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Mughini: «Aiuto! Il ‘900 è morto e io non mi sento bene»

Ride spesso Giampiero Mughini, ascoltando le domande che gli porgo. Ride sonoramente come gli abbiamo visto fare tante volte in televisione. Di più in passato, in verità: ché, nel presente, di motivi per ridere ce ne sono pochi. Eppure l’intervista gli piace, tra amarezza e disincanto, tra complicità e quel godere dello spirito libero di cui è incarnazione. Il suo La stanza dei libri edito da Bompiani è, però, una sorta di grido nostalgico del Novecento in lotta con il presunto Eldorado digitale e l’euforia dei Millennials. «Lo so di essere fuori dal mio tempo. Ne sono felice», recita. «Non sono iscritto a Facebook e non so neppure bene che cosa sia». E ancora: «Casa mia è stata pensata in buona parte come un museo della memoria dei sessanta-settanta».

La copertina dell'ultimo libro di Giampiero Mughini

La copertina del libro di Mughini

Il tuo libro rappresenta la resistenza della cultura cartacea contro quella digitale. Una resistenza fiera, malinconica o rassegnata?

«Ah ah ah ah… Fiera, senza alcun dubbio. Malinconica, anche. Rassegnata non è termine giusto, perché penso che la buona cultura moderna deve nutrirsi di tanta carta, che non morirà mai. Ma deve anche approfittare di quelle che io chiamo le autostrade sconfinate di internet».

Leggendoti, sembra di vedere un generale blindato nella «stanza dei libri», con l’esercito in ritirata.

(Ride ancora). «I miei anni crescono, i miei capelli sono bianchi, il mio tempo migliore è passato e il Novecento, prima stremato, ora è definitivamente morto. Tutto ciò che accade oggi appartiene a un pianeta inedito. L’avvento di Donald Trump, l’esito del referendum dell’altro giorno: tutto questo ha niente a che vedere con sinistra e destra o con la Costituzione più bella del mondo, ma con il ceto medio che impoverisce. Il mio esercito ideale e i duelli ai quali ero abituato – su tutti, quello con i delinquenti della mia generazione avvezzi a sparare alle spalle di avvocati, giornalisti e politici – sono scomparsi. Oggi gli unici duelli derivano dagli energumeni che, sotto mentite spoglie, replicano insultando a un qualsiasi tweet che non li soddisfa. Che tristezza!».

C’è un punto in cui ammetti che se uno parla di sé attraverso i libri è perché «di cose e di persone reali nella sua vita ne ha avute poche». Bilancio malinconico?

«Non lo so, è il mio. Del resto, non ho una famiglia in senso tecnico. Ho una compagna da 25 anni, che non è poco. E una cagna adorata, che non è poco. Non ho rapporti professionali né salottieri e non sono iscritto a un partito. Né ho avuto mai un giornale che sentissi come una casa, sono stato ospite e mi sono congedato o mi hanno congedato rapidamente. Perciò, di cose reali ne ho poche. La vita reale erano gli umori e le febbri del mio tempo».

Nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana Maya Sansa dice al personaggio di Alessio Boni, poliziotto e gran lettore solitario, che i libri possono essere una forma di egoismo perché si possono chiudere quando si vuole, mentre con le persone è più difficile…

«Ma i libri sono più fedeli delle persone, più affidabili di quanto lo siano stati certi amici. Sono più fedeli anche di certe donne, pur importanti nella nostra vita. Le quali, nella nostra gioventù, passavano da un sì a un no in un arco di tempo tra i sei mesi e le poche ore».

Ovviamente non ti chiederò della direzione di Lotta continua che assumesti, in quanto iscritto all’albo, per cortesia verso Adriano Sofri…

«No, per cortesia verso la mia generazione di cui quel giornale era una voce autentica, anche quando scrissero: “Caro Luigi Calabresi i tuoi giorni sono contati”. E poi al processo, invece di assumersi le loro responsabilità, dissero: “No, per carità…”; dimostrandosi gente senza onore. Il mio libro sull’assassinio Calabresi, Gli anni della peggio gioventù, che ritengo bellissimo, ebbe un altrettanto bellissimo articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e niente più, come fosse un libro proibito. Non ebbe alcun’altra recensione, né un invito a un circolo culturale o una lettera di un militante di Lotta continua pentito, perché continuano a pensare come Dario Fo, che Leonardo Marino parlò solo per imbeccata dei carabinieri».

