Tag Archivio per: musica

Achille Lauro è il volto identitario del Festival

Achille Lauro non poteva mancare nemmeno stavolta, e fanno cinque edizioni consecutive. Tre da concorrente e due come superospite. È lui il volto identitario del Festival di Sanremo anni Venti. Una vetrina modaiola di fluidità e gender in varie gradazioni che ha sostituito la kermesse patronale, il luna park tuttifrutti di un tempo. Adesso il frutto principale è questa salsa queer. Sanremo segue il costume, ma qualche volta lo anticipa e lo influenza a suon di musica e polemiche, ugole e predicozzi, canzonette e politica. È così fin dal Ragazzo della via Gluck e Chi non lavora non fa l’amore (Adriano Celentano, 1966 e 1970), e da Una vita spericolata (Vasco Rossi, 1983), per citare le prime. Da La terra dei cachi (Elio e le storie tese, 1996) e Non è l’inferno (Emma Marrone, 2012), per avvicinarci al presente. Sanremo era Sanremo. Condito di superospiti internazionali, da Josè Feliciano, anche in gara, a Madonna, da Michail Gorbaciov a Mike Tyson e John Travolta, che per brevi comparsate procuravano salassi alle casse della Rai e overdosi di polemiche sull’uso del denaro pubblico. Il concorso era trasmesso in Eurovisione e c’era chi diceva che tutto il mondo ce lo invidiava. Domenico Modugno, Claudio Villa, Gianni Morandi, Celentano, Laura Pausini vendevano alla grande anche all’estero, e senza il complesso di essere italiani. Anzi, magari proprio per quello. Oggi no. Oggi, nell’èra della globalizzazione, sebbene declinante, i generi musicali perlopiù li importiamo. Comunque, Sanremo era quella roba lì. Epperò negli ultimi anni abbiamo assistito a una curiosa metamorfosi. Con innesti crescenti di progressismo, il nazionalpopolare è mutato in mainstream. Ben più di una correzione linguistica, un passaggio culturale. Dalla prospettiva nazionale a quella globale, dalla tradizione del Belpaese al pensiero unico sul vassoio dell’intrattenimento di tendenza. Il nuovo linguaggio deriva dalla frammentazione dei generi? L’Ariston si adegua e offre la vetrina.

Dicevamo di Achille Lauro, nome d’arte(?) di Lauro De Marinis. Quando si è presentato in gara, le sue dimenticabilissime canzoni navigavano nelle retrovie della classifica, puro pretesto per le messinscene, le mise transex, gli scandaletti di polistirolo pour épater le bourgeois. La sua ultima esibizione aveva simulato un battesimo. Roba farlocca. Tanto che, stuzzicato da Fiorello che l’anno prima, con una corona di spine sul capo, aveva duettato con lui, l’Osservatore Romano aveva dispensato delusione: «Volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo. Da questo punto di vista difficilmente dimenticheremo la recita del Padre Nostro, in ginocchio, di un grande artista rock come David Bowie. Non ci sono più i trasgressori di una volta».

Insomma, in quel lembo di Liguria si fatica a pensare in grande. A osare veramente. Ci hanno provato Rula Jebreal con un monologo in difesa delle donne violentate e Roberto Saviano ha voluto ricordare il trentennale dell’uccisione di Giovanni Falcone con tre mesi di anticipo. Nel 2020, con una libera interpretazione del Cantico dei cantici, definito il libro «più bello, più santo, più importante della Bibbia», Roberto Benigni ha sdoganato tutte le forme di amore, quella «dell’uomo con la sua donna, la donna con la sua donna, l’uomo con il suo uomo». Perché, alla fine, si casca sempre lì, nella moltiplicazione dei sessi e nell’amore non binario, come si dice.

Sotto la supervisione di Stefano Coletta, prima come direttore di Rai 1, poi come responsabile della sezione Intrattenimento della tv pubblica, Sanremo si è travestito da festival queer, disseminato di baci gay, unghie smaltate e trucco pesante per entrambe i sessi (e speriamo che la comunità Lgbtq non insorga). Se prendiamo i vincitori delle edizioni frequentate da Lauro, due volte ha vinto Mamhood (nel 2022 con Blanco) e una i Måneskin, poi tornati come ospiti l’anno scorso. E il vecchio luna park è sembrato un Gay pride per famiglie. Arcobaleno, naturalmente.

Erano gli anni dei governi guidati da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e Mario Draghi, con il Pd a dare sempre la linea (tranne la breve parentesi gialloverde). Erano gli anni del dibattito sul ddl Zan, di genitore 1 e genitore 2, dell’asterisco e dello schwa proposti, e spesso adottati, nei documenti pubblici… Non che siano stati definitivamente archiviati. Tuttavia, dalle parti di Palazzo Chigi l’aria è cambiata. Invece in Rai ancora no. Basta guardare i programmi d’intrattenimento, certe rubriche pomeridiane di Rai 1 e Rai 2, le giurie degli show della rete ammiraglia… Finora l’avvento di Giorgia Meloni e del governo «delle destre» non ha fatto girare il vento nemmeno tra i fiori e le pailettes della kermesse canzonettara. Al suo fianco, il conduttore e direttore artistico ha voluto, sì, il rassicurante Gianni Morandi, amato sia dalle nonne che dai giovanissimi («Da grande voglio essere come lui», confidò Blanco sul palco di un anno fa). Ma fedele al mainstream modaiolo, ha chiamato l’«imprenditrice digitale» Chiara Ferragni e la pallavolista non binaria Paola Egonu (e chissà perché nessuno invita mai Miriam Sylla, anche lei di colore e pure capitana dell’Italvolley femminile).

Intanto Madame ha dovuto cambiare il titolo della canzone in Il bene nel male (al posto di Puttana), prima di essere indagata per una storia di vaccini falsi e piegarsi al volere comune: senza polemiche la colonnina dell’Auditel non s’impenna. Dopo aver detto che non ci sarebbero stati ospiti perché già tanti erano i cantanti in gara, man mano che ci si avvicinava al giorno d’inizio, Amadeus ha annunciato Black Eyed Peas, Piero Pelù, Francesco Renga, Nek… E, sempre in modalità allineamento, si è parlato di Volodymyr Zelensky in videocollegamento nella serata finale.

Di sicuro c’è che i cantanti in gara saranno 28, ventidue big più sei giovani, così le serate termineranno quando albeggia, tutta salute per lo share. A naso, il cast del 73° Sanremo, dal 7 all’11 febbraio, è tranquillo. C’è la quota star da stadio con Marco Mengoni e Giorgia, il trash dei Cugini di campagna, la nutrita fetta anni Novanta con Anna Oxa e i Modà, senza dimenticare le reunion di Articolo 31 e Paola e Chiara. Ci sono «i figli di» Leo Gassmann e Lda (di Gigi D’Alessio), i big da classifica Lazza, Elodie e la già citata Madame, la quota di musica indie con Colapesce Dimartino e Coma Cose, che bissano la partecipazione dell’anno scorso, come Tananai che, giunto ultimo, può migliorare ma non è detto. Non s’intravedono troppe trasgressioni fasulle. Però occhio a Rosa Chemical che somiglia non poco ad Achille Lauro, speriamo solo nell’aspetto. Nell’incertezza, si è pensato bene di convocare anche l’originale. Hai visto mai che se ne sentisse la mancanza.

 

Il Timone, febbraio 2023

«Sono ateo (provvisorio), ma credo in Lucifero»

Intelligenza magmatica, ragionamento proteiforme, linguaggio minaccioso, Quirino Principe è uno degli intellettuali più controversi della cultura contemporanea. Nato a Gorizia 87 anni fa, vive a Milano dove cura la sua incessante attività di traduttore, musicologo, saggista, critico e consulente editoriale. Forse lo si potrebbe inserire nella galleria dei grandi reazionari ma, nella sua vanità, rifiuterebbe anche questa collocazione. Si definisce ateo, salvo riconoscere e, in un certo senso esaltare, la figura di Lucifero. Non a caso, se lo si definisce «un tizzone d’inferno» s’inorgoglisce. Intervistarlo vuol dire infilarsi in un ingranaggio infernale. Ha un così elevato concetto di sé da permettersi risposte particolarmente sprezzanti.

Professore, come mai da qualche tempo non la si legge e non la si ascolta?
«Le contro-domando: dove diavolo dovrei scrivere o parlare affinché mi si legga o mi si ascolti?».

Perché si è interrotta la sua collaborazione con Il Sole 24 ore?
«Mi ero stancato di recensire libri di altri. La funzione di recensore è interessante, ma a un certo punto ha cominciato a starmi stretta. Perciò avevo più volte proposto di occuparmi di letteratura tedesca, inglese, ispanico-americana, mitteleuropea, slava. Non sono solo uno studioso di musica, ho tradotto Ernst Jünger, Karl Jaspers, molti altri autori, un numero indescrivibile di Lieder e di testi di teatro d’opera».

E dal Sole come le hanno risposto?
«Non ci fu né richiesta né risposta. Avevo altro cui pensare, e per cui soffrire maledettamente. Era appena morta mia moglie, dopo 60 anni precisi di matrimonio felice e fedele. Non occorre essere religiosi per essere fedeli, non occorre essere ricchi come il patriarca Kyrill o come i vari Ronaldo, Mask, Bezos, per essere felici. Sono molto affezionato e grato al Sole 24 ore, però non posseggo competenze soltanto musicali, anche se a qualcuno sfugge l’esistenza di una mia forte professionalità anche al di fuori della musica. Questo non vale solo per Il Sole 24 ore, ma anche per altri committenti».

Per esempio?
«La Rai».

Che cosa faceva per la Rai?
«Quando la Rai era meno nepotista e meno corporativa, avevo qualche spazio possibile: musica, poesia, teatro, filosofia… La domenica tenevo una rubrica molto seguita su Radio 3, La spina nel fianco. Nella sua conduzione,  fra l’altro, proponevo ogni settimana un sonetto che, attraverso diabolici depistaggi, invitava gli ascoltatori a individuare un autore, un’opera o un episodio di storia della musica».

Una rubrica esoterica?
«Ma quale esoterica? In quella rubrica mi divertivo con l’enigmistica, e qui l’esoterismo c’entra come il classicissimo cavolo a merenda. Cerchiamo di non usare parole a vanvera, e di conoscere bene il significato delle parole, prima di attingere al lessico italiano, che sospetto essere enigmatico per troppi miei connazionali! Lei è certo di sapere esattamente che cosa significhi “esoterico”? Quella rubrica era, per me,  un esercizio di tecnica versificatrice come parodia dei poeti stilnovisti, e, per il pubblico, un’occasione per saggiare il livello culturale medio degli italiani. Quella rubrica, che mi aveva molto divertito, era piuttosto un impagabile incentivo a una mia naturale tendenza,  quella a non avere peli sulla lingua e a non avere rispetto per le nullità travestite. Infatti, l’allora direttrice di Radio Tre troncò di brutto quella rubrica, in atto da due anni – era la fine del 1999 – per “punirmi” dell’avere io osato citare in modo “irrispettoso” i nomi di Francesco Rutelli e di Alessandro Baricco. Nella fattispecie, dovendo, per depistare gli ascoltatori, citare Bonifacio VIII a proposito di Dante, e avendo bisogno di una rima in “-elli”, avevo indicato quel papa – a me odioso, come lo sono per me tutti i papi, anzi, tutti gli ecclesiastici di tutte le religioni monoteistiche – con un “irriguardoso” endecasillabo: “… il primo precursore di Rutelli”. Ovviamente, alludevo alle analogie tra le due colonne di pellegrini che vanno verso San Pietro (Inferno, 28-33) oppure ne ritornano indietro: espediente di regolazione del traffico, “copiato” da colui che  era sindaco di Roma alla fine del secolo XX. Non vedo come potessi avere “offeso” Rutelli, tipo simpatico ma allora troppo sollecito nel fornire i servigi del Comune di Roma al Vaticano, More solito, del resto:  per me, incrollabilmente laico, è insopportabile questo ricorrente servilismo delle laiche istituzioni pubbliche italiane a favore di Santa Madre Chiesa. Quanto a Baricco… ebbene sì, nel sonetto della settimana successiva fui io ad essere molto antipatico. Lo riconosco: meritavo una punizione. Mi scusi: c’entra, tutto questo, con il concetto di esoterismo?».

