Dagospia».

Karl Kraus, autore di «Detti e contraddetti», libro di culto di Roberto D'Agostino

Karl Kraus, autore di «Detti e contraddetti», libro di culto di Roberto D’Agostino

Ti è piaciuto The Young Pope?

«È piaciuto molto a mia moglie. Io non l’ho visto tutto. Come La grande bellezza, mi pare che quello di Sorrentino sia soprattutto un grande gioco visivo».

Che cosa succederà il 4 dicembre?

«Credo vincerà l’antirenzismo del No».

E poi?

«Poi niente. Sarà uno schiaffo utile per riportare Renzi con i piedi per terra e fargli capire che il mondo non finisce a Rignano sull’Arno».

 

La Verità, 27 novembre 2016

 

I social network, padri putativi del futuro

Il  dominio delle nuove tecnologie, di Internet e dei social network, è contro la famiglia. C’è un disegno preciso. Una logica economica scientificamente costruita e perseguita. Lo afferma Massimo Gandolfini, medico chirurgo specialista in neurochirurgia e psichiatria, consultore vaticano per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II nonché leader del Family Day. Nel libro-intervista realizzato con Stefano Lorenzetto (L’Italia del Family Day, 234 pagine, 15,5 euro, appena uscito da Marsilio editore) afferma che non è assolutamente un caso se “le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay e gender”. Non è una questione di omofobia o di tabù per certi orientamenti sessuali. No. Per Gandolfini è vero il contrario: la famiglia è un ostacolo al potere sugli individui dei grandi marchi della new economy. Perché i potenti dell’economia digitale preferiscono parlare di individui piuttosto che di persone. “Si dà il caso – dice Gandolfini a Lorenzetto – che nel febbraio 2013 le 200 più importanti aziende americane, tutte insieme, abbiano chiesto e ottenuto da Obama e dalla Corte suprema l’abrogazione del marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c’erano Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay… Multinazionali in grado di orientare l’opinione pubblica e determinare le sorti dei governi”. Una visione maliziosa o apocalittica? Un’interpretazione antimoderna e oscurantista del progresso? Certamente, una bella sassata contro il vetro levigato e luccicante della Rete nuovo paradiso terrestre. Chissà se Carlo Freccero, che tra qualche giorno al Festival della Comunicazione di Camogli dedicato al tema Pro e contro il web terrà una lezione su “Media apocalittici e integrati”, prenderà in considerazione questa analisi di Gandolfini.

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Da qualche tempo la critica contro la Rete ha iniziato ad allargarsi a macchia d’olio. Ho scritto critica, ma in qualche caso si potrebbe cominciare a parlare di rifiuto, di ribellione. Se ne evidenziano sempre più i lati oscuri, le ambiguità.  Internet, e tutto ciò che ne consegue, social network e connessione h24, non è più l’eden della comunicazione. L’eldorado della democrazia. Ci si accorge che il web inevitabilmente riproduce e amplifica i limiti e le ossessioni di chi la usa. E si cominciano a mettere dei paletti per frenare l’ondata invasiva della new technology. È di oggi la notizia proveniente dalla Francia che annuncia i primi accordi tra aziende e sindacati per tutelare “il diritto alla disconnessione“. Niente mail, niente messaggini di emergenza, niente più reperibilità costante fuori dall’orario di lavoro per i dipendenti di aziende con più di 50 persone, come consente la Loi Travail. Si è scoperto che la connessione abbassa la qualità del lavoro, aumenta lo stress, toglie quella lucidità che proviene dal distacco, dal recupero di una distanza psicologica di sicurezza. Troppe sollecitazioni fanno sì che, come ha sintetizzato il sindacalista Jérome Chemin, “non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Nel nostro circo mediatico, dopo l’invenzione del neologismo webete, Enrico Mentana è diventato il guru dell’anti-Rete. Un ruolo consolidato dai successivi post su Facebook, sempre conditi di fulminanti giochi linguistici come l’ultimo riguardante “i Bufala Bill del Far Web“, i quali, senza darsi troppa pena a documentarsi, discettano contro il giornalismo fazioso che non darebbe certe notizie per amplificarne altre. Storia vecchia come la stilografica. Che, tuttavia, “i Bufala Bill” suffragano con il 77esimo posto assegnato da Reporters sans frontières all’Italia nella classifica della libertà di stampa. In realtà, scrive Mentana, quella posizione così bassa non ci è affibbiata “per la scarsa qualità o indipendenza dei nostri giornalisti, ma per l’esatto contrario”, ovvero a causa delle loro coraggiose inchieste che li espongono alle minacce della criminalità o a imputazioni giudiziarie. Come si vede la critica al web di Mentana non nasce da un neoluddismo del Terzo millennio, tant’è vero che la confeziona su Facebook. Ma riguarda l’uso che alcuni – molti, troppi – fanno dei social (Twitter in particolare). In sostanza, non c’è una sorta di stupidità da like, quanto una stupidità di persone che fanno uso di strumenti digitali. C’è una presunzione diffusa nella società contemporanea, una megalomania mediatica per la quale chiunque, avendo a disposizione una tastiera o uno smartphone, si sente in diritto di mettersi sul pulpito a pontificare e impartire lezioni all’universo mondo. Nessuno darebbe mai un mitra a uno psicolabile che si aggira in una piazza affollata. Salvo il fatto che il web non uccide (ma bisognerebbe riflettere anche su certi fenomeni di cyber-bullismo) la questione è la stessa. Ecco perché si comincia a riflettere sul fatto che la Rete è uno strumento incontrollato, nel quale ognuno senza autorevolezza alcuna può dar libero sfogo alla parte peggiore di sé.

 

 

Qualche giorno fa anche Alessandro Sallusti in un editoriale intitolato “Tenete i cretini fuori da Internet” ha proposto una sorta di moratoria digitale. “Non so se da qualche parte esista un interruttore di Internet. Se esistesse il mio sogno sarebbe di spegnerlo e vedere l’effetto che fa – ha scritto il direttore del Giornale -. Che diavolo ce ne facciamo di tutta questa presunta democrazia, di questa libertà senza regole e confini? A mio modesto avviso nulla, se non illudersi di esistere postando nel mondo stupide fotografie”.

Inventando "webete", Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Inventando “webete”, Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Chissà che cosa ne pensano le multinazionali citate da Gandolfini nell’intervista con Lorenzetto. A differenza di quella di Mentana e di Sallusti, o anche della scelta introdotta dalla legge francese, quella del leader del Family Day non è una critica all’uso soggettivo dell’economia digitale, quanto alla cultura che la alimenta e la sta trasformando in un nuovo potere dominante. Al quale, per dispiegarsi senza freni, serve una società debole. “Perché le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay o gender? – si chiede Gandolfini -. Perché una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli, è altissimamente condizionabile da qualsiasi input proveniente dall’esterno. Non esiste più il contraltare rappresentato dai valori della famiglia tradizionale. Anzi, a dirla tutta, – scherza ma non tanto Gandolfini – non esiste più nemmeno l’altare”. In questo modo le persone vivono “in uno stato di anomia. La relazione diventa esclusivamente individuale. Avremo un mondo di figli che non hanno più genitori, nel senso che ne avranno cinque o sei, e che cercheranno le ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, basti vedere che cosa già rappresentano per loro oggetti come l’Iphone o l’Ipad… E con chi puoi instaurare una relazione forte, significativa, realmente accudente, se non esiste più la famiglia? Con Facebook, con Twitter, con Google+, con Instagram…”. Sono questi, i social network, i nostri nuovi genitori putativi.