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«La fede è una bomba, ma il dolore dei bambini…»

Ciao Rosa, vorrei intervistare Verdone sul Natale. Rosa Esposito (ufficio stampa di Carlo Verdone): «In questi giorni sta girando la quarta stagione della serie. Non ha un minuto, è regista e attore». Proprio perché non ho perso un episodio voglio vedere se sono l’unico a cui riesce a dire di no. «Va bene, Maurizio: glielo chiedo…». Un paio d’ore dopo, su whatsapp: «Carlo prova a chiamarti oggi».
Com’è il Natale nella vita di Carlo?
«Nell’infanzia e nell’adolescenza fino a quand’ero universitario sono stati natali felici perché eravamo una famiglia molto unita. C’era la tradizione di trovare un regalo sotto l’albero, da bambino la pistola di Pecos Bill o, dopo, i racconti di Anton Cechov che mio padre mi regalò a 23 anni. Un libro che poi mi servì, perché al saggio di regia del Centro sperimentale portai proprio un racconto di Cechov».
E più avanti negli anni?
«Mi sono divertito, e mi diverto, a far trovare i regali sotto l’albero a Giulia e Paolo, i miei figli. Mi spiace quando sento dire: “Il Natale che tristezza, non vedo l’ora che passi”. Dovrebbe essere una festa che dà serenità e pacifica. Oggi le famiglie sono cambiate e non c’è più quel momento di aggregazione in casa, una volta la cena insieme era quasi una legge».
È stata una festa caciarona o intima?
«Non amo il Natale caciarone. L’ho trascorso con i miei figli e mio fratello. Una serata semplice. Ho la fortuna di avere una casa che sta in alto e di godermi il panorama del Gianicolo».
Ha una particolare tradizione di famiglia che ha mantenuto?
«Andavamo a messa nella chiesa di San Salvatore in Onda e continuo a farlo anche se adesso abito più lontano. Quando stavamo nella casa sopra i portici in Lungotevere dei Vallati, il palazzo dava su Via dei Pettinari, dove si trova quella chiesa importante per la mia famiglia perché, durante la guerra, i preti Pallottini nascosero mio zio che, avendo sposato una donna ebrea, era ricercato».
Importante.
«È anche la chiesa dove si sono sposati i miei genitori e anch’io sono stato battezzato lì. È piccola, elegante. Mia madre, che era di idee progressiste ma anche molto cattolica, aveva la devozione del primo venerdì del mese e amava che la condividessi con lei, come per un po’ ho fatto. Quindi quella chiesa mi ricorda mia madre, e anche il presepio dei Pallottini. In questi giorni lei ci portava a vedere i presepi e alla fine del giro facevamo insieme la classifica di quello più poetico».
Adesso i presepi non si fanno per non irritare i non cristiani.
«Non capisco molto questi problemi. Se andassi in un Paese islamico non contesterei le loro tradizioni».
Spesso siamo noi ad autocensurarci.
«È un’ipocrisia intellettuale, una cautela dei salotti, non una cosa che parte dal proletariato».
Negli ultimi anni il suo è un Natale più religioso?
«Forse lo era di più qualche anno fa, quando speravo che il mondo seguisse strade meno tormentate, con meno guerre, meno tensioni. Andando avanti con gli anni si prova un grande dolore se alcune persone alle quali si è voluto un bene dell’anima, persone che non hanno mai fatto male a nessuno, improvvisamente se ne vanno e magari sono più giovani di te. Questo fatto mi sconvolge… Ma ce n’è un altro che mi turba ancora di più».
La ascolto.
«Sono rimasto due giorni intristito dopo aver visitato i bambini affetti da tumore all’istituto oncologico. Con che coraggio diciamo che la vita è meravigliosa? La vita dipende dalla buona sorte. Sì, poi c’è una democrazia perché tutti dobbiamo morire. Ma quando vedi un bambino di sei anni che non riesce a parlarti perché ha un tumore ai polmoni, non reggi… Mi sono inventato una scusa per uscire dalla stanza e non mostrare che piangevo… Perché accanirsi con un bambino? I suoi genitori sanno bene che non ce la farà. Se fossi il Padreterno avrei risparmiato loro questo supplizio».
Il dolore dei bambini è un mistero inspiegabile.
«Insopportabile. Manda in crisi la mia fede. Poi, magari rifletti, e pensi che siamo nati con il certificato di morte in mano. Ma non si può dire a cuor leggero che la vita è meravigliosa».
La misura di Dio è diversa dalla nostra?
«Una volta, dopo che aveva visto un mio film, andai a trovare monsignor Ersilio Tonini, un sacerdote vero. Mi disse: “Caro Verdone, non si lasci prendere dallo sconforto. Avete un’arma che usate male: la preghiera. Telefoni a Gesù…”. “Io lo chiamo, ma non sento nessuna voce”, replicai. “Ma lui ascolta tutto. Avrà una bella sorpresa quando finirà questo cinematografo che è la vita”».
Di recente ha detto che quando si diventa maturi e qualche persona cara non c’è più «esplode ’sta bomba della fede». Che tipo di esplosione è?
