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«Non c’è il diritto a migrare A Parigi rito massonico»

Ce lo chiediamo tutti se Dio esiste? Ora è il titolo del nuovo libro in cui il cardinale Robert Sarah risponde alle domande dell’editore David Cantagalli che lo pubblica. Sono domande dell’uomo comune: sulla fede, sull’attualità del cristianesimo, su perché Dio non cancella il dolore, su perché l’uomo si allontana dalla Chiesa. In occasione del Natale e dell’uscita del saggio, il prefetto emerito della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti che si è sempre espresso contro la teoria gender, ha accettato di rispondere anche alle domande della Verità.

Eminenza, anche questanno ci approssimiamo al Santo Natale. Che cosha di profondamente, direi oggettivamente, rivoluzionario questo giorno? In che cosa si differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni?

«Il Santo Natale del Signore Gesù è la memoria attuale dell’evento più straordinario della storia umana: il fatto che Dio sia divenuto uomo, restando Dio, e dunque che Dio abbia voluto camminare sulle nostre strade e nel nostro tempo, per salvarci dall’interno della nostra stessa esperienza umana. L’idea di un Dio lontano è superata per sempre del fatto dell’incarnazione, che rende il Dio-con-noi davvero credibile, perché vicino. Cristo è l’unico iniziatore di un “cammino religioso” che ha la pretesa di essere Dio: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Questa inaudita pretesa è la differenza cristiana. Tutte le religioni sono un tentativo umano di raggiungere Dio, ed in quanto tentativo possono avere certamente elementi di vero e di bene, ma il cristianesimo è esattamente il contrario: è Dio che ha raggiunto l’uomo. È il capovolgimento della mentalità comune. Dio prende l’iniziativa di venire verso l’uomo per farsi conoscere, farsi vedere, farsi toccare e rivelare il suo amore infinito per noi. Dio viene verso l’uomo tramite l’incomprensibile mistero dell’incarnazione del suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo».

Lavvenimento di duemila anni fa, la venuta, lincarnazione di Dio nel mondo, a quali domande delluomo risponde?

«L’incarnazione risponde a tutte le domande fondamentali dell’uomo! L’uomo, ogni uomo desidera conoscere Dio: il suo misterioso creatore. L’uomo desidera vedere il volto di Dio, aspira ad entrare in relazione con Dio, perché l’uomo sa che solo in Dio trova consistenza. Solo in Dio l’uomo può realmente entrare nella sua vera identità e nel suo vero destino. L’uomo è la sola creatura capace di autocoscienza e di ricerca di significato e tutti sperimentiamo come la presenza di un senso delle cose, coincida e sia direttamente proporzionale alla nostra libertà: senza senso non c’è libertà! L’uomo è – non solo ha – bisogno di verità, giustizia, felicità, amore… Cristo, Dio che si fa uomo, risponde a tutte queste domande, perché apre la possibilità del compimento dell’io, del pieno significato del nostro esistere e della possibilità che il “grido dell’uomo” trovi un interlocutore capace innanzitutto di abbracciarlo. Poi di rispondere in modo ragionevole, cioè, adeguato alla ragione umana».

Quindi, questo è un mistero anche razionalmente comprensibile. Essendo noi esseri umani dotati di un desiderio assoluto dinfinito, senza una promessa di eternità resa possibile dalla condivisione di Dio della nostra condizione, la vita sarebbe solo uno scherzo crudele?

«Dipende da cosa si intende per “razionalmente comprensibile”. Se si ha un concetto di tipo tecno-scientista, per cui la ragione umana si riduce a essere la misura di tutte le cose, allora direi di no: la decisione sovrana di Dio di manifestarsi all’uomo, facendosi uomo, non è “misurabile”, né prevedibile dalla ragione. Se, al contrario, si ha un concetto ampio di ragione, secondo il richiamo di Papa Benedetto XVI nello storico discorso di Regensburg a “dilatare i confini della razionalità”, per cui la ragione è concepita per quello che essa è, una “finestra spalancata sulla realtà”, allora certamente sì. La ragione, per sua natura, cerca risposte alle proprie domande esistenziali. Potremmo dire che la ragione, per il solo fatto di esistere, ha da sempre invocato “una risposta”. La divina Rivelazione cristiana è questa risposta. Il fatto che Dio si sia incarnato, rende accoglibile questa risposta, perché commisurata a quanto l’uomo può comprendere: la condivisione dell’umano, l’espressione in linguaggio umano, la prossimità alle pieghe dell’esistenza. Dio è credibile proprio perché si è fatto uomo e si è reso accessibile».

Una delle principali obiezioni è il dolore provocato dallingiustizia e dalla malvagità delluomo? Perché Dio tace di fronte a queste? Pensiamo alla guerra in Ucraina o ai massacri continui tra palestinesi e israeliani.

«La domanda sul dolore, soprattutto sul dolore innocente, è la domanda delle domande. Noi sappiamo, per divina Rivelazione, che il male è entrato nel mondo a causa del peccato e che ogni uomo sperimenta, nella propria vita, il dramma del peccato personale, che poi diviene peccato sociale. La maggior parte dei mali del mondo è causata dalla malvagità, dal cattivo uso del libero arbitrio, da parte degli uomini. Dio non tace, semplicemente rispetta la libertà che Egli stesso ha donato alla sua creatura, perché “se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (2Tim 2,13). Dio soffre, Dio odia perfettamente il male, le perversità e i crimini barbari che commettiamo. Però Egli rispetta le opere buone e cattive, e le scelte e le decisioni dell’uomo e dei responsabili politici che, per esempio, hanno deciso e programmato la guerra in Ucraina e in Palestina, provocando così tanti massacri e sofferenze di popolazioni innocenti. Però nella nostra fede cristiana, crediamo che Cristo Signore, poi, ha assunto su di sé tutto il male del mondo, morendo sulla croce. Per questo, solo nella luce della croce, cioè nella fede in Dio che muore con tutti gli innocenti, è possibile stare di fronte al mistero del dolore, sia invocandone la liberazione, sia permanendo nella comunione con Dio e con i fratelli. La risposta a tutte le brutture del mondo resta sempre la divina misericordia».

Qual è lattualità del cristianesimo? Perché è una risposta credibile al mondo contemporaneo?

«L’attualità del cristianesimo è l’attualità dell’uomo. Al di là di tutti i condizionamenti storici, culturali e sociali, noi sappiamo che l’uomo, il cuore dell’uomo è sempre uguale a sé stesso, con sempre delle esigenze che gridano salvezza. Certamente queste, molto spesso, sono silenziate, perché fanno così male che non incontrare una risposta può essere terribile; ed allora scatta il meccanismo dell’anestesia individuale o sociale, della fuga dalle domande, che però è fuga da se stessi. In una cultura che voglia “farla finita con l’uomo”, il cristianesimo risulta estraneo, ma se vogliamo continuare a esistere e a esistere con un senso, allora non possiamo non guardare alla proposta di Cristo, unica persona divina-umana, che dà senso, dignità, consistenza e vera felicità all’esistenza umana. Infine, nessuna tradizione storico-religiosa ama la libertà umana più del cristianesimo, e anche in questo è attualissimo».

Duemila anni fa Cristo fu accolto dai pastori e respinto dagli intellettuali e i presunti costruttori di civiltà. Perché oggi i cristiani, nonostante anche San Paolo ammonisse di non conformarsi, sono così preoccupati di avere il consenso del mondo?

«Non penso che tutti i cristiani cerchino affannosamente il consenso del mondo. Certamente alcuni paiono rincorrerlo irragionevolmente, credendo di trovare risposte più “a buon mercato”. Qualcuno lo fa, ingenuamente, pensando di essere più accettato o di evangelizzare. Forse è vero che il mondo è penetrato molto nella mentalità di tutti e questo è accaduto anche tra i cristiani e nella Chiesa; ma l’umanità non ha bisogno di una Chiesa più umana, più immersa nelle tenebre del nostro mondo, nascondendo così la luce del vangelo di Cristo, ma di una Chiesa più divina, di una comunità credente più raggiante di valori cristiani, che abbia consapevolezza della propria identità di “presenza divina nel mondo” ed offra a tutti gli uomini l’esperienza della prossimità di Dio, indicando costantemente la sua presenza».

