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«Il successo? Con Striscia, l’emozione con la pittura»

Quarant’anni di carriera e non tirarsela. Anzi, trattandosi di Dario Ballantini, figura storica di Striscia la notizia, il tg satirico di Canale 5, quarant’anni di carriere. Al plurale.
Dario Ballantini, uno e trino?
«Quasi quaterno».
Cosa mi sono perso?
«Nelle mie attività ci sono sempre io. La pittura pesca nel mio inconscio, in televisione sono truccato da qualcun altro, in teatro anche. Il Ballantini normale rimane un po’ nascosto».
Vedremo di scoprirlo. Le piace l’aggettivo poliedrico che ricorre nei profili e nelle recensioni?
«Sì. Ho sempre convissuto con diversi aspetti e modi espressivi. È un buon modo per non annoiarsi».
Televisione, teatro, pittura e scultura: si può fare una graduatoria emotiva?
«L’emozione di un quadro quando è finito è inarrivabile. Se davvero mi soddisfa quello che ho fatto, sono il primo spettatore a meravigliarsi. Non nascondo che mi appaghi pure il successo di un’imitazione. Anche quando Dario scompare e rimane quello lì sono il primo a stupirmi. Diciamo che, essendo cresciuto in una città piena di artisti, la pittura smuove qualcosa di ancestrale. E rimane più a lungo, rispetto alla televisione che è sempre più usa e getta».
La tv è più effimera?
«Si consuma su sé stessa. Si ripete, cancella e rifà. Un’opera compiuta ha un altro tipo di profondità».
Quarant’anni di carriera, lei ora ne ha 59: tutto cominciò a scuola?
«Al liceo sperimentale di Livorno scelsi il ramo artistico perché volevo già diventare pittore. Poi ho condiviso con i miei compagni questo sogno che un insegnante, un pittore espressionista autodidatta, incoraggiò».
Un insegnante particolarmente significativo?
«In quel liceo molti insegnanti sperimentavano un modo moderno di proporsi e dialogare, tipo il professore dell’Attimo fuggente. Proprio lì sono nati i primi spettacolini di cabaret, le prime imitazioni, la passione per Lucio Dalla».
Cosa comporta essere cresciuto in una famiglia di pittori, attori, cantanti?
«A dir la verità, era una famiglia di artisti mancati. Mio padre aveva smesso di dipingere, mio nonno anche, mio zio tenore aveva perso la voce. Mi sono ribellato a queste carriere incompiute, buttandomi subito con determinazione. Così adesso ho una lunga carriera, ma lunga è stata anche la gavetta».
In quale campo?
«Il successo è arrivato con Valentino che ha imposto l’idea delle imitazioni in strada, riprese con la telecamera a spalla. Era il 1998. Poi il pubblico si è accorto della mia pittura attraverso l’esposizione televisiva. Avevo già partecipato ad altri eventi, ma non era successo niente. La prima mostra importante fu a Verona, dove Giancarlo Vigorelli recensì i miei lavori».
Suo padre era un pittore neorealista, suo zio un post-macchiaiolo, lei come si definirebbe?
«Qualcuno ha parlato di esistenzialismo cosmico, nel solco del neo neo espressionismo».
Due volte neo?
«Sì, perché il neo espressionismo è precedente».
Ho letto da qualche parte che la accostano a Egon Schiele o è una bufala?
«Non è una bufala, la mia è una pittura un po’ nordica. In Italia l’espressionismo non ha avuto grande successo. Dai primi anni Ottanta ho iniziato a dipingere figure sofferenti che ricordavano le anatomie di Schiele».
Chi sono gli artisti che l’hanno influenzato?
«Sono appassionato di tanti pittori: Mario Sironi, Ennio Calabria, Fernando Farulli, tutti espressionisti. Poi Livorno è la città di Amedeo Modigliani. Chi ama un’arte che viene dalle viscere non può non fare i conti con lui».
Una pittura della psiche, dell’identità interiore?
«Un esercizio che non ha fine. L’interiorità è talmente un abisso imperscrutabile da essere una grande avventura».
Quello che ritrae è un uomo incompiuto, tormentato?
«Tormentatissimo».
Da che cosa?
«Mi pare che perdiamo tempo per cogliere perché siamo al mondo. Se non c’è un senso è un guaio. Se invece c’è, mi sembra che non si cerchi abbastanza. Secondo me, i miei quadri raccontano questo».
Una pittura con un grido dentro?
«Sì».
L’urlo è il titolo di una serie di opere di Edvard Munch che però, forse, esprimono più disperazione.
«Non è proprio la stessa cosa. Alzo la voce anch’io, ma internamente. Quella non è più il tipo di disperazione che avevo nei primi anni».
È venuto prima l’attore, il pittore o l’imitatore?
«Di poco, il disegnatore. Già da bambino avevo Ia passione per i fumetti della Marvel, ne avevo disegnato uno a otto anni. A parte il fatto che l’ho perso, la cosa interessante e che il protagonista era un supereroe che si mascherava».
Una cosa profetica?