Non le sfugge certamente che di lei si parla come di un «tizzone d’inferno». Che cosa la attrae verso l’elemento infernale?
«Io sono ateo come visione del cosmo, anche se non escludo l’impensabile, l’indescrivibile, il “totalmente altro”, come lo chiama Max Horkheimer. Marxista eretico, nel suo penultimo libro parla del “totalmente altro” come di una necessaria idea collaterale che deve accompagnarci quando parliamo del certamente definibile. Pur essendo ateo contemplo il demoniaco e l’infernale come ne hanno parlato le grandi religioni».

Non è contraddittorio?
«La mia dichiarazione di ateismo è provvisoria, una messa in sicurezza di fronte all’immagine contraddittoria di Dio data dalle religioni monoteiste. Un Dio geloso, che si arrabbia, si vendica e si occuperebbe di questa piccola specie che è l’homo sapiens. Mentre per me è un concetto altissimo, sublime e parlare di Dio mi risulta difficilissimo. Al contrario, il demonio è qualcosa di prossimo alla nostra esperienza, agli istinti, alle necessità naturali e sane. Il bisogno di mangiare e di provare piacere con il sesso, per esempio. È un’energia presente nel cosmo, nell’istinto di ribellione al potere».

Come trascorre le giornate?
«Le ore diurne lavorando, invece le ore notturne lavorando. Il totale delle ore di sonno durante la settimana è di cinque o sei. Non è insonnia, è lavoro incessante. Se non avessi avuto l’incidente che mi ha spezzato le gambe e un braccio dimostrerei trent’anni di meno e sprigionerei ancora più energia. Purtroppo il 4 giugno del 2011 sono stato investito e da lì è iniziato il mio declino fisico. Il 4 giugno è il giorno di San Quirino: il mio ateismo ne è stato ulteriormente confermato».

In che cosa consiste il suo lavoro?
«Traduzioni, soprattutto dal  tedesco. Saggi per teatri d’opera. Preparazione capillare di lezioni universitarie, a beneficio degli studenti tutti laureati: da 10 anni insegno Storia della Musica in un master post-universitario. Sto preparando la seconda edizione del mio libro su Richard Strauss. Curo con assoluta esattezza le mie lecturae Dantis: una lectura integrale, dal principio alla fine della Commedia. Tengo le lecturae nella sede della casa editrice Jaca Book. Sono arrivato al XXII del Purgatorio.  Di solito, non leggo: recito direttamente, in stile teatrale. Conosco l’intero poema dantesco a memoria».

Lavoro «matto e disperatissimo»?
«Il lavoro non è disperato, è fatica e la si sopporta. Lo studio invece è felicità assoluta».

C’è qualcosa o qualcuno che lenisce la sua solitudine?
«Come dicevo, lo studio. Invece, amo la solitudine. Vorrei assolutamente che mia moglie rinascesse. Anche i miei figli, quando vengono mi fanno felice. Ma sto bene con la solitudine, è così fin da adolescente. È essa il mio vero lenimento».

Perché ritiene l’insegnamento della musica la molla della rinascita?
«Perché è il livello più alto della conoscenza. Forse neanche i musicisti lo capiscono. Platone, Damone, Aristosseno, Plutarco, anche un politico come Pericle, Lucrezio, Quintiliano, Boezio, consideravano la musica una dote indispensabile per ogni uomo di governo. Così anche, in tempi vicini a noi l’hanno capito filosofi come Adorno. La musica è matematica, regina delle scienze, che agisce sui nostri sensi e sulle nostre percezioni. Purtroppo oggi è ritenuta solo una forma di intrattenimento».

Preferisce i grandi compositori del passato?
«La musica non va valutata in base alla cronologia, ma per la sua qualità. Nella mia estetica il bello è ciò che ha forza di significato, il brutto ciò che è debole di significato o ne è privo».

Tre opere che porterebbe su un’isola deserta.
«Facciamo cinque. Don Giovanni di Mozart, il Quartetto opera 132 di Beethoven, la Sonata per pianoforte n. 32 Op. 111 di Beethoven, le Scene per il Faust di Goethe di Schumann, Parsifal di Wagner».

Il più grande direttore d’orchestra del Novecento?
«Sebbene ai direttori d’orchestra si richieda più studio che genio, le propongo una rosa ristretta: Gustav Mahler, straordinario anche come direttore, Bruno Walter, Gino Marinuzzi, Sir Thomas Beecham, e Whilelm Furtwängler. Herbert von Karajan per me è un po’ al di sotto».

Tra quelli contemporanei chi apprezza?
«Oleg Caetani, Riccardo Chailly e Riccardo Muti».

Qual è il suo pensiero riguardo ai generi musicali contemporanei?
«Quali? Me li indichi».

Cosa pensa del jazz?
«È una provincia marginale come, del resto, lo è anche Chopin. Una provincia che pure contiene opere splendide. Come quelle di Cole Porter, George Gershwin, Chick Corea, Ornette Coleman, Duke Ellington… A volte le suono, Sophisticated lady è una delle mie preferite».

Il John Coltrane di A love supreme e My favorite things?
«Mi piace molto, certo».

Keith Jarrett?
«Interessantissimo. Apprezzo il mixage e le contaminazioni, senza le quali potrebbe risultare un po’ noioso».

Le piace qualcuno degli interpreti popolari della canzone italiana?
«Odio visceralmente tutto ciò che è popolare, o così denominato. Nel suo interesse, non mi faccia andare su tutte le furie».

Cosa pensa del rap?
«Non è musica e nemmeno suono musicale. È un parlato in forma di scioglilingua accompagnato da una consolle. Perciò, essendo non-musica, non mi riguarda professionalmente».

Ha mai visto il Festival di Sanremo?
«Un paio di volte Il Sole 24 ore mi ha chiesto di seguirlo. Ho obbedito con disagio e noia. Ciò che detesto maggiormente sono il contorno di lustrini, coriandoli, luce diffusa, neon, stivaletti di marca…».

Negli ultimi anni è diventato una vetrina gender: conosce Achille Lauro?
«Com’è ovvio, più che conoscerlo, so chi è. Non ho alcuna intenzione di approfondire la sua conoscenza».

Per Uto Ughi i Måneskin sono un insulto alla musica e all’arte.
«Ha perfettamente ragione».

Quest’anno vedrà il Festival di Sanremo?
«No. Non ho intenzione di vomitare».

Salvo sorprese, alla serata finale dovrebbe partecipare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky con un videomessaggio: che impressione le fa?
«Penosa. Zelensky era un modesto attore comico che si è trovato per sua sventura in una posizione disperante, affrontata con coraggio. Altri si sarebbero dati alla fuga, invece la sua resistenza lo ha nobilitato. Purtroppo, con questa partecipazione mette la sua figura nobile in un contesto ignobile».

C’è qualcosa o qualcuno che fa eccezione alla sua contestazione della contemporaneità?
«Grrrrrrrrr….. un tipo di domanda che suscita i miei istinti omicidi. Lo volete capire, si o no, che non è questione di cronologia, bensì di qualità, di livello qualitativo? Per favore, non irritatemi ulteriormente con domande senza significato. Alla fine, non rispondo delle mie azioni. Sono un ex ufficiale di artiglieria, e ho un’indole violenta. Non contesto la contemporaneità, dal momento che anch’io sono contemporaneo a me stesso. Contesto, invece, lo schifo».

Che cosa pensa della letteratura italiana contemporanea?
«Non credo che Dio esista, almeno nei termini con cui il cattolicesimo ufficiale, il Papa, monsignor Ravasi, eccetera, ce lo rappresentano. Ma se Dio esiste davvero, ci liberi dall’incubo: ci liberi dall’immaginare che la letteratura sia Gianrico Carofiglio o Alessandro Baricco o Alda Merini! Non mi preoccupa il male, è il nulla a essere spaventoso».

Professore, lei è massone?
«Ci mancherebbe solo questo!!! Mi avrebbe potuto risparmiare una simile domanda, che mi offende gravemente e mi fa infuriare: e non perché io disistimi la massoneria, che è una realtà storica e cui attribuisco qualche pregio per quanto riguarda l’esperienza illuministica della nostra amata Europa. No, ciò che mi offende è l’attribuzione, alla mia persona, dell’obbrobrio di “far parte di qualcosa”, di “condividere essendo in sottordine”. Trovo la domanda gravemente offensiva: da querela, se avessi la sia pur minima fiducia nel trionfo della  giustizia, sia in Italia, sia in Afghanistan,  o altrove. Ma non è forse arcinoto che io voglio essere solo, che non voglio far parte di associazioni, partiti, circoli, parrocchie, cellule, di questo o quello staff, board, team, e via divertendoci  con questo sterco lessicale anglicizzante? Come potrei, Io, Quirino Principe, associarmi a persone o ad ambienti sociali che  sappiano nulla di nulla, che non sappiano usare la lingua italiana, che non sappiano leggere un codice medievale né la grafia musicale espressa in neumi, che non conoscano il greco antico, né il latino, né il sanscrito, né il tedesco, né la matematica, né l’astrofisica, né la meccanica quantistica, né gli scritti musicali di Aristosseno o di Plutarco, né la differenza tra calendario giuliano e calendario gregoriano??? Per favore, smettiamola con queste offese alla mia persona. Rammento che la mia indole è notoriamente molto irascibile, e sono capace di eccessi».

 

 La Verità, 4 febbraio 2023

«Il suicidio di mio padre mi ha trasformato in filosofo»

Concerti, dischi, whatsapp con il premier Giorgia Meloni, apparizioni tv con vista sul ministero della Cultura… Tra cento cose che fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, è riuscito a scrivere anche un libro di poesie: Parole d’aMorgan (Baldini+Castoldi). Per Vittorio Sgarbi è addirittura «il Carmelo bene di oggi». Intervistarlo vuol dire disporsi a qualche acrobazia. Ma ne vale la pena.

Si sente davvero il nuovo Carmelo Bene?

«Il paragone è oltremodo lusinghiero perché Carmelo Bene è l’ultima vera grande rockstar italiana. L’ultimo grande intellettuale dissidente, non allineato, antisistema. Un tesoro incompreso, se non da una ristretta cerchia. Oggi non è neanche pensabile un nuovo Carmelo Bene. Io sono molto meno controverso e trasgressivo, molto meno fuori di testa. Sgarbi fa questo paragone per scuotere il conformismo di questa Italia pavida. Per far capire che ci vogliono coraggio e audacia».

A lei non mancano. Ha appena pubblicato un altro libro di poesia: i cantautori sono poeti?

«No, assolutamente. La canzone e la poesia sono diverse in tutto. Il cantautore ha per la parola lo stesso interesse che ha per la musica. Oggi la canzone è ovunque, in ogni momento. Questo vuol dire che chi fa canzoni è il panettiere dell’anima perché il nutrimento che dà è come quello che il pane dà al corpo. Il poeta è più puro, non è mondano, non si mescola, si isola. Invece il cantautore è il medium tra generazioni ed epoche diverse. Per lui le folle scendono ancora in piazza: non lo fanno per la politica, ma per i concerti».

Quando ha capito di essere un poeta?

«Non l’ho capito. Non dico di me di essere un poeta perché è una parola troppo bella, devono dirlo gli altri. Sono uno che scrive, un compositore di parole, un verbale. Se lei dice che sono un poeta… lo dice lei».

I versi che leggiamo in Parole d’aMorgan riposavano in qualche cassetto o sono stati scritti apposta?

«Sono versi vivi, attuali, alcuni infilati all’ultimo momento. In quella storia, c’è dentro la mia vita, la vita del mio cuore e della mia mente».

Versi composti per l’occasione?

«No, perché non scrivo su commissione. Questo lo fa chi programma l’uscita di un disco, o di un libro, a priori, non quando ci sono le canzoni pronte, non quando si ha qualcosa da dire. Così escono un sacco di dischi senza che se ne avverta una reale urgenza. L’arte va coniugata con la spontaneità».

E con l’ispirazione?

«Per quanto mi riguarda, sono sempre ispirato. Da Franco Battiato in poi, uno dei miei tanti padri, l’ispirazione è la nostra vita. Se sei così riesci a trasformare l’arte in un lavoro. Ti alzi al mattino e vai allo strumento. Nella quotidianità c’è l’ispirazione. Ovviamente, va allenata…».

