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«Racconto la neweconomy come una storia rock»

È da poco finito il pranzo della domenica che su La7 spunta Carlo Massarini. Non era il mitico Mister Fantasy, dal nome di un album dei Traffic che diede il titolo alla sua trasmissione? E non era un volto Rai? Un critico musicale, rock pop e jazz, che per primo aveva sconfinato nel mondo digitale? La guida di Cool tour e di Ghiaccio bollente, rubrica culturale e contenitore di concerti e storie su Rai 5? Lui: il programma che conduce adesso sulla tv di Urbano Cairo s’intitola Startup economy, c’entra sempre con l’avanguardia digitale, ma è tutt’altra faccenda. Non resta che chiamarlo per capirne di più… la voce va e viene. «Meglio se ci sentiamo sul telefono fisso», invita Massarini. «Lo uso poco, ma ho dovuto farlo installare perché, a sei chilometri dal Raccordo anulare di Roma, vivo in una di quelle zone grigie dove il segnale balla. La connessione è migliorata dopo peripezie e cambi di operatori… Ora vedo i filmati che per anni mi erano inibiti».

Non male come paradosso.

(Ride) «È una buona metafora della nostra Italia: una persona che ha sempre lavorato sull’avanzamento tecnologico ha una connessione balorda a casa».

Com’è nata l’idea di Startup economy?

«Diciamo che viene da lontano. Dal 1995 al 2002 ho condotto MediaMente su Rai educational, un programma sull’innovazione digitale ideato dal direttore Renato Parascandolo».

Pionierismo.

«Facevamo alfabetizzazione ad orari impossibili. Però funzionava. Avevamo coinvolto i migliori studiosi, gente come Derrik De Kerckhove. Internet era agli albori. Creammo anche il primo sito Rai. Il programma vinse dei premi, all’estero però».

E in Italia?

«Quando arrivò Giovanni Minoli a Rai educational decise di chiuderci, non era interessato».

Eravate troppo in anticipo?

«Forse. Ma credo che un servizio pubblico avrebbe potuto mantenere la postazione».

Ora Startup economy.

«Con il professor Francesco Sacco, conosciuto allora, abbiamo studiato questo format. Ci siamo prefissati di colmare un vuoto, di imprenditoria futura non parla nessuno. Trent’anni fa Apple, Amazon, Google, Facebook eccetera erano startup. Pensiamo a quello che sta facendo Elon Musk a proposito di ricerca sullo spazio. Tutti i grandi marchi sono sostenuti da piccole aziende ad alta specializzazione. Nei paesi più avanzati sono filiere che incidono sul Pil. In Italia ancora no, ma comincia a muoversi qualcosa in gruppi come Enel ed Eni che finanziano le startup utili ai loro processi. O nell’economia bancaria, che è un’incubatrice. Mettendo tutto insieme è nato questa specie di periscopio sul futuro».

Come si parla di economia digitale in tv?

«Non ci rivolgiamo solo agli smanettoni, agli iniziati, per i quali dobbiamo essere credibili, ma a tutti. Perciò dobbiamo essere comprensibili, accessibili. Quando ci imbattiamo in qualche termine specifico lo traduciamo con il nostro “wiki”, un decodificatore che fa la spiega in tempo reale e aiuta a familiarizzare con espressioni che a volte sento anch’io per la prima volta».

Buona divulgazione.

«Divulgazione dell’innovazione. Una buona formula sono le storie. Anche quando parlavo di rock usavo le storie. Tutti conosciamo quella di Steve Jobs, un’epopea partita da un garage e culminata con il famoso “Stay hungry, stay folish”. Tra le tante, racconteremo la storia di un ragazzino del Togo, adottato da una famiglia parigina, che ha frequentato un college in Svizzera e creato una startup che abbatte del 90% le emissioni di Co2 di alcuni prodotti. Io non sono un chimico, ma lo vedremo alla prova».

Perché un programma così va in onda su La7 se lei è un volto Rai?