«Una piccola rivelazione».
Poi si presentò con un suo compagno di classe a Corrado. Tra quel provino e Striscia la notizia cosa c’è in mezzo?
«Anni e anni di gavetta. Concorsi, spettacoli, esibizioni ovunque. Anche nei night club».
Era sicuro di sfondare o assalito dai dubbi?
«Ero abbastanza convinto e determinato. Sono un perfezionista e capivo che le cose erano fatte bene, anche se forse i tempi non erano maturi».
Le sue sono imitazioni, caricature o prove d’attore?
«Sono un’evoluzione dello stile di Alighiero Noschese. Però hanno una componente dinamica, l’idea di farle in strada. Il movimento, l’affiancarsi a qualcuno, dà una nuova percezione. Non è l’imitazione eseguita in studio, statica, c’è l’imprevisto, il dialogo mentre si cammina».
Senza tradire l’anima dell’imitato ne enfatizza un aspetto?
«Tiro fuori quello che loro hanno già dentro. Non li stravolgo».
Una vita di trucco e parrucco?
«Ore di preparazione. Partecipo attivamente perché sono stato truccatore anch’io. Poi ho conosciuto le professioniste che adesso si occupano di me e partecipo senza annoiarmi».
Valentino, il suo personaggio icona è anche il più riuscito?
«È stato quello che ha funzionato di più nell’immaginario. Quindi anche il più riuscito, insieme ad altri».
Quello venuto meno bene?
«Angelino Alfano».
Le vittime sono sempre idee sue?
«Per Striscia la notizia sono anche suggerite da Antonio Ricci, bisogna stare sull’attualità ed essere funzionali al racconto. Quelle che porto in teatro, e scelgo personalmente, non hanno l’urgenza dell’attualità».
Sono i mostri sacri?
«Sono le mie passioni: Lucio Dalla, Zucchero, Petrolini».
Quello che la diverte di più?
«A Striscia, in questo momento, Ignazio La Russa».
Molto aderente.
«Lo proposi già nel 1995 in chiave grottesca, usciva dalle fiamme».
Come le è venuto in mente papa Francesco in vespa?
«Nacque poco dopo l’elezione. Fu un’idea di Ricci che un po’ mi mise in crisi perché mi sembrava un azzardo. Poi, siccome già nei primi tempi se ne andava in giro a piedi, si decise di dargli un mezzo giovanile. Ora la vespa è un accessorio irrinunciabile».
Di Giuseppe Conte cosa l’ha colpito?
«Nel timbro della voce e nel modo di parlare forbito ho visto i tratti del gagà. Ho pescato dal personaggio di Enrico Montesano che a sua volta si riferiva al Totò di Signori si nasce. È una maschera precisa, la voce impostata e l’espressione forbita la rendono molto buffa».
I politici se la prendono?
«Mah… Sono così affetti da protagonismo televisivo che secondo me sono contenti».
Imitazione uguale consacrazione?
«Non sono io a far loro un danno. Semmai se lo fanno da soli».
Sempre andato d’amore e d’accordo con Ricci?
«Per la verità sì. È un rapporto di lunga durata. Nell’89 feci un concorso per giovani talenti che si chiamava Star ’90 e Ricci era presidente di giuria. Io vinsi e lui fu colpito da alcune imitazioni desuete di Dario Fo, Enzo Jannacci e Gino Paoli. Scoprii che c’era un filo comune tra Livorno e quella parte della Liguria».
Paoli e Jannacci erano un mondo che Ricci conosceva bene.
«Ha capito che ero un soggetto un po’ strano. Mi trovava grezzo e un po’ inquietante. Ma mi ha tenuto lì, sperando che ci fosse l’esplosione, che arrivò molti anni dopo».
Un attore comico esistenzialista?
«Dipingendo ritratti tento d’impadronirmi delle anime altrui. E anche per le imitazioni scavo dentro i personaggi».
Ricci accetta il suo esistenzialismo?
«Ha sempre detto che il mio essere macerato produce cose. Si figuri che lui preferisce i miei quadri in bianco e nero, che sono ancora più enigmatici».
Quali sono «le conseguenze di 40 anni nei panni di altri»?
«Le racconto nello spettacolo a teatro. In contesti internazionali è capitato che mi scambiassero per il personaggio vero. Per esempio, al Festival di Cannes sono stato annunciato in Eurovisione come monsieur Nanni Moretti, invece ero io».
E cos’è successo?
«Si sono molto arrabbiati, non hanno accettato la presa in giro delle nostre incursioni».
Altre conseguenze?
«Un anno sono stato per 300 giorni vestito da Valentino. Praticamente ho fatto la vita di un altro. Ora accade di meno».
Dario Ballantini è come i soggetti dei suoi quadri?
«Sono quasi degli autoritratti. Forse ho messo anche troppa carne al fuoco, perciò sfuggo alle identificazioni».
Il quarto Ballantini è poliedrico ed eclettico?
«A Jannacci, quando andava in ospedale dicevano “vai a cantare che è meglio”, quando cantava “vai in ospedale”. Il pubblico non è abituato all’eclettismo. Invece, io penso si possano avere più risorse artistiche. In qualche modo, il mio percorso inizia a dimostrarlo».