Proclamando i diritti umani e civili come prioritari le agenzie internazionali, gran parte dei media e delle comunità artistiche tendono a creare le premesse di una nuova religione che renda superflua la ricerca della trascendenza?

«La ricerca della trascendenza non sarà mai superflua, perché appartiene all’identità dell’uomo; finché ci sarà un solo uomo, questi cercherà il significato dell’essere e della vita, dunque cercherà il mistero, l’infinito, la trascendenza, Dio. Il grande tema dei diritti umani e civili, di cui il cristianesimo è sempre il primo vero promotore, domanda di essere declinato insieme alla verità sull’uomo ed al bene comune. Senza questa “compagnia virtuosa”, i diritti umani divengono mera obbedienza a una arbitraria soggettività e quelli civili pretesa di riconoscimento pubblico dei propri desideri, anche volgari, indegni di un essere umano, non sempre corrispondenti alla propria profonda identità e natura. Certamente la consapevolezza della irrinunciabilità della dimensione religiosa può portare a immaginare una “super-religione” mondiale aconfessionale e priva di ogni dottrina, di ogni insegnamento morale e di ogni trascendenza, ma non basterà mai al cuore dell’uomo».

Questa nuova religione sta attuando la sua prova generale durante la gestione globalizzata delle varie emergenze, cominciando dalla pandemia del Covid e proseguendo con quella ambientale?

«Le nuove tecnologie, utilizzate in tempi di emergenza, possono certamente creare l’illusione, in chi le gestisce, di un “controllo globale”. Non sono lontani gli esempi di Stati che, in certo modo, anche se ancora su base volontaria, stanno già attuando quello che si chiama “punteggio sociale”, divenuto un vero e proprio status symbol, che sostituisce ogni valutazione dell’agire morale, privato e sociale, divenendo nuovo criterio di giudizio. È sempre necessario, nelle emergenze, da parte di tutti conservare un vivo senso critico, senza mai lasciarsi prendere dal panico e, da parte delle autorità, evitare decisioni non sufficientemente ponderate. La chiusura delle chiese, forse, è stata una di queste».

Che cosa ha suscitato in lei la rappresentazione artistica allestita in occasione della cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, forse levento più globale del pianeta?

«Al di là del cattivo gusto e dell’oggettiva “bruttezza” della rappresentazione, che nulla aveva di artistico, mi pare sia stata la misura dell’odio al fatto cristiano. Mi ha positivamente stupito che la Conferenza episcopale francese, che certamente non può essere accusata di oscurantismo, abbia espresso una protesta formale, seguita da quella della Santa Sede. Vede, quella rappresentazione blasfema e satanica ha mostrato al mondo come i finti irenismi non abbiano spazio e come la battaglia per la verità e il bene sia, in fondo, sempre anche una battaglia soprannaturale. E le battaglie soprannaturali si combattono con le armi soprannaturali: la preghiera, i sacramenti e i sacramentali, inclusi gli esorcismi. Sono molto legato e grato alla Francia, paese a cui la mia storia personale deve moltissimo, e so che quella rappresentazione non è stata affatto l’espressione di tutto il popolo francese, ma di una minoranza ideologizzata, massonica e opportunamente finanziata».

Tra i nuovi diritti proclamati dagli intellettuali e anche da molte personalità del clero c’è quello a emigrare. Perché si fa molto di meno per favorire il diritto, forse più primordiale, a crescere là dove si è nati?

«Non esiste il diritto a emigrare, se l’emigrazione è forzata, organizzata, pianificata per nascondere una forma nuova di schiavitù o di traffico di esseri umani. Esiste il diritto a una vita buona, a esprimere le qualità della propria personalità, a non morire di fame o di malattie perfettamente curabili, e tutto questo potrebbe essere realizzato nei vari Paesi del mondo in difficoltà. Basterebbe ricordare che un terzo del cibo prodotto nel mondo viene gettato via».

Poche settimane fa sono usciti i dati dellAnnuario cattolico. Per la sua conoscenza del mondo africano ed europeo, come si spiega il fatto che i cattolici sono in aumento in tutti i continenti a eccezione che in Europa?

«Credo ci sia una fondamentale ragione di tipo demografico. Noi in Africa amiamo la vita, nonostante tutte le sue difficoltà. A me fa una certa impressione passeggiare in alcune città dell’Europa e non vedere, per ore e ore, un solo bambino. La vera emergenza dell’Europa è quella demografica e alcuni governi lo stanno comprendendo. Il cruciale problema demografico viene dalla distruzione sistematica della famiglia, del matrimonio, dall’egoismo e dall’individualismo come scelta della società occidentale. Ciò chiude una società in sé stessa. Tutto il mondo sarebbe molto più povero senza gli europei e senza gli italiani. Bisogna guardarsi attentamente da ogni tentazione o illusione di sostituzione etnica. Poi c’è una freschezza del cristianesimo africano, vivace e dinamico, perché giovane, che forse quello europeo, un po’ stanco e troppo istituzionalizzato, può aver perduto. Infine, c’è l’ideologia illuminista anticristiana e soprattutto anticattolica, che in Africa non è mai sbarcata, se non per quegli intellettuali che hanno studiato in Europa, esportandone il peggio».

Quali responsabilità ha la Chiesa nellallontanamento di molti dal cristianesimo? O, per dirla con T. S. Eliot, è la Chiesa che ha abbandonato lumanità o lumanità che ha abbandonato la Chiesa?

«L’uomo abbandona la Chiesa, o la fede, ogni volta che si dimentica di sé stesso, che censura le proprie domande fondamentali; la Chiesa non ha mai abbandonato e mai abbandonerà l’uomo. Alcuni cristiani, a ogni grado della gerarchia, possono aver abbandonato gli uomini ogni volta che non sono stati sé stessi, cioè ogni volta che si sono vergognati di Cristo, tacendo la ragione unica del proprio essere cristiani».

Perché, a suo avviso, negli ultimi concistori papa Francesco ha creato solo tre cardinali africani?

«Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo al Santo Padre. La Chiesa africana non è in concorrenza con le Chiese sorelle ed è molto onorata di avere nuovi cardinali».

 

La Verità, 14 dicembre 2024

«Il pubblico ha meno pregiudizi dei critici»

