«Sound of freedom è vero perciò riempie i cinema»

A volte anche i film hanno strane storie. Percorsi tortuosi e risultati inattesi. Come nel caso di Sound of freedom – Il canto della libertà, pellicola diretta da Alejandro Monteverde e interpretata da Jim Caviezel (Gesù in The Passion di Mel Gibson), Mira Sorvino, Bill Camp e Eduardo Verástegui (qui anche produttore, con Gibson). È un film che racconta la storia vera di Tim Ballard, un agente che lascia il Dipartimento di sicurezza americano per fondare un’organizzazione no profit (Operation underground railroad) e combattere la tratta dei bambini, gestita da una rete di pedofili tra America latina e Stati Uniti. La pellicola è stata subito accusata dalla pubblicistica mainstream di seguire tesi cospirazioniste care alla Qanon. Mentre, in realtà, è stato girato nel 2015 quando Qanon non esisteva.

Dopo le anteprime sold out in Italia, Sound of freedom è stato prenotato dai principali circuiti di sale cinematografiche. Chi ne conosce la storia è poco stupito dall’impatto del film perché già in America aveva battuto blockbuster come Indiana Jones e Mission impossible, incassando 180 milioni di dollari (250 in totale) con un budget di 15. Federica Picchi Roncali, per esempio, fondatrice della Dominus production che lo distribuisce, non è sorpresa. Anzi, ci ha creduto da quando l’ha visto la prima volta, parecchio tempo fa. Perché, alla fine, la storia strana dei film la fanno le persone.

Signora Picchi Roncali, com’è arrivata a Sound of freedom – Il canto della libertà?

«Sono un distributore cinematografico e ho acquistato i diritti».

Gliel’ha segnalato qualcuno?

«Già cinque anni fa me ne avevano parlato. Questo film è pronto da tempo, prodotto dalla 20th Century fox, poi acquisita dalla Disney, che l’ha tenuto a lungo nel cassetto. L’avevo trovato subito interessante, ma dubitavo di essere abbastanza coraggiosa per distribuirlo».

Perché?

«Sono molto sensibile a tutto ciò che riguarda i bambini. Ma poi mi sono accorta che era un film delicato, che non indugia su scene di violenza. Una storia vera raccontata con lo stile del poliziesco e del thriller».

Perché un film viene richiesto dalle grandi catene di esercenti solo dopo le anteprime?

«Perché abbiamo avuto la media spettatori più alta per copie distribuite. E, di solito, gli esercenti danno la precedenza alle major».

Ricominciamo da capo, signora: mi fa il suo identikit?

«Sono una persona di alti ideali. Cerco di agire con la mente, ma in realtà mi trascina il cuore. Perseguo questi ideali occupandomi di messaggi valoriali rivolti soprattutto ai giovani».

Per questo è passata dall’alta finanza al cinema?

«Sì. Dopo la laurea in Bocconi ho collaborato con la Georgetown university di Washington dc e mi sono occupata di consulenze strategiche. Poi sono entrata in JP Morgan a Londra dedicandomi ai mercati in via di sviluppo, infine alla Standard bank, una banca d’affari leader in Sudafrica».

Poi cos’è successo?

«Viaggiando nei Paesi in via di sviluppo mi sono resa conto che la ricchezza di una nazione non sono le materie prime o le riserve auree, di cui quei Paesi sono ricchissimi, ma la cultura che si tramanda ai più giovani».

A quel punto?

«Mentre questa consapevolezza maturava, è avvenuta la morte improvvisa dei miei genitori. Prima mio padre di infarto, poi mia madre di tumore. Avevo trent’anni ed ero molto legata a loro. Ho realizzato che la vita è un battito di ciglia. E che siamo quello che lasciamo. Nei mesi in cui ho assistito mia madre ho trascorso molto tempo a guardare la tv con lei e mi sono accorta della banalità dei contenuti. Ai giovani non proponiamo ideali in cui credere. Questa constatazione mi ha spinto a cambiare e a creare una realtà che potesse portare all’attenzione di tutti storie vere e di bellezza».

La Dominus distribuisce solo film americani?

«Non necessariamente. Il criterio è che si tratti di storie vere, con un contenuto positivo. I protagonisti sono i più diversi, dal generale di Cristiada al cantante di Una canzone per mio padre fino all’insegnante e agli studenti universitari di God’s not dead».

Perché ha scelto un nome latino in un mercato anglofono?

«Il nome completo è Dominus production, quindi un accostamento di latino e inglese perché il mercato è trainato dall’America. Il latino è una lingua ricchissima che ha permesso la comunicazione internazionale. E che, allo stesso tempo, è un segno delle nostre radici che ci permettono di dialogare con chiunque».

Come si regge una società che distribuisce un film all’anno?

«A volte anche due o tre. Noi offriamo un prodotto molto apprezzato da un pubblico che ci segue da anni. È composto da fan della Dominus, una base che negli anni si è molto allargata. Questo pubblico è, in un certo senso, il nostro asso nella manica. Quando propongo un titolo, eventi e anteprime sono sempre sold out. Cinetel è lì a documentare che ho la più alta percentuale di spettatori per sala. In questo modo risparmio anche sulla promozione perché sono gli spettatori stessi a farla con il passaparola».

Un circolo anche economicamente virtuoso?

