Papà, mamma e Bebe Vio: «Ecco la nostra storia»
«Ricordo che arrivati all’ospedale di Padova, quando il medico ci disse che con quella meningite c’era il 3% di possibilità di sopravvivenza e che, anche il quel caso, mia figlia avrebbe subito danni devastanti agli arti e agli organi interni, non volevamo crederci. Non poteva essere vero, poche ore prima Bebe tirava di scherma. Non è possibile, ci dicevamo, questo medico è delira. Mandatecene un altro, vogliamo il primario». Ruggero Vio, papà di Beatrice Maria Adelaide Marzia (nomi delle nonne), detta Bebe, è seduto al tavolo dell’hotel Metropole di Abano Terme per la cena di gala in occasione dell’ottavo compleanno di Art4sport, la onlus che insieme con la moglie Teresa, ha fondato nel 2009 per aiutare bambini e ragazzi portatori di protesi che vivono lo sport come terapia, trasformando la disabilità in una opportunità di crescita (http://www.art4sport.org/). La maggior parte dei 150 ragazzi dell’associazione sono amputati a causa della meningite, qualcuno è nato così e qualcun altro è stato vittima di un incidente stradale. L’idea di art4sport è nata dalla vicenda di Bebe che nel novembre 2008 fu ricoverata al reparto di Terapia intensiva pediatrica dell’ospedale di Padova diretto da Andrea Pettenazzo e ne uscì 104 giorni dopo, amputata sotto i gomiti e le ginocchia.
Com’è vivere vicino a una ragazza così? Che cosa è successo in quella famiglia? Com’è la loro quotidianità? «All’ospedale di Treviso ci avevano già detto che si trattava di meningite», riprende papà Ruggero, ingegnere nautico. «Però, nel dramma, eravamo stati fortunati. In sala d’attesa era passato un infermiere che aveva seguito un caso simile e adesso riconosceva i sintomi. La dottoressa aveva confermato il sospetto e subito somministrato l’antibiotico che blocca l’infezione (meningococco C). Pensavamo che arrivati in ospedale il problema fosse risolto: non sapevamo niente della meningite. Ma Bebe soffriva molto e noi non ci rassegnavamo: com’è possibile che nel 2008 per guarire da una malattia si debbano amputare gli arti? La necrosi avanzava e i medici ci dissero che dovevano fare un controllo sullo stato delle mani. Ma quando uscì dalla sala operatoria non le aveva più. Era stata un’operazione fatta in tempo reale, perché la situazione non peggiorasse. Adesso chi lo dice a Bebe?».
Nel salone dell’hotel il clima è festoso. I ragazzi dell’associazione, chi con le stampelle chi con le lame tipo quelle di Oscar Pistorius, si mescolano agli ospiti per le cure termali. I tavoli sono divisi per discipline: scherma, calcio, atletica… «Sia Bebe che noi genitori eravamo seguiti dagli psicologi, ma il rapporto con loro era complicato», continua il papà. «Dopo due settimane Bebe ne aveva già eliminati un paio. Una volta una era entrata in camera mentre stava guardando la tv. Lei si era girata di tre quarti: “Ha il tempo della pubblicità per dirmi quello che deve”. Questo era… Alla fine ci siamo fatti forza. Io cercavo le parole giuste, ma lei aveva già intuito: “Cos’hai, papà, devi dirmi qualcosa?”. Poi è venuto il momento delle gambe… Almeno, quella volta l’abbiamo saputo prima… “Ma se mi taglio le gambe, poi guarisco? Sì? Allora, facciamolo subito”, insisteva. Ovviamente, c’erano tempi e protocolli da rispettare. Ricordo che la sera prima dell’intervento gli infermieri misero su una festicciola travestendosi da samurai».
Gente giusta per Bebe. Vedendola qui, alla cena di gala, vien da chiedersi dove attinga tanta energia: «Da questi ragazzi spaziali dell’associazione», assicura. «Sono pieni di energia, non si faccia influenzare dalla serata ufficiale, dovrebbe vederli nella normalità, sono delle bestie che spaccano… L’altro giorno con Ephrem, Emanuele e Pietro ci siamo messi le lame, le nostre gambe da corsa, e siamo andati a correre insieme, con tutta la nostra carica». Chissà se è sempre stata così? «Sempre, anche prima della malattia», risponde mamma Teresa, restauratrice di mobili antichi, ora dedita alla onlus. «Io la chiamo “la rompiballe strozzabile”…». Non male come definizione. «Sì, mi ci riconosco», sorride lei. «Ma la mia è una rottura che ha risvolti positivi. Pretendo molto da me stessa e tendo a farlo anche con gli altri. Abbiamo la possibilità di fare un sacco di cose, perciò mi piace che tutti diamo il massimo». Non dev’essere facile tenere il suo ritmo… «Non lo è», riprende la mamma: «Non saprei dire se ha preso più da me o da mio marito. L’indole competitiva è stata ed è la sua salvezza. Lo scoutismo invece gliel’ho trasmesso io e purtroppo a un certo punto abbiamo dovuto convincerla a sospendere. Gli scout non amano lo sport perché i raduni si fanno nei fine settimana, come le gare di scherma. Era arrivata a cambiarsi in auto, tra una trasferta e l’altra. Però la divisa scout la tiene ancora nell’armadio. E lo spirito, quello non lo si perde mai. Bebe ama spendersi per gli altri».