 

La Verità, 30 marzo 2024

Giambruno resta a Mediaset ma lascia il video

Fine delle conduzioni. L’ex compagno del premier lascia il video del Diario del giorno e torna dietro le quinte, nel ruolo di coordinatore dello stesso programma. Lo si legge nella nota diffusa da Mediaset in serata. «Andrea Giambruno, dispiaciuto per l’imbarazzo ed il disagio creato con il suo comportamento, ha concordato con l’azienda di lasciare la conduzione in video del programma Diario del giorno, di cui continuerà a curare il coordinamento redazionale». È la soluzione più logica e plausibile alla quale si è arrivati al termine di una convulsa giornata di riunioni e verifiche. Nel comunicato è rilevante la sottolineatura del dispiacere per l’imbarazzo e il disagio creato all’azienda. Un’ammissione che verosimilmente eviterà al giornalista procedimenti disciplinari.

Non era facile trovare la quadratura del cerchio. Giambruno dietro le quinte è l’uovo di Colombo trovato dal direttore dell’Informazione Mediaset Mauro Crippa e da Andrea Pucci, responsabile dell’agenzia NewsMediaset, che per tutto il giorno hanno vagliato le varie ipotesi in campo. La soluzione che ha decongestionato il clima in azienda e anche, in qualche modo, il rapporto con il mondo della politica. È la decisione che rasserena un po’ tutti.

Da qualsiasi parte la si prendesse, le probabilità di rimanere scottati erano elevatissime. Lungi dal raffreddarsi, col passare dei giorni, la patata restava bollente. Giorgia Meloni era riuscita a voltare rapidamente pagina – fatto salvo che il suo ex compagno è il padre di sua figlia – rientrando nei panni del suo ruolo istituzionale. Si leggerà sul prossimo numero di Chi la versione di Giorgia, perché ha detto «addio a Giambruno». A Mediaset, invece, ci si trovava in mezzo al guado. Ieri mattina il conduttore del Diario del giorno che, d’accordo con la direzione di testata, si era autosospeso fino a venerdì, si era presentato a Cologno monzese per discutere la sua posizione. Archiviata la relazione con il premier, Giambruno voleva proteggere profilo professionale e rapporto con Mediaset. Possibilmente tornando a condurre il programma su Rete 4 già da lunedì. Si profilava un braccio di ferro imbarazzante per tutti. Anche perché il giornalista sembrava deciso a tenere il punto.

Ci si trovava davanti a un crocevia con parecchie strade. Il licenziamento da Mediaset, la più drastica e la meno probabile delle ipotesi. Il ritorno alla conduzione di un telegiornale, Studio aperto o Tg4, mansione che ricopriva fino a un anno fa. La scelta di restare dietro le quinte, al desk di un tg. La ripresa della conduzione del Diario del giorno. Infine, la quinta possibilità, forse la più vicina, togliersi dal video e continuare a lavorare al programma, dal coordinamento redazionale.

La strada meno probabile era il licenziamento. Ma bisognava vedere che piega avrebbero preso le diverse verifiche aperte dagli organismi professionali a carico di Giambruno. Sulla vicenda devono pronunciarsi il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e il relativo Consiglio di disciplina territoriale che valuterà eventuali sanzioni disciplinari. E deve esprimere una valutazione anche la Commissione pari opportunità della Fnsi che sarà mandata al presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardi. Ecco perché, all’opposto del licenziamento risultava poco praticabile anche il ritorno alla conduzione del programma, quasi come se nulla fosse accaduto.

Anche perché, con buona pace delle narrazioni del giornalone unico nazionale che tifano per il naufragio del governo, i vertici di Mediaset non avevano alcuna intenzione d’inasprire il rapporto con Giorgia Meloni. Non era in atto nessuna resa dei conti tra Forza Italia e Fratelli d’Italia tramite i fuori onda di Striscia la notizia. In un momento di complessa gestione del post Silvio Berlusconi Forza Italia non è certo interessata ad acuire i contrasti. Dovesse cadere il governo per un’azione di disturbo attribuibile al partito retto da Antonio Tajani, quando mai e alleato di chi potrebbe rientrarci? Le elezioni europee si avvicinano a grandi passi e nella maggioranza tutto sembra convergere a rinsaldare l’alleanza.

Qualche giorno fa Antonio Ricci aveva rivendicato piena e totale autonomia sui fuori onda. «La cosa che mi ha più stupito è che per il 90% dei giornali sembra impossibile che possa esistere qualcuno che prende iniziative di testa sua e non sia un mero ventriloquo», è sbottato per smontare le troppe «ricostruzioni mirabolanti».

Tornando a Giambruno, un trattamento non punitivo nei suoi confronti sarà visto come un segnale di distensione anche a Palazzo Chigi. Il suo ritorno alla conduzione sarebbe stato impossibile da gestire. Ogni sua smorfia sarebbe stata monitorata dai cellulari di colleghi e colleghe e dalle telecamere in bassa frequenza del circuito interno di Cologno. A precisa domanda se auspicasse questa soluzione «l’imperatore dei rompicoglioni» (copyright Fedele Confalonieri), aveva risposto: «Certamente». Stando a ciò che aveva fatto trapelare e contrariamente a quanto paventato da molti retroscenisti, «il frigo» è vuoto e solo così avrebbe potuto tornare a riempirsi. Invece…

 

La Verità, 25 ottobre 2023

Ricci: «Su Giambruno ricostruzioni mirabolanti»

Sto bene, sto molto bene, faccio il mio lavoro come sempre». A margine del vertice sulla pace in corso al Cairo, Giorgia Meloni risponde telegrafica a chi vuol sapere quanto le sia costato un viaggio diplomatico tanto impegnativo all’indomani della separazione da Andrea Giambruno. La questione è archiviata e il premier rientra interamente nel suo ruolo istituzionale: «Non so cosa non sia chiaro del fatto che non voglio più parlare di questo», ha tagliato corto. Nel post con cui ha annunciato la fine della sua relazione con il compagno «non c’è una parte politica». Insomma, storia chiusa e fine delle dietrologie.

