«Io, mio padre, Berlusconi e l’Mma con la vita»

Volto giovane dei talk show di Michele Santoro, writer nella Milano degli anni Zero, autore di Striscia la notizia per un decennio. Frequentatore di Silvio Berlusconi ad Arcore, candidato nella lista di Pisapia sindaco, regista con master a New York, praticante di Mma (Arti marziali miste). Il quarantunenne Francesco Mazza è tutto questo. Il suo rovello, però, è il padre. Lo si capisce da Il veleno nella coda (Laurana), sorta di doppia autobiografia, presentata al Premio Strega da Francesco Pacchiano, uno dei più autorevoli critici letterari in circolazione. Suo padre era il dentista di fiducia di Berlusconi, colui che gli rifece zigomi e sorriso dopo che Massimo Tartaglia lo colpì con una miniatura del Duomo di Milano. Era: perché il 4 settembre 2019 Massimo Mazza ha messo fine alla sua esistenza sulle montagne russe suicidandosi. È la prima scena di questo viaggio nel retrobottega del ventennio berlusconiano. Televisione, successo, donne, fama e politica in un corpo a corpo senza riserve con la vita.

Da dove mi risponde?

«Santo Domingo».

Perché si trova lì?

«Lavoro per una società italiana attiva in Sudamerica».

Cosa fa di preciso?

«Sono chief strategy officer di un’azienda che si occupa di diritto all’oblio sul Web. La mia vita incasinata mi ha dato delle competenze in materia».

Tipo?

«Competenze legate alla sopravvivenza, apprezzate in campo finanziario. Argomento controverso».

Proviamo a sviscerarlo.

«Sono stato alcune volte vicino al punto di non ritorno, ma sono sopravvissuto. Questo può servire nel campo della finanza, dove ogni giorno si rischia di saltar per aria o di diventare miliardari. Le faccio un esempio».

Prego.

«Quando per disegnare i graffiti sui vagoni della metro si sfiorano i cavi dall’alta tensione basta poco per finire fulminato. Saper controllare quell’emozione torna utile nella gestione delle problematiche finanziarie».

Nella finanza c’è molta domanda di oblio?

«Per reazione all’ostentazione dei social si sta sviluppando una forte controtendenza a sparire. La privacy può essere un bene più prezioso del gas».

Parliamo di oblio virtuale o reale?

«È la stessa cosa. Se uno non esiste su Google non esiste nella vita reale».

Oblio per evasori?

«No. Non è mai esistito nella storia un posto dal quale in un nanosecondo si possono attingere tutte le informazioni su una persona. C’è gente che non ha piacere che questo accada e vuole iniziare una nuova vita. A brand new life, come dicono gli americani».

Persone che desiderano una nuova identità, uno pseudonimo?

«Persone che desiderano una neutralità di sguardo, che non ci sia un’idea precostituita su di loro. Molti lavorano per accumulare prove della propria esistenza su Google. Altri darebbero qualsiasi cifra per non comparire su Wikipedia».

Cancellare le tracce per nascondere qualcosa?

«Ci sono limitazioni legali. Il diritto alla non menzione è previsto dalle leggi, ma decade se la persona ha una funzione pubblica».

«Anti scrittore» è una definizione che le piace?

«No. Secondo me lo scrittore sono io e gli anti scrittori sono gli altri».

L’esatto contrario.

«Io scrivo per farmi leggere, la maggior parte degli scrittori italiani per compiacere il proprio circolino di riferimento».

Per esempio?

«I finalisti del Premio Strega».

Se il suo libro fosse entrato nella dozzina non direbbe così.

«Gli Amici della Domenica possono presentare dei libri e un signore molto rispettabile come Giovanni Pacchiano ha proposto il mio. Che entrasse nella dozzina aveva la stessa probabilità che io possa diventare un bramino indiano».

Mai dire mai. Non anti scrittore ma eccentrico al sistema?

«È la cittadella della cultura italiana a essere fuori dalla realtà. Perciò quando uno scrive cose realistiche diventa un anti scrittore. Dire che “è un libro di una sincerità estrema” ha senso in un mondo dominato dall’ipocrisia».

Come spiega che sia stato escluso sebbene alcuni addetti l’abbiano definito il miglior libro del 2021?

«Conta di più il fatto che questo libro non l’ha cagato nessuno. In America se ne sarebbe parlato, in Italia se un prodotto non è collocabile a destra o a sinistra finisce nel cono d’ombra».

Un libro caduto nell’oblio?

«Un libro che racconta una generazione condannata all’oblio non può che essere condannato all’oblio».

Nonostante la presenza di alcuni importanti personaggi pubblici?

«Anche ritratti in modo inedito. Per esempio, il mio racconto del presidente del Consiglio di allora maltrattato al telefono da una parlamentare del suo partito potrebbe avere una valenza storica».

Che conclusione trasse dalla richiesta che le fecero i consiglieri di Giuliano Pisapia di farlo fotografare con le veline nel bel mezzo della campagna «Se non ora quando» sul corpo delle donne?

«Che in politica non ci sono buoni e cattivi, ma un unico grande suk dove tutto è in vendita. Bande economiche che utilizzano qualsiasi arma per sovrastare l’altra, strumentalizzando tutto. Ero stupefatto che di queste manovre sui giornali non uscisse niente».

Era in lista con Pisapia provenendo da Mediaset.

«Ero la foglia di fico che lo copriva a destra. Un estremista Pisapia? Ma se abbiamo anche l’autore di Striscia la notizia? La stessa offerta di candidatura mi era arrivata dagli ambienti vicini a Letizia Moratti».

Diceva dei quarantenni condannati all’oblio, una generazione alla ricerca del padre?

«Una generazione di sfigati perché ha formato il proprio immaginario e le proprie ambizioni in un mondo in via d’estinzione. Quello con il mito delle professioni, il giornalista, l’avvocato, il notaio… Oggi si gioca uno sport diverso. A un ventenne non frega niente di vedere l’articoletto sul giornale con il proprio nome».

I quarantenni presi d’infilata dalla rivoluzione digitale?

«Con tutto quello che ha significato, la smaterializzazione della società, la distruzione dell’industria culturale. Quando sento quelli che vogliono fare i critici cinematografici dico: ma vi siete accorti che il cinema non esiste più? Esiste Tik Tok».

Si può cercare il senso dell’esistenza fino all’autolesionismo?

«Se uno cerca la validazione di sé all’esterno è destinato a soccombere».

Sul lettino di Villa Certosa, pensando a ciò che ha costruito e conquistato, Berlusconi si interroga sul senso di tanta fatica.

«Non si trova mai all’esterno una pietanza così ricca da farti passare la fame. La salvezza avviene solo dentro di noi. Però, per certe persone, può essere impossibile».

Come suo padre, assente, inaffidabile…

«Cercavo figure paterne ovunque. La mia famiglia è stata un modello negativo».

Il codice genetico rimane.

«Da sei mesi sono padre anch’io. All’inizio ero nel panico: cosa combinerò? Poi ho capito che conviene fare il contrario di mio padre. Invece di seguire le orme, prendere la direzione opposta può essere la soluzione».

Definisca Berlusconi.

«Ininfluente. Non ha lasciato un erede politico. Quanto alla cultura e al costume che a noi, provinciali, sembravano innescati da lui erano in auge ovunque. A cominciare dall’America di Barack Obama».

«Sei sangue del mio sangue» fu il commento di suo padre dopo la prima ospitata da Santoro? Come definirebbe Michele Santoro.

«Un grande drammaturgo, il capo della compagnia teatrale. Faceva capire che lo spettacolo che metteva in scena era importante».

Ha imparato ad alzarsi tutte le mattine alle 8 come le consigliò Antonio Ricci?

«Anche prima».

Perché è importante quel consiglio?

«Perché il talento non basta. Se non ci si dà da fare con il solo talento non si va lontano».

Chi è Antonio Ricci?

«L’ultimo dei mohicani, l’ultimo intellettuale. Immune al clima di propaganda che ci avvolge».

Voleva fondare le Brigate Ssss: si può essere di sinistra senza essere stronzi.

«Un idealista».

Cioè, non ci crede più neanche lui?

«Credo che sottoporrebbe quella definizione a una severa revisione critica».

Non uno sport o le ragazze, «ci teneva insieme il vuoto che avevamo dentro, che riempivamo facendo casino per la città». Dove nascono le baby gang?

«Dalla completa mancanza di qualsiasi pensiero forte. Tutti i pensieri in circolo non sono solo deboli, ma totalmente inermi. Manca un’idea da seguire. Chi sta nelle baby gang non sono delinquenti, ma ragazzi che non si rendono conto di quello che fanno. Anche noi writer a un palmo dai cavi dell’alta tensione eravamo folli. Ma un’idea forte l’avevamo. Oggi non esiste, è tutto concesso».

Il writer è un modo di urlare la propria identità?

«È come il Cogito ergo sum di Cartesio, declinato in maniera moderna e birichina».

Affermare un’identità restando clandestini è un controsenso?

«No, è l’unica condizione per cui i graffiti hanno valore. Servono perché non ci sono spazi per affermarsi. Se ci fossero non avrebbero più senso. I graffiti legali come la street art mi fanno venire il vomito».

Banksy?

«Ha la forza dirompente di un boy scout. L’arte dovrebbe essere provocazione».

È furbo?

«Un genio dal punto di vista economico».

I writer sono noti nello stretto giro come gli autori televisivi?

«Con la differenza che gli autori sono disposti a tutto per un po’ di fama. Sono incarogniti perché non hanno visibilità. Fare l’autore tv è contro natura».

Nella logica dell’apparire?

«L’autore tv vive sapendo che il più cialtrone dei comici sarà infinitamente più popolare di lui e deciderà il suo pane».

Corpo a corpo anche l’Mma?

«Mi sto preparando per un match professionistico. Anche qui a Santo Domingo mi alleno in palestra».

Cosa l’affascina?

«Intanto il rapporto con il coach… Poi che quando sei dentro la gabbia sei completamente da solo. Non ci sono parole amicizie scorciatoie, conta quello che sei tu, i sacrifici che hai fatto. Una bella scuola».

Un po’ brutale?

«Si prendono tante botte, uno shock. È qualcosa di completamente estraneo alla modernità, che ti obbliga a essere umile. I voli pindarici dell’ego sono vietati».

Lo scopo?

«Un documentario. S’intitola Il senso della lotta».

 

La Verità, 2 aprile 2022