«La7 è stata disponibile e contiamo di tornare in autunno con un altro ciclo. La Rai mi rimbalza, come se non fossi mai passato da quelle parti. Hanno chiuso anche Ghiaccio bollente su Rai 5».

Prima era stato chiuso anche Cool tour.

«Non ho capito bene perché, forse costava più della media di rete, forse per altri motivi che ignoro. Era un programma itinerante…».

Era in anticipo anche con i videoclip, forse troppo?

«Mister Fantasy è stato il primo programma al mondo che ha trasmesso i videoclip. Merito di Paolo Giaccio. Anche MediaMente è stato il primo sulle tecnologie digitali. Due programmi di svolta. Mi costruivo dentro quello che incontravo fuori. O meglio, trovavo fuori il corrispettivo delle mie tensioni. In mezzo, nel 1986, c’era stato anche Non necessariamente; quello sì troppo precoce, come il figlio geniale che non ha avuto successo, ma era il più intelligente».

Perché la Rai non ha sviluppato quelle intuizioni?

«Bisognerebbe chiederlo ai direttori che si sono succeduti. A nessuno è venuto in mente di riprenderle. Io non credo ai complottismi, fatto sta che non si è fatto niente e dopo quasi vent’anni, durante il lockdown per il Covid, scopriamo che non c’è la banda larga e che la scuola è impreparata per la teledidattica».

Pigrizia, scarsa lungimiranza?

«C’è chi si giustifica dicendo che “il pubblico non ce lo chiede”. A me non basta: se fai servizio pubblico puoi creare attenzione e affezione per certi contenuti. Nella nostra tv si parla quasi solo di politica, dei temi legati all’innovazione e al futuro non c’è traccia. Nel mondo non è così. C’è chi studia e avanza, senza che lo si sappia. Ci accorgeremo del ritardo quando ci sarà la ricaduta concreta».

Tornando alla Rai?

«Ho smesso di farmi domande. Uno se le fa un anno, due, tre, poi dice come i ragazzi americani: “Grazie, è ora di andare via da casa”».

Com’è la new economy vista dall’angolo d’Africa del suo salotto?

(Ride) «È vero… ma c’è anche il Budda thailandese. Noi andiamo davvero in onda da casa. Mi piace l’arte di luoghi lontani. Ho coltivato una passione per la cultura africana, musica, letteratura, arredamento, simbologia. Mi piace mescolare il primitivo e il tecnologico come hanno fatto Brian Eno, Peter Gabriel, i Talking heads. Ho anche oggetti degli eschimesi canadesi che erano di mio padre…».

Ufficiale della Marina.

«Il più grande regalo che potesse farmi fu portarci a vivere in Canada per tre anni, dal 1959 al 1962. Un Paese che amo tuttora, il lato soft degli Stati uniti. Vivere lì è stato un grande privilegio, la possibilità di allargare l’orizzonte e imparare bene l’inglese. Così, quando sono arrivato alla radio, prima ancora di parlare al microfono, ho iniziato a tradurre i testi per Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz».

Domenica sulla t-shirt sotto la giacca spuntava David Bowie.

«Un po’ di musica trasmetterebbe l’elemento emotivo della new economy. Per ora mi limito alle citazioni».

Che musica ascolta oggi?

«Di tutto, senza distinzione. L’altro giorno ho comprato un disco di Selda Bağcan, una cantante turca. Blues, jazz, musica popolare, poco rock perché mi pare non abbia più molto senso. Preferisco le contaminazioni, le musiche che non conosco. È un fatto di curiosità, se restassi nella mia confort zone non mi sentirei cittadino del mondo».

Perché ha ripubblicato Dear Mr. Fantasy (Rizzoli Lizard) «foto-racconto di un’epoca musicale in cui tutto era possibile», dieci anni dopo la prima edizione?