Il giorno dopo il ciclone che ha scosso i palazzi della politica innescando la solidarietà al Capo del governo dei leader di tutti i partiti con la sola eccezione di Elly Schlein, il caso partito dai fuorionda di Striscia la notizia si raffredda e rientra nelle interpretazioni più realistiche. Nella missione di abbattere il governo delle destre di cui si sono auto investite le grandi firme del giornalone unico nazionale anche l’arma della vita privata può tornare utile. Purtroppo però non è in corso nessuna guerra tra Mediaset e Giorgia Meloni. Non c’è alcun pizzino inviato al premier per la decisione di tassare gli extraprofitti delle banche partecipate da Fininvest. Insomma, non esiste alcuna volontà di Marina e Pier Silvio Berlusconi d’indebolire il governo in carica. Retroscenisti e tessitori di fantasiose ricostruzioni se ne facciano una ragione.

«Non sapevo nulla di Striscia, altrimenti te l’avrei detto», ha confessato Berlusconi jr. a Meloni venerdì sera durante una conversazione telefonica definita «cordiale» e «di vicinanza». È tutta opera dell’incontrollabile Antonio Ricci. Il quale, ribattezzato per l’occasione «re dei rompicoglioni, anzi, imperatore dei rompicoglioni» da Fedele Confalonieri, ha provveduto a gettare definitivamente nello sconforto i tifosi della via gossippara alla crisi istituzionale. «Del caso “fuorionda” ho letto ricostruzioni mirabolanti, complottarde, a volte incredibili, ma tutte divertenti», ha premesso il padre del tg satirico di Canale 5 prima di fornire la sua versione «naturalmente senza nessuna pretesa di esser creduto, ci mancherebbe, ma solo per dare un contributo al dibattito», ha gigioneggiato. L’inventore di Striscia ha spiegato di aver letto un’intervista su Chi a Giambruno (quella in cui l’ex compagno adombrava la possibilità che lui e Giorgia si fossero già sposati in segreto) che corrispondeva a una sorta di «beatificazione». Così ha «pensato subito di utilizzare l’antidoto. Da una fortunosa pesca estiva avevo due fuorionda del giornalista in frigo». Ecco spiegato anche l’uso differito dei filmati in cui Giambruno parla dell’incidente di Casal Palocco e, sistemandosi la patta, fa avance volgari e sessiste a una collega del Diario del giorno. La beatificazione ha fatto da stura al dissacratore Ricci. Distanziato di quasi dieci punti di share da Affari tuoi di Amadeus il tg satirico del Biscione non primeggia negli ascolti e le gravi intemperanze del partner del premier potevano tonificarli. Così il padre di Striscia ha attinto alla miniera delle registrazioni in bassa frequenza o dai video girati col telefonino da qualcuno che non simpatizzava per lo strafottente Giambruno. Probabilmente ne aveva altri a disposizione, forse ancor più imbarazzanti: «Un giorno Giorgia Meloni scoprirà che le ho fatto un piacere», aveva buttato lì venerdì Ricci.

Quella dei fuorionda è una tecnica già adottata in passato colpendo, solo per citare i casi più memorabili, l’Emilio Fede arruffone alla direzione del Tg4, il Flavio Insinna furioso di Affari tuoi e lo stesso Silvio Berlusconi, protagonista involontario della serie del Cavaliere mascarato. Stavolta il caso Giambruno non ha smosso la colonnina dell’Auditel, lasciando lo share attorno al 15% (3 milioni di telespettatori circa). In compenso, Striscia la notizia e il suo fondatore hanno riconquistato visibilità mediatica globale, approdando sulle maggiori testate digitali e cartacee del pianeta. «La cosa che mi ha più stupito di tutto il dibattito», ha concluso, sardonico, Ricci, «è che per il 90% dei giornali sembra impossibile che possa esistere qualcuno che prende iniziative di testa sua e non sia un mero ventriloquo».

Dal canto suo, lungi dall’uscire indebolita dalla vicenda, Meloni continua a raccogliere la solidarietà di esponenti politici di schieramenti diversi come l’ex ministro delle Pari opportunità Elena Bonetti confluita in Azione: «Ha fatto chiarezza e dichiarato di voler tutelare la vita privata propria e di sua figlia, un gesto di dignità e una richiesta di riservatezza della sfera privata rispetto a cui tutti dovremmo attenerci»; e la sua collega di partito ed ex ministro della Pubblica istruzione Maria Stella Gelmini: «Nella situazione di Meloni si possono riconoscere molte altre donne, le separazioni sono sempre passaggi dolorosi. E l’operato del Presidente del Consiglio lo si valuta da ciò che fa o meno per l’Italia, non dalla sua vita privata».

 

La Verità, 22 ottobre 2023

«Bezos e gli altri? Geniali, ma senz’anima»

Un produttore di vino con la fissa dei giornali. È Giancarlo Aneri da Legnago (Verona), 74 anni portati alla grande, inventore del premio «È giornalismo». Uno che fa dire a tanti che lo vedono per la prima volta: «O è matto, oppure…». Successe al portinaio della Ferrari a Maranello, quando si presentò senza appuntamento per incontrare il mitico Enzo. E a Tony Mantuano, ristoratore di Chicago, al quale fece giurare che Barack Obama avrebbe fatto il primo brindisi da vincitore con il suo Prosecco. Insomma, un genio del marketing. Scienza appresa e applicata da direttore delle relazioni esterne delle Cantine Ferrari di Trento, il marchio del più celebre spumante italiano. Poi lasciato per fondare la sua Aneri Srl.