Incontro Paolo Sorrentino, ultimo Premio Oscar italiano, in un hotel di Bari durante una pausa del tour promozionale di Parthenope, il film in cui, attraverso la vita della protagonista, abbozza una meditazione sullo scorrere del tempo e il rapporto con la bellezza e l’amore.
È soddisfatto di come sta andando il film al botteghino?
«Molto, non è scontato di questi tempi. Sono felice delle reazioni di molti spettatori che lo vedono come una rappresentazione della grande avventura della vita. Non come un film bello o brutto, ma come un’emozione profonda nella quale specchiarsi e rinvenire le domande che ci corrispondono. È un lavoro con una trama emotiva e sentimentale».
Si aspettava questo successo dopo l’accoglienza della critica?
«Ero molto preoccupato perché la critica non è stata benigna. Migliore quella italiana, più aspra quella anglosassone. Fa parte del gioco».
I critici sono più freddi sui temi esistenziali?
«Non so se questa sia la chiave giusta. Ci sono due modi per vivere un film: esaminarlo nelle sue diverse parti o immergersi nel flusso dei sentimenti che affronta. Il primo modo appartiene alla critica, il secondo al pubblico. Questo fa sì che questo film piaccia di più al pubblico. Se è vero che la nostra cultura è la somma dei nostri pregiudizi, come dice Alessandro Piperno, allora, secondo me il pubblico ha meno pregiudizi».
Che cosa ha innescato questa meditazione sul tempo?
«Sono entrato in un’età in cui si comincia a interrogarsi su come è passato il tempo e come scorrerà successivamente. Mi sembra il tema dei temi… quando uno guarda alla propria vita… Trovo commovente lo scorrere del tempo, la cosa più decisiva che accade a ognuno di noi».
Chi è Parthenope?
«Una donna libera, che si ostina nel mantenimento della sua libertà. Questo la rende un personaggio epico, in un’accezione moderna dell’epico. Non rinuncia alla spontaneità e alla bellezza della seduzione».
È una donna in ricerca che non si accontenta delle risposte che offre una città caleidoscopica come Napoli?
«È una donna che si lascia vivere, quando è giovane. Forse per questo a molti risulta emozionante, ci si lascia andare a quella vertigine di estasi che tutti abbiamo provato in gioventù. Quando entra nell’età della responsabilità guarda la città più da fuori, senza lasciarsi sopraffare. E le capita di andare via».
È anche una donna che non si compromette e resta sempre un po’ distante?
«Sì. Avendo questa vocazione all’antropologia guarda la sua vita da fuori. Però a Capri si lascia andare…».
Per usare le sue chiavi interpretative, sa cos’è l’irrilevante, ma le sfugge il decisivo?
«Secondo me sa anche cos’è il decisivo, come di solito lo sanno le donne. È una generalizzazione, certo, ma mi pare che le donne sappiano sempre come stanno le cose».
Per malizia?
«No, per una forma istintiva di conoscenza della vita che le donne hanno più degli uomini».
L’intelligenza emotiva vince su quella razionale?
«È come se i presentimenti delle donne siano più vicini alla realtà di quanto lo siano i presentimenti degli uomini. La mia è una sensazione».
Parthenope non si convince a fare l’attrice, delusa dall’incontro con Greta Cool alias Sophia Loren…
«Non è Sophia Loren, ci tengo a dirlo, ma la rappresentazione di una diva di quegli anni».
In tanti abbiamo riconosciuto lei.
«Contro il mio parere, visto che l’ho creata io».
Lei è soddisfatto di essere un artista?
«Sono molto fortunato e privilegiato. Faccio un lavoro molto divertente che la maggior parte del tempo non percepisco nemmeno come lavoro».
Parthenope cerca invano una complicità d’intelligenza con lo scrittore John Cheveer: a lei il mondo della letteratura ha dato le soddisfazioni che cercava?
«Sì, ho scritto nel tempo libero, non frequento il mondo della letteratura. Hanno tutti ragione è nato nell’attesa che Sean Penn fosse libero da impegni, per non ciondolare un anno a casa in pigiama. Mi ha dato soddisfazione, è un libro che ha avuto successo e ancora viene letto».
Anche con la contestazione Parthenope non si coinvolge: lei ha partecipato ai movimenti studenteschi?
«No, sono stato adolescente negli anni Ottanta quando erano diventati più occasionali».
Il suo interesse per la politica è diminuito perché mancano figure come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi o, magari da cittadino, fa credito a qualcuno?
«Da regista è abbastanza calato. Da cittadino ho grande ammirazione per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche per Mario Draghi. Per il resto la scena politica m’interessa meno del passato».
Le elezioni americane l’hanno appassionata?
«Più che appassionarmi a una parte o all’altra mi sono preoccupato nel vedere che un Paese tanto importante era così coinvolto in dinamiche che hanno poco a che fare con la democrazia».
Adesso è più preoccupato?
«Francamente sì».
Non per le guerre nel mondo, però?
«Tendo a fidarmi quando una persona mostra equilibrio, saggezza e prudenza, doti che non ravviso in Donald Trump. Questo non c’entra con l’essere di destra o di sinistra».
Per la protagonista del film c’è la possibilità dell’amore e vediamo il triangolo incestuoso con il fratello e il fidanzato e il rapporto con il cardinal Tesorone: non lo sa proprio gestire questo sentimento.
«Secondo me, invece lo gestisce bene. L’amore, per definizione, è abbastanza ingestibile perché è una dinamica travolgente e quando si è travolti non si gestisce nulla. Mi sembra che il repertorio dei suoi incontri sia simile a quello di tanti di noi. Ha a che fare con le varie facce dell’amore, anche quella sordida quando incontra il camorrista. Poi è tentata dalla seduzione di una persona che, in teoria, sarebbe l’anti-seduzione come il cardinale. Ci capita di essere attratti da persone che non pensiamo possano attrarci. S’imbatte nell’amore impossibile per John Cheveer che è omosessuale. Poi c’è l’amore giovanile con il primo fidanzatino e un altro amore impossibile per il fratello, nel triangolo della nostalgia. Ho provato a raccontare le diverse imprevedibilità dell’amore».
Non è gestibile perché è un dono che ci supera?
«Non so  definire l’amore. Faccio dire al cardinale quella frase sulla sua grandezza per cui tutti provano a insegnarci a gestirlo. Ma siamo come squali che girano intorno alla preda, senza riuscire ad afferrarla».
Invece,
il rapporto tra Parthenope e il cardinale come lo definirebbe?
«Mi sembra una gentilissima, delicata, meravigliosa schermaglia di seduzione tra due esseri umani pienamente liberi e coscienti. La seduzione è bellissima perché è l’unico duello in cui si può giocare senza farsi del male».
Fino
a prima dell’atto.
«La seduzione ha a che fare con il prima, non con il sesso, che è una conseguenza marginale e non deve necessariamente accadere. Il cardinale è abilissimo perché è allenato a sedurre le anime».
Mette in relazione il miracolo di San Gennaro con il contatto fra il cardinale e Parthenope: hanno qualche ragione a risentirsi i cattolici devoti al santo?
«Per me no. Io so qual è il mio approccio alla religione, sempre rispettoso. Il fatto che metta in scena dinamiche inusuali non vuol dire che siano irrispettose, sono legate alla realtà. Il mondo è pieno di religiosi che seducono uomini e donne. E sul sangue di san Gennaro non ho detto niente di nuovo, i credenti lo reputano un miracolo, i non credenti un non miracolo».
Da The Young Pope al dissoluto cardinal Tesorone, è più incuriosito dalla Chiesa che da Gesù Cristo?
«Sì».
Però la dipinge spesso corrotta.
«Lo nego. In The Young Pope e The New Pope non era corrotta».
Molto trasgressiva?
«In mondi in cui le regole sono rigide è inevitabile trasgredire. Nelle serie mi sono sforzato di raccontare l’incredibile capacità della Chiesa di navigare da 2000 anni in acque sempre molto agitate».
I suoi conterranei si sono risentiti per l’invettiva di Greta Cool?
«I miei conterranei sanno benissimo che siamo legati alla città, ma allo stesso tempo anche autocritici».
L’antropologia è vedere, la possibilità che rimane quando tutto il resto viene a mancare, dice il professor Marotta. È per questo che l’antropologo Sorrentino vorrebbe essere invisibile?
«Sì, perché così potrei vedere veramente. Anche quello che la gente adesso non mi lascia vedere».
È incuriosito da qualcosa in particolare?
«Mi è sempre piaciuto irrompere nelle case. Se fossi invisibile potrei farlo nel migliore dei modi. Nelle case vivono i segreti».
Che cosa le fa dire che i ragazzi di oggi sono migliori di quelli del suo tempo?
«Un po’ quello che vedo quando li incontro per questo film. Poi ho due figli giovani. Mi sembra ci siano tanti luoghi comuni su di loro. Quando lo ero io, giovane, si diceva che stavamo sempre davanti alla tv, ora si dice che sono sempre davanti al telefonino. Anche se in parte è vero, a me pare che questi ragazzi sappiano ritagliarsi degli spazi per vedere le cose della vita e andarci dentro».
Mostrando così mostruoso il figlio del professor Marotta voleva rappresentare lo scandalo del dolore?
«Non ha molta importanza cosa volevo rappresentare io, lo ha di più cosa ci vede lo spettatore».
Però è una scena cercata, che fa sobbalzare
sulla poltrona.
«Ho un’idea molto ampia di bello. E quell’essere umano lì mi sembra bellissimo e stupefacente, e può essere evocativo per lo spettatore. Nel momento in cui lo devo spiegare perde di senso».
A me ha fatto pensare al
mistero del dolore.
«È qualcosa che appartiene a una generazione che ha avuto figli con dei problemi, facendoli diventare dei tabù. In casa c’era qualcosa di cui non si parlava e che non si poteva mostrare all’esterno. Marotta è un professore universitario degli anni Ottanta. Oggi non è più così».
Perché sembra spesso annoiato?
(Ride) «Lo sono come tutti. Alle volte lo sono, altre no».
La noia è un derivato dello snobismo?
«Non penso».
Convive bene con il successo?
«Sì, è un fatto che ha molti lati positivi e pochissimi negativi».
Che cosa le fa dire che «Dio non ama il mare»?
«Avevamo finito di girare alle 4 di notte e a Lanzetta, stanchissimo, è uscita quella frase, come uno sberleffo. Non le darei troppa importanza, cazzeggiavamo come ragazzi sul muretto».
Fa il paio con «Il mare mi ha deluso»
di un pensoso Renato Carpentieri in È stata la mano di Dio.
(Ride a lungo)
Che cosa appassiona Paolo Sorrentino?
«Gli esseri umani. Per il mio lavoro mi occupo di esseri umani. Quando trovo quelli che mi piacciono ci faccio i film».