Il giornale «Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l'assassinio di Luigi Calabresi

«Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l’assassinio di Luigi Calabresi

Dicevo, non ti chiederò della direzione di Lotta continua ma di quale esperienza culturale sei più orgoglioso: la fondazione di Giovane critica, il lavoro all’Europeo, la tua libreria?

«La direzione di Giovane critica, senza dubbio. Avevo 21 anni e stavo a Catania, che non era esattamente Parigi né Londra. Dunque, la nascita di quella rivista, diretta da un ragazzo che negli anni sessanta era di sinistra. E poi la sua chiusura, dopo la stagione del revisionismo e l’avere raschiato via quella pelle dogmatica».

La fatuità delle amicizie online e dei followers, la vanità e l’esibizionismo fratelli dell’ignoranza e dell’arroganza: c’è una terapia?

«Ognuno la deve trovare da se stesso, anche se non è facile. I ragazzi sostituiscono la solitudine con i click e i like, attraverso i quali, in realtà, si possono incontrare delle persone. Anche a me è capitato con una ragazza, Viviana, che mi aveva inviato delle sue foto su Instagram che esprimevano questo spaesamento. Mi è spiaciuto che, dopo averlo proposto, abbia rinunciato a realizzare un libro fotografico per il quale avrei scritto volentieri. Com’è sempre delle foto, gli autoritratti di Viviana avevano una profondità narrativa che a volte manca alle parole».

Come quella di Tano D’Amico che ritrae Antonio Lo Muscio e tieni in sala da pranzo?

«Esattamente. Lo Muscio disteso a terra con le braccia aperte come crocifisso sembra una vittima. E invece è un lercio assassino».

Sei un provocatore?

«Certo, ci sguazzo. Se una cosa non è provocatoria non ha alcun senso. Non dirò mai che i poveri stanno male. E come vuoi che stiano? O che le donne non si toccano se non con un petalo di rosa. Banalità».

I giornali sono in crisi per troppi costi o poche idee?

«È evidente che il Corriere della Sera ha una struttura pensata per quando vendeva 650.000 copie. Ora ha venduto la sede, ma continua ad avere redazioni e amministrazione non in armonia con le 190.000 copie attuali. Il Fatto quotidiano, che funziona bene e vende 35.000 copie, ha una redazione di 20 persone. I giornaloni fatti per quando erano il vangelo dell’uomo laico sono fuori dal tempo. È una considerazione triste per chi vuol fare il giornalista, ma se avessi un figlio con queste intenzioni lo farei arrestare. Nella mia ultima dichiarazione dei redditi i proventi derivanti da collaborazione con un giornale ammontavano a 500 euro. Scrivo gratis per Dagospia. Se volessi essere pagato, cosa improponibile, dovrei chiedere 70 – 80 euro ad articolo, metà dei quali li prenderebbe lo Stato. Quello che c’è da noi è il comunismo reale, altro che la Cuba di Fidel Castro dove c’è solo miseria invece della sbandierata uguaglianza sociale».

Anche qui però le cose non vanno benissimo.

«La notizia che in Italia ci sono 17 milioni di persone dentro il confine o sul confine della povertà è scioccante. Significa che una parte notevole del ceto medio è precipitata di due o tre gradini».

È qui l’origine di certe sorprese nelle urne?

«Certamente sì. La gente va a votare non per i motivi che crede Sandra Bonsanti, per salvare la Costituzione più bella del mondo. Ma perché non ha i soldi per mantenere i figli che studiano e arrivare a fine mese».

Mancano idee ai giornali?

«Io ne compro cinque e vorrei comprarne otto. Se leggessi tutto quello che vorrei ci passerei quattro ore al dì e non l’ora e un quarto abituale. D’Agostino è un genio perché ripubblica il meglio e i giornalisti sono felici di essere ripresi. Certo, uccide il diritto d’autore, un diritto scomparso nella civiltà del furto».

Ogni due o tre giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni 2 o 3 giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni due o tre giorni su Dagospia leggiamo «La versione di Mughini».

«Sì, una specie di diario. Quando mi accende qualcosa la scrivo rapidamente e breve per non abusare del tempo dei lettori, e dopo un’ora è online».

Perché c’è quella foto in posa militaresca?

(Risata). «La trovo bellissima. Me la fece il fotografo Pino Settanni che stava allestendo un calendario per l’esercito».

Giampiero Mughini in posa militaresca per il fotografo Pino Settanni

Giampiero Mughini «militaresco» per il fotografo Pino Settanni

La rottura della collaborazione con Panorama avvenne per incomprensione o per differenza generazionale?

«Non bisogna farla lunga: è come in una coppia, quando finisce la tensione da una parte e dall’altra. Io sono antipatico, è andata così».

Però è strano che Giampiero Mughini non firmi su qualche testata importante.

«Anch’io lo trovo strano. Ho lavorato con Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Guglielmo Zucconi, Vittorio Feltri, Claudio Rinaldi, Vittorio Nisticò. Oggi con nessuno».

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ho letto che ammiri il titolo dell’ultimo libro di Galli Della Loggia: Credere, tradire, vivere.

«Bellissimo. Io ed Ernesto abbiamo gli stessi anni. Abbiamo creduto nelle stesse cose, abbiamo vissuto conoscendo la complessità e il dolore. E abbiamo tradito, restando fedelissimi all’ispirazione di partenza che era avvicinarsi alla verità della complessità».

E per la felicità che posto c’è?

«Non esiste. Esistono quantità sopportabili di dolore».

Che cos’ha da rimproverarsi la tua generazione?

«Eravamo contemporanei, però ognuno risponda di se stesso. Dissento dal grandissimo Giorgio Gaber che cantava “La mia generazione ha perso”: lui di sicuro no. Il suo unico torto è quello di essere morto, ma su questo nessuno può nulla».

Stai correggendo le bozze di un altro libro: indizi?

«Segreto industriale».

Il referendum ti ha appassionato?

«Zero. Certe liti in taverna sono più pittoresche».

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

C’è qualcuno, un autore, uno scrittore, che segui con più interesse e curiosità?

«Clint Eastwood. È difficile che veda un suo film senza che abbia l’impulso di piangere. È successo anche con l’ultimo, Sully, in cui c’è tutta la sua filosofia: ognuno risponda di se stesso e del proprio coraggio».

 

La Verità, 11 dicembre 2016 

 

 

D’Agostino: «Dove nasce la mia psichedelia televisiva»

Si apre la porta e davanti ai Bronzi di Riace in legno a grandezza naturale capisci subito di essere capitato in un altro mondo. «Prenda quella scala a chiocciola». Un budello in salita, ma è una discesa nelle viscere del kitsch. Bambole gonfiabili e crocifissi. Falli e statue del presepio. Foto di pornostar ed ex voto. Oggettistica varia, fruste, quadri di Padre Pio, raccolte di vinili, statuine, flipper, teschi, organi genitali, scarpe colorate incollate al soffitto, giornali, pupazzi fetish, installazioni, neon alla rinfusa. Un postribolo post moderno. Un set cinematografico. Un bazar del trash e dell’ultrapop. Un hangar di memorabilie che potrebbe appagare gli scenografi di Wes Anderson e Tim Burton. Invece è la casa di Roberto D’Agostino, alias Dagospia, alias Dago in the Sky. Da una parte il Tevere e Castel sant’Angelo, dall’altra Piazza Navona. Tutto si tiene, tutto si connette e tutto s’incrocia nelle stanze di questo attico brulicante di citazioni della pop art, del riflusso anni ’80, del vintage, della video arte. Tutto alimenta la sua psichedelia televisiva. Ogni tanto Dago caccia un urlo: «Mettiamo la mostra di Letizia Battaglia, ma cambiamo la foto…». Da un’altra stanza qualcono risponde ed esegue. «Maurì, vieni qui… Vedi questo programma? Si chiama Linkpulse. Mi dà la reazione in tempo reale ai contenuti, quello che tira e quello che va di meno. Avevo messo in apertura Nanni Moretti, ma ’sta cosa di Brugnaro, il sindaco di Venezia che sbrocca con un ragazzo, funziona di più. E io cambio. Riccardoooo». Riccardo Panzetta, Francesco Parsili e Giorgio Rutelli compongono la redazione di Dagospia, poi ci sono altri collaboratori segreti più gli esterni che mandano i post. Dago in the Sky invece è il programma culto del momento, dieci serate di 30 minuti in onda al venerdì su Sky Arte, realizzato in queste stanze a costo zero o quasi, insieme con il direttore della rete Roberto Pisoni, la società di produzione Magnolia e la coautrice Anna Cerofolini. In coda ai titoli di coda si legge: «Tutto il materiale è preso da internet».

Roberto D'Agostino con la moglie Anna Beatrice Federici nella loro casa sul Lungotevere

Roberto D’Agostino con la moglie Anna Beatrice Federici nella loro casa sul Lungotevere

Un piacere per gli occhi. Come ti è venuto in mente?

«Mi ero stancato della tv dei telemorenti. Ma anche di criticare e basta. Il critico televisivo è diventato un becchino. Invece, siamo in pieno Rinascimento. La scoperta di internet è come la scoperta della stampa di Gutenberg. Prima il sapere era di pochi e le immagini nelle chiese servivano a dire al popolo chi erano i padroni. Con la stampa e la lettura il sapere è a disposizione di tutti».

È così rivoluzionaria internet?

«Ha messo fine alla casta dell’informazione. Finite le gerarchie, le riunioni di redazione, tutto quel piccolo mondo antico. Con lo smartphone abbiamo un computer in tasca con cui possiamo fare tutto. Un pastore della Nuova Zelanda ha le stesse possibilità di un ricercatore di New York. Uno che ha filmato una cosa interessante per strada e me la manda va dritto in rete».

Tutto destrutturato e fluido. Però ci sono meno controlli.

«È una jungla, ma la rete ha gli anticorpi e fa la selezione. Lo stesso processo sta avvenendo in televisione».

Tu parli di telemorenti, ma la tv generalista è dura a morire.

«Resistono i grandi eventi e le disgrazie. Allora la tv diventa messa cantata. Oppure le partite di calcio, se sei tifoso le vivi in tempo reale. Per il resto non c’è più il palinsesto fisso: registro e guardo quando voglio. Ci sono tg a tutte le ore, siamo dentro un continuo photo call. La tv è il monitor, i contenuti sono fluidi. La stessa cosa sta accadendo in politica…».

Squilla il cellulare. «Sì, mi dica… D’accordo, me lo mandi e lo pubblico… Vedi: era il portavoce di Brugnaro, il sindaco di Venezia. Mi manda il video dove si vede la reazione del ragazzo. Tutto avviene in tempo reale. Tra poco questo video è in rete, i giornali sono troppo lenti. Per questo il distico del programma è la frase del saggio di Guerre stellari: “Il futuro è”».

Un'immagine della puntata sul cibo: «Il cuoco è diventato chef, il cibo food»

Un’immagine della puntata dedicata al cibo: «Il cuoco è diventato chef, il cibo food»

Quando è cominciato il futuro?

«Internet è arrivata nel 1989, come la caduta del Muro di Berlino. Dieci anni dopo ho fondato Dagospia. Mi dicevano che ero pazzo».

Rispetto alla rete anche la televisione è più lenta o più brutta?

«La tv non è bella o brutta: non serve. La cosa peggiore che puoi dire a una persona non è: ti licenzio perché lavori male, ma perché non servi più. Tutto sta cambiando velocemente. Ti ho mostrato quel programma che misura gli indici di interesse: non sono io che lavoro e do la linea, sono le macchine che lavorano. Io mi adeguo. Scelgo gli articoli in base al mio gusto e all’attualità, se un pezzo è scritto bene ma non è attuale non lo metto. Guarda Trump. La globalizzazione…».

Trump ha vinto senza televisione, anzi perdendo i confronti. La democrazia orizzontale di internet sembra favorire i populismi. Non sarà sopravvalutata la globalizzazione?

«ma no, guardati attorno. La rete taglia le caste. Trump aveva tutti contro, giornali e televisioni. Come Grillo e Farage: sono senza tv e con i poteri forti contro. Eppure… Internet cambia il modo di far politica. Spero che Trump porti una trasformazione come quella di Reagan, che inaugurò la belle epoque degli anni ’80. Dopo dieci anni in vetta, per la sinistra è dura accettare la sconfitta. La casta se ne stava bella comoda a Capalbio, a giocare all’avanguardia che dà la linea alle masse… Un bel trauma».

Il logo del programma di Sky Arte: «Tutto il materiale è preso da Internet»

Il logo del programma di Sky Arte: «Tutto il materiale è preso da Internet»

Come nasce Dago in the Sky?

«È la prima volta che faccio una cosa con il mio nome. Ho sempre fatto l’ospite. Mi sono chiesto che politica c’è dopo internet? Che arte c’è, che cibo c’è. La globalizzazione cambia la narrazione, come si vede nelle serie, in Narcos o House of Cards. Questa installazione di Nam June Paik, l’inventore della video arte, è degli anni ’80 e ancora oggi è ultra moderna. Noi siamo fermi a Carlo Conti e Fabio Fazio».

Fai psichedelia televisiva.

«Uso il linguaggio di internet e trasformo lo schermo rendendolo simile al display dello smartphone, con tante immagini che si muovono in contemporanea. Mio figlio che è ingegnere e lavora a Londra, ogni anno deve sostenere, come tutti i suoi colleghi, un esame per dimostrare il grado di aggiornamento. Anche noi dobbiamo aggiornarci a ciò che sta succedendo nella politica, nella moda, nella religione. Faccio tutto qui».

 

Roberto d'Agostino nella sua casa: «Dago in the Sky» nasce in queste stanze a costi bassissimi

Roberto d’Agostino nella sua casa: «Dago in the Sky» nasce in queste stanze a costi bassissimi

Avanguardia a basso costo?

«Bassissimo. Viene una troupe per girare i miei lanci e le interviste agli ospiti. Ma io e gli ospiti non parliamo mai tra noi, per rispetto del telespettatore. Vorrei che questo programma fosse contemporaneo anche fra due o tre anni».

Impostazione fredda e professionale, tranne nel passaggio sul «bulletto di Rignano»…

«Sì, mi è scappato…».

C’è il blogger intenazionale e colto di Sky Arte, c’è quello di Dagospia con la sua morbosità postribolare e c’è l’ospite dei talk che si schiera. Qual è il vero Roberto D’Agostino?

«Sono sempre lo stesso, ma uso linguaggi diversi. Come diceva Andy Warhol, “è la cornice che fa il quadro”. Quando andavo a Quelli della notte avevo letto su un libriccino americano la tecnica del tormentone. M’inventai l’edonismo reaganiano: aspettavo solo il momento di tirarlo fuori. Era come “Allegria!” di Mike Bongiorno. Il pubblico della tv ti ricorda per queste cose: devi dare il titolo e il sommario, stop. La spiega la fai da un’altra parte. Lì, da Arbore, non ho mai spiegato cos’era l’edonismo reaganiano. Una volta chiesi a Moravia che divertimento c’era a passare le giornate a leggere certi libroni quando fuori c’era sesso droga e rock ’n’ roll. Mi rispose che la cultura serve solo a spendere bene i soldi, a saper abbinare una poltrona con una lampada».

Tornando alla tv, è tutta una questione di contesti e linguaggi?

«Fiorello che va in onda al mattino è effervescente perché deve dare la carica. David Letterman aveva uno show dopo le 23 e usava lo swing per tenere sveglio il pubblico. Adegui il linguaggio alla situazione. In questo mondo siamo tutti un po’ Fregoli. Solo Sgarbi è sempre Sgarbi in tutti i posti dove va. Però quando è venuto a Dago in the Sky non ho avuto bisogno di spiegargli che non volevo il turpiloquio. Se vado in chiesa mi comporto in modo diverso da quando vado in discoteca».

A proposito, qui ci sono madonne e pornostar…

«Sono i due lati della mia esistenza. Sono cattolico e credente, ma anche preso dal richiamo dell’eros. Questa roba è un diario visivo delle mie emozioni, non c’è niente di casuale».

Credente e praticante?

«Credente che va in chiesa, non a messa…».

Il tuo libro di culto?

«Detti e contraddetti di Karl Kraus, un autore austriaco, fondatore tra l’altro di Die Fackel («La Fiaccola»), una rivista satirica antenata di Dagospia».

Karl Kraus, autore di «Detti e contraddetti», libro di culto di Roberto D'Agostino

Karl Kraus, autore di «Detti e contraddetti», libro di culto di Roberto D’Agostino

Ti è piaciuto The Young Pope?

«È piaciuto molto a mia moglie. Io non l’ho visto tutto. Come La grande bellezza, mi pare che quello di Sorrentino sia soprattutto un grande gioco visivo».

Che cosa succederà il 4 dicembre?

«Credo vincerà l’antirenzismo del No».

E poi?

«Poi niente. Sarà uno schiaffo utile per riportare Renzi con i piedi per terra e fargli capire che il mondo non finisce a Rignano sull’Arno».

 

La Verità, 27 novembre 2016

 

I social network, padri putativi del futuro

Il  dominio delle nuove tecnologie, di Internet e dei social network, è contro la famiglia. C’è un disegno preciso. Una logica economica scientificamente costruita e perseguita. Lo afferma Massimo Gandolfini, medico chirurgo specialista in neurochirurgia e psichiatria, consultore vaticano per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II nonché leader del Family Day. Nel libro-intervista realizzato con Stefano Lorenzetto (L’Italia del Family Day, 234 pagine, 15,5 euro, appena uscito da Marsilio editore) afferma che non è assolutamente un caso se “le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay e gender”. Non è una questione di omofobia o di tabù per certi orientamenti sessuali. No. Per Gandolfini è vero il contrario: la famiglia è un ostacolo al potere sugli individui dei grandi marchi della new economy. Perché i potenti dell’economia digitale preferiscono parlare di individui piuttosto che di persone. “Si dà il caso – dice Gandolfini a Lorenzetto – che nel febbraio 2013 le 200 più importanti aziende americane, tutte insieme, abbiano chiesto e ottenuto da Obama e dalla Corte suprema l’abrogazione del marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c’erano Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay… Multinazionali in grado di orientare l’opinione pubblica e determinare le sorti dei governi”. Una visione maliziosa o apocalittica? Un’interpretazione antimoderna e oscurantista del progresso? Certamente, una bella sassata contro il vetro levigato e luccicante della Rete nuovo paradiso terrestre. Chissà se Carlo Freccero, che tra qualche giorno al Festival della Comunicazione di Camogli dedicato al tema Pro e contro il web terrà una lezione su “Media apocalittici e integrati”, prenderà in considerazione questa analisi di Gandolfini.