Cosa racconterebbe ai nipoti per sintetizzare la storia dell’azienda che porta il suo nome?

«Racconterei la prima bottiglia bevuta con i miei tre maestri di vita: Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Quel brindisi ha portato fortuna».

Perché lo fece con loro?

«I momenti importanti si festeggiano con le persone che si stimano di più».

Che vino era?

«Prosecco. Eravamo a casa di Bocca, 1997. Montanelli si complimentò, ma da toscano disse che adesso aspettava un buon rosso. Due anni dopo avrebbe assaggiato il primo Amarone».

I suoi sono vini per presidenti, star e grandi marchi?

«Siccome il mondo non è solo dei ricchi, se l’Amarone è l’eccezione, il Prosecco è la normalità. Penso di rappresentare una delle poche cantine al mondo che in 25 anni ha fatto bere i suoi vini a tutti i Capi di stato».

Come ha fatto?

«Ero da vent’anni alla Ferrari spumanti quando mio figlio mi disse: “Papà, io non lavorerò mai con te, perché voglio costruire qualcosa di mio”. Da quel momento ho iniziato a pensare a un’azienda di famiglia».

I presidenti e le star?

«Mia moglie dice che sono un po’ montato. Invece, ho avuto fortuna, non ho fatto il fighetto, ma il piazzista».

Un aneddoto da piazzista.

«Dopo aver visitato il Senato, ospite di Ted Kennedy, al momento della foto gli ho messo in mano la bottiglia: “Insomma, scrivono già che bevo troppo”, brontolò. Ma io ero così contento che non mi accorsi di fare qualcosa d’inopportuno».

A Ted Kennedy e al Senato americano bisogna arrivarci.

«Da sempre, quando vado in una città, m’informo sui migliori alberghi e ristoranti. Ted Kennedy me l’ha presentato un grande ristoratore italiano di Washington. Sono stato ospite con mia moglie di Ronald Reagan, ho visitato la Casa Bianca con una sua assistente. Non mi sono mai fatto troppi problemi. Sa chi mi ha insegnato a essere sicuro di me stesso?».

Dica.

«Enzo Ferrari. La prima volta che sono andato in America ho chiesto consiglio a lui che non aveva mai preso un aereo: “Se hai un prodotto che consideri buono ma vedi che non ti ascoltano, alzati e va’ via”».

Alla Ferrari auto si arriva passando dalla Ferrari spumanti?

«Vedevo che quando il Cavallino rampante vinceva i Gran premi brindava con lo champagne… Ma perché, se è il simbolo dell’Italia? Un giorno mi presentai a Maranello con sei bottiglie… “Sono Giancarlo Aneri, vorrei parlare con il commendator Ferrari”. Il portinaio era basito: “Ha un appuntamento?”. “No, però vorrei incontrarlo”. “Guardi che l’ingegnere ha l’agenda piena per i prossimi sei mesi”. “Io vengo da Legnago, in provincia di Verona, e ho portato un piccolo presente che vorrei consegnargli personalmente”. Allora spunta Valerio Stradi, il segretario personale: “Se mi dà il pacchetto glielo consegno io”. “No, guardi, posso aspettare anche tutta la giornata, mi metto qui…”. Stradi si allontana e ritorna: “L’ingegnere può dedicarle un minuto”. Rimasi con lui un’ora e mezza».

Diceva che la Aneri è nata per dare un futuro a figli e nipoti.

«Il Pinot bianco porta il nome di mia moglie Leda, l’Amarone di mia figlia Stella, il Pinot nero è intitolato a mio figlio Alessandro. I quattro prosecchi alle mie nipotine e al nipotino, Lucrezia, Ludovica, Giorgia e Leone. C’è una storia dietro e un futuro roseo davanti».

Com’è riuscito a portare i suoi vini sulle tavole del G20?

«Il merito è di Silvio Berlusconi, il primo premier che ha usato l’Amarone Aneri come biglietto da visita del made in Italy. Il giorno della firma della Costituzione europea nel 2004 ne ha regalato una bottiglia a ogni capo di governo con il loro nome inciso. Invece, il Prosecco è arrivato sulla tavola di Barack Obama».

Come?

«Sei mesi prima delle elezioni, lessi sul New York Times che, in caso di vittoria, Obama avrebbe festeggiato con Michelle alla Spiaggia, il suo ristorante preferito di Chicago. Presi un aereo e andai a trovare il ristoratore Tony Mantuano per farmi promettere che il primo brindisi sarebbe stato con il mio Prosecco. Mantuano mi guardava interdetto: “Questo qui è più sicuro di Obama”. Conservo la mail arrivata nella notte che dice che Obama e sua moglie hanno brindato con il Prosecco Aneri».

Tutto merito della sua fissa per l’informazione?

«Il vino si apprezza prima di tutto con il profumo, ma ha un suo profumo anche l’inchiostro dei quotidiani. Ne compro sei al giorno: Corriere della Sera, Sole 24 ore, Il Giornale, Libero, La Verità e L’Arena».

Qualche giorno fa su una pagina del Sole 24 ore un tale G. A. chiedeva al filantropo Jeff Bezos di annullare il licenziamento di 10.000 dipendenti pensando prima all’uomo che al pianeta. Ne sa qualcosa?