 

La Verità, 9 novembre 2024

Senza Ratzinger, Bergoglio insegue il mainstream

Fra tre giorni la cristianità universale celebrerà il mistero di Dio che s’incarna nel Bambino Gesù. Contemporaneamente, gran parte del resto del mondo, che pure vuole farci augurare correttamente «Buone feste» anziché «Buon Natale», festeggerà, appunto, non si sa bene cosa. Chi, dunque, con una buona ragione, chi senza, saremo quasi tutti impegnati in pranzi di famiglia, apertura di regali, visite ai parenti. Tra poco più di una settimana, invece, si attenderà l’arrivo del nuovo anno che si spera diverso dall’attuale, e ricorrerà il primo anniversario della morte di Benedetto XVI, avvenuta il 31 dicembre scorso. Così, mentre si celebra la Natività, viene spontaneo chiedersi sommessamente che cosa stia succedendo nel cuore stesso della cristianità, la Santa Sede guidata da Francesco, vicario di Cristo in terra. Quali siano, insieme alla predicazione del tempo di Avvento, le insistenze e le curiose priorità che animano il Capo della Chiesa universale.

Saranno le condizioni di salute non più eccellenti a renderlo più incalzante, oppure la volontà di riguadagnare quel centro della scena invece clamorosamente mancata dal Sinodo sulla sinodalità, fatto sta che negli ultimi tempi papa Francesco ha molto intensificato pronunciamenti ed esortazioni sui temi più vari. Ovvero su quei temi che, a ben vedere, compongono l’agenda dei grandi enti internazionali, dall’Unione europea alle Nazioni unite, dalla Cop28 al Forum economico mondiale. Sembra quasi che, ed è forse la ragione più profonda, venuto a mancare Benedetto XVI, la cui presenza silenziosa nel monastero Mater Ecclesiae costituiva un deterrente a certe fughe in avanti, alleggerito da una certa soggezione teologica, Bergoglio abbia perso certi freni inibitori e, quasi ad accreditare la tesi secondo cui il vero magister fosse il Papa emerito, ora si senta più libero di pronunciarsi, puntualmente e puntigliosamente secondo una linea di apertura e innovazione. In sostanza, confezionando quasi un magistero parallelo, contrappuntato dai sacrosanti inviti alla pace e a deporre le armi, e da una serie di documenti e interventi, più o meno ufficiali, improntati alle tematiche ecologiste e arcobaleno, giustificati dal «cambiamento d’epoca» su cui insiste spesso Francesco.

Il 4 ottobre scorso, giorno di apertura del Sinodo sulla sinodalità, il Pontefice ha promulgato la Laudate Deum, esortazione apostolica rivolta «a tutte le persone di buona volontà sulla crisi climatica», sposando univocamente le tesi dell’ecologismo radicale e, in qualche passaggio, legittimando le manifestazioni dei militanti più estremi che «occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta a ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli». L’esortazione doveva servire da testo base per la partecipazione alla Cop28 di Dubai tra i grandi della Terra, poi disertata da Joe Biden e Xi Jinping e rivelatasi un fallimento. E solo una provvidenziale bronchite ha convinto Francesco, dietro parere medico, a consegnare l’intervento al Segretario di Stato Pietro Parolin.

L’8 novembre, rispondendo ai dubia di monsignor José Negri, vescovo di Santo Amaro in Brasile, una Nota preparata dal Dicastero per la dottrina della fede retto dal cardinale argentino Victor Manuel Fernandez (da poco chiamato in quel ruolo da Bergoglio) e dal Papa sottoscritta, concede, se non c’è pericolo di pubblico scandalo, l’accesso al battesimo alle persone transessuali, ai figli di coppie omoaffettive adottati o anche nati con l’utero in affitto, nonché la possibilità alle persone transessuali o omosessuali di essere padrini di battesimo.

Il 18 dicembre papa Francesco controfirma la Fiducia supplicans, altro testo redatto dal cardinal Victor Manuel Fernandez che dispone la possibilità, in determinate situazioni (durante un pellegrinaggio, la visita a un santuario, l’incontro con un sacerdote) di benedire coppie formate da persone appartenenti allo stesso sesso. Nel testo si precisa che la benedizione non equipara l’unione al matrimonio, ma allora non si capisce perché la stessa non possa essere impartita singolarmente. Non sarà, chiediamo umilmente, perché si tratta di una forma d’indulgenza anche verso la natura della relazione della coppia? Complessivamente, non siamo di fronte a rivoluzioni dottrinali, ma a piccole e ambigue erosioni, dettate da preoccupazioni pastorali.

Due giorni dopo, il 20 dicembre, nel corso dell’udienza generale del mercoledì, al momento dei saluti, papa Francesco si ferma per incoraggiare Luca Casarini e il gruppo di Mediterranea Saving Humans che salva coloro che «fuggono dalla schiavitù dell’Africa» (testuale), prima di intrattenersi con i militanti della stessa Ong, esortandoli a tornare in mare. Così mostrando totale disinteresse per l’inchiesta aperta dalla Procura di Ragusa nei confronti di Mediterranea per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per il discutibile uso fatto dei fondi versati da alcune diocesi alla società dell’ex capo delle Tute bianche nonché discepolo di Toni Negri. Avendolo nominato padre sinodale e portavoce per un giorno del Sinodo, lo stupore è minimo.

A fronte di questi documenti e di queste esternazioni, nello stesso periodo si registra l’inflessibilità della Santa Sede a riguardo di vescovi e cardinali che, pur sollecitati a esprimere pubblicamente il loro dissenso, non si sono allineati al dettato papale. L’11 novembre Francesco ha sollevato senza processo dalla guida della diocesi di Tyler (Texas) monsignor Joseph Strickland per aver espresso critiche al Sinodo e per il mancato rispetto della Traditionis Custodes, il motu proprio con cui Bergoglio ha ristretto la possibilità di celebrare la messa in latino (consentita da Benedetto XVI). Il 28 novembre il Pontefice ha deciso di licenziare il cardinale Raymond Leo Burke (già nominato da Ratzinger prefetto del tribunale della Segnatura apostolica), togliendogli casa e stipendio per aver firmato nel 2016 i dubia sull’Amoris Laetitia e, più di recente, quelli sul Sinodo. Due provvedimenti che forse si potrebbero definire poco sinodali. E che, raffrontati alle aperture in tema di morale sessuale e tutela dell’ambiente, sottolineano ulteriormente il profilo politico di un pontificato che piace sempre di più ai non cristiani.