Cosa vuol dire, come scrive: «Il mio amore è volontario»?

«Ci sono due tipi di sentimenti che chiamiamo amore: il desiderio e l’edificazione longeva di un rapporto. Il desiderio prima o poi cala, ma si è capaci di amare se si vive di amore volontario. Quello che si ha per i figli, o per noi stessi e per le promesse che abbiamo fatto. L’amore volontario è anche compatibile con la possibilità di innamorarsi di nuovo perché l’innamoramento non è l’amore. “Il mio amore è volontario” significa che può esser vissuto anche come scelta dopo che l’innamoramento ha fatto il suo corso».

Insomma, il «per sempre» è morto.

«Per me, nel tradimento ciò che distrugge davvero è la menzogna, non il rapporto sessuale extraconiugale. Che invece è tollerabile se non è accompagnato dalla menzogna».

Mmmh, non sono convintissimo.

«Una volta esaurito il tempo dell’innamoramento e del desiderio, alcune persone si eccitano nella fantasia immaginando il proprio partner con un’altra persona. Questo fa sublimare anche la gelosia, altro elemento distruttivo. Concordo: l’amore come scelta volontaria è indistruttibile. È questo il per sempre che dice lei. Personalmente, mi sono trovato spesso con donne che non sono state in grado di rinunciare ai loro cambiamenti d’umore: “La donna è mobile qual piuma al vento”».

Cosa vuol dire che il senso della vita è «somigliare alla morte»?

«Intendo la compresenza, in vita, della morte nelle sue diverse declinazioni. La morte della passione, di un sogno… La distruzione della mia casa-laboratorio è stata una morte. Anche dall’abbandono si possono trovare energie. In vita si vivono tante morti e si può uscirne rafforzati. Ci sono morti che generano vita. Il letame non piace, però genera vita».

La sua è una poesia nichilista?

«No. È una poesia grafo-linguistica, innanzitutto».

Cosa vuol dire?

«Che è una poesia che si legge e si guarda, anche. E non può essere nichilista perché afferma la vita».

In quello che fa s’intuisce fame di vita.

«Sento di morire di vita».

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi sono dei tutor, degli agenti, degli amici?

«Sono un fortunato accadimento della storia. La famiglia Sgarbi è un seme prolifico, una zona fertile della società, una meravigliosa conoscenza che è diventata amicizia. La prima è stata Elisabetta, presentata da Franco Battiato non certo come donna di potere. Era un’editor di Bompiani per la quale avevo pubblicato Dissoluzione, il primo libro di poesie. Vittorio lo conobbi perché venne a presentarlo, non sapeva chi fossero i Bluvertigo».

È una sorta di nuovo padre come lo è stato Franco Battiato?

«Ho avuto molti padri perché ho perso quello biologico da adolescente, quando se ne ha più bisogno e ti insegna a stare nel mondo. Sì, Sgarbi è una figura paterna, come Battiato. E parecchi altri, da Adriano Celentano che nel 2010, dopo che mi avevano escluso dal Festival di Sanremo, m’invitò a vederlo a casa sua. E qualche anno fa si è commosso quando andai ospite di Adrian su Canale 5 e gli dedicai Conto su di te, un brano che mi cantava mio padre. Poi Mauro Pagani, il primo di tutti, Franco Mussida, Massimo Ranieri, Sergio Staino del premio Tenco, Dominique degli Esposti, grandissimo genio figurativo… Tutta gente di 20 o 30 anni più vecchia di me. Tutti miei padri putativi».

Quello vero?

«Aveva difficoltà economiche che non voleva rivelare alla famiglia per non ammettere che non ce l’aveva fatta. Era pieno di debiti e non ha più retto questa maschera. Che però, con me, aveva già tolto. Io suonavo nei piano bar per guadagnarmi qualche lira e così gli davo del denaro che fingeva di aver guadagnato lui. Avevamo questa complicità segreta. Finché una notte mi ha infilato un centomila in un tubo dei negativi delle foto: “Ti restituisco quello che posso. Così non potrai dire che non ti ho reso quello che mi hai dato”. Il giorno dopo si è tolto la vita».

Cosa fa un ragazzo a 15 anni quando il padre si ammazza?

«Diventa un filosofo, perché nella sua testa cresce la domanda che si fanno i filosofi: perché, che senso ha tutto? I filosofi domandano, i teologi ascoltano. La mia filosofia, le mie domande, nascono nello scontro con il padre, che è l’istituzione, la regola, la giustizia, la patria. Se chi ti segna e ti precede implode attraverso un atto come il suicidio, tutto il sistema entra in discussione».

E quindi?

«Ho iniziato a coltivare la conoscenza insieme al bisogno di mantenere la famiglia. Ho fatto di necessità virtù, ho cercato di guadagnarmi il pane con il mio talento. Già a sei anni avevo iniziato ad abbozzare delle canzoni, quasi prima di imparare a scrivere. Al liceo andavo nei locali e tornavo al mattino per andare a dormire sul banco. Poi ho cominciato a coinvolgere i miei amici e a costruire le band, gli mettevo in mano gli strumenti: tu suoni la chitarra, tu la batteria… siamo una band. Al liceo mi hanno bocciato, ma ho venduto per strada i primi finti album, cassette amatoriali. Una è finita in mano a un produttore e a 16 anni ho avuto il primo contratto con una major discografica».

Che fine ha fatto l’idea di collaborare con il ministero della Cultura?

«A giudicare da quello che succede nella chat creata da Sgarbi, la gente vorrebbe il mio coinvolgimento».

Però il ministro Gennaro Sangiuliano ha nominato come suo personale consigliere per la musica il direttore d’orchestra Beatrice Venezi.

«Il ministro Sangiuliano si sta circondando di persone valide. Appena ho saputo della nomina di Beatrice Venezi le ho mandato un messaggio di congratulazioni e di auguri, offrendo la mia massima disponibilità a collaborare. Abbiamo già lavorato insieme e lo faremo ancora, per esempio a Taormina. Sono a disposizione per offrire la mia competenza al Paese, non chiedo niente. Se il ministro e il premier devono dare degli incarichi, a chiunque, me compreso, lo facciano in base a criteri di merito e non di riconoscenza».

Quindi non si sente fuori gioco?

«Ci sono tanti spazi, tanti ruoli. Il ministero si divide in tre grandi settori con altrettanti sottosegretari. Quello che si occupa di musica è un grande manager e un importante uomo di potere. Spero lo usi bene. Io vorrei dedicarmi alla tutela degli artisti, per rendere più produttivo il lavoro dei cantanti, dei cantautori, dei compositori, degli uomini d’arte. Sgarbi si occupa di tutelare le opere del passato e portarle nel presente. Io vorrei valorizzare le persone e le creazioni del presente per portarle nel futuro. Vorrei aiutare gli artisti vivi».

Il nuovo Carmelo Bene è troppo anarchico per stare dietro una scrivania in via del Collegio romano?

«L’uomo di cultura spende la vita a comprendere e perseguire la libertà. Libertà dell’uomo non libertà in senso astratto. Tutta la cultura, persino la canzone, scaturisce dalla cultura anarchica, dall’impegno politico e intellettuale contro i regimi. Basta pensare a Giuseppe Verdi e al suo Va’ pensiero che è una proto-canzone. O a Ulisse Barbieri che fu incarcerato a 16 anni dal regime austroungarico e quando uscì, quattro anni dopo, iniziò a scrivere canzoni».

Quale sarebbe il suo primo atto?

«Metterei la musica nel Codice delle belle arti che è stato aggiornato l’ultima volta nel 2004. Sarebbe utile per tutelare i teatri, incentivare la produzione, proteggere gli strumenti musicali come beni artistici. Poi bisognerebbe restaurare i nastri originali delle canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta che si stanno deteriorando».

Avrebbe molto da fare…

«Soprattutto non voglio far politica, ma spettacolo. Con un’attenzione particolare a ciò che va in onda nel servizio pubblico. Ma temo che il mio linguaggio divulgativo non sia amato dai dirigenti di questa televisione, a mio avviso troppo concentrata sugli ascolti».

Un incarico al ministero dovrebbe darle un ruolo più ecumenico?

«Sono abituato a misurarmi con ciò che conosco, non amo debordare. Mi basterebbe un ruolo relativo alla musica in televisione».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«A un grande concerto per il 23 dicembre, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Parteciperanno tanti cantautori e amici come Gianna Nannini, Renato Zero, Subsonica, Vibrazioni, Carmen Consoli, Daniele Silvestri, Michele Bravi e molti altri. Spero che un evento così possa interessare anche il direttore dell’Intrattenimento Rai, Stefano Coletta».

Com’è stato tornare a X-Factor, dall’altra parte del palco?

«Mi sono sentito a casa. Sul palco sto meglio che sul banco dei giudici».

Ha fatto pace con Sky?

«Non gli ho mai fatto guerra. Anche perché in questi anni, dopo X-Factor, ho fatto tante cose con Sky Arte».

Che cos’è la contemporaneità?

«Da musicista è creare ordine nel caos, un compito quasi da medico della musica. Riuscire a dare armonia al rumore che è la musica contemporanea».

Dal punto di vista estetico, contemporaneità non sarà cantare bistrati di rossetto?

«Effettivamente a X-Factor ho dato una mano di rosso di troppo. Dico la verità: spesso riguardandomi non mi accetto».

Complimenti per l’autocritica. Pare anche a lei che si esaltino fenomeni musicali più per il look che per i contenuti senza che in giro ci sia David Bowie.

«Non è il mio caso. Cerco di mantenere un certo equilibrio, consapevole che andare in scena è teatro».

Non è il suo caso, ma…

«Vogliamo parlare dei Maneskin? Hanno un sound strepitoso, che giustifica i loro pizzi e merletti».

M’inchino al suo magistero, ma a me sembra sound campionato.

«Se li confronta con la condizione miserrima del sound italiano contemporaneo i Maneskin sembrano i Creedence Clearwater Revival».

Con Giorgia Meloni dialogate ancora su whatsapp?

«Ogni tanto sì, la lascio libera perché immagino la pressione… Abbiamo in comune la passione per la storia politica. Ogni tanto c’è qualche scambio…».

Ce ne rivela uno?

«Siccome Macron usava tre aggettivi come si fa in poesia dicendo che gli italiani sono irresponsabili, cinici e vomitevoli, le ho suggerito di rispondergli in versi. Per dire che Francia e Italia si amarono e ora non si amano più. Ma noi chiediamo rispetto perché da noi i francesi hanno imparato la bellezza. Perciò, offendendo noi, offendono sé stessi e questo non piace a Dio: “Chiare, fresche et dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”…».

Crede che questo governo abbia sbagliato qualche mossa?

«Mi perdona se evito di parlare di politica».

La perdono, ma sui rave party poteva essere più preciso?

«Il provvedimento è così vago che sembra quasi non riguardare i rave. Serve più precisione. Innanzitutto i rave sono ambiti di diffusione musicale, perciò si dovrebbe partire dalla qualità della musica. Che può essere inquinamento acustico o piacere per le orecchie».

A proposito di rumore.

«Spesso fanno musica d’avanguardia. Però non dovrebbero essere clandestini o marginali. Invece quasi sempre la diffondono in modo disturbante, disfunzionale, disarmonico».

Dovrebbero essere razionalizzati?

«Dovrebbero essere considerati e gestiti come dei concerti. Perché la loro musica elettronica non è meno importante della classica».

Al governo c’è bisogno di qualche consigliere per la comunicazione?

«La destra è un po’ naif perché non è abituata a gestire grandi livelli di potere. Questo ha conseguenze positive e negative. Positive perché predispone a un atteggiamento di apertura, negative perché prelude a qualche ingenuità».

Quindi la risposta è sì?

«Credo di sì, che ci sia bisogno di qualche buon comunicatore. Ma si può imparare dal percorso di Giorgia Meloni che, invece, è una grande comunicatrice».

In Italia è più conformista la politica o la musica?

«La musica. In Italia domina la paura, per questo le canzoni sono costruite sempre sui soliti quattro accordi del giro di do. Come tu li metti, si tratta sempre di accordi tonali che già negli anni Quaranta sarebbero stati banali. Il Trio Lescano faceva canzoni più audaci di Ligabue».