«Senti la necessità di pregare di più. Non importa se in chiesa o prima di dormire, importa che sia una preghiera che viene dal cuore, non a macchinetta come alle scuole elementari. Anche se non avviene quello che chiedi, ti aiuta a non mollare e ti trasmette serenità, dopo. Non è una suggestione».
Questa fede riguarda l’aldilà?
«Non so com’è l’aldilà, però credo di avvertirlo nella presenza delle anime dei miei genitori, un padre e una madre molto speciali, che ancora mi aiutano».
È una fede dettata dalla paura della morte?
«Certo. Anche un non credente prima o poi finisce per dirla una preghiera. Avevo un caro amico che faceva dell’ateismo la sua bandiera. Un giorno si è ammalato e gli furono diagnosticati due anni di vita. Una volta, entrando in una chiesa me lo sono trovato inginocchiato sul primo banco. Gli ho voluto ancora più bene vedendo quella sua disperazione aggrapparsi all’ultima fune».
Senza aspettare il tempo che si accorcia si può credere pensando che, se tutto finisse, chi ci ha dato la vita ci avrebbe fatto uno scherzo crudele?
«Sì, sarebbe un teatro dell’assurdo. Nulla nasce dal nulla. Da pagani possiamo dirla anche con Seneca: nulla si estingue, ma tutto si decompone per ricomporsi in una forma che a noi ancora non è chiara».
Quindi, è fiducioso sul dopo?
«È l’ultima speranza che mi rimane. Seguo l’esempio di mia madre che, nell’orrenda malattia che la colpì, nonostante i mancamenti e i vuoti di memoria, continuava a dire il rosario anche negli ultimi giorni. Non sbandierava il suo essere cattolica. Quelli che m’infastidiscono sono i cattolici di professione, che vivono i dogmi senza riflettere. E poi credo un’altra cosa. Abbiamo il calendario dei santi: penso che di santi ce ne siano tanti nel mondo, non solo delinquenti, ladri, opportunisti… Voglio raccontarle una storia».
Prego.
«Per molto tempo dalla mia finestra, ho visto una vecchia salire curva verso il Gianicolo, trascinando un carrello pesante anche sotto il sole a picco dell’estate. Una donna molto povera che poteva dormire per strada o in un centro per anziani. Ogni volta mi chiedevo quanti anni avesse, come facesse a salire, piegata come Cristo verso il Calvario. Un giorno che si era fermata per prendere fiato sono sceso con 50 euro in una busta: “Lei non mi conosce, ma io la vedo spesso passare di qua e le voglio fare un piccolo dono…”. “Questi soldi li dia a chi ne ha più bisogno di me”, mi ha risposto gentile, con la sua asma. “Mi offende, lo faccio col cuore. Mi farebbe piacere se accettasse”, ho replicato. “Guardi che c’è chi sta peggio di me”, ha ribadito, ferma. Ho dovuto rimettere i soldi in tasca e tornarmene a casa a pensare».
A Francesca Fagnani che gli ha chiesto se potesse riportare in vita qualcuno per pochi minuti chi sarebbe e che cosa gli direbbe, Jovanotti ha risposto: «Chiunque… per chiedergli com’è di là, dopo la morte».
«A me non interessa sapere cosa c’è di là, se si chiama paradiso o no… Mi basterebbe rivedere tre minuti mia madre e dal suo volto, dal suo sorriso, capirei se è serena e in armonia. E se mi segue nella vita, come credo sia».
Questa bomba della fede vale anche per l’aldiquà?
«Se ne avessimo di più forse non ci sarebbero tante brutte situazioni. Mi vengono in mente le pubblicità sui bambini africani, ci sono zone dove il 60% sono ciechi. Perché non facciamo qualcosa? Elon Musk parla di andare su Marte… Chi se ne frega di andare la quarta volta sulla luna con i problemi che abbiamo qui? Basta… Userei quelle risorse per aiutare quei bambini, per ridar loro la vista».
In Vita da Carlo il fatto più divertente è la sua generosità che la rende vittima di sé stesso.
«È una questione di rispetto… L’ennesima richiesta d’intervista sulla Roma e Claudio Ranieri la respingo. Qualcuno mi rimprovera che do troppe interviste, ma oggi un ragazzo prende 15 euro ad articolo. Se mi fa una proposta intelligente e posso aiutare il suo curriculum perché non devo farlo?».
Dopo il film d’autore, il sindaco di Roma e il Festival di Sanremo quale sarà la sfida della quarta stagione?
«Paramount mi chiede di non dare anticipazioni. Posso solo dire che desideravo interagire con molti giovani, un gruppo di studenti pieni di passione per il cinema e la cultura».
Il Giubileo appena iniziato è grazia o disgrazia?
«Per hotel, ristoranti, Uber e tassinari sicuramente una grazia».
Da romano?
«Roma è ridotta a un posto di aperitivi, ristoranti giapponesi, thailandesi, vinerie. Un’immensa Capri. Dalla città degli imperatori e dei grandi monumenti siamo passati alla città culinaria, con i funghi a calore per riscaldare chi cena all’aperto».
E da credente?
«Può essere una grazia. Viviamo un momento così complicato… Se afferriamo il senso della speranza di cