«Sono maestro, ma non mi perdonano la bellezza»

In questi giorni il maestro Beatrice Venezi sta provando L’amico Fritz di Pietro Mascagni all’Opera Holland Park di Londra, dove debutterà il 16 luglio. È il motivo che giustifica il dispiacere di non poterla intervistare in presenza. Perché, se nome e cognome evocano un’idea di bellezza, la presenza la incarna. «Prometto che la prossima intervista sarà di persona», concede Beatrice. Citata nel 2018 dalla prestigiosa rivista Forbes tra i 100 under 30 italiani più influenti, direttore principale della Nuova Scarlatti di Napoli e dell’Orchestra sinfonica Milano classica, richiesta dai maggiori teatri del Sudamerica e dell’Asia, a fine settembre Venezi dirigerà l’Orchestra dell’Olimpico di Vicenza nell’Histoire du soldat di Igor Stravinski, titolo che aprirà il ciclo dei Classici diretto da Giancarlo Marinelli, autore anche della regia dell’opera inaugurale.

Come devo chiamarla, signora Venezi?

«Maestro è il titolo corretto».

Ci si può battere per l’emancipazione femminile anche da direttore?

«A maggior ragione. Condivido il pragmatismo del Paese in cui mi trovo, per il quale ciò che si fa più del modo in cui si viene chiamati. Non condivido la declinazione forzatamente femminile dei ruoli, mi interessa di più battermi per la parità salariale e delle opportunità professionali. Però questa è solo una mia convinzione e nutro massimo rispetto per chi la pensa diversamente».

Perché qualche anno fa a Teheran non l’hanno fatta dirigere?

«L’ambasciata italiana preferì cancellare all’ultimo momento il concerto temendo potesse causare risentimento in parte della popolazione. Era il 2019 e c’erano motivi di tensione con gli Stati Uniti e i rappresentanti del mondo occidentale perciò fu ritenuto prudente non esacerbare quelle tensioni».

Ha incontrato ostacoli anche in altri Paesi?

«Ogni Paese ha un proprio protocollo e il rispetto di determinate forme. Per esempio, il Giappone e la Russia. Ma in nessuno c’è il pregiudizio diffuso che si percepisce in Italia».

Che tipo di pregiudizio?

«Mi piacerebbe semplificare dicendo che colpisce le donne che siedono in posti apicali. In realtà, è una forma di avversità più vasta e sottile, che riguarda tutto ciò che mette in discussione posizioni acquisite, dal ricambio generazionale alla questione femminile».

Il suo aspetto è più di aiuto o di ostacolo alla carriera?

«Direi di ostacolo».

Perché?

«Perché si ritiene che una donna che voglia essere culturalmente credibile debba rinunciare alla cura del proprio aspetto. È un luogo comune difficile da scalfire. Nel mio settore la bellezza non aiuta, mentre in una cantante è ben vista».

Anzi, è valorizzata.

«Non così per un direttore, che è un ruolo di comando. In un leader bellezza e autorevolezza sono ritenute quasi incompatibili».

Come sarà la sua estate dopo il debutto londinese?

«Resterò qui fino a fine luglio, poi dirigerò alcuni concerti all’inizio di agosto. Per ripartire in settembre dal Teatro Coliseo di Buenos Aires con un evento più volte rimandato per la pandemia. Nella prossima stagione sarò felice di recuperare altri debutti rinviati in Francia».

La sua attività è stata molto penalizzata dal periodo di restrizioni?

«Non mi posso lamentare perché ho lavorato molto, però principalmente in Italia e nei Paesi vicini. Mentre abbiamo cancellato alcuni appuntamenti in Sudamerica e in Giappone. Auspico che riusciremo a tenere sotto controllo il virus grazie alle diverse misure. Temo sia difficile sconfiggerlo definitivamente, ma spero che diventi una malattia endemica, così da riuscire a conviverci senza fermare il mondo».

L’estate si concluderà con la direzione al Teatro Olimpico di Vicenza di Histoire du soldat scritta da Stravinski nel 1918 durante l’epidemia di spagnola. Come si sta avvicinando a quest’opera?

« Il contesto in cui è nata la rende molto contemporanea. Inoltre, quest’anno ricorre il cinquantesimo della morte di Stravinski, un autore fondamentale per l’evoluzione dello stile compositivo. Marinelli ha impostato un grande lavoro per portare in scena un’opera che, pur appartenendo al repertorio sinfonico, ha una notevole componente drammatica».

Che cosa può dire un testo scritto durante la Prima guerra mondiale all’uomo contemporaneo?

«Histoire du soldat conserva una forza evocativa particolarmente pregnante proprio in rapporto al periodo in cui è stata concepita. È un’opera da leggere, recitare e danzare, come potrà vedere il pubblico dell’Olimpico. Quasi una favola per bambini che ci permetterà di tornare ai ricordi dell’infanzia, quando le mamme leggono le storie ai figli, con qualcosa di consolatorio».

Anche noi come il soldato protagonista rischiamo di vendere l’anima al diavolo in cambio di una ricchezza illusoria?

«È un rischio della società contemporanea. Credo che viviamo un momento molto strano, con difficoltà che il Covid ha amplificato. Vedo il rischio di credere in falsi miti, una faciloneria nel combattere battaglie di cui sappiamo poco. Ci appassioniamo a opinioni che ci vengono vendute in scatola. Ne parlavano alcuni grandi artisti già negli anni Sessanta. Quella che allora era leggerezza è divenuta superficialità nell’approcciare temi complessi in base alle mode. Vendere l’anima vuol dire non applicare il pensiero critico, ma allinearsi al flusso corrente».