Che fine ha fatto la casa gialla?

«È un meraviglioso libro che so stanno studiando al ministero. Lo avevo proposto sia ad Alberto Bonisoli che a Dario Franceschini: invano. Lì dentro ci sono le mie idee sulla tutela degli artisti vivi…».

Parlavo della casa-laboratorio come luogo fisico.

«È ancora disabitata. È stata sventrata e svuotata del suo contenuto che, ricordo, era incastonato nei muri… Pensi alla fretta di sbattere fuori una famiglia con una madre incinta e, a distanza di tre anni, non ci vive ancora nessuno».

Ora dove vive?

«In una casa in affitto dove non ci stanno i miei strumenti per lo studio che sto tentando di ricostruire».

Le manca solo riconciliarsi con Bugo?

«Prima che lo demoliscano potrei fare a San Siro la reunion con Bugo. A ingresso gratuito e al grido di Le brutte intenzioni, la maleducazione, la disobbedienza (titolo della canzone di Sanremo ndr). Così, finalmente, ci si renderà conto che lo stadio non va abbattuto. Ah ah ah».

 

La Verità, 19 novembre 2022

Fiorello, patrimonio del divertimento italiano

Leggerezza, giocosità, buona musica, invenzione, spensieratezza: dove si trova tutto questo? Nel nuovo show di Rosario Fiorello, intitolato Fiorello presenta, con l’aggiunta del nome della città nella quale va in scena il recital. Venerdì sera è toccato a Padova. Oltre due ore di puro divertimento, concluse con l’intera platea in piedi, prima a ballare e cantare insieme allo showman, poi ad applaudirlo per i saluti finali e richiamarlo al bis. Il Teatro Geox era sold out nei suoi 2500 posti a sedere, tanto che sono state aggiunte nuove date a fine marzo, dopo che la tournée avrà toccato altre città. Sarebbe facile raccontare lo spettacolo citando le battute e i tormentoni, ma vorrebbe dire togliere il piacere della sorpresa ai prossimi spettatori. Gli show saranno sempre diversi, da una città all’altra e la contestualizzazione accentuerà la differenza. Padova, com’è noto, è la città dei «tre senza». Prato della Valle, la piazza senza il prato, il caffè Pedrocchi, senza le porte, il Santo, senza il nome. «Ma ha un con che compensa tutto: lo spritz». Fiorello usa il dialetto alla perfezione nell’intercalare del turpiloquio e di quella grinta un po’ rabbiosa dei veneti, punteggiatura della serata opposta ai Brividi lamentosi di Mahmood.

Tutto, però, è universalmente italiano. Musica, gag, brevi squarci di vita quotidiana, imitazioni volanti, karaoke in giacca color zucca e coda di cavallo, amarcord d’infanzia e di gioventù, improvvisazioni con il pubblico nel quale erano confusi il sindaco Sergio Giordani e Adriano Panatta, infilzato per tutta la sera come una bambolina. Un varietà assoluto, nel senso della versatilità dei linguaggi e delle espressioni. Ma anche nel senso delle varie età cui si rivolge e di cui, con rapido appello, Rosario ha voluto conoscere la diversa rappresentanza in sala. Se ci fosse un organismo deputato a tutelare il patrimonio dell’italico divertimento come l’Unesco sancisce la protezione dei patrimoni dell’umanità, lo showman siciliano andrebbe iscritto per primo in questa speciale categoria. Fiorello è un artista completo, compiuto, perfettamente risolto. Regalare uno spazio di piacere collettivo come ha fatto l’altra sera è qualcosa di unico. Non si tratta solo di evasione, di distrazione di massa. Le problematiche della quotidianità, soprattutto quelle connesse al rapporto tra le generazioni, non sono dimenticate, ma riproposte in chiave comica, paradossale o sull’onda di felici iperboli, con l’esito di sdrammatizzarle. Uno show in cui si parla con delicatezza del tempo che fugge veloce e della morte.

A ben guardare, c’è un’avvertenza sottesa all’intero canovaccio: la giusta distanza dalla politica. Proprio questo, in fondo, dà ariosità e freschezza a tutto lo spettacolo. Siamo persone, molto prima e molto più che militanti di qualcosa, espressione di qualche schieramento. La politica è divisiva e un filo tossica. Fiorello se ne sta alla larga, sfiorandola appena con una rapida citazione della padovana presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e con la gag innocua dei cloni di cui si servirebbero il presidente Sergio Mattarella, la regina Elisabetta d’Inghilterra e qualche altro vip. Non ci sono manierismi, gne gne salottieri, correttismi dei migliori. Ma joie de vivre, voglia di cantare e ballare, attraversando i decenni e connettendo le generazioni attraverso i generi musicali. Una delle eredità lasciate dall’ultimo Festival di Sanremo è proprio il confronto a distanza tra le diverse età e la difficoltà a intrecciarne i linguaggi. In La musica è cambiata?! (Baldini+Castoldi) lo sostiene anche Mimma Gaspari, storica promoter di Paolo Conte, Gianni Morandi e Renato Zero: i rapper e i trapper di oggi non conoscono e forse nemmeno vogliono conoscere la musica di ieri, la tradizione melodica e il mondo dei cantautori. Fiorello prova a creare questa comunicazione proponendosi come ponte tra universi paralleli, per evitare di rapportarci al rap come i nostri genitori facevano con i Bee Gees. Così I giardini di marzo surfano su una metrica sincopata e Figli di puttana di Blanco prova a trasformarsi in una ballata di Domenico Modugno. Gli Ottanta e i Novanta sono stati decenni fortunati per la fusion, il jazz rock interpretato da musicisti particolarmente talentuosi. Ma Fiorello non compie un’operazione virtuosistica, la sua comunicazione non ha niente di etico e viaggia sulle ali del divertimento, suo e nostro. Se i brani dei rapper contemporanei usano senza sfumature il turpiloquio, Gino Paoli e Tony Renis si divertivano con le metafore e i sottotesti del Cielo in una stanza e di Grande grande grande. Sul sesso non si poteva essere espliciti, eppure il linguaggio era più fresco perché non incombeva il politicamente corretto. Edoardo Vianello poteva cantare I Watussi («Nel continente nero/ Alle falde del Kilimangiaro/ Ci sta un popolo di negri…») che oggi Ghali riproporrebbe in versione urban liofilizzata. Fiorello contamina, divaga, sconfina nella musica classica citando l’Ave Maria di Schubert cantata in latino da chierichetto, fino a proporre un’ispirata versione del Padre nostro sulle note di un brano di Tiziano Ferro. Narra Elvis Presley in vacanza in Italia che si affaccia dalla Torre degli Anziani roteando il bacino e s’imbatte in Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni… Plana sull’adolescenza e la psicologia moderna che raccomanda ai genitori di dialogare senza giudicare per «non minare l’autostima dei figli» anche quando prendono tre nel compito di greco. Seguono gli omaggi senza pose ruffiane a Raffaella Carrà e Franco Battiato, il medley di karaoke, la disco anni Novanta… Tutti in piedi con Ciuri.

 

La Verità, 20 febbraio 2022

«L’altro festival di Sanremo suona christian music»

Tipo scaltro, Fabrizio Venturi. Tutt’altro che ingenuo, come si potrebbe sospettare pensando al direttore artistico di un Festival della canzone cristiana. Il primo in assoluto, in programma il 3, 4 e 5 febbraio prossimi all’Auditorium Villa Santa Clotilde di Sanremo. Lungi dal mettersi in rotta di collisione con il Festival di Amadeus, ne sfrutta il traino. «Non siamo un controfestival», scandisce. Gli altri conduttori della kermesse saranno l’attore e comico Gaetano Gennai, Mitch, dj di Radio 105 e inviato delle Iene, e Marta Bucciarelli. Lo scopo è promuovere la christian music, «con o senza l’acca». Fiorentino, 63 anni, fondatore di una casa discografica indipendente, Venturi non fa crociate, non semina giudizi, non dispensa pagelle.

Chi è Fabrizio Venturi?

«Sono un cantautore nato alla fine degli anni Ottanta. Appartengo alla scuola fiorentina, ho frequentato l’Accademia della Canzone di Sanremo, poi sono partito per gli Stati uniti…».

Cos’è la scuola fiorentina?

«Quella che prodotto artisti come Paolo Vallesi, Marco Masini, Raf, Zucchero… Forse possiamo parlare di scuola toscana».

È nato prima il cantautore o il credente?

«Il cantautore».

Chi o che cosa l’ha avvicinato alla musica?

«È un’espressione che si è fatta largo negli anni. Avevo un’agenzia di grafica pubblicitaria con un compagno quando, per gioco, partecipai a un concorso. Scoprii che il mondo della musica mi piaceva e decisi di provarci. Avevo 21 anni».

Nel suo sito si leggono partecipazioni a eventi con Ray Charles, Billy Idol, Temptations, Gipsy Kings e collaborazioni con Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Mogol… Ha un modello musicale al quale s’ispira?

«M’ispiro alla bella musica, fatta bene. La musica è tutta bella, quella fatta bene no. Per esempio: posso comprare una giacca bella, ma dopo tre volte che la indossi è già sformata. I generi musicali sono tutti belli, dal folk all’heavy metal, ma se hai l’orecchio fine ti accorgi quando sono ben eseguiti».

Il suo genere qual è?

«Il pop rock sinfonico. Mi piace la musica potente, la musica minimalista non fa per me. In quasi tutte le mie opere c’è una base con batteria, basso, chitarra e pianoforte che arricchisco con le sezioni di archi e di fiati, o con uno strumento insolito… Ci sono artisti di cui non faccio i nomi, che fanno canzoni sempre con la stessa base».

Che cosa l’ha avvicinato al cristianesimo?

«Lo cercavo, cercavo delle risposte. Nel 1995 ho avuto un gravissimo incidente e sono stato una settimana in coma. Ho sentito una voce che mi suggeriva di mettere a disposizione parte della mia musica per aiutare le voci più deboli. Non capivo cosa volesse dire, fin quando nel 2005 morì il mio grande amico Ambrogio Fogar. Allora gli ho dedicato Amico dolphin, devolvendo i diritti d’autore alla Faip (Federazione associazioni italiane paratetraplegici ndr). Da lì è iniziato il mio cammino».

Ha fatto qualche incontro importante per la sua fede?

«Ho conosciuto e frequentato don Giovanni D’Ercole e don Oreste Benzi. Poi nel 2005 ho scritto Caro Padre che è diventato l’inno ufficiale della Fondazione internazionale Giovanni Paolo II».

Perché avete scelto Sanremo negli stessi giorni del Festival della canzone italiana?

«Perché è il momento in cui l’Italia si raduna in musica e noi ci occupiamo di musica».

La vostra è un’iniziativa alternativa, critica, polemica?

«Assolutamente no. Organizziamo il primo Festival della christian music, un genere musicale che in Italia è ignorato. E che invece ha la stessa dignità del pop e del rock. In altri paesi ci sono divi e star con una popolarità paragonabile a quella di Zucchero e Vasco Rossi».

Perché qui è un genere ignorato?

«Chi lavora nel marketing sa che un prodotto non può piacere fin quando non lo proponi. Come si può scoprire la modernità dei testi di Debora Vezzani se non si ha la possibilità di ascoltarli? Invece sono canzoni meravigliose e Debora Vezzani sarà una nostra superospite. Mentre in gara ci sarà Erminio Sinni, il vincitore di The Voice Senior 2020».

Le piacciono i talent show?

«No, perché non fanno scuola. Non basta avere una bella voce per essere un artista. La musica è fatta di studio e sacrifici. Lucio Battisti, Francesco De Gregori, Lucio Dalla ci hanno messo anni per affermarsi. Spesso i talent sono incubatrici di patologie, perché mettono un ragazzo in un ingranaggio gigantesco, spremendolo all’inverosimile. E quel ragazzo rischia di vivere tutta la vita nel ricordo di quell’anno».

Quanti cantanti partecipano e come li avete selezionati?