«Era nato come un libro personale, realizzato con foto solo mie in una stagione in cui le star non erano blindate da manager, agenti, addetti stampa. Noi reporter stavamo a bordo palco, andavamo nel backstage. Oggi è un libro generazionale che include artisti fondamentali fotografati da altri come Frank Zappa, Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Fabrizio De André, e altri che magari hanno avuto notorietà più breve, ma sono stati importanti per me».

Se dovesse indicare la principale differenza tra la musica di quel decennio e il presente quale sarebbe?

«Sono tante. La prima è questa: per acquistare Mr. Fantasy, il disco della mia vita, dovetti aspettare tre mesi, dal novembre 1967 al marzo successivo. Era un disco d’importazione. Oggi un artista mette le tracce sul sito e istantaneamente sono su Spotify. Le case discografiche non ci sono più. L’idea stessa del disco è cambiata, si anticipano i brani in Rete, poi nel Cd ce ne sono altri… È tutto più liquido. Un’altra differenza è che allora c’era più creatività. Oggi, a causa del mercato intasato, si tende a ripetere la formula che si presume di successo. Nel rock di quegli anni rifluivano la politica e le domande esistenziali, oggi si ascolta la musica sul cellulare e con tre emoticon te la cavi. Detta in modo un po’ brutale: noi avevamo meno e andavamo in profondità, oggi si ha di più e si resta in superficie».

Com’è raccontata oggi la musica in tv?

«Non è raccontata. Ci sono X Factor, Sanremo, anche le monografie di Unici. Va tutto bene, ma manca un programma che racconti il passato e il presente, e sia una guida per l’ascolto».

C’è SkyArte.

«La guardo molto. Con una cifra più elegante e maggior credibilità è quello che era Rai 5. Ma anche SkyArte non ha un vero programma musicale».

Che cosa pensa dei talent show?

«Sono startup di interpreti. Marco Mengoni è figo, Emma Marrone è in gamba, anche se lontana dai miei gusti. I ragazzi sono soprattutto esecutori, prevalgono le cover. Se vincono un talent conquistano milioni di like e visualizzazioni, ma poi spesso si perdono perché non possono avere la scorza che si fa in anni di gavetta, sui palchi, nelle piazze minori. La tv non sempre dà il tempo di maturare».

La massima aspirazione di un cantante o musicista italiano è vincere un talent o il Festival di Sanremo?

«Sono le principali catene di successo. Se ti va bene sfondi. Ma sono due sprint. Credo che, se parliamo di arte, il successo vero sia una maratona, un traguardo che si raggiunge con il tempo. Un altro discorso riguarda i cantanti già affermati o con un buon retroterra. Può piacere o far inorridire, ma per esempio Achille Lauro si è presentato all’Ariston come tableau vivant. Non dobbiamo scandalizzarci. Le generazioni passano: i nostri eroi non sono gli stessi dei nostri figli, come quelli dei nostri padri non erano i nostri».

 

La Verità, 13 giugno 2020

 

«Sto lontana dai reality: la vita privata è privata»

Buongiorno Luisa Corna. Da qualche tempo la rivediamo in televisione con più assiduità: le manca un po’ di visibilità o le piacerebbe tornare a condurre un programma?

«Ma no. Ho fatto giusto un paio di interviste in Rai. E sono stata ospite quest’estate di Barbara D’Urso a Domenica live».

In che occasione?

«Avevo inciso un singolo in omaggio a Mia Martini in collaborazione con l’Associazione Minuetto onlus Mimì sarà. Sua sorella Leda mi aveva fatto conoscere Col tempo imparerò, un brano struggente registrato da Mia, proponendomi di cantarlo. Ho accettato con molta umiltà, per affetto verso di lei e tutte le donne che non si arrendono davanti alle difficoltà della vita».

Tornando alla televisione?

«Non mi manca. Mi mancherebbe se non avessi la possibilità dei concerti e del contatto con il pubblico che che per me è la cosa più importante. Ai live vedo che l’affetto dei fan c’è sempre. Poi oggi ci sono anche i social…».

Perché a un certo punto l’abbiamo persa di vista?

«Nel 2011 ho scelto di dedicarmi alla musica. In questi anni la televisione ha cominciato a privilegiare un tipo di programmi nei quali non mi ritrovo. Varietà se ne fanno sempre meno, tutto gira intorno ai reality show. Me ne hanno proposti alcuni, ma ho preferito rimanerne fuori. Non per snobismo, ma perché non mi sentirei a mio agio».

Però li guarda?

«Capita».

Che cosa in particolare non la convince?

«Vorrei andare in televisione per esprimere ciò che so fare. Non voglio sembrare presuntuosa, ma mi sembra che nei reality devi metterti in gioco con tutta te stessa. Penso che la vita privata debba restare tale, mentre nei reality è la parte principale. Non do giudizi, semplicemente non fa per me».

Com’è sbocciato il suo amore per la musica a Palazzolo sull’Oglio?

«Da bambina. All’oratorio, padre Lino suonava il pianoforte e io stavo sempre ad ascoltarlo. Dopo un po’ m’inserirono nel Coro della Rocchetta di Palazzolo. Quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande rispondevo sempre allo stesso modo. Da piccoli si è determinati e a volte i sogni si avverano. A 16-17 anni ho iniziato a frequentare a Milano il Centro professione musica di Franco Mussida della Premiata Forneria Marconi. Poi anche il Centro teatro attivo, per togliermi l’accento bresciano e imparare a intrattenere. Vedevo Mina che sapeva cantare e condurre, vedevo i musical nei quali bisognava saper fare tutto…».

Chi erano i suoi insegnanti?

«Daniela Ghiglione, Lella Costa…».

Poi cosa accadde?

«Iniziai a esibirmi nei locali con un gruppo che si chiamava Te chì la band, in dialetto milanese, con chiara allusione al liquore messicano».

Con che musica è cresciuta?

«Con il blues e il soul, con Stevie Wonder e gli standard jazz. Poi Mina, Lucio Battisti, Fabrizio De André».

Il primo concerto?

«Paolo Conte e poi Giorgio Gaber».

Il primo disco?

«Uno di Mina, poi Celentano che ascoltavano anche i miei».

Come presero la sua volontà di fare la cantante?

«Mio padre aveva un’azienda e io stessa avevo studiato ragioneria nella prospettiva di lavorare in famiglia. Quando si accorse che mi piaceva cantare, pur con un filo di perplessità – perché insomma, il lavoro è un’altra cosa – mi disse: “Se vuoi, provaci. Però qui il posto ce l’hai sempre”».

Ma le cose andarono bene…

«Entrai nel coro di Miguel Bosè. Poi m’iscrissi al Festival di Castrocaro, presentandomi da sola… Conducevano Gigi Sabani e Rosita Celentano. Ogni settimana ti richiamavano se superavi le selezioni in base al gradimento del pubblico».

E?

«Arrivai seconda. Anzi, prima mi avevano detto che avevo vinto, poi si corressero, in diretta».

Poi però tradì la musica per la moda…

«Mi avvicinarono nei locali dove cantavo: “Perché non provi qualche servizio fotografico?”. Ci pensai un po’, non avevo vent’anni, ma poteva essere un modo per mantenermi. Entrai nella Fashion, una delle agenzie più importanti. A una delle prime sedute c’era anche Fabrizio Ferri… Ho girato il mondo, sono stata più volte a New York, in Australia, l’Europa l’ho vista tutta. È stato un periodo intenso, ho imparato tanto».

Quando tornava a Palazzolo pativa lo sbalzo dal mondo glam alla vita del paese?

«Ho una famiglia unita, torno volentieri a casa. Dicono che quelli del Sagittario siano persone curiose, che amano viaggiare, ma che allo stesso tempo tengono i piedi per terra. Quella della modella è una professione faticosa, ci si alza presto. A me non interessava la vita notturna. Finito di sfilare me ne stavo in albergo, spesso sola o con qualche collega. Perciò quando tornavo a casa ero felice di riabbracciare i miei e le amiche che sono tuttora quelle della scuola».

La seconda deviazione dalla musica è stata la televisione.

«Seppi che Michele Guardì e Fabrizio Frizzi cercavano cantanti per Domenica in. Non avevo nemmeno l’agente, ma ci provai. Cantai accompagnandomi al pianoforte e andò bene. Alla fine di quell’anno mi contattò Corrado Mantoni per propormi di affiancare Giampiero Ingrassia nell’edizione estiva di Tira e molla su Canale 5. Dopo l’estate mi proposero di partecipare a Controcampo di Sandro Piccinini. Stavo fra il pubblico e facevo qualche domanda. Poi a un certo punto decisero che potevo affiancare il conduttore».

Arrivò anche il cinema.

«Mi chiamò Panariello per interpretare una fotoreporter della quale si innamorava lui stesso che faceva il giornalista. Quando, per promuoverlo, andai ospite di Taratatà di Vincenzo Mollica, Fausto Leali mi propose di partecipare in coppia alla selezione per Sanremo».

Arrivaste quarti.

«Il brano s’intitolava Ho bisogno di te».

Cantate ancora insieme, i timbri vocali si completano.

«Fausto è un amico, ed è bresciano, parliamo in dialetto».

Coltiva altre collaborazioni?

«Nel 2007 con Tony Hadley degli Spandau Ballet abbiamo inciso un brano per la colonna sonora del film Russian Beauty e, di recente, Sananda Maitreya, più conosciuto come Terence Trent D’Arby, mi ha coinvolto nell’album Prometheus e Pandora, inciso per il trentennale della sua attività artistica. Siamo stati in tournée».

Canta il blues, il soul, la musica napoletana. Chi apprezza tra gli artisti attuali?

«Tiziano Ferro, Elisa, anche i Maneskin mi sembrano centrati nel loro stile».

E il rap?

«Ci sono dei rapper che trovo interessanti per i testi oltre che per la loro comunicativa. Tra questi, J-Ax che ha scritto un brano meraviglioso dedicato a suo figlio. Al tempo stesso il genere rap ha prodotto il trap, i cui interpreti oggi stanno avendo grande successo soprattutto grazie a internet dove affrontano temi importanti di disagio sociale con una certa esaltazione e leggerezza. Poiché questo particolare genere musicale è destinato a un pubblico adolescenziale facilmente influenzabile, credo sia importantissima una maggiore vigilanza e diffondere messaggi dai contenuti non negativi».

Segue i talent show musicali?

«Trovo che siano un fatto positivo. Oggi i giovani non sanno più come entrare nel mondo della musica. Certo, lì è già un po’ tutto pronto. Ci sono i coach e il pubblico che ti ascolta in condizioni di favore. Ai ragazzi che mi chiedono consiglio su cosa fare suggerisco di tentare i provini dei talent, perché fuori c’è il deserto. Mettendoli però in guardia sul fatto che un conto è avere una bella voce e saper cantare qualche cover, un altro è diventare un artista che sa stare sul palco».

Che rapporto ha con la politica?

«Quello di un cittadino normale. Seguo i telegiornali, m’informo».

Come vede il cambiamento verificatosi alle ultime elezioni?

«Sono piuttosto confusa. Fatico a farmi un’idea definitiva. Mi sembra che non si faccia abbastanza per far crescere il Paese. Appena si muove qualcosa, la burocrazia e la pressione amministrativa finiscono per soffocare tutto».

Che cosa pensa del movimento Me too?

«Penso che, con tutti i suoi limiti, possa servire a difendere le donne che per tanto tempo sono state viste come oggetto del desiderio. Ai tempi di mia madre e di mia nonna le condizioni erano peggiori. Ma ancora oggi, nel mondo del lavoro, spesso non c’è parità e a volte le donne vengono viste come facile preda».

Ha mai subito molestie?

«Mai».

Nessuna invadenza che l’ha costretta a mollare qualche ceffone?

«Appena mi accorgevo di qualche insistenza eccessiva evitavo persone e circostanze».

Si divide tra Palazzolo e Brindisi dove c’è il suo compagno.

«Per fortuna ci sono due aeroporti comodi e funzionanti».

Come si vive vicino a un ufficiale dell’arma dei Carabinieri?

«Imparando il senso del dovere e la responsabilità di dedicarsi con generosità al benessere degli altri».

Che trasmissione vorrebbe per tornare in televisione?

«Oggi sembra obsoleto parlare di varietà. È un genere che va rinnovato e aggiornato».

Le è piaciuto Stasera a casa Mika?

«Molto. Mika ha un’eleganza e una grazia naturali. Anche la scenografia era innovativa».

Altri?

«Renzo Arbore che se ne sta defilato e ogni tanto spunta con la sua leggerezza sapiente. E poi Fiorello, anche lui quando esce dalle retrovie…».

Come ha trascorso il Natale?

«Avendo viaggiato spesso per motivi di lavoro, il Natale per me e la mia famiglia è sempre stato un momento speciale per ritrovarsi tutti insieme. Credo che oltre al business della festività, questo sia un periodo giusto per rallentare e fare spazio ai valori più autentici e agli affetti più cari, ai famigliari, ai parenti e agli amici che non si ha avuto modo di abbracciare da tempo».

 

La Verità, 31 dicembre 2018

 

 

«Io, artigiana della musica, sempre alla ricerca»

Il fado portoghese, la canzone d’autore italiana, le corali sacre, la canzone dialettale e quella pop di qualità interpretata con i Matia Bazar: Antonella Ruggiero non si pone limiti e con quella voce può farlo. Ma per scavalcare i generi musicali non basta l’estensione vocale, per quanto straordinaria. Ci vogliono curiosità, passione e quell’irrequietezza positiva che, dalla sua Genova di talenti e tormenti, la spinge con il marito musicologo Roberto Colombo, nei territori lontani della musica. Il nuovo cofanetto di sei cd intitolato Quando facevo la cantante presentato nell’insolita sede della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale ne è la dimostrazione.

Cosa significa Quando facevo la cantante? La fa ancora.

«Certo. Significa quando ho ripreso a fare la cantante solista, dopo sette anni di allontanamento tra il 1989 e il 1996».

È una biografia musicale?

«È un riassunto in sei cd di quello che è avvenuto dal 1996 a oggi. Un racconto in 115 brani suddivisi nei vari generi delle mie frequentazioni musicali».

Come mai ha scelto la sede di una facoltà teologica per presentare il suo nuovo lavoro?

«Ho conosciuto persone che mi hanno offerto questo luogo meraviglioso. Mi fa piacere presentarlo in un posto frequentato con passione da giovani lontani dalla superficialità che sembra dominare il mondo. È una scelta estetica prima che religiosa».

Questa antologia è più uno sguardo al passato o un progetto di rinnovamento?

«La musica è sempre rinnovamento anche se si attinge al passato. Qui c’è la ricerca della musica che mi aiuta a stare bene. Non ho mai cantato brani di autori famosi se non mi trasmettono qualcosa di importante. Preferisco cercare tra gli autori che sono rimasti anonimi perché il destino non li ha aiutati. È un modo di vivere la musica che mi rasserena».

Qualcosa che va oltre la professione.

«Ho deciso di fermarmi per sette anni perché non la sentivo più così. La musica è un mezzo di scambio tra le persone. Io la vivo così, non è mai superficie. La musica quando è sentita smuove e commuove».

Ben oltre il fatto commerciale.

«Non può essere solo la routine dell’ovvio, ciò che bisogna fare per forza: il nuovo disco, la promozione, il tour. È un mondo che ho lasciato tanto tempo fa».

Il primo album da solista intitolato Libera ci ha fatto capire quanto le stesse stretto il mondo dei Matia Bazar.

«Quando si lavora in gruppo non sempre le teste ragionano in modo univoco. C’erano degli obblighi ai quali non volevo più sottostare e dai quali mi sono felicemente scollegata. Volevo aprirmi alla musica in tutta la sua varietà. L’arte è fatta di libertà, di alto artigianato, di superamento delle formule. Io mi sento un’artigiana che va alla ricerca delle perle più preziose, oltre la cultura mainstream. Pensando a come sono fatta ho cominciato a sentirmi nel giusto. Anche perché vedevo che il pubblico aveva i miei stessi desideri e andava a casa contento».

Però non ha rinnegato la canzone da festival.

«Sanremo è l’unica grande vetrina che c’è in Italia. Non giriamoci intorno, se hai un prodotto nuovo e vuoi promuoverlo presso il grande pubblico devi entrare in quel meccanismo per una settimana. Poi puoi tornartene alla tua vita di sempre».

Che rapporti mantiene con gli ex compagni dei Matia Bazar?

«Quando si è lavorato e girato il mondo insieme per 14, anni anche se per una vita non ci si vede, la memoria positiva rimane indelebile».

La sua ricerca spazia dalla canzone popolare alla musica sacra, dalla contemporanea al jazz.

«Sono sempre alla ricerca. Per me trovare un canto, un coro, una nuova aria è come entrare nella bottega di un artigiano in fondo a un vicolo. Quando ci arrivi e ti accorgi che dentro c’è qualcosa di diverso e raro ti senti privilegiato».

C’è un ambiente musicale nel quale si sente più a suo agio?

«Do sempre il 100% ai miei concerti, qualsiasi cosa canti. Ma devo riconoscere che interpretare brani antichi in una cattedrale accompagnata da un organo antico è un’esperienza particolarmente intensa. Anche il pubblico avverte una sorta di sospensione, si dimentica di quello che accade fuori».

Perché Genova ha dato i natali a tanti artisti?

«È una città particolare, meditativa. Diversa da Bologna e Napoli, anche loro di grandi tradizioni musicali, magari più gioiose. Genova è una città medievale austera, che aiuta a tirar fuori sentimenti profondi e intimi che fanno parte di tutti. Tante persone si ritrovano nelle parole dei cantautori genovesi».

È un motivo di tipo geografico, l’essere schiacciati tra montagna e mare, o un fatto di frequentazioni?

«Credo che la causa principale sia il territorio. Sai che hai una fettina di terra dal Ponente al Levante, che alle spalle c’è il monte e davanti c’è il mare, che significa potersene andare quando si vuole. Sono delle mura psicologiche che alimentano la poesia».

In un cd avvicina Crêuza de mä a O mia bela Madunina: quanto è importante la musica della tradizione dialettale?

«Importantissima. Tanto quanto girare l’Italia e andare a visitare certi paesini remoti eppure pieni di storia e di vita come facevano certi attori di teatro. È molto gratificante cantare davanti a persone che mai si muoverebbero per andare nelle grandi città».

La sua ricerca musicale è anche esistenziale?

«È la ricerca del bello. È un fatto di educazione. Fin da bambina i miei genitori mi hanno insegnato ad ascoltare la musica nei vari generi. Ricordo che una volta, sentendo un organo liturgico nella chiesa di Santa Maria di Castello, rimasi senza fiato. Mi auguro che ci siano genitori che insegnino ai figli ad ascoltare la musica vera, non quella obbligata che ci bombarda in tutti i momenti».

Che ricordo ha della sua prima collaborazione canora con il nome di Matia a un’incisione dei Jet, intitolata Fede, speranza, carità?

«Avrò avuto 21 o 22 anni, la prima volta in uno studio di registrazione. Era un intervento vocale senza testo, una coralità istintiva. Da lì è partito tutto: tre su quattro componenti dei Jet formarono i Matia Bazar, cambiammo solo il batterista».

Ricorda il primo momento in cui scoprì di avere questa voce?

«Ho sempre avuto vicino la musica. Cantavo in casa, come un animale su un ramo. Mai avrei pensato che potesse diventare una professione, mi occupavo di grafica e arti visive. Il primo momento fu quella collaborazione con i Jet, salita sul palco vidi che la mia voce piaceva. È un dono di natura».