Intanto, a inizio 2024, si attende la nuova ospitata di Jorge Mario Bergoglio nel salotto tv di Fabio Fazio.

 

La Verità, 22 dicembre 2023

«Sono maestro, ma non mi perdonano la bellezza»

In questi giorni il maestro Beatrice Venezi sta provando L’amico Fritz di Pietro Mascagni all’Opera Holland Park di Londra, dove debutterà il 16 luglio. È il motivo che giustifica il dispiacere di non poterla intervistare in presenza. Perché, se nome e cognome evocano un’idea di bellezza, la presenza la incarna. «Prometto che la prossima intervista sarà di persona», concede Beatrice. Citata nel 2018 dalla prestigiosa rivista Forbes tra i 100 under 30 italiani più influenti, direttore principale della Nuova Scarlatti di Napoli e dell’Orchestra sinfonica Milano classica, richiesta dai maggiori teatri del Sudamerica e dell’Asia, a fine settembre Venezi dirigerà l’Orchestra dell’Olimpico di Vicenza nell’Histoire du soldat di Igor Stravinski, titolo che aprirà il ciclo dei Classici diretto da Giancarlo Marinelli, autore anche della regia dell’opera inaugurale.

Come devo chiamarla, signora Venezi?

«Maestro è il titolo corretto».

Ci si può battere per l’emancipazione femminile anche da direttore?

«A maggior ragione. Condivido il pragmatismo del Paese in cui mi trovo, per il quale ciò che si fa più del modo in cui si viene chiamati. Non condivido la declinazione forzatamente femminile dei ruoli, mi interessa di più battermi per la parità salariale e delle opportunità professionali. Però questa è solo una mia convinzione e nutro massimo rispetto per chi la pensa diversamente».

Perché qualche anno fa a Teheran non l’hanno fatta dirigere?

«L’ambasciata italiana preferì cancellare all’ultimo momento il concerto temendo potesse causare risentimento in parte della popolazione. Era il 2019 e c’erano motivi di tensione con gli Stati Uniti e i rappresentanti del mondo occidentale perciò fu ritenuto prudente non esacerbare quelle tensioni».

Ha incontrato ostacoli anche in altri Paesi?

«Ogni Paese ha un proprio protocollo e il rispetto di determinate forme. Per esempio, il Giappone e la Russia. Ma in nessuno c’è il pregiudizio diffuso che si percepisce in Italia».

Che tipo di pregiudizio?

«Mi piacerebbe semplificare dicendo che colpisce le donne che siedono in posti apicali. In realtà, è una forma di avversità più vasta e sottile, che riguarda tutto ciò che mette in discussione posizioni acquisite, dal ricambio generazionale alla questione femminile».

Il suo aspetto è più di aiuto o di ostacolo alla carriera?

«Direi di ostacolo».

Perché?

«Perché si ritiene che una donna che voglia essere culturalmente credibile debba rinunciare alla cura del proprio aspetto. È un luogo comune difficile da scalfire. Nel mio settore la bellezza non aiuta, mentre in una cantante è ben vista».

Anzi, è valorizzata.

«Non così per un direttore, che è un ruolo di comando. In un leader bellezza e autorevolezza sono ritenute quasi incompatibili».

Come sarà la sua estate dopo il debutto londinese?

«Resterò qui fino a fine luglio, poi dirigerò alcuni concerti all’inizio di agosto. Per ripartire in settembre dal Teatro Coliseo di Buenos Aires con un evento più volte rimandato per la pandemia. Nella prossima stagione sarò felice di recuperare altri debutti rinviati in Francia».

La sua attività è stata molto penalizzata dal periodo di restrizioni?

«Non mi posso lamentare perché ho lavorato molto, però principalmente in Italia e nei Paesi vicini. Mentre abbiamo cancellato alcuni appuntamenti in Sudamerica e in Giappone. Auspico che riusciremo a tenere sotto controllo il virus grazie alle diverse misure. Temo sia difficile sconfiggerlo definitivamente, ma spero che diventi una malattia endemica, così da riuscire a conviverci senza fermare il mondo».

L’estate si concluderà con la direzione al Teatro Olimpico di Vicenza di Histoire du soldat scritta da Stravinski nel 1918 durante l’epidemia di spagnola. Come si sta avvicinando a quest’opera?

« Il contesto in cui è nata la rende molto contemporanea. Inoltre, quest’anno ricorre il cinquantesimo della morte di Stravinski, un autore fondamentale per l’evoluzione dello stile compositivo. Marinelli ha impostato un grande lavoro per portare in scena un’opera che, pur appartenendo al repertorio sinfonico, ha una notevole componente drammatica».

Che cosa può dire un testo scritto durante la Prima guerra mondiale all’uomo contemporaneo?

«Histoire du soldat conserva una forza evocativa particolarmente pregnante proprio in rapporto al periodo in cui è stata concepita. È un’opera da leggere, recitare e danzare, come potrà vedere il pubblico dell’Olimpico. Quasi una favola per bambini che ci permetterà di tornare ai ricordi dell’infanzia, quando le mamme leggono le storie ai figli, con qualcosa di consolatorio».

Anche noi come il soldato protagonista rischiamo di vendere l’anima al diavolo in cambio di una ricchezza illusoria?

«È un rischio della società contemporanea. Credo che viviamo un momento molto strano, con difficoltà che il Covid ha amplificato. Vedo il rischio di credere in falsi miti, una faciloneria nel combattere battaglie di cui sappiamo poco. Ci appassioniamo a opinioni che ci vengono vendute in scatola. Ne parlavano alcuni grandi artisti già negli anni Sessanta. Quella che allora era leggerezza è divenuta superficialità nell’approcciare temi complessi in base alle mode. Vendere l’anima vuol dire non applicare il pensiero critico, ma allinearsi al flusso corrente».

La parola dell’epoca era omologazione.

«Aggiornandoci, potremmo parlare di globalizzazione».

Nel dibattito attuale sui diritti delle minoranze c’è qualcosa che la colpisce in particolare?

«Trovo malata la tendenza a pensare di guadagnare un diritto nel momento in cui lo si toglie ad un altro. È un comportamento lontano dalla democrazia».

In che caso?

«In occasione della polemica che mi ha riguardato ho chiesto di essere chiamata in un certo modo senza ledere il diritto di nessuno. Ma tra esponenti di alto livello della politica è partita la gara a screditare la mia figura con un metodo che ritorna, per esempio a proposito di vax e no-vax. Oppure quando si trattano le donne come una minoranza da proteggere. A volte il pragmatismo soccombe sull’altare dell’ideologia».

Quando l’ha visto?

«Certe scene del Gay pride non mi hanno fatto piacere. Ho amici che hanno un orientamento diverso dal mio. Tuttavia, la derisione della figura di Cristo da parte di un manifestante in minigonna e tacchi a spillo, da cristiana mi ha infastidito. Non sono nessuno per dare giudizi, mi chiedo se per affermare un proprio diritto ci sia bisogno di sbeffeggiare il credo di altre persone. In una società democratica dobbiamo tutti cercare le forme di una pacifica convivenza».

Concorda con il maestro Riccardo Muti che al Corriere della Sera ha detto che si fa troppo poco per promuovere l’arte musicale italiana?

«Ne sono convinta; in maniera molto più modesta lo dico da tempo. La politica non vede il nostro patrimonio culturale e artistico come un asset vincente, mentre il nostro Paese potrebbe vivere di questo».

Qual è il sentimento di una donna gratificata dai riconoscimenti della musica italiana nel mondo che si ritrova in patria in situazioni di povertà di mezzi e trascuratezza?