«I cantanti sono 24, ma abbiamo selezionato le canzoni, non i cantanti. Sono arrivate oltre 150 proposte. Un team di collaboratori ha fatto la prima scrematura e passato a me le più valide. Le ho ascoltate e riascoltate per tenerne 24. Solo dopo averle selezionate mi sono accorto di aver escluso qualche nome importante. Ma andava fatta una scelta».

I partecipanti percepiscono un cachet?

«Nessun cachet. Il festival è una grande opportunità mediatica, chi vince conquista molta visibilità».

Avete degli sponsor?

«Abbiamo un marchio di food che provvede alle tre cene di gala, ma niente denaro liquido. Lavoriamo gratuitamente e ci paghiamo il viaggio e l’alloggio nelle strutture ecclesiastiche che ci ospitano a prezzi di favore».

Chi saranno i premiati?

«I primi tre classificati, l’autore del miglior testo. Poi ci saranno i premi intitolati a Giovanni Paolo II e a Roberto Bignoli, uno dei più famosi rocker della christian music, il premio della stampa e del Mei (Meeting etichette indipendenti ndr)».

Nei brani in gara si citano Dio e Gesù: è questo che definisce la canzone cristiana?

«Non è la parola a definirla, ma il contenuto. Che però dev’essere esplicito: Dio, Gesù e la Madonna devono essere scritti e cantati».

Ci sono brani degli U2 con una forte carica religiosa che non nominano mai Dio o Gesù.

«Nella christian music il nesso e il significato sono espliciti. L’ispirazione è una cosa, il genere un’altra. Gli U2 non appartengono alla christian music».

Anche le canzoni di Claudio Chieffo rimanevano implicite.

«Non lo conosco».

In un Festival della canzone cristiana mi aspettavo di trovare The Sun.

«Loro li conosco, ma non si sono proposti. Tra le 24 canzoni ammesse ci sono tutti gli stili, dal rap al rock, dal pop allo swing. I concorrenti vengono da Bolzano a Canicattì».

La presenza di Vittorio Sgarbi significa che non è solo un evento musicale?

«Come all’Ariston, c’è la gara canora e c’è l’evento che tocca gli argomenti del nostro quotidiano. La presenza di Sgarbi è comunque inerente perché parlerà del legame tra l’arte pittorica e la musica che è l’arma più potente che Dio ci ha affidato».

Invece Capitan Ultimo cosa farà?

«Sarà sul palco lo stesso giorno di Sgarbi e dirà ciò che riterrà opportuno. Per noi è un onore la sua partecipazione».

La Radio Vaticana che vi seguirà è un media ufficiale del Papa, vuol dire che la vostra è un’iniziativa istituzionale?

«È un’iniziativa del cantautore Fabrizio Venturi, loro mi seguono e mi sostengono».

Che visibilità vi aspettate?

«La Radio Vaticana trasmetterà in diretta mondiale i tre giorni del festival mentre Vatican.news seguirà la finale. Sul territorio nazionale saremo visibili in chiaro su Tele Padre Pio e Canale Italia. Diciamo che la nostra Rai e la Radio Vaticana».

Qualcosa vi ha irritato delle recenti edizioni di Sanremo? Il vescovo, monsignor Antonio Suetta, ha accusato di blasfemia l’esibizione di Fiorello con la corona di spine.

«Nell’arte non c’è blasfemia. Il nostro non è un controfestival e io non mi sono mosso sulla scia del vescovo di Sanremo. Lo dimostra il fatto che già da tre anni avevo comprato i domini di christian music. Sono un sostenitore del Festival: essendo nato dall’Accademia della canzone di Sanremo come potrei non esserlo? Il mio maestro è stato Alberto Testa. Con lui abbiamo scritto Volo libero unplugged, di cui presenterò la versione in vinile. Senza esibirmi, però; perché non è nel mio stile sfruttare la manifestazione per mettere al centro la mia attività. A me interessa solo affermare le tre cose certe in questo mondo: che si nasce, che si muore e che c’è Dio».

Che cosa pensa dell’onda di fluidità che proviene dall’Ariston calcato da Achille Lauro, i Måneskin e la drag Drusilla che condurrà per una sera con Amadeus?                                                                                                                                                                

«Ogni esperienza, anche se dolorosa, può essere positiva. Lauro è un ragazzo geniale, al di là delle forme che usa sulle quali si può concordare o meno. Anche gli altri ben vengano. Se si aggiunge qualcosa, è sempre una vittoria. Chi poteva presumere che Sgarbi fosse vicino al mondo cristiano, anche se dà della <capra!> alle persone che disapprova? È il suo personaggio. Se Amadeus ha scelto questi persone avrà i suoi buoni motivi. L’anno scorso ha condotto in modo magistrale un Sanremo senza pubblico: dobbiamo dirgli bravo».

È curioso che, quand’era frate, Giuseppe Cionfoli andava al Festival e oggi, che non lo è più, viene da voi?

«Ah ah… Sono scelte personali. Non è detto che Cionfoli abbia smesso di pensarla come prima. Si era proposto a tutt’e due i festival, loro non l’hanno preso, da noi viene come ospite».

Al Bano si proclama credente ed è spesso andato a Sanremo.

«Rispondo con un’altra domanda: lei pensa che quelli che vanno all’Ariston non credano?».

Correte il pericolo di autoghettizzarvi?

«Assolutamente no, facciamo musica e basta».

La vostra iniziativa è ingenua e targata?

«Se ci targano va benissimo: facciamo christian music. Non siamo ghettizzati, lei mi sta intervistando, tutta Italia parla di noi. In passato sono stati fatti altri tentativi, mai decollati, come il Jubilmusic. Con l’aiuto di Dio che è il motore di tutto, speriamo di aver gettato un sasso che fa più cerchi nello stagno».

Qual è il vostro obiettivo?

«Evangelizzare attraverso la musica. Il nostro motto è “Chi canta prega due volte”, come recita Sant’Agostino».

Farete una seconda edizione?

«Magari una terza e quarta. Lo scopo è portare nostro Signore nel cuore dei giovani».

 

La Verità, 29 gennaio 2022

«Sono maestro, ma non mi perdonano la bellezza»

In questi giorni il maestro Beatrice Venezi sta provando L’amico Fritz di Pietro Mascagni all’Opera Holland Park di Londra, dove debutterà il 16 luglio. È il motivo che giustifica il dispiacere di non poterla intervistare in presenza. Perché, se nome e cognome evocano un’idea di bellezza, la presenza la incarna. «Prometto che la prossima intervista sarà di persona», concede Beatrice. Citata nel 2018 dalla prestigiosa rivista Forbes tra i 100 under 30 italiani più influenti, direttore principale della Nuova Scarlatti di Napoli e dell’Orchestra sinfonica Milano classica, richiesta dai maggiori teatri del Sudamerica e dell’Asia, a fine settembre Venezi dirigerà l’Orchestra dell’Olimpico di Vicenza nell’Histoire du soldat di Igor Stravinski, titolo che aprirà il ciclo dei Classici diretto da Giancarlo Marinelli, autore anche della regia dell’opera inaugurale.

Come devo chiamarla, signora Venezi?

«Maestro è il titolo corretto».

Ci si può battere per l’emancipazione femminile anche da direttore?

«A maggior ragione. Condivido il pragmatismo del Paese in cui mi trovo, per il quale ciò che si fa più del modo in cui si viene chiamati. Non condivido la declinazione forzatamente femminile dei ruoli, mi interessa di più battermi per la parità salariale e delle opportunità professionali. Però questa è solo una mia convinzione e nutro massimo rispetto per chi la pensa diversamente».

Perché qualche anno fa a Teheran non l’hanno fatta dirigere?

«L’ambasciata italiana preferì cancellare all’ultimo momento il concerto temendo potesse causare risentimento in parte della popolazione. Era il 2019 e c’erano motivi di tensione con gli Stati Uniti e i rappresentanti del mondo occidentale perciò fu ritenuto prudente non esacerbare quelle tensioni».

Ha incontrato ostacoli anche in altri Paesi?

«Ogni Paese ha un proprio protocollo e il rispetto di determinate forme. Per esempio, il Giappone e la Russia. Ma in nessuno c’è il pregiudizio diffuso che si percepisce in Italia».

Che tipo di pregiudizio?

«Mi piacerebbe semplificare dicendo che colpisce le donne che siedono in posti apicali. In realtà, è una forma di avversità più vasta e sottile, che riguarda tutto ciò che mette in discussione posizioni acquisite, dal ricambio generazionale alla questione femminile».

Il suo aspetto è più di aiuto o di ostacolo alla carriera?

«Direi di ostacolo».

Perché?

«Perché si ritiene che una donna che voglia essere culturalmente credibile debba rinunciare alla cura del proprio aspetto. È un luogo comune difficile da scalfire. Nel mio settore la bellezza non aiuta, mentre in una cantante è ben vista».

Anzi, è valorizzata.

«Non così per un direttore, che è un ruolo di comando. In un leader bellezza e autorevolezza sono ritenute quasi incompatibili».

Come sarà la sua estate dopo il debutto londinese?

«Resterò qui fino a fine luglio, poi dirigerò alcuni concerti all’inizio di agosto. Per ripartire in settembre dal Teatro Coliseo di Buenos Aires con un evento più volte rimandato per la pandemia. Nella prossima stagione sarò felice di recuperare altri debutti rinviati in Francia».

La sua attività è stata molto penalizzata dal periodo di restrizioni?

«Non mi posso lamentare perché ho lavorato molto, però principalmente in Italia e nei Paesi vicini. Mentre abbiamo cancellato alcuni appuntamenti in Sudamerica e in Giappone. Auspico che riusciremo a tenere sotto controllo il virus grazie alle diverse misure. Temo sia difficile sconfiggerlo definitivamente, ma spero che diventi una malattia endemica, così da riuscire a conviverci senza fermare il mondo».

L’estate si concluderà con la direzione al Teatro Olimpico di Vicenza di Histoire du soldat scritta da Stravinski nel 1918 durante l’epidemia di spagnola. Come si sta avvicinando a quest’opera?

« Il contesto in cui è nata la rende molto contemporanea. Inoltre, quest’anno ricorre il cinquantesimo della morte di Stravinski, un autore fondamentale per l’evoluzione dello stile compositivo. Marinelli ha impostato un grande lavoro per portare in scena un’opera che, pur appartenendo al repertorio sinfonico, ha una notevole componente drammatica».

Che cosa può dire un testo scritto durante la Prima guerra mondiale all’uomo contemporaneo?

«Histoire du soldat conserva una forza evocativa particolarmente pregnante proprio in rapporto al periodo in cui è stata concepita. È un’opera da leggere, recitare e danzare, come potrà vedere il pubblico dell’Olimpico. Quasi una favola per bambini che ci permetterà di tornare ai ricordi dell’infanzia, quando le mamme leggono le storie ai figli, con qualcosa di consolatorio».

Anche noi come il soldato protagonista rischiamo di vendere l’anima al diavolo in cambio di una ricchezza illusoria?

«È un rischio della società contemporanea. Credo che viviamo un momento molto strano, con difficoltà che il Covid ha amplificato. Vedo il rischio di credere in falsi miti, una faciloneria nel combattere battaglie di cui sappiamo poco. Ci appassioniamo a opinioni che ci vengono vendute in scatola. Ne parlavano alcuni grandi artisti già negli anni Sessanta. Quella che allora era leggerezza è divenuta superficialità nell’approcciare temi complessi in base alle mode. Vendere l’anima vuol dire non applicare il pensiero critico, ma allinearsi al flusso corrente».

La parola dell’epoca era omologazione.

«Aggiornandoci, potremmo parlare di globalizzazione».

Nel dibattito attuale sui diritti delle minoranze c’è qualcosa che la colpisce in particolare?

«Trovo malata la tendenza a pensare di guadagnare un diritto nel momento in cui lo si toglie ad un altro. È un comportamento lontano dalla democrazia».

In che caso?

«In occasione della polemica che mi ha riguardato ho chiesto di essere chiamata in un certo modo senza ledere il diritto di nessuno. Ma tra esponenti di alto livello della politica è partita la gara a screditare la mia figura con un metodo che ritorna, per esempio a proposito di vax e no-vax. Oppure quando si trattano le donne come una minoranza da proteggere. A volte il pragmatismo soccombe sull’altare dell’ideologia».

Quando l’ha visto?

«Certe scene del Gay pride non mi hanno fatto piacere. Ho amici che hanno un orientamento diverso dal mio. Tuttavia, la derisione della figura di Cristo da parte di un manifestante in minigonna e tacchi a spillo, da cristiana mi ha infastidito. Non sono nessuno per dare giudizi, mi chiedo se per affermare un proprio diritto ci sia bisogno di sbeffeggiare il credo di altre persone. In una società democratica dobbiamo tutti cercare le forme di una pacifica convivenza».

Concorda con il maestro Riccardo Muti che al Corriere della Sera ha detto che si fa troppo poco per promuovere l’arte musicale italiana?

«Ne sono convinta; in maniera molto più modesta lo dico da tempo. La politica non vede il nostro patrimonio culturale e artistico come un asset vincente, mentre il nostro Paese potrebbe vivere di questo».

Qual è il sentimento di una donna gratificata dai riconoscimenti della musica italiana nel mondo che si ritrova in patria in situazioni di povertà di mezzi e trascuratezza?

«Piange il cuore. Nel nostro Paese prevale l’esterofilia che influenza interi cartelloni teatrali dove compaiono pochi o nessun artista italiano a vantaggio di altri, stranieri, più o meno noti. Anche le nostre maestranze dovrebbero essere sostenute dai teatri finanziati dallo Stato. Tanto più dopo una lunga sosta forzata che ha costretto molti lavoratori dello spettacolo a cambiare lavoro… Rincorriamo la star straniera che risulta più interessante ed esotica, mentre all’estero vengono apprezzati gli artisti italiani».

Se dovesse dare un suggerimento discreto al ministro della Cultura Dario Franceschini per favorire l’avvicinamento alla musica dei giovani che cosa gli direbbe?

«Gli direi che bisogna credere nel ricambio generazionale. Nel nostro Paese ci sono tanti giovani talentuosi e competenti che non vedono l’ora di prendersi delle responsabilità. I bamboccioni sono il risultato della mancanza di opportunità non il contrario».

Un lavoro che deve partire dalle scuole e dai conservatori?

«Confermo. I conservatori sono pensati per chi vuole provare a fare della musica una professione. Quello che manca è il primo livello: stimolare i ragazzi partendo dai programmi scolastici. Non bastano tre anni di flauto traverso per apprezzare la musica classica. Il secondo livello riguarda la comunicazione degli enti sinfonici e operistici, affinché i teatri non siano percepiti come luoghi elitari. Il terzo livello coinvolge l’intrattenimento. In Francia, Germania e Gran Bretagna si trovano programmi televisivi di musica classica anche in prima serata. In Italia i canali dedicati sembrano oasi del Wwf. Invece Alberto Angela dimostra che si può avvicinare a temi complessi il grande pubblico».

Che cosa può trasmettere ai giovani di Instagram una figura come Giacomo Puccini a cui, da sua concittadina, ha dedicato il primo disco?

«Proprio la modernità, perché fu un compositore dirompente per la velocità della narrazione, più simile al linguaggio cinematografico che a quello dell’operistica precedente. Un linguaggio che racconta l’amore per la donna e la ricerca della donna ideale con la chiave d’accesso giusta anche per un pubblico di neofiti».

Come giudica il correttismo che sta investendo il repertorio operistico?

«Lo trovo sbagliatissimo. La lirica esprime spesso una sensibilità diversa da quella contemporanea, ma nascondere la storia indorando la pillola è molto fuorviante. Cambiare il copione di Carmen per evitare il femminicidio vuol dire sminuirne la grandezza, perché lei sceglie di morire per difendere la propria dignità».

Ci può anticipare qualcosa del prossimo disco?

«L’ho appena registrato per Warner music con la magnifica Orchestra Haydn di Bolzano. Non è un lavoro monografico, ma una sorta di playlist che raccoglie una serie di eroine e antieroine dalle pagine sinfoniche dell’opera, da Giovanna d’Arco a Salomé, da Lady Macbeth a Maria de Bueons Aires».

Guardandosi dall’esterno qual è il primo sentimento che prova?

«Sono molto orgogliosa di quello che sono riuscita a fare pur non venendo da una stirpe di musicisti. Anche se è ancora molto poco rispetto a quello che spero potrò fare e forse farò nel prossimo futuro».

 

La Verità, 10 luglio 2021

«Così risveglio Napoli, bella addormentata»

Alla fine della chiacchierata vien da chiedergli quale sia il segreto di tanta energia a un’età che, per altro, nemmeno dimostra. «Intanto ho Gaia, una figlia quindicenne che mi aiuta a proiettarmi nel futuro. E poi…».  Cantautore e bluesman, Edoardo Bennato è una fucina di idee. L’ultima è La bella addormentata, una ballata di cui ha appena pubblicato il video, che incastona sulla favola disneyana la visione della sua Bagnoli: «Incatenata/ A una catena/ Per l’incantesimo/ Di una strega/ E anche se la strega/ È organizzata/ E anche se l’impresa/ È disperata/ Sarà una lotta/ Senza quartieri/ Ma vale la pena/ Di tentare/ Solo un bacio la può svegliare».

Ancora una canzone ispirata a una favola?

Già ai tempi di Fedro e di Esopo le favole erano più comprensibili della filosofia di Aristotele e Platone. Sono il meccanismo ideale per coinvolgere sia i bambini che i professori universitari. E mi liberano dell’accademia e del moralismo.

Un meccanismo che ha adottato in tante canzoni.

Con Il rock di capitan Uncino criticavo il teorico della lotta armata che predicava violenza contro Peter Pan qualunquista, esibizionista, «il primo della lista». Con Il gatto e la volpe scoprivo le intenzioni degli imbonitori del mondo dello spettacolo che fanno leva sulle aspirazioni dei giovani per trarne profitto.

Perché ora questa Bella addormentata?

A Bagnoli vedo il mare di Nisida e l’area dell’ex Italsider abbandonata da 30 anni. Mi auguro che, come per miracolo, arrivi un principe a risvegliarla con un bacio.

Anche se di questi tempi i principi azzurri passano per molestatori?

È la nuova caccia alle streghe. C’è il rischio che i tempi siano cambiati in peggio. Quando da ragazzo frequentavo la Ricordi, Mogol e Battisti scrissero Il tempo di morire: «Motocicletta/ 10 HP/ Tutta cromata/ È tua se dici sì». Pensi cosa accadrebbe adesso… Io voglio percorrere una strada propositiva per andare oltre le due fazioni che si scontrano a tutto campo nel Paese E la musica può essere d’aiuto.

Sono solo canzonette, ma possono smuovere le montagne?

In teoria sì. Però ho imparato presto che in questo mestiere non è bello ciò che è bello… Dopo l’uscita del primo album nel 1973, Non farti cadere le braccia, fui licenziato dal direttore della Ricordi perché avevo una voce che non piaceva alle radio. Così me ne andai a suonare per le strade di Londra con un tamburello a pedale. Lì mi notarono dei giornalisti e quando tornai in Italia mi invitarono a un festival. La mia carriera ripartì e il direttore della Ricordi mi richiamò, stupito che fossi riuscito a sfondare nonostante l’ostruzionismo delle radio.

In Italia serve la patente culturale giusta per fare strada?

È così. Ora, nel giugno 2021, mi chiedo se le radio trasmetteranno questa canzone. Oppure se si comporteranno come nel 1973. Siccome non sventolo nessuna bandiera politica tutto diventa più complicato. Spero che questa canzone riesca a trasmettere emozioni positive a chi la ascoltasse distrattamente mentre va in macchina.

A proposito di Napoli si parla sempre di Scampia o della Terra dei fuochi con i toni della denuncia: che cosa la fa essere propositivo?

Nel cortile di Bagnoli dove abitavano le famiglie dei dipendenti Italsider provenienti da tutte le regioni italiane ho imparato a superare i pregiudizi che dividono nord e sud. Noi siamo formiche voi cicale, non lavoriamo voi no. Anche le classifiche sulla qualità della vita premiano sempre le città del nord e bocciano quelle del mezzogiorno. Ma siccome io sono, tra virgolette, un intellettuale del sud, mi ribello al pensiero che da Roma in su siano tutti intelligenti e da Roma in giù tutti stupidi.

Qual è la sua analisi?

Siamo napoletani, italiani, europei e cittadini del mondo. Una volta il nostro pianeta era come un sommergibile, diviso in compartimenti stagni per evitare che un’infiltrazione lo affondasse. Oggi il mondo è come una nave: una falla in qualsiasi punto ci manda a picco tutti. Perciò, pur vivendo a Napoli, devo interessarmi anche di ciò che avviene nelle megalopoli mondiali.

Anche se poi l’azione parte dal posto in cui viviamo?

In Corea del sud valgono le stesse leggi di scienza delle costruzioni adottate in Corea del nord. Voglio dire che per ripensare il futuro preferisco ascoltare architetti, urbanisti, elettricisti e falegnami piuttosto che infilarmi in estenuanti dissertazioni ideologiche, etiche o religiose.

Chi e che cosa dovrebbe risvegliare il sud?

Propongo una chiave di lettura geopolitica. Le città più progredite del pianeta – Vancouver, Oslo, Copenaghen, Stoccolma –  stanno tutte al nord. Sono città dove lo sbalzo climatico stagionale è elevato. Il parametro latitudinale è rilevante. E lo è il fatto che in quelle città vige un sistema di verifica delle comunità sull’azione dei governanti. I quali, non dimentichiamo, sono persone delegate.

I governanti nazionali e locali sono distanti dai bisogni di Napoli e del mezzogiorno?

Non voglio entrare nell’antagonismo tra le fazioni. Non dirò se a Napoli va bene un politico o un altro. Accusare il cattivo di turno è comodo e deresponsabilizzante. Il mio compito, anche attraverso una canzonetta favolistica, è sensibilizzare la gente comune.

Mai pensato di entrare in politica?

Mai. Nel 2016 ricevetti una telefonata da Salvatore Nastasi, allora vicino a Matteo Renzi, che mi propose d’incontrarci per parlare di Bagnoli. Ci vedemmo in una pizzeria, ma qualcuno scattò delle foto. Qualche mese dopo, a un dibattito su Cuba e il Sudamerica con alcuni rappresentanti del mondo antagonista, uno di loro sentenziò che non avevo diritto di parola perché avevo osato incontrarmi con Nastasi. Affido i miei pensieri alle canzoni e alle radio che vogliono trasmetterle.

Le potenzialità di Bagnoli e dei Campi Flegrei sono visibili a tutti: nessuno pensa di riconvertire quest’area per fatalismo, per pigrizia o per paura della camorra?

Quando avevo 15 anni nel famoso cortile delle case Italsider tutti parcheggiavano a caso. Così, niente giochi dei ragazzini né circolazione ordinata. Si creavano ingorghi apocalittici. Un pomeriggio io e mio fratello prendemmo la vernice bianca e tracciammo le strisce per delimitare i parcheggi sul perimetro e a spina di pesce. C’era posto per tutti. Voglio provare a superare il fatalismo, il vittimismo e la passività più o meno giustificata dalla presenza della criminalità.

È sicuro che la vocazione di quest’area sia il turismo?

Il turismo è spesso considerato eticamente meno pregiato dell’industria. Invece porta lavoro e ricchezza. Tra la collina di Posillipo e il mare, ci sono le terme di Agnano e di Castellammare implacabilmente chiuse. C’è l’anfiteatro Flavio di Pozzuoli, ci sono i siti archeologici… Ho fatto anche un video con Nino Frassica per mostrarne le bellezze. In tutte le coste italiane non c’è un’area ricca di potenzialità come questa.

Il 21 giugno sarà il testimonial della Festa della musica al Castello Sforzesco a Milano. Qual è lo stato della musica italiana oggi?

Non m’interessa molto. Da cinquant’anni viviamo ai margini dell’impero anglo-americano di cui rischiamo di essere dei replicanti. Perciò amo evidenziare gli episodi rossiniani del mio repertorio. Come farò a Firenze il 19 luglio in una grande serata con l’orchestra sinfonica.

Le piacciono i Maneskin vincitori dell’Eurofestival?

Sono bravi. Li seguo già da qualche anno.

È diventato propositivo perché ha trovato l’Isola che non c’è?