«Sì perché l’inserzione è mia. Bezos aveva annunciato l’intenzione di donare metà del suo patrimonio per salvaguardare il pianeta, ma quello stesso giorno il New York Times informava che Amazon licenziava 10.000 dipendenti. Mi sono detto: perché prima di salvaguardare il pianeta non difende subito 10.000 persone rinviandone il licenziamento di un paio d’anni?».

È l’ultimo di una serie di messaggi affidati ai giornali?

«I cinesi usavano i tazebao, io uso una pagina di giornale per lanciare un messaggio o dire grazie».

Altri tazebao?

«Quando Mario Draghi lasciò la Bce feci pubblicare un ringraziamento sul Sole 24 ore per il buon lavoro svolto. Era firmata “È giornalismo, Aneri”. Il giorno dopo i membri della giuria mi chiamarono per ringraziarmi. Poi al momento dell’incarico a Draghi ho fatto pubblicare sul Corriere una pagina anonima con “Grazie presidente Mattarella. Grazie presidente Draghi”».

Qualche tazebao rimasto anonimo?

«Quando in piena pandemia la tv francese Canal+ mostrò un pizzaiolo italiano che, cantando tossiva sulla pizza, ho fatto pubblicare una pagina sulla Verità che recitava “Viva la pizza. Abbasso lo champagne”, firmata con le iniziali di nipotine e nipotino».

Per l’incarico a Giorgia Meloni, niente tazebao?

«Sono felicissimo che una donna in gamba come lei abbia in mano le sorti dell’Italia per i prossimi anni. La guardo con gli occhi di chi vuole farsi un’idea più precisa nei prossimi sei mesi».

Cosa pensa dei big dell’economia digitale come Bezos, Bill Gates e Mark Zuckerberg?

«Sono dotati di grande genialità e hanno creato un modo di vivere e di comunicare più veloce ed efficiente. Ma non vedo l’anima. Mi sembra che le donazioni servano a promuovere la loro immagine. La persona che mi convince meno è il banchiere filantropo George Soros. Ha fatto guerra per anni alla sterlina e alla lira, complicando la vita a milioni di famiglie inglesi e italiane. Non basta finanziare il restauro di un monumento per compensare tante speculazioni».

Com’è nato il premio «È Giornalismo»?

«Avevo l’ambizione di avvicinare Montanelli, Biagi e Bocca che si stimavano molto, ma si frequentavano poco. Oggi la giuria è composta da Giulio Anselmi, Paolo Mieli, Gianni Riotta, Gian Antonio Stella e Mario Calabresi. Ma il premio è stato fondato dai tre giganti del giornalismo e da un loro amico sincero. Ne parlo al presente perché per me sono ancora vivi».

Un aneddoto su Montanelli.

«Qualche volta andavamo in vacanza insieme. Un anno m’incarica di scegliere un albergo sulla spiaggia di Punta Ala. Individuo l’Alleluia e ragguaglio la padrona su esigenze e orari dell’illustre ospite. Quando arriva il momento, scendo in un altro hotel due giorni dopo di lui e gli chiedo se vada tutto bene. “Insomma, sono tutti vecchi in questo albergo”. Immagino pullman d’inglesi novantenni… La sera m’invita a cena: il più vecchio avrà avuto 65 anni, lui ne aveva 84. Questo era Indro, come si fa a non volergli bene?»

Enzo Biagi?

«Le riunioni si facevano da Bocca, ma una volta lui arrivò in ritardo subendo i rimproveri del padrone di casa. “Sono andato a fare le analisi, oltretutto sono tutte sballate”, confidò Biagi. “Anch’io le avevo sballate”, replicò Giorgio. “E come hai fatto a guarire?”. “Ho smesso di farle”».

Il premio si sta aggiornando ai nuovi media?

«Nel 2013 abbiamo premiato Hal Varian, capo della sezione economica di Google, chiedendogli di aiutare i giornali con la pubblicità».

Intanto vi siete allargati ai volti televisivi.

«Sempre in rapporto all’informazione. Già nel 2003 avevamo premiato Antonio Ricci come capo del vero tg della televisione italiana. Nel 2015 è toccato a Fiorello per Edicola Fiore, un programma che aiuta il giornalismo come piace a me».

Altri premiati: Fabio Fazio, Massimo Gramellini, Mario Calabresi, vince il mainstream?

«Feltri ha ribattezzato “È giornalismo” come il “Premio Stalin”. Ma guardando l’elenco troviamo anche suo figlio Mattia, Milena Gabanelli, Natalia Aspesi, Sergio Romano. Io non interferisco sulle scelte della giuria perché sono contento di essere il patròn».

Forse bisogna cambiare la giuria?

«Qualche anno fa Natalia Aspesi chiese di farne parte, ma Montanelli suggerì di aspettare un po’ perché aveva appena vinto. Conservo la sua mail: “Caro Aneri, si ricordi che noi donne siamo più brave degli uomini ed è un peccato che in giuria non ce ne siano”. Forse ora i tempi sono maturi. Dopo un paio d’anni di sospensione, mi piacerebbe che il premio tornasse per festeggiare la ripresa di una vita serena come quella foto del bacio in Times Square dopo la Seconda guerra».

Oggi i giornali sono in crisi e le edicole chiudono: lei è l’ultimo romantico?