Che cosa pensa dei talent musicali?

«Tra i giovani ci sono quelli desiderosi di popolarità, che sperano di sfondare rapidamente, e quelli che accettano di costruire nel tempo la propria fisionomia. Sperare di avere tutto subito è un’illusione. Quanti ragazzi tornano a casa delusi e pieni di sensi di colpa perché non ce l’hanno fatta. Poi è difficile rialzarsi. Nel jazz, ma soprattutto nella musica classica ci sono ragazzi che accettano di fare sacrifici e inseguono la qualità dell’artigianato».

Appurato che non è solo una cantante, come si definirebbe? Un’artista, una ricercatrice musicale, un’innamorata della musica…

«Non saprei. Io canto e mi esprimo attraverso la musica per incontrare le persone. Mi piace molto e lo vivo come un compito».

 

La Verità, 19 novembre 2018

 

Su Italia 1 Alvin studia da Cattelan

«La musica non è mai stata così divertente»: era questa la promessa un tantino iperbolica di Bring the Noise, il nuovo programma di Italia 1 condotto da Alvin e tratto da un format inglese (mercoledì, ore 21.15, share del 6,94 per cento). Esagerazioni a parte, inevitabili nel lancio di uno show che si prefigge di recuperare il pubblico giovanile, bisogna ammettere che il divertimento c’è. Adrenalina, tormentoni, bolgia, anche caciara a volte. Alvin è il conduttore-animatore del gioco che si svolge attraverso prove che vedono in competizione due squadre di quattro concorrenti ciascuna. L’altra sera erano Paola Barale, Katia Follesa, Jack LaFuria dei Club Dogo e Francesco Cicchella da una parte, Mercedes Henger, Francesco Facchinetti, Andrea Pucci e Fabio Rovazzi dall’altra. Le sfide consistono nell’indovinare il titolo di una canzone attraverso il ritornello cantato al contrario, o urlato dentro un catino pieno d’acqua, oppure ascoltando il testo pronunciato dalla voce di un navigatore satellitare, o leggendo il labiale del compagno di squadra dietro il cristallo di una cabina con isolamento acustico. I concorrenti devono anche esibirsi ballando e cantando in playback un brano pop famoso, giudicati dall’insindacabile Alvin. La riuscita del game dipende in gran parte dalla capacità del conduttore di diffondere l’adrenalina della festa e dalla disinvoltura con la quale gli ospiti accettano la presa in giro (Rovazzi è stato massacrato tutta la sera). Non ci sono altri obiettivi che il divertimento puro, due ore di giochi musicali, nell’occasione intervallati dalle battute sempre in agguato di Andrea Pucci. Immancabile l’esibizione canora di un prete che ha trasformato l’«andiamo a comandare» di Rovazzi in «andiamo a confessare».

Anna Tatangelo e Alvin provano la seconda serata di «Bring the Noise»

Anna Tatangelo e Alvin provano la seconda serata di «Bring the Noise»

Dopo una puntata si può dire che l’impianto si regge sulla comunicativa contagiosa di Alvin, alla prima conduzione di un programma tutto suo dopo una lunga gavetta come spalla nella quale, soprattutto da inviato dell’Isola dei Famosi, aveva già dimostrato le sue potenzialità. Meno forbito e forse meno raffinato, ma con la stessa versatilità e spontaneità nel gestire i momenti dello show e gli ospiti sul palco, Alvin può rappresentare la risposta di Mediaset ad Alessandro Cattelan di Sky. Attenzione a non bruciarlo, però: per questo forse sarebbe stato più opportuno un avvio in seconda serata. Ma tant’è, la musica è divertente. Sul non esserlo «mai stata così tanto», invece, va ricordato Furore con Alessandro Greco, di cui Bring the Noise è una versione altrettanto coinvolgente, ma più moderna.

La Verità, 1 ottobre 2016