Non ho trovato niente, la ricerca continua. Chi soddisfa le proprie domande una volta per tutte finisce per chiudersi nel suo limbo. L’Isola che non c’è rappresenta la ricerca e il confronto con gli altri.

Che cosa le dà tanta energia?

Se verrà il 21 giugno al Castello Sforzesco lo vedrà di persona. La musica è energia. E poi ho quella che mi dà mia figlia di 15 anni, con la quale parliamo di tutto. Quando vado a prenderla a scuola devo essere competitivo con gli altri papà. Infine, sono stato fortunato.

Quando?

Quando facevo sport e non fumavo e non bevevo. Da ragazzo, quando mi offrirono la prima sigaretta dissi: «Che schifo!». «Sì, però poi ti abitui», mi risposero. Invece, non mi sono mai abituato, né allineato alle mode.

Anche se ha vissuto in Giamaica come si vede nel video di Nisida?

Anche lì mai fumato. Per scelta personale, senza moralismi.

 

Panorama, 16 giugno 2021

La musica gira bene, peccato le soste retoriche

La parte migliore è proprio ciò che gira intorno. La musica, appunto. E la splendida scenografia di case colorate (dove sarà?) del Teatro 1 di Cinecittà world. E poi alcuni duetti e alcune partecipazioni scanzonate pur trattandosi di canzoni. Ma anche di qualche gag leggera dispensata con tonalità affettuose nel clima generalmente amichevole. Il peggio sta invece nei monologhi accorati, nelle omelie da pensiero uniforme, nella sottolineatura dell’importanza dei testi delle canzoni, a volte un tantino grondanti: «E poi e poi e poi sarà/ che quando sento di voler salvare il mondo/ poi succede che/ è lui che salva me» (Padroni di niente). Peccato, Fiorella Mannoia. Proprio ora che si era esposta in occasione della bigotta polemica contro Grease, giudicato omofobo e misogino: «Questo politicamente corretto sta diventando insopportabile», aveva twittato, condividendo le critiche del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, ex direttore di Canale 5. Peccato, dunque, che La musica che gira intorno sia stata farcita di troppa retorica, sui drammi della pandemia rivisitati da Ambra Angiolini o sull’amore tra due donne interrotto dalla guerra («La lettera di Valerie» da V per vendetta) recitato con occhi lacrimanti da Sabrina Impacciatore (Rai 1, venerdì, ore 21,30, share del 17%, 4 milioni di telespettatori). In apertura non era mancato anche il ricordo della Shoah di Edoardo Leo, con la citazione del colonnello inglese Mervin Willett Gonin che ha raccontato il sorprendente arrivo dei rossetti nel campo di concentramento di Bergen Belsen: era l’introduzione a Credo negli esseri umani di Marco Mengoni. E avrebbe potuto bastare come momento di riflessione.

Il meglio è arrivato invece dalla musica. A cominciare proprio da Canzone di Lucio Dalla, interpretata da Antonello Venditti e Francesco De Gregori, come incipit della serata, partita in crescendo. Con la Mannoia, versatile padrona di casa nell’affiancarsi ai tanti ospiti, soprattutto maschili. Sulle ali della nostalgia il duetto con Claudio Baglioni (Il mondo, Io che non vivo…); aperto dalla leggerezza di Panariello quello con Andrea Bocelli, concluso dall’Hallelujah di Leonard Cohen; intenso nella gara di voci quello con Giorgia, pronta all’autoironia sull’abbigliamento da lockdown; serioso quello con Luciano Ligabue; giocoso quello con Gigi D’Alessio e Achille Lauro in Tu vuo’ fa’ l’americano e Eri piccola. Introdotti dalla gag di Alessandro Siani: «La musica gira intorno perché non trova parcheggio?». Già, sarebbe un peccato se, gira che ti rigira, finisse per trovarlo in zona sinistra da salotto.

 

La Verità, 17 gennaio 2021

«Racconto la neweconomy come una storia rock»

È da poco finito il pranzo della domenica che su La7 spunta Carlo Massarini. Non era il mitico Mister Fantasy, dal nome di un album dei Traffic che diede il titolo alla sua trasmissione? E non era un volto Rai? Un critico musicale, rock pop e jazz, che per primo aveva sconfinato nel mondo digitale? La guida di Cool tour e di Ghiaccio bollente, rubrica culturale e contenitore di concerti e storie su Rai 5? Lui: il programma che conduce adesso sulla tv di Urbano Cairo s’intitola Startup economy, c’entra sempre con l’avanguardia digitale, ma è tutt’altra faccenda. Non resta che chiamarlo per capirne di più… la voce va e viene. «Meglio se ci sentiamo sul telefono fisso», invita Massarini. «Lo uso poco, ma ho dovuto farlo installare perché, a sei chilometri dal Raccordo anulare di Roma, vivo in una di quelle zone grigie dove il segnale balla. La connessione è migliorata dopo peripezie e cambi di operatori… Ora vedo i filmati che per anni mi erano inibiti».

Non male come paradosso.

(Ride) «È una buona metafora della nostra Italia: una persona che ha sempre lavorato sull’avanzamento tecnologico ha una connessione balorda a casa».

Com’è nata l’idea di Startup economy?

«Diciamo che viene da lontano. Dal 1995 al 2002 ho condotto MediaMente su Rai educational, un programma sull’innovazione digitale ideato dal direttore Renato Parascandolo».

Pionierismo.

«Facevamo alfabetizzazione ad orari impossibili. Però funzionava. Avevamo coinvolto i migliori studiosi, gente come Derrik De Kerckhove. Internet era agli albori. Creammo anche il primo sito Rai. Il programma vinse dei premi, all’estero però».

E in Italia?

«Quando arrivò Giovanni Minoli a Rai educational decise di chiuderci, non era interessato».

Eravate troppo in anticipo?

«Forse. Ma credo che un servizio pubblico avrebbe potuto mantenere la postazione».

Ora Startup economy.

«Con il professor Francesco Sacco, conosciuto allora, abbiamo studiato questo format. Ci siamo prefissati di colmare un vuoto, di imprenditoria futura non parla nessuno. Trent’anni fa Apple, Amazon, Google, Facebook eccetera erano startup. Pensiamo a quello che sta facendo Elon Musk a proposito di ricerca sullo spazio. Tutti i grandi marchi sono sostenuti da piccole aziende ad alta specializzazione. Nei paesi più avanzati sono filiere che incidono sul Pil. In Italia ancora no, ma comincia a muoversi qualcosa in gruppi come Enel ed Eni che finanziano le startup utili ai loro processi. O nell’economia bancaria, che è un’incubatrice. Mettendo tutto insieme è nato questa specie di periscopio sul futuro».

Come si parla di economia digitale in tv?

«Non ci rivolgiamo solo agli smanettoni, agli iniziati, per i quali dobbiamo essere credibili, ma a tutti. Perciò dobbiamo essere comprensibili, accessibili. Quando ci imbattiamo in qualche termine specifico lo traduciamo con il nostro “wiki”, un decodificatore che fa la spiega in tempo reale e aiuta a familiarizzare con espressioni che a volte sento anch’io per la prima volta».

Buona divulgazione.

«Divulgazione dell’innovazione. Una buona formula sono le storie. Anche quando parlavo di rock usavo le storie. Tutti conosciamo quella di Steve Jobs, un’epopea partita da un garage e culminata con il famoso “Stay hungry, stay folish”. Tra le tante, racconteremo la storia di un ragazzino del Togo, adottato da una famiglia parigina, che ha frequentato un college in Svizzera e creato una startup che abbatte del 90% le emissioni di Co2 di alcuni prodotti. Io non sono un chimico, ma lo vedremo alla prova».

Perché un programma così va in onda su La7 se lei è un volto Rai?

«La7 è stata disponibile e contiamo di tornare in autunno con un altro ciclo. La Rai mi rimbalza, come se non fossi mai passato da quelle parti. Hanno chiuso anche Ghiaccio bollente su Rai 5».

Prima era stato chiuso anche Cool tour.

«Non ho capito bene perché, forse costava più della media di rete, forse per altri motivi che ignoro. Era un programma itinerante…».

Era in anticipo anche con i videoclip, forse troppo?

«Mister Fantasy è stato il primo programma al mondo che ha trasmesso i videoclip. Merito di Paolo Giaccio. Anche MediaMente è stato il primo sulle tecnologie digitali. Due programmi di svolta. Mi costruivo dentro quello che incontravo fuori. O meglio, trovavo fuori il corrispettivo delle mie tensioni. In mezzo, nel 1986, c’era stato anche Non necessariamente; quello sì troppo precoce, come il figlio geniale che non ha avuto successo, ma era il più intelligente».

Perché la Rai non ha sviluppato quelle intuizioni?

«Bisognerebbe chiederlo ai direttori che si sono succeduti. A nessuno è venuto in mente di riprenderle. Io non credo ai complottismi, fatto sta che non si è fatto niente e dopo quasi vent’anni, durante il lockdown per il Covid, scopriamo che non c’è la banda larga e che la scuola è impreparata per la teledidattica».

Pigrizia, scarsa lungimiranza?

«C’è chi si giustifica dicendo che “il pubblico non ce lo chiede”. A me non basta: se fai servizio pubblico puoi creare attenzione e affezione per certi contenuti. Nella nostra tv si parla quasi solo di politica, dei temi legati all’innovazione e al futuro non c’è traccia. Nel mondo non è così. C’è chi studia e avanza, senza che lo si sappia. Ci accorgeremo del ritardo quando ci sarà la ricaduta concreta».

Tornando alla Rai?

«Ho smesso di farmi domande. Uno se le fa un anno, due, tre, poi dice come i ragazzi americani: “Grazie, è ora di andare via da casa”».

Com’è la new economy vista dall’angolo d’Africa del suo salotto?

(Ride) «È vero… ma c’è anche il Budda thailandese. Noi andiamo davvero in onda da casa. Mi piace l’arte di luoghi lontani. Ho coltivato una passione per la cultura africana, musica, letteratura, arredamento, simbologia. Mi piace mescolare il primitivo e il tecnologico come hanno fatto Brian Eno, Peter Gabriel, i Talking heads. Ho anche oggetti degli eschimesi canadesi che erano di mio padre…».

Ufficiale della Marina.

«Il più grande regalo che potesse farmi fu portarci a vivere in Canada per tre anni, dal 1959 al 1962. Un Paese che amo tuttora, il lato soft degli Stati uniti. Vivere lì è stato un grande privilegio, la possibilità di allargare l’orizzonte e imparare bene l’inglese. Così, quando sono arrivato alla radio, prima ancora di parlare al microfono, ho iniziato a tradurre i testi per Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz».

Domenica sulla t-shirt sotto la giacca spuntava David Bowie.

«Un po’ di musica trasmetterebbe l’elemento emotivo della new economy. Per ora mi limito alle citazioni».

Che musica ascolta oggi?

«Di tutto, senza distinzione. L’altro giorno ho comprato un disco di Selda Bağcan, una cantante turca. Blues, jazz, musica popolare, poco rock perché mi pare non abbia più molto senso. Preferisco le contaminazioni, le musiche che non conosco. È un fatto di curiosità, se restassi nella mia confort zone non mi sentirei cittadino del mondo».

Perché ha ripubblicato Dear Mr. Fantasy (Rizzoli Lizard) «foto-racconto di un’epoca musicale in cui tutto era possibile», dieci anni dopo la prima edizione?

«Era nato come un libro personale, realizzato con foto solo mie in una stagione in cui le star non erano blindate da manager, agenti, addetti stampa. Noi reporter stavamo a bordo palco, andavamo nel backstage. Oggi è un libro generazionale che include artisti fondamentali fotografati da altri come Frank Zappa, Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Fabrizio De André, e altri che magari hanno avuto notorietà più breve, ma sono stati importanti per me».

Se dovesse indicare la principale differenza tra la musica di quel decennio e il presente quale sarebbe?