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Da qualche tempo la critica contro la Rete ha iniziato ad allargarsi a macchia d’olio. Ho scritto critica, ma in qualche caso si potrebbe cominciare a parlare di rifiuto, di ribellione. Se ne evidenziano sempre più i lati oscuri, le ambiguità.  Internet, e tutto ciò che ne consegue, social network e connessione h24, non è più l’eden della comunicazione. L’eldorado della democrazia. Ci si accorge che il web inevitabilmente riproduce e amplifica i limiti e le ossessioni di chi la usa. E si cominciano a mettere dei paletti per frenare l’ondata invasiva della new technology. È di oggi la notizia proveniente dalla Francia che annuncia i primi accordi tra aziende e sindacati per tutelare “il diritto alla disconnessione“. Niente mail, niente messaggini di emergenza, niente più reperibilità costante fuori dall’orario di lavoro per i dipendenti di aziende con più di 50 persone, come consente la Loi Travail. Si è scoperto che la connessione abbassa la qualità del lavoro, aumenta lo stress, toglie quella lucidità che proviene dal distacco, dal recupero di una distanza psicologica di sicurezza. Troppe sollecitazioni fanno sì che, come ha sintetizzato il sindacalista Jérome Chemin, “non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Nel nostro circo mediatico, dopo l’invenzione del neologismo webete, Enrico Mentana è diventato il guru dell’anti-Rete. Un ruolo consolidato dai successivi post su Facebook, sempre conditi di fulminanti giochi linguistici come l’ultimo riguardante “i Bufala Bill del Far Web“, i quali, senza darsi troppa pena a documentarsi, discettano contro il giornalismo fazioso che non darebbe certe notizie per amplificarne altre. Storia vecchia come la stilografica. Che, tuttavia, “i Bufala Bill” suffragano con il 77esimo posto assegnato da Reporters sans frontières all’Italia nella classifica della libertà di stampa. In realtà, scrive Mentana, quella posizione così bassa non ci è affibbiata “per la scarsa qualità o indipendenza dei nostri giornalisti, ma per l’esatto contrario”, ovvero a causa delle loro coraggiose inchieste che li espongono alle minacce della criminalità o a imputazioni giudiziarie. Come si vede la critica al web di Mentana non nasce da un neoluddismo del Terzo millennio, tant’è vero che la confeziona su Facebook. Ma riguarda l’uso che alcuni – molti, troppi – fanno dei social (Twitter in particolare). In sostanza, non c’è una sorta di stupidità da like, quanto una stupidità di persone che fanno uso di strumenti digitali. C’è una presunzione diffusa nella società contemporanea, una megalomania mediatica per la quale chiunque, avendo a disposizione una tastiera o uno smartphone, si sente in diritto di mettersi sul pulpito a pontificare e impartire lezioni all’universo mondo. Nessuno darebbe mai un mitra a uno psicolabile che si aggira in una piazza affollata. Salvo il fatto che il web non uccide (ma bisognerebbe riflettere anche su certi fenomeni di cyber-bullismo) la questione è la stessa. Ecco perché si comincia a riflettere sul fatto che la Rete è uno strumento incontrollato, nel quale ognuno senza autorevolezza alcuna può dar libero sfogo alla parte peggiore di sé.

 

 

Qualche giorno fa anche Alessandro Sallusti in un editoriale intitolato “Tenete i cretini fuori da Internet” ha proposto una sorta di moratoria digitale. “Non so se da qualche parte esista un interruttore di Internet. Se esistesse il mio sogno sarebbe di spegnerlo e vedere l’effetto che fa – ha scritto il direttore del Giornale -. Che diavolo ce ne facciamo di tutta questa presunta democrazia, di questa libertà senza regole e confini? A mio modesto avviso nulla, se non illudersi di esistere postando nel mondo stupide fotografie”.

Inventando "webete", Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Inventando “webete”, Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Chissà che cosa ne pensano le multinazionali citate da Gandolfini nell’intervista con Lorenzetto. A differenza di quella di Mentana e di Sallusti, o anche della scelta introdotta dalla legge francese, quella del leader del Family Day non è una critica all’uso soggettivo dell’economia digitale, quanto alla cultura che la alimenta e la sta trasformando in un nuovo potere dominante. Al quale, per dispiegarsi senza freni, serve una società debole. “Perché le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay o gender? – si chiede Gandolfini -. Perché una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli, è altissimamente condizionabile da qualsiasi input proveniente dall’esterno. Non esiste più il contraltare rappresentato dai valori della famiglia tradizionale. Anzi, a dirla tutta, – scherza ma non tanto Gandolfini – non esiste più nemmeno l’altare”. In questo modo le persone vivono “in uno stato di anomia. La relazione diventa esclusivamente individuale. Avremo un mondo di figli che non hanno più genitori, nel senso che ne avranno cinque o sei, e che cercheranno le ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, basti vedere che cosa già rappresentano per loro oggetti come l’Iphone o l’Ipad… E con chi puoi instaurare una relazione forte, significativa, realmente accudente, se non esiste più la famiglia? Con Facebook, con Twitter, con Google+, con Instagram…”. Sono questi, i social network, i nostri nuovi genitori putativi.