«Entro certi limiti. In passato, grandi distributori hanno chiesto il mio supporto, ma ho rifiutato offerte economicamente importanti perché il prodotto non era adatto al pubblico che ci segue. Se il criterio fosse solo economico mi sarebbe convenuto rimanere in banca d’affari».

Come sceglie i film?

«Li vedo, spesso dopo le segnalazioni di persone di cui mi fido. Ho una rete di produttori anche in America che ogni due mesi mi mandano le loro produzioni. Se credo che un film sia buono lo condivido con mio marito, che fa altro, ma il cui giudizio per me conta molto».

Come si può spiegare che il nono incasso annuale negli Stati uniti non abbia trovato un distributore più potente della Dominus?

«I distributori potenti c’erano, ma i produttori mi hanno scelto per la mia storia».

Mel Gibson?

«Dopo anni di ferma nei cassetti della Disney la Angel studios e Eduardo Verástegui sono riusciti a liberarlo per la distribuzione. Verástegui mi ha scelto perché mi conosce come distributrice di storie vere che hanno un target numeroso. Il problema è che di solito questi film erano visti nelle assemblee e nelle parrocchie, circuiti invisibili che non venivano conteggiati ufficialmente. Una delle mie battaglie è stata far capire alle associazioni e agli spettatori l’importanza di vedere un film in sala senza aspettare l’arrivo in dvd, ufficializzando la propria presenza».

Li proiettate in circuiti di sale particolari?

«Abbiamo accordi con parecchie multisala del circuito Uci cinema, di Giometti e Lucisano e di molte altre sale importanti. Per questo film, dopo le anteprime abbiamo avuto richieste anche dal circuito The Space».

Sound of freedom fa centro per la storia o per il valore artistico?

«Per entrambi i motivi. Jim Caviezel è straordinario e Alejandro Monteverde si sta facendo conoscere per le sue doti di regista. È un action movie molto accattivante per il pubblico giovane. Il contenuto è importante, ma lo stile del thriller riesce a ponderare la delicatezza del tema con un racconto molto attrattivo».

È un film complottista?

«Assolutamente no, è una storia vera. Rappresenta una serie di operazioni che alla fine si vedono anche nelle riprese reali della polizia colombiana».

Molte recensioni dicono che è un film controverso, strano, rivolto a un target particolare.

«Gli incassi lo smentiscono. È un film che attira preadolescenti, adolescenti, adulti».

Il protagonista della storia, Tim Ballard, l’ex poliziotto che ha fondato l’organizzazione che combatte il racket dei pedofili è stato accusato a sua volta di molestie?

«Sa come funzionano le accuse di molestie in America… Questa accusa non entra nel merito del film e non riguarda le operazioni di Ballard narrate nel film. Finché non ci sono condanne vale la presunzione d’innocenza».

Negli anni scorsi ha distribuito Unplanned, God’s not dead e Cristiada che sono catalogati come film religiosi o di destra. È così?

«A vedere Unplanned sono venuti anche gruppi di femministe che alla fine mi hanno abbracciato e ringraziato. Quando porto un film in sala non punto il dito contro nessuno. Apprezzo le posizioni di tutti e il percorso di ognuno. Le storie vere sono testimonianze e aiutano a riflettere tutti su alcuni accadimenti di cui la società o non parla, come nel caso della tratta dei minori di Sounds of freedom, o lo fa in modo superficiale, come nel caso di Unplanned. Le storie vere servono per mettere in comune un’esperienza, un principio di realtà, come diceva Pier Paolo Pasolini, sul quale tutti possiamo interrogarci e confrontarci da punti di partenza differenti».

Il suo è un cinema militante alternativo a quello mainstream?

«Non scelgo i film perché sono militanti, ma perché mettono in luce aspetti poco trattati. Non cambio la vita a nessuno, promuovo opere che permettono di riflettere».

C’è il pericolo di auto-ghettizzarsi?

«I dati dimostrano che non è così, il pubblico è in crescita. Ne è una riprova il fatto che le major mi chiedono di far loro da consulente. Da quando ho iniziato le platee si sono allargate e variegate. Vado a presentare i film nelle scuole, nelle carceri, nelle comunità di recupero».

Cosa pensa del fatto che tanti film italiani, magari finanziati, rimangono in sala pochi giorni?

«È un problema enorme. Io non ho mai preso un centesimo. Ci sono meccanismi che non rispondono alla logica delle presenze in sala, ma a logiche che stanno in piedi in modo artificiale».

Che film ha visto in sala negli ultimi mesi?

«Lavoro così tanto che non sono riuscita ad andare al cinema».

Mi dica il suo film della vita allora, quello che ha amato di più?

«Shooting dogs, un film bellissimo che parla di un produttore della Bbc durante il genocidio nel Ruanda. Se fossi stata già nel cinema avrei fatto di tutto per distribuirlo io».

La domanda era rivolta alla spettatrice non all’imprenditrice. Ha visto Io capitano, Perfect days, Foglie al vento?

«No. Ho gusti precisi, non le dirò quali per non far torto a nessuno».

Qual è il prossimo progetto?

«Ho in calendario un film da distribuire e uno in produzione. Sarebbe il primo».

Ce ne può anticipare il cast?

«È ancora presto. Sarà una storia italiana che parla del rapporto tra l’uomo e la natura, di un ostacolo da affrontare e del suo superamento».

 

La Verità, 24 febbraio 2024