«Sono tante. La prima è questa: per acquistare Mr. Fantasy, il disco della mia vita, dovetti aspettare tre mesi, dal novembre 1967 al marzo successivo. Era un disco d’importazione. Oggi un artista mette le tracce sul sito e istantaneamente sono su Spotify. Le case discografiche non ci sono più. L’idea stessa del disco è cambiata, si anticipano i brani in Rete, poi nel Cd ce ne sono altri… È tutto più liquido. Un’altra differenza è che allora c’era più creatività. Oggi, a causa del mercato intasato, si tende a ripetere la formula che si presume di successo. Nel rock di quegli anni rifluivano la politica e le domande esistenziali, oggi si ascolta la musica sul cellulare e con tre emoticon te la cavi. Detta in modo un po’ brutale: noi avevamo meno e andavamo in profondità, oggi si ha di più e si resta in superficie».

Com’è raccontata oggi la musica in tv?

«Non è raccontata. Ci sono X Factor, Sanremo, anche le monografie di Unici. Va tutto bene, ma manca un programma che racconti il passato e il presente, e sia una guida per l’ascolto».

C’è SkyArte.

«La guardo molto. Con una cifra più elegante e maggior credibilità è quello che era Rai 5. Ma anche SkyArte non ha un vero programma musicale».

Che cosa pensa dei talent show?

«Sono startup di interpreti. Marco Mengoni è figo, Emma Marrone è in gamba, anche se lontana dai miei gusti. I ragazzi sono soprattutto esecutori, prevalgono le cover. Se vincono un talent conquistano milioni di like e visualizzazioni, ma poi spesso si perdono perché non possono avere la scorza che si fa in anni di gavetta, sui palchi, nelle piazze minori. La tv non sempre dà il tempo di maturare».

La massima aspirazione di un cantante o musicista italiano è vincere un talent o il Festival di Sanremo?

«Sono le principali catene di successo. Se ti va bene sfondi. Ma sono due sprint. Credo che, se parliamo di arte, il successo vero sia una maratona, un traguardo che si raggiunge con il tempo. Un altro discorso riguarda i cantanti già affermati o con un buon retroterra. Può piacere o far inorridire, ma per esempio Achille Lauro si è presentato all’Ariston come tableau vivant. Non dobbiamo scandalizzarci. Le generazioni passano: i nostri eroi non sono gli stessi dei nostri figli, come quelli dei nostri padri non erano i nostri».

 

La Verità, 13 giugno 2020

 

«Sto lontana dai reality: la vita privata è privata»

Buongiorno Luisa Corna. Da qualche tempo la rivediamo in televisione con più assiduità: le manca un po’ di visibilità o le piacerebbe tornare a condurre un programma?

«Ma no. Ho fatto giusto un paio di interviste in Rai. E sono stata ospite quest’estate di Barbara D’Urso a Domenica live».

In che occasione?

«Avevo inciso un singolo in omaggio a Mia Martini in collaborazione con l’Associazione Minuetto onlus Mimì sarà. Sua sorella Leda mi aveva fatto conoscere Col tempo imparerò, un brano struggente registrato da Mia, proponendomi di cantarlo. Ho accettato con molta umiltà, per affetto verso di lei e tutte le donne che non si arrendono davanti alle difficoltà della vita».

Tornando alla televisione?

«Non mi manca. Mi mancherebbe se non avessi la possibilità dei concerti e del contatto con il pubblico che che per me è la cosa più importante. Ai live vedo che l’affetto dei fan c’è sempre. Poi oggi ci sono anche i social…».

Perché a un certo punto l’abbiamo persa di vista?

«Nel 2011 ho scelto di dedicarmi alla musica. In questi anni la televisione ha cominciato a privilegiare un tipo di programmi nei quali non mi ritrovo. Varietà se ne fanno sempre meno, tutto gira intorno ai reality show. Me ne hanno proposti alcuni, ma ho preferito rimanerne fuori. Non per snobismo, ma perché non mi sentirei a mio agio».

Però li guarda?

«Capita».

Che cosa in particolare non la convince?

«Vorrei andare in televisione per esprimere ciò che so fare. Non voglio sembrare presuntuosa, ma mi sembra che nei reality devi metterti in gioco con tutta te stessa. Penso che la vita privata debba restare tale, mentre nei reality è la parte principale. Non do giudizi, semplicemente non fa per me».

Com’è sbocciato il suo amore per la musica a Palazzolo sull’Oglio?

«Da bambina. All’oratorio, padre Lino suonava il pianoforte e io stavo sempre ad ascoltarlo. Dopo un po’ m’inserirono nel Coro della Rocchetta di Palazzolo. Quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande rispondevo sempre allo stesso modo. Da piccoli si è determinati e a volte i sogni si avverano. A 16-17 anni ho iniziato a frequentare a Milano il Centro professione musica di Franco Mussida della Premiata Forneria Marconi. Poi anche il Centro teatro attivo, per togliermi l’accento bresciano e imparare a intrattenere. Vedevo Mina che sapeva cantare e condurre, vedevo i musical nei quali bisognava saper fare tutto…».

Chi erano i suoi insegnanti?

«Daniela Ghiglione, Lella Costa…».

Poi cosa accadde?

«Iniziai a esibirmi nei locali con un gruppo che si chiamava Te chì la band, in dialetto milanese, con chiara allusione al liquore messicano».

Con che musica è cresciuta?

«Con il blues e il soul, con Stevie Wonder e gli standard jazz. Poi Mina, Lucio Battisti, Fabrizio De André».

Il primo concerto?

«Paolo Conte e poi Giorgio Gaber».

Il primo disco?

«Uno di Mina, poi Celentano che ascoltavano anche i miei».

Come presero la sua volontà di fare la cantante?

«Mio padre aveva un’azienda e io stessa avevo studiato ragioneria nella prospettiva di lavorare in famiglia. Quando si accorse che mi piaceva cantare, pur con un filo di perplessità – perché insomma, il lavoro è un’altra cosa – mi disse: “Se vuoi, provaci. Però qui il posto ce l’hai sempre”».

Ma le cose andarono bene…

«Entrai nel coro di Miguel Bosè. Poi m’iscrissi al Festival di Castrocaro, presentandomi da sola… Conducevano Gigi Sabani e Rosita Celentano. Ogni settimana ti richiamavano se superavi le selezioni in base al gradimento del pubblico».

E?

«Arrivai seconda. Anzi, prima mi avevano detto che avevo vinto, poi si corressero, in diretta».

Poi però tradì la musica per la moda…

«Mi avvicinarono nei locali dove cantavo: “Perché non provi qualche servizio fotografico?”. Ci pensai un po’, non avevo vent’anni, ma poteva essere un modo per mantenermi. Entrai nella Fashion, una delle agenzie più importanti. A una delle prime sedute c’era anche Fabrizio Ferri… Ho girato il mondo, sono stata più volte a New York, in Australia, l’Europa l’ho vista tutta. È stato un periodo intenso, ho imparato tanto».

Quando tornava a Palazzolo pativa lo sbalzo dal mondo glam alla vita del paese?

«Ho una famiglia unita, torno volentieri a casa. Dicono che quelli del Sagittario siano persone curiose, che amano viaggiare, ma che allo stesso tempo tengono i piedi per terra. Quella della modella è una professione faticosa, ci si alza presto. A me non interessava la vita notturna. Finito di sfilare me ne stavo in albergo, spesso sola o con qualche collega. Perciò quando tornavo a casa ero felice di riabbracciare i miei e le amiche che sono tuttora quelle della scuola».

La seconda deviazione dalla musica è stata la televisione.

«Seppi che Michele Guardì e Fabrizio Frizzi cercavano cantanti per Domenica in. Non avevo nemmeno l’agente, ma ci provai. Cantai accompagnandomi al pianoforte e andò bene. Alla fine di quell’anno mi contattò Corrado Mantoni per propormi di affiancare Giampiero Ingrassia nell’edizione estiva di Tira e molla su Canale 5. Dopo l’estate mi proposero di partecipare a Controcampo di Sandro Piccinini. Stavo fra il pubblico e facevo qualche domanda. Poi a un certo punto decisero che potevo affiancare il conduttore».

Arrivò anche il cinema.

«Mi chiamò Panariello per interpretare una fotoreporter della quale si innamorava lui stesso che faceva il giornalista. Quando, per promuoverlo, andai ospite di Taratatà di Vincenzo Mollica, Fausto Leali mi propose di partecipare in coppia alla selezione per Sanremo».

Arrivaste quarti.

«Il brano s’intitolava Ho bisogno di te».

Cantate ancora insieme, i timbri vocali si completano.

«Fausto è un amico, ed è bresciano, parliamo in dialetto».

Coltiva altre collaborazioni?

«Nel 2007 con Tony Hadley degli Spandau Ballet abbiamo inciso un brano per la colonna sonora del film Russian Beauty e, di recente, Sananda Maitreya, più conosciuto come Terence Trent D’Arby, mi ha coinvolto nell’album Prometheus e Pandora, inciso per il trentennale della sua attività artistica. Siamo stati in tournée».

Canta il blues, il soul, la musica napoletana. Chi apprezza tra gli artisti attuali?

«Tiziano Ferro, Elisa, anche i Maneskin mi sembrano centrati nel loro stile».

E il rap?

«Ci sono dei rapper che trovo interessanti per i testi oltre che per la loro comunicativa. Tra questi, J-Ax che ha scritto un brano meraviglioso dedicato a suo figlio. Al tempo stesso il genere rap ha prodotto il trap, i cui interpreti oggi stanno avendo grande successo soprattutto grazie a internet dove affrontano temi importanti di disagio sociale con una certa esaltazione e leggerezza. Poiché questo particolare genere musicale è destinato a un pubblico adolescenziale facilmente influenzabile, credo sia importantissima una maggiore vigilanza e diffondere messaggi dai contenuti non negativi».

Segue i talent show musicali?

«Trovo che siano un fatto positivo. Oggi i giovani non sanno più come entrare nel mondo della musica. Certo, lì è già un po’ tutto pronto. Ci sono i coach e il pubblico che ti ascolta in condizioni di favore. Ai ragazzi che mi chiedono consiglio su cosa fare suggerisco di tentare i provini dei talent, perché fuori c’è il deserto. Mettendoli però in guardia sul fatto che un conto è avere una bella voce e saper cantare qualche cover, un altro è diventare un artista che sa stare sul palco».

Che rapporto ha con la politica?

«Quello di un cittadino normale. Seguo i telegiornali, m’informo».

Come vede il cambiamento verificatosi alle ultime elezioni?

«Sono piuttosto confusa. Fatico a farmi un’idea definitiva. Mi sembra che non si faccia abbastanza per far crescere il Paese. Appena si muove qualcosa, la burocrazia e la pressione amministrativa finiscono per soffocare tutto».

Che cosa pensa del movimento Me too?

«Penso che, con tutti i suoi limiti, possa servire a difendere le donne che per tanto tempo sono state viste come oggetto del desiderio. Ai tempi di mia madre e di mia nonna le condizioni erano peggiori. Ma ancora oggi, nel mondo del lavoro, spesso non c’è parità e a volte le donne vengono viste come facile preda».

Ha mai subito molestie?

«Mai».

Nessuna invadenza che l’ha costretta a mollare qualche ceffone?

«Appena mi accorgevo di qualche insistenza eccessiva evitavo persone e circostanze».

Si divide tra Palazzolo e Brindisi dove c’è il suo compagno.

«Per fortuna ci sono due aeroporti comodi e funzionanti».

Come si vive vicino a un ufficiale dell’arma dei Carabinieri?

«Imparando il senso del dovere e la responsabilità di dedicarsi con generosità al benessere degli altri».

Che trasmissione vorrebbe per tornare in televisione?

«Oggi sembra obsoleto parlare di varietà. È un genere che va rinnovato e aggiornato».

Le è piaciuto Stasera a casa Mika?

«Molto. Mika ha un’eleganza e una grazia naturali. Anche la scenografia era innovativa».

Altri?

«Renzo Arbore che se ne sta defilato e ogni tanto spunta con la sua leggerezza sapiente. E poi Fiorello, anche lui quando esce dalle retrovie…».

Come ha trascorso il Natale?

«Avendo viaggiato spesso per motivi di lavoro, il Natale per me e la mia famiglia è sempre stato un momento speciale per ritrovarsi tutti insieme. Credo che oltre al business della festività, questo sia un periodo giusto per rallentare e fare spazio ai valori più autentici e agli affetti più cari, ai famigliari, ai parenti e agli amici che non si ha avuto modo di abbracciare da tempo».

 

La Verità, 31 dicembre 2018