Medaglia d’oro nel fioretto singolare e di bronzo a squadre alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro e fresca campionessa ai Mondiali di Roma in entrambe le specialità, Bebe ha vent’anni e la maturità dei trenta. Vista da qui la crisi della Nazionale di calcio e dello sport italiano è un altro pianeta. Non è strano che i nostri due atleti più vincenti siano Bebe Vio e Alex Zanardi? «Nel mondo paralimpico resistono valori che altrove non ci sono più», risponde Ruggero Vio. «Agli ultimi mondiali di Fiumicino si sono presentate squadre di Paesi minori con carrozzelle tenute su con il filo di ferro. Allora qualche atleta ha prestato le loro per permettere agli avversari di gareggiare meglio ed essere più competitivi. Se la immagina una cosa così nel calcio professionistico? Tutti gli atleti normodotati appartengono a qualche corpo dell’esercito che sostiene attività, gare, trasferte. Anche Bebe fa parte delle Fiamme oro, come Gregorio Paltrinieri. Ma alle premiazioni Paltrinieri indossa la divisa, lei la tuta perché da disabile non può diventare poliziotta. Nel 2013 la nazionale di calcio under 21 la chiamò per motivare i giocatori prima dell’Europeo. Alla fine del suo intervento disse pressappoco: “Voi dovete spaccare, perché la cosa più importante di una gara è vincere”. Arrigo Sacchi, allora coordinatore delle nazionali giovanili, obbiettò: “L’importante è partecipare, non vincere”. “Ma loro devono partecipare per vincere”, replicò lei».
E tu, in gara, cosa pensi? Hai una frase, un mantra segreto? «Niente mantra. Immagino sempre di essere in svantaggio. Se pensi che stai vincendo la prendi facile. Certo, vedo il punteggio ma non lo guardo veramente. Nella gara a squadre, che è quella che mi piace di più, penso a tirare fuori il meglio di me per non mettere in difficoltà le mie compagne, Loredana e Andrea».
In Se sembra impossibile allora si può fare, titolo del libro della Gazzetta dello sport che fotografa il suo temperamento, Bebe spiega che «le persone con disabilità si dividono fra rancorosi e solari. I rancorosi sono la maggior parte e sono arrabbiati con il mondo per quello che gli è successo. I solari, invece, hanno deciso di viverlo come un’opportunità». Una volta dimessa dall’ospedale ebbe la sua prima vera crisi, durante una medicazione: «Basta, mi voglio suicidare», sbottò. «Sì, e come pensi di fare?», aveva scherzato il papà. «Mi butto dal letto». «Rischi di peggiorare la situazione senza raggiungere lo scopo. Se vuoi ti accompagno alla finestra, se ti butti dal secondo piano magari… Ma smettila! E goditi quello che hai, ché la vita è una figata». Da quello scambio è nato il titolo della trasmissione trasmessa da Rai 1. «Venivamo da un momento difficile», ricorda Ruggero Vio. «Io e mia moglie ci chiedevamo se avremmo ritrovato il sorriso. E che cosa sarebbe stato di Bebe una volta che non ci saremmo più stati. Il futuro ci spaventava. Come si vive senza quattro arti? Abbiamo ricominciato a vivere giorno per giorno: “Adesso ti devo fare le medicazioni, lo so che sono dolorose, ma non c’è altra strada”».
Al Centro protesi Inail di Budrio previdero sei mesi di riabilitazione per imparare a usare le protesi. «Voi scherzate. A Ferragosto devo essere all’Elba»: mancavano due mesi e mezzo. Le vacanze nella casa di Bagnaia erano sacre fin dall’infanzia. «Bebe viveva nel centro di Budrio», racconta il papà. «Tutti i lunedì mattina entrava in palestra, si guardava intorno per individuare il ragazzo più bravo in un singolo esercizio e lo sfidava: “Venerdì ti batto”. E ogni venerdì c’era la garetta… “È un fenomeno, mai vista una così”, ci dissero i fisioterapisti quando la dimisero, il 12 agosto». Insomma, un prodigio di volontà: «Esatto», riprende mamma Teresa, occhi dolci e concetti scolpiti. «Ripiegarsi sulla propria sfortuna e commiserarsi o ripartire è un fatto d’intelligenza. Che altro puoi fare se non accettare ciò che ti è successo? È capitato e ormai non lo puoi cambiare. Quando sento frasi come “era destino che succedesse a lei” mi vengono i brividi. Non serve star lì a domandarsi perché proprio a me, che cosa ho fatto di male… Tempo perso. Il tempo lo puoi guadagnare guardando avanti, trasformando questo fatto in un’occasione. Certo, i momenti di sconforto ci sono e ci saranno. Tutto dipende dal peso che gli vuoi dare». Bebe: «I momenti difficili ci sono stati, ma penso che il peggio sia alle spalle. Quando arrivano cerco sempre il lato positivo e, impegnandomi a trovarlo, in un certo senso, già mi distraggo. Poi, l’ultima cosa che voglio è contagiare con la mia tristezza chi mi sta vicino». Anche sul futuro lo sguardo è positivo: «Il mio sogno è unificare i due comitati olimpici, per normodotati e portatori di disabilità. Se accadesse sarebbe un bel casino, cioè un casino bello. Sarebbe un futuro super impegnato, ma in realtà lo è anche il presente». Altri progetti in tempi più ravvicinati? «A gennaio m’iscriverò all’università John Cabot a Roma. È un anno che non studio e ci sarà da lavorare. Poi farò gli allenamenti con la squadra, non vedo l’ora». Signora, che cosa desidera per sua figlia? «Vorrei che non subisse troppo la pressione dei media. Vorrei che conducesse una vita normale. Per noi la sua condizione è diventata normalità. È nostra figlia e ci dà tanto, come Nico e Sole. Adesso andrà a vivere da sola, a vent’anni è giusto così».
Panorama, 30 novembre 2017