«Piange il cuore. Nel nostro Paese prevale l’esterofilia che influenza interi cartelloni teatrali dove compaiono pochi o nessun artista italiano a vantaggio di altri, stranieri, più o meno noti. Anche le nostre maestranze dovrebbero essere sostenute dai teatri finanziati dallo Stato. Tanto più dopo una lunga sosta forzata che ha costretto molti lavoratori dello spettacolo a cambiare lavoro… Rincorriamo la star straniera che risulta più interessante ed esotica, mentre all’estero vengono apprezzati gli artisti italiani».

Se dovesse dare un suggerimento discreto al ministro della Cultura Dario Franceschini per favorire l’avvicinamento alla musica dei giovani che cosa gli direbbe?

«Gli direi che bisogna credere nel ricambio generazionale. Nel nostro Paese ci sono tanti giovani talentuosi e competenti che non vedono l’ora di prendersi delle responsabilità. I bamboccioni sono il risultato della mancanza di opportunità non il contrario».

Un lavoro che deve partire dalle scuole e dai conservatori?

«Confermo. I conservatori sono pensati per chi vuole provare a fare della musica una professione. Quello che manca è il primo livello: stimolare i ragazzi partendo dai programmi scolastici. Non bastano tre anni di flauto traverso per apprezzare la musica classica. Il secondo livello riguarda la comunicazione degli enti sinfonici e operistici, affinché i teatri non siano percepiti come luoghi elitari. Il terzo livello coinvolge l’intrattenimento. In Francia, Germania e Gran Bretagna si trovano programmi televisivi di musica classica anche in prima serata. In Italia i canali dedicati sembrano oasi del Wwf. Invece Alberto Angela dimostra che si può avvicinare a temi complessi il grande pubblico».

Che cosa può trasmettere ai giovani di Instagram una figura come Giacomo Puccini a cui, da sua concittadina, ha dedicato il primo disco?

«Proprio la modernità, perché fu un compositore dirompente per la velocità della narrazione, più simile al linguaggio cinematografico che a quello dell’operistica precedente. Un linguaggio che racconta l’amore per la donna e la ricerca della donna ideale con la chiave d’accesso giusta anche per un pubblico di neofiti».

Come giudica il correttismo che sta investendo il repertorio operistico?

«Lo trovo sbagliatissimo. La lirica esprime spesso una sensibilità diversa da quella contemporanea, ma nascondere la storia indorando la pillola è molto fuorviante. Cambiare il copione di Carmen per evitare il femminicidio vuol dire sminuirne la grandezza, perché lei sceglie di morire per difendere la propria dignità».

Ci può anticipare qualcosa del prossimo disco?

«L’ho appena registrato per Warner music con la magnifica Orchestra Haydn di Bolzano. Non è un lavoro monografico, ma una sorta di playlist che raccoglie una serie di eroine e antieroine dalle pagine sinfoniche dell’opera, da Giovanna d’Arco a Salomé, da Lady Macbeth a Maria de Bueons Aires».

Guardandosi dall’esterno qual è il primo sentimento che prova?

«Sono molto orgogliosa di quello che sono riuscita a fare pur non venendo da una stirpe di musicisti. Anche se è ancora molto poco rispetto a quello che spero potrò fare e forse farò nel prossimo futuro».

 

La Verità, 10 luglio 2021

«I nuovi diritti rimuovono il dato della natura»

Perle nella conchiglia di un linguaggio piano, ma denso e profondo. Sono le risposte del cardinal Camillo Ruini, 89 anni, 17 dei quali trascorsi come presidente della Conferenza episcopale italiana. Insieme con Gaetano Quagliarello ha pubblicato da Rubbettino Un’altra libertà – Contro i nuovi profeti del paradiso in terra. Un dialogo sulla società contemporanea e il ruolo della Chiesa, curato da Claudia Passa. Un dialogo che il cardinale ha preferito non allargare ad altri argomenti nevralgici, come l’incontro con Matteo Salvini e il dibattito sul celibato dei sacerdoti.

La riflessione che conduce con Gaetano Quagliariello prende le mosse dall’Evangelium vitae nella quale Giovanni Paolo II attribuiva le minacce alla vita all’estensione del concetto di libertà individuale. A un certo punto osserva che, confermata l’attualità di quell’enciclica, «oggi la situazione si è appesantita». In che cosa vede questo appesantimento?

«Lo vedo in particolare, per quanto riguarda l’Italia, sul versante della fine della vita, dove purtroppo si è fatto spazio al suicidio assistito e all’eutanasia, pur cercando di evitare queste parole».

Con la crisi delle ideologie e del marxismo in particolare, anziché «perseguire la costruzione della società perfetta si cerca l’esistenza perfetta». Ne è una conferma la trasformazione dei partiti comunisti in partiti radicali di massa. È da qui che nascono i «nuovi diritti» e la rivoluzione antropologica in atto?

«I cosiddetti nuovi diritti e la rivoluzione antropologica nascono da una parte dall’assolutizzazione della libertà individuale, per la quale i desideri diventano diritti, dall’altra parte dallo sviluppo scientifico e tecnologico che ha reso possibile una trasformazione dell’uomo ottenuta non per via economica e politica, come pensava Marx, bensì intervenendo direttamente sulla nostra realtà biologica. Il fallimento dell’utopia marxista, sancito dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione sovietica, ha spinto molti marxisti a trasferire dalla società all’individuo la loro ricerca del paradiso in terra, come aveva previsto Augusto Del Noce».

È un’errata concezione della libertà individuale che autorizza l’uomo a disporre della vita e della morte attraverso l’interruzione della gravidanza e le pratiche eutanasiche?

«Direi di sì. Si tratta sempre di una falsa assolutizzazione della nostra libertà, come se ci fossimo dati la vita da soli e avessimo imparato da soli a comportarci da persone libere».

In materia di eutanasia, dal caso di Eluana Englaro a quello di Alfie Evans fino a quello di Dj Fabo, abbiamo assistito alla supplenza o invadenza di organismi giuridici in assenza di normative. Pensa si debba ammettere una presenza troppo flebile della comunità cristiana e delle massime gerarchie su questi temi?

«Penso sia giusto distinguere: avremmo potuto e dovuto fare di più, ma non si deve dimenticare che in molti casi, compresi quelli da lei citati, la Chiesa ha parlato chiaro e forte, anche se molti mezzi di informazione hanno preferito ignorare la sua voce».

Un esempio di libertà sganciata dalla responsabilità è dato dal fatto che, mentre si considera intoccabile il diritto all’aborto, si vogliono aver figli ricorrendo alle biotecnologie e all’utero in affitto?

«Il vero problema è che non si considera il figlio come una persona, ma come qualcosa di cui i genitori possono disporre, sopprimendolo se non è gradito, o invece procurandoselo in qualsiasi modo, anche con il ricorso all’utero in affitto».

Già nel 2005 Papa Benedetto XVI mise in guardia dalla «dittatura del relativismo». Oggi questo comportamento si è rafforzato sulla spinta del pensiero politicamente corretto, nuova «religione secolare»?

«Il relativismo fa certamente parte del “politicamente corretto”. La “dittatura del relativismo” pretende che il relativismo sia l’unico atteggiamento giusto e valido, cadendo così in una curiosa contraddizione perché proprio il relativismo sarebbe giusto in sé e non relativo ai nostri punti di vista».

C’è il pericolo che attraverso il politicamente corretto si affermino le dittature delle minoranze?

«Non si tratta soltanto di un pericolo, ma di una cosa che si è verificata varie volte, in particolare riguardo alla concezione del matrimonio e della famiglia».

I nuovi diritti hanno in comune la relativizzazione o l’annullamento del dato di natura?

«Purtroppo sì. L’idea di fondo è che una natura umana propriamente non esista e che noi siamo integralmente plasmati dall’ambiente in cui viviamo, dalla nostra cultura, dalle nostre scelte».

Come interpretare la tendenza a equiparare i rapporti omosessuali a quelli eterosessuali aperti alla procreazione e la diffusione crescente della teoria del gender?