«Sicuramente sono uno dei pochi ottimisti rimasti. Prendo la lezione che viene dal mio mondo: c’è stato un momento in cui si parlava solo dei ristoranti stellati e si diceva che le trattorie stavano morendo. Oggi in Italia sono i locali in maggior espansione. Perciò, spero che si possa superare il momento difficile e, magari con un aiuto pubblico per le edicole, riportare i giovani a frequentarle».

 

La Verità, 3 dicembre 2022

«Io, mio padre, Berlusconi e l’Mma con la vita»

Volto giovane dei talk show di Michele Santoro, writer nella Milano degli anni Zero, autore di Striscia la notizia per un decennio. Frequentatore di Silvio Berlusconi ad Arcore, candidato nella lista di Pisapia sindaco, regista con master a New York, praticante di Mma (Arti marziali miste). Il quarantunenne Francesco Mazza è tutto questo. Il suo rovello, però, è il padre. Lo si capisce da Il veleno nella coda (Laurana), sorta di doppia autobiografia, presentata al Premio Strega da Francesco Pacchiano, uno dei più autorevoli critici letterari in circolazione. Suo padre era il dentista di fiducia di Berlusconi, colui che gli rifece zigomi e sorriso dopo che Massimo Tartaglia lo colpì con una miniatura del Duomo di Milano. Era: perché il 4 settembre 2019 Massimo Mazza ha messo fine alla sua esistenza sulle montagne russe suicidandosi. È la prima scena di questo viaggio nel retrobottega del ventennio berlusconiano. Televisione, successo, donne, fama e politica in un corpo a corpo senza riserve con la vita.

Da dove mi risponde?

«Santo Domingo».

Perché si trova lì?

«Lavoro per una società italiana attiva in Sudamerica».

Cosa fa di preciso?

«Sono chief strategy officer di un’azienda che si occupa di diritto all’oblio sul Web. La mia vita incasinata mi ha dato delle competenze in materia».

Tipo?

«Competenze legate alla sopravvivenza, apprezzate in campo finanziario. Argomento controverso».

Proviamo a sviscerarlo.

«Sono stato alcune volte vicino al punto di non ritorno, ma sono sopravvissuto. Questo può servire nel campo della finanza, dove ogni giorno si rischia di saltar per aria o di diventare miliardari. Le faccio un esempio».

Prego.

«Quando per disegnare i graffiti sui vagoni della metro si sfiorano i cavi dall’alta tensione basta poco per finire fulminato. Saper controllare quell’emozione torna utile nella gestione delle problematiche finanziarie».

Nella finanza c’è molta domanda di oblio?

«Per reazione all’ostentazione dei social si sta sviluppando una forte controtendenza a sparire. La privacy può essere un bene più prezioso del gas».

Parliamo di oblio virtuale o reale?

«È la stessa cosa. Se uno non esiste su Google non esiste nella vita reale».

Oblio per evasori?

«No. Non è mai esistito nella storia un posto dal quale in un nanosecondo si possono attingere tutte le informazioni su una persona. C’è gente che non ha piacere che questo accada e vuole iniziare una nuova vita. A brand new life, come dicono gli americani».

Persone che desiderano una nuova identità, uno pseudonimo?

«Persone che desiderano una neutralità di sguardo, che non ci sia un’idea precostituita su di loro. Molti lavorano per accumulare prove della propria esistenza su Google. Altri darebbero qualsiasi cifra per non comparire su Wikipedia».

Cancellare le tracce per nascondere qualcosa?

«Ci sono limitazioni legali. Il diritto alla non menzione è previsto dalle leggi, ma decade se la persona ha una funzione pubblica».

«Anti scrittore» è una definizione che le piace?

«No. Secondo me lo scrittore sono io e gli anti scrittori sono gli altri».

L’esatto contrario.

«Io scrivo per farmi leggere, la maggior parte degli scrittori italiani per compiacere il proprio circolino di riferimento».

Per esempio?

«I finalisti del Premio Strega».

Se il suo libro fosse entrato nella dozzina non direbbe così.

«Gli Amici della Domenica possono presentare dei libri e un signore molto rispettabile come Giovanni Pacchiano ha proposto il mio. Che entrasse nella dozzina aveva la stessa probabilità che io possa diventare un bramino indiano».

Mai dire mai. Non anti scrittore ma eccentrico al sistema?

«È la cittadella della cultura italiana a essere fuori dalla realtà. Perciò quando uno scrive cose realistiche diventa un anti scrittore. Dire che “è un libro di una sincerità estrema” ha senso in un mondo dominato dall’ipocrisia».

Come spiega che sia stato escluso sebbene alcuni addetti l’abbiano definito il miglior libro del 2021?

«Conta di più il fatto che questo libro non l’ha cagato nessuno. In America se ne sarebbe parlato, in Italia se un prodotto non è collocabile a destra o a sinistra finisce nel cono d’ombra».

Un libro caduto nell’oblio?

«Un libro che racconta una generazione condannata all’oblio non può che essere condannato all’oblio».

Nonostante la presenza di alcuni importanti personaggi pubblici?

«Anche ritratti in modo inedito. Per esempio, il mio racconto del presidente del Consiglio di allora maltrattato al telefono da una parlamentare del suo partito potrebbe avere una valenza storica».

Che conclusione trasse dalla richiesta che le fecero i consiglieri di Giuliano Pisapia di farlo fotografare con le veline nel bel mezzo della campagna «Se non ora quando» sul corpo delle donne?