La parola dell’epoca era omologazione.

«Aggiornandoci, potremmo parlare di globalizzazione».

Nel dibattito attuale sui diritti delle minoranze c’è qualcosa che la colpisce in particolare?

«Trovo malata la tendenza a pensare di guadagnare un diritto nel momento in cui lo si toglie ad un altro. È un comportamento lontano dalla democrazia».

In che caso?

«In occasione della polemica che mi ha riguardato ho chiesto di essere chiamata in un certo modo senza ledere il diritto di nessuno. Ma tra esponenti di alto livello della politica è partita la gara a screditare la mia figura con un metodo che ritorna, per esempio a proposito di vax e no-vax. Oppure quando si trattano le donne come una minoranza da proteggere. A volte il pragmatismo soccombe sull’altare dell’ideologia».

Quando l’ha visto?

«Certe scene del Gay pride non mi hanno fatto piacere. Ho amici che hanno un orientamento diverso dal mio. Tuttavia, la derisione della figura di Cristo da parte di un manifestante in minigonna e tacchi a spillo, da cristiana mi ha infastidito. Non sono nessuno per dare giudizi, mi chiedo se per affermare un proprio diritto ci sia bisogno di sbeffeggiare il credo di altre persone. In una società democratica dobbiamo tutti cercare le forme di una pacifica convivenza».

Concorda con il maestro Riccardo Muti che al Corriere della Sera ha detto che si fa troppo poco per promuovere l’arte musicale italiana?

«Ne sono convinta; in maniera molto più modesta lo dico da tempo. La politica non vede il nostro patrimonio culturale e artistico come un asset vincente, mentre il nostro Paese potrebbe vivere di questo».

Qual è il sentimento di una donna gratificata dai riconoscimenti della musica italiana nel mondo che si ritrova in patria in situazioni di povertà di mezzi e trascuratezza?

«Piange il cuore. Nel nostro Paese prevale l’esterofilia che influenza interi cartelloni teatrali dove compaiono pochi o nessun artista italiano a vantaggio di altri, stranieri, più o meno noti. Anche le nostre maestranze dovrebbero essere sostenute dai teatri finanziati dallo Stato. Tanto più dopo una lunga sosta forzata che ha costretto molti lavoratori dello spettacolo a cambiare lavoro… Rincorriamo la star straniera che risulta più interessante ed esotica, mentre all’estero vengono apprezzati gli artisti italiani».

Se dovesse dare un suggerimento discreto al ministro della Cultura Dario Franceschini per favorire l’avvicinamento alla musica dei giovani che cosa gli direbbe?

«Gli direi che bisogna credere nel ricambio generazionale. Nel nostro Paese ci sono tanti giovani talentuosi e competenti che non vedono l’ora di prendersi delle responsabilità. I bamboccioni sono il risultato della mancanza di opportunità non il contrario».

Un lavoro che deve partire dalle scuole e dai conservatori?

«Confermo. I conservatori sono pensati per chi vuole provare a fare della musica una professione. Quello che manca è il primo livello: stimolare i ragazzi partendo dai programmi scolastici. Non bastano tre anni di flauto traverso per apprezzare la musica classica. Il secondo livello riguarda la comunicazione degli enti sinfonici e operistici, affinché i teatri non siano percepiti come luoghi elitari. Il terzo livello coinvolge l’intrattenimento. In Francia, Germania e Gran Bretagna si trovano programmi televisivi di musica classica anche in prima serata. In Italia i canali dedicati sembrano oasi del Wwf. Invece Alberto Angela dimostra che si può avvicinare a temi complessi il grande pubblico».

Che cosa può trasmettere ai giovani di Instagram una figura come Giacomo Puccini a cui, da sua concittadina, ha dedicato il primo disco?

«Proprio la modernità, perché fu un compositore dirompente per la velocità della narrazione, più simile al linguaggio cinematografico che a quello dell’operistica precedente. Un linguaggio che racconta l’amore per la donna e la ricerca della donna ideale con la chiave d’accesso giusta anche per un pubblico di neofiti».

Come giudica il correttismo che sta investendo il repertorio operistico?

«Lo trovo sbagliatissimo. La lirica esprime spesso una sensibilità diversa da quella contemporanea, ma nascondere la storia indorando la pillola è molto fuorviante. Cambiare il copione di Carmen per evitare il femminicidio vuol dire sminuirne la grandezza, perché lei sceglie di morire per difendere la propria dignità».

Ci può anticipare qualcosa del prossimo disco?

«L’ho appena registrato per Warner music con la magnifica Orchestra Haydn di Bolzano. Non è un lavoro monografico, ma una sorta di playlist che raccoglie una serie di eroine e antieroine dalle pagine sinfoniche dell’opera, da Giovanna d’Arco a Salomé, da Lady Macbeth a Maria de Bueons Aires».

Guardandosi dall’esterno qual è il primo sentimento che prova?

«Sono molto orgogliosa di quello che sono riuscita a fare pur non venendo da una stirpe di musicisti. Anche se è ancora molto poco rispetto a quello che spero potrò fare e forse farò nel prossimo futuro».

 

La Verità, 10 luglio 2021