«È un aspetto della dittatura del relativismo. L’omosessualità è sempre esistita e nel corso della storia il matrimonio si è configurato nelle forme più diverse, pensiamo alla poligamia e anche alla poliandria. Mai nessuno però aveva pensato a un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Che oggi lo si rivendichi come una conquista di civiltà è il segno della profondità della crisi che ci attanaglia».

Il diritto a emigrare sembra contare più adesioni del diritto a crescere dove si è nati. L’emergenza migratoria dev’essere affrontata con l’accoglienza senza limiti o attraverso la pianificazione della politica?

«Non si tratta solo di un’emergenza, ma di un fenomeno di lungo periodo. Per governarlo bisogna coniugare le esigenze della solidarietà e dell’accoglienza – non dimenticando mai che per un cristiano ogni uomo è un fratello – con quelle del rispetto della legalità e della sicurezza dei cittadini, reprimendo le organizzazioni criminali che prosperano sull’emigrazione clandestina, sullo spaccio della droga e sullo sfruttamento della prostituzione. Sviluppare una cultura dell’accoglienza non significa affatto rinunciare ai nostri valori, senza dei quali non c’è futuro per noi».

Il multiculturalismo è un valore in sé stesso?

 «La molteplicità delle culture è un dato di fatto, da accogliere positivamente, ma non è un valore in sé, tanto meno il valore primo e il criterio decisivo a cui fare riferimento. In particolare per i credenti in Gesù Cristo il valore primo non può essere altro che Cristo stesso: proprio da lui impariamo ad amare il nostro prossimo, compresi coloro che la pensano diversamente da noi».

Un’altra emergenza è la salvaguardia del pianeta che nelle sue forme più intransigenti arriva a equiparare l’uomo alle altre specie animali, quando a non a considerarlo nocivo per la terra. Fatto salvo il rispetto del pianeta, come ritrovare equilibrio nel rapporto con l’ambiente?

«Rispettare e salvaguardare il nostro pianeta è oggi un’esigenza prioritaria, una questione di vita o di morte per l’intera umanità. Tutto questo però non ha nulla a che fare con l’equiparazione dell’uomo agli altri animali. Per la fede cristiana l’uomo è l’unica creatura visibile fatta a immagine di Dio. Ma anche su un piano semplicemente razionale la singolarità dell’uomo emerge chiaramente: è sufficiente pensare a quel fatto imponente che è lo sviluppo della cultura. Sia la fede sia la ragione ci dicono inoltre che dobbiamo impiegare questa nostra superiorità non per distruggere il resto della natura, ma per custodirlo».

L’ambizione di realizzare l’esistenza perfetta, che escluda imprevisti, dolore, handicap, si basa sulla presunzione di onnipotenza della scienza?

«La scienza autentica – in concreto i veri uomini di scienza – conosce meglio di noi i limiti della scienza stessa. Un’esistenza perfetta rimane comunque un’illusione pericolosa, che si ritorce contro di noi».

A suo avviso come può essere letta l’esplosione del coronavirus e il senso di insicurezza che comporta? Che riflessione ci impone sulla scienza, sulla caducità dell’uomo, sull’accettazione del limite?

«L’esplosione del coronavirus è un enorme imprevisto che condiziona la nostra vita e ci ha obbligati a modificare repentinamente i nostri modi di vivere, di lavorare, di rapportarci a vicenda. Certo, è una conferma di quel che ho appena detto sui nostri limiti. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: proprio questa pandemia sollecita l’impegno di tutti, ci fa meglio comprendere l’importanza della solidarietà, mette in luce un coraggio, una dedizione, una capacità di sacrificio che ci ha sorpreso positivamente. Così il coronavirus è un grande appello a essere migliori: detto con le parole del Vangelo, un appello a convertirci».

E che riflessione suggerisce sulla globalizzazione?

«L’intensificazione dei rapporti e degli scambi a livello mondiale contribuisce certamente alla rapida diffusione di questa epidemia. Non dimentichiamo però che cent’anni fa il contagio della “spagnola” non fu meno violento».

Dall’esplosione dell’epidemia conviviamo con la paura. Solo una presenza portatrice di speranza può aiutare a vincerla, come accadde agli apostoli sulla barca con Gesù mentre il mare era in tempesta. In un momento così crede che la Chiesa dovrebbe far sentire di più la sua voce ai credenti e a tutti i cittadini?

«Di fronte al coronavirus, e in genere di fronte ai mali che ci minacciano, come credenti chiediamo nella preghiera l’aiuto di Dio. Questa semplice richiesta ci fa riscoprire un aspetto fondamentale della nostra fede, che Dio cioè non è soltanto un Signore lontano e un po’ astratto, ma è il Padre che si cura di noi e che tiene nelle sue mani le vicende del mondo».

In conclusione, se dovesse suggerire una parola o un esempio ai cristiani del Terzo millennio, che cosa direbbe?

«Preferisco limitarmi all’esempio, che è quello datoci da Giovanni Paolo II. Gli sono stato vicino per vent’anni, ho visto come egli viveva alla presenza di Dio e perciò non aveva paura ed esortava tutti a non avere paura e a fidarsi di Dio. Viviamo in anni difficili, per la Chiesa e per l’Italia, e spesso ci siamo allontanati da Dio, ma Dio non si è allontanato da noi: la nostra vita e la nostra speranza possono e devono fondarsi su di Lui».

  La Verità, 15 marzo 2020

«Cristo ci ha stravolto la vita e il rock»

Entri nella casa di Francesco Lorenzi, sulle colline sopra Marostica, e sei in un altro mondo. Già l’esterno, interamente bordeaux, promette bene. Dentro sei circondato da legno di rovere e ardesia, davanti a un’enorme parete di vetro che domina la valle a sud. Se l’è progettata e costruita con l’aiuto di un geometra e alcuni artigiani. Al piano superiore living e zona notte, al piano inferiore studio e sala di registrazione. «Ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta. Trovare il terreno e avere i permessi sono state le cose più difficili. Volevo un posto silenzioso, nella natura, in faccia al sole». 35 anni, viso aperto e parlata schietta, Francesco Lorenzi è il leader (autore, cantante e chitarrista) dei The Sun, la band composta con altri tre ragazzi vicentini che a dicembre ha festeggiato vent’anni con un doppio album, 20 appunto. In due decenni il cambiamento è stato profondo: sono diventati cristiani. Il sole però c’entrava anche quando si chiamavano Sun eats hours, traduzione inglese del detto contadino el sol magna ’e ore: il sole mangia le ore, presto fa buio. Solo che per un gruppo punk era una citazione dark.

Dal punk al rock, dall’agnosticismo al cristianesimo: cos’è successo?

«È successo che a un certo punto ho cominciato a guardarmi attorno. Avevo sempre sognato in grande e mi ritrovavo senza pace, armonia, allegria. Privo di un significato di quello che facevo. La musica doveva essere garanzia di una vita speciale, invece… Che cosa mi rende davvero libero, aldilà di una piacevolezza fuggevole?».

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Di solito a questo punto le band si sciolgono.

«Io e Ricky, il batterista, fondatori del gruppo, avevamo deciso di non suonare più insieme. Eravamo prigionieri dei cliché, lui anche dell’alcol. A Matteo, il bassista, invece andava bene così».

Che cosa successe?

«Non riuscivo a scrivere il nuovo album che doveva portarci negli Stati Uniti. Ero incupito. All’epoca convivevo con una ragazza spagnola e la sera del 10 dicembre 2007, quando andai a cena dai miei genitori, persone solide e realizzate, mia madre mi mostrò il volantino che proponeva un incontro di riflessione in una parrocchia: “Magari dicono qualcosa che ti può interessare”, suggerì. La curiosità è che i miei non erano assidui praticanti».

E lei ci andò…

«Pensavo di trovare preti e anziani, invece l’incontro era tenuto da ragazzi della mia età che raccontavano la vita di Gesù attraverso il vangelo di Giovanni. Lo facevano con un tale entusiasmo che ne fui rapito. Mi dicevo: questi ragazzi di lunedì sera si trovano a parlare di Gesù Cristo… Che cos’hanno trovato che io non ho visto?».

Poi?

«La notte ho cominciato a leggere il vangelo e la sera dopo sono tornato perché quel primo incontro era parte di un corso. Vedevo persone luminose…».

La faccenda si faceva seria.

«In una cappellina di quella parrocchia da 22 anni si fa l’adorazione eucaristica 24 ore su 24: persone sostano in contemplazione davanti al tabernacolo. Don Lino Cecchetto – il mio Cecchetto – mi propose di partecipare. Scegliemmo l’ora dall’una alle due del mercoledì notte. Pian piano quel momento ha influenzato il resto della vita».

La sua conversione ha trascinato quella degli altri, sembra una storia un po’ automatica.

«Quasi tutti mi consigliavano di andare avanti come solista. Io pensavo che quello che avevo trovato serviva a poco se non lo condividevo con gli amici di sempre. Ognuno di loro aveva problematiche particolari. Scelsi di affrontare l’argomento prima con Matteo, poi con Gianluca, l’altro chitarrista, infine con Riccardo. All’inizio i miei argomenti risultavano debolucci, poi cominciò a nascere anche in loro qualche domanda. Hanno avuto il merito di fidarsi senza fermarsi alle apparenze. Ora Ricky fa l’adorazione con me».

Il libro in cui Francesco racconta la sua storia con prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Il libro di Francesco, prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Come risuona una conversione in note?

«La musica non poteva più essere puro intrattenimento. Sentivamo l’urgenza di essere costruttivi e vitali, nel senso nobile del termine. Volevamo aiutare le persone a incontrare la bellezza che c’è in ognuno di noi. Certo, tra capirlo e farlo c’è un abisso».

Citando il modo di guardare agli idoli del passato: chiedi chi erano i Beatles; oppure: volevamo essere gli U2. Come sono cambiati i vostri modelli di riferimento?

«I punti di riferimento erano le band della scena punk come gli Offsprings, i Green day, i Bad religion. Avendo suonato insieme ad alcune di loro, cominciavamo a coglierne la debolezza. Quella della rockstar era una parte da recitare: trovata la formula del successo, la si ripete. Ma a vent’anni non sei lo stesso di quando ne hai 50. Fu una delusione. Pensavo che la musica doveva rispecchiare quello che avevamo incontrato. Avevamo una strada nuova davanti, senza idoli da imitare. Era tutto da inventare. Ed era una sensazione di grande libertà».

Come hanno reagito i fan storici?

«Erano incazzati, si sentivano traditi».

E le case discografiche, la critica?

«Con la Rude records, un’ottima etichetta, ci fu il divorzio. Li capisco: aspettavano il quinto album in inglese e io mi sono presentato in ritardo con i pezzi scritti in italiano. Niente disco e tournée saltata: l’incontro con Cristo ci aveva rivoluzionato la vita e la musica, ma si era rivelato un cataclisma professionale. Universal, Emi, Warner si ritirarono: “Queste canzoni sono troppo positive”. Dicendola secca: quello che fa vendere è tirar merda. Non è stato facile non scendere a compromessi, anche perché ci sono argomenti molto convincenti».

Avete tentennato?

«Abbiamo creduto che avremmo trovato spazio. Sarò sempre grato a Roberto Rossi, il direttore artistico della Sony che, non conoscendo la nostra musica precedente, ha avuto più facilità ad accorgersi che la nostra proposta riempiva un vuoto. Sony pubblicò Lo spirito del sole senza toccare una virgola».

Saranno cambiati anche i circuiti dei tour?

«Prima suonavamo nei festival rock, oggi nelle piazze, nei campi profughi, nelle basiliche, nei cinema, nei teatri, negli ospedali, nelle zone di guerra: la musica può circolare ovunque. Abbiamo suonato davanti a papa Benedetto XVI, a papa Francesco, in Terra santa».

Siete una band di christian rock?

«È avvilente che per esigenze giornalistiche ci abbiano affibbiato questo nickname. La nostra musica non ha nulla da invidiare agli artisti che ascoltiamo massicciamente nei network. Stiamo provando a far capire che siamo dei cristiani che fanno rock. Spero sia concesso».

Ne dubita?

«Dobbiamo dimostrare due volte quello che valiamo. In un certo senso è una spinta a dare il meglio di noi. Ma se qualche giornalista scopre la nostra musica perché il figlio viene al concerto, e vuole parlarne in tv o scriverne, quando emerge la nostra storia ed entra in campo il caporedattore, tutto si complica».

I vostri testi si sono riempiti di «luce», «sole», «amore», «scelta», la parola più ricorrente è «destino». Sentite troppo la preoccupazione del messaggio?

«Accetto la provocazione. Sento la responsabilità di trasmettere quello che ho incontrato perché vedo il vuoto esistenziale che deriva dalle produzioni di moda. È più difficile scrivere canzoni con un messaggio costruttivo che distruttivo».

Forse si può entrare nell’attualità con un giudizio, come avete fatto in Le case di Mosul.

«Ci sono canzoni con tonalità più scure come Le case di Mosul, L’alchimista o Dentro di me. Per noi è importante testimoniare che anche dentro esperienze di dolore può esserci una luce».

Le radio vi trasmettono?

«Difficilmente. La musica che passa nelle radio è frutto di accordi editoriali che non sempre considerano la qualità. Se cedi una parte dei diritti d’autore allora il network ti lancia, altrimenti no. Anche le tv premiano talenti prevalentemente estetici. Cantautori come Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Fabrizio de André oggi non esisterebbero».

Che rapporto avete con i social?

«Su Facebook c’è una community di 60.000 fan che s’informa sulla nostra attività. Per il resto, il nostro pubblico non sta moltissimo online».

Avete provato a partecipare a Sanremo?

«La Sony ci ha proposto nel 2010 con Antonella Clerici e nel 2011 con Gianni Morandi, ma alla selezione finale ci siamo fermati. Forse è stato meglio così perché nel frattempo siamo cresciuti. Magari l’anno prossimo, se Claudio Baglioni resterà, ci riproveremo. Si vede dalle decisioni che ha preso sul minutaggio e le eliminazioni che è un musicista».

Ha seguito X Factor?

«Un po’, anche se non è il mio mondo. I Maneskin hanno capito l’importanza della dimensione live, prima di uscire avevano già la tournée organizzata. Che approvi quello stile, no. Ma professionalmente devo riconoscere la qualità del prodotto».

Il cristianesimo coincide con i valori non negoziabili?

«In parte: ci sono argomenti non ritrattabili. La catastrofe del nostro tempo è il relativismo».

Un concetto caro a papa Ratzinger.

«Che amo profondamente. Credo sia giusto ripristinare un pensiero che riconosce l’esistenza del bene e del male, e dove ogni ruolo non sia intercambiabile. L’universo ci racconta un ordine, mentre l’uomo relativista gioca con questo ordine».

È questo il nucleo del cristianesimo?

«Questo ci aiuta a evitare che la confusione ci domini».

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un'udienza in piazza San Pietro

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un’udienza in piazza San Pietro

Più papa Benedetto XVI che papa Francesco?

«Anche papa Francesco comunica verità necessarie. La Laudato sii è una grande enciclica. Sbaglia chi la riduce a un testo ecologico. Bergoglio ha dato testimonianza prendendo posizione contro i poteri forti come i nostri politici non riescono più a fare».

Come guardate alla politica?

«Con grande interesse e grande dolore. Manca una proposta unitaria che rappresenti la sensibilità cattolica. È uno degli aspetti su cui diverse persone mi sollecitano a lavorare».

Il 4 marzo per chi voterà?

«Non ho ancora deciso. M’imbarazza vedere come i politici passino più tempo a criticare gli avversari che a dimostrare la qualità delle loro idee».

 

La Verità, 14 gennaio 2018