«Che in politica non ci sono buoni e cattivi, ma un unico grande suk dove tutto è in vendita. Bande economiche che utilizzano qualsiasi arma per sovrastare l’altra, strumentalizzando tutto. Ero stupefatto che di queste manovre sui giornali non uscisse niente».

Era in lista con Pisapia provenendo da Mediaset.

«Ero la foglia di fico che lo copriva a destra. Un estremista Pisapia? Ma se abbiamo anche l’autore di Striscia la notizia? La stessa offerta di candidatura mi era arrivata dagli ambienti vicini a Letizia Moratti».

Diceva dei quarantenni condannati all’oblio, una generazione alla ricerca del padre?

«Una generazione di sfigati perché ha formato il proprio immaginario e le proprie ambizioni in un mondo in via d’estinzione. Quello con il mito delle professioni, il giornalista, l’avvocato, il notaio… Oggi si gioca uno sport diverso. A un ventenne non frega niente di vedere l’articoletto sul giornale con il proprio nome».

I quarantenni presi d’infilata dalla rivoluzione digitale?

«Con tutto quello che ha significato, la smaterializzazione della società, la distruzione dell’industria culturale. Quando sento quelli che vogliono fare i critici cinematografici dico: ma vi siete accorti che il cinema non esiste più? Esiste Tik Tok».

Si può cercare il senso dell’esistenza fino all’autolesionismo?

«Se uno cerca la validazione di sé all’esterno è destinato a soccombere».

Sul lettino di Villa Certosa, pensando a ciò che ha costruito e conquistato, Berlusconi si interroga sul senso di tanta fatica.

«Non si trova mai all’esterno una pietanza così ricca da farti passare la fame. La salvezza avviene solo dentro di noi. Però, per certe persone, può essere impossibile».

Come suo padre, assente, inaffidabile…

«Cercavo figure paterne ovunque. La mia famiglia è stata un modello negativo».

Il codice genetico rimane.

«Da sei mesi sono padre anch’io. All’inizio ero nel panico: cosa combinerò? Poi ho capito che conviene fare il contrario di mio padre. Invece di seguire le orme, prendere la direzione opposta può essere la soluzione».

Definisca Berlusconi.

«Ininfluente. Non ha lasciato un erede politico. Quanto alla cultura e al costume che a noi, provinciali, sembravano innescati da lui erano in auge ovunque. A cominciare dall’America di Barack Obama».

«Sei sangue del mio sangue» fu il commento di suo padre dopo la prima ospitata da Santoro? Come definirebbe Michele Santoro.

«Un grande drammaturgo, il capo della compagnia teatrale. Faceva capire che lo spettacolo che metteva in scena era importante».

Ha imparato ad alzarsi tutte le mattine alle 8 come le consigliò Antonio Ricci?

«Anche prima».

Perché è importante quel consiglio?

«Perché il talento non basta. Se non ci si dà da fare con il solo talento non si va lontano».

Chi è Antonio Ricci?

«L’ultimo dei mohicani, l’ultimo intellettuale. Immune al clima di propaganda che ci avvolge».

Voleva fondare le Brigate Ssss: si può essere di sinistra senza essere stronzi.

«Un idealista».

Cioè, non ci crede più neanche lui?

«Credo che sottoporrebbe quella definizione a una severa revisione critica».

Non uno sport o le ragazze, «ci teneva insieme il vuoto che avevamo dentro, che riempivamo facendo casino per la città». Dove nascono le baby gang?

«Dalla completa mancanza di qualsiasi pensiero forte. Tutti i pensieri in circolo non sono solo deboli, ma totalmente inermi. Manca un’idea da seguire. Chi sta nelle baby gang non sono delinquenti, ma ragazzi che non si rendono conto di quello che fanno. Anche noi writer a un palmo dai cavi dell’alta tensione eravamo folli. Ma un’idea forte l’avevamo. Oggi non esiste, è tutto concesso».

Il writer è un modo di urlare la propria identità?

«È come il Cogito ergo sum di Cartesio, declinato in maniera moderna e birichina».

Affermare un’identità restando clandestini è un controsenso?

«No, è l’unica condizione per cui i graffiti hanno valore. Servono perché non ci sono spazi per affermarsi. Se ci fossero non avrebbero più senso. I graffiti legali come la street art mi fanno venire il vomito».

Banksy?

«Ha la forza dirompente di un boy scout. L’arte dovrebbe essere provocazione».

È furbo?

«Un genio dal punto di vista economico».

I writer sono noti nello stretto giro come gli autori televisivi?

«Con la differenza che gli autori sono disposti a tutto per un po’ di fama. Sono incarogniti perché non hanno visibilità. Fare l’autore tv è contro natura».

Nella logica dell’apparire?

«L’autore tv vive sapendo che il più cialtrone dei comici sarà infinitamente più popolare di lui e deciderà il suo pane».

Corpo a corpo anche l’Mma?

«Mi sto preparando per un match professionistico. Anche qui a Santo Domingo mi alleno in palestra».

Cosa l’affascina?

«Intanto il rapporto con il coach… Poi che quando sei dentro la gabbia sei completamente da solo. Non ci sono parole amicizie scorciatoie, conta quello che sei tu, i sacrifici che hai fatto. Una bella scuola».

Un po’ brutale?

«Si prendono tante botte, uno shock. È qualcosa di completamente estraneo alla modernità, che ti obbliga a essere umile. I voli pindarici dell’ego sono vietati».

Lo scopo?

«Un documentario. S’intitola Il senso della lotta».

 

La Verità, 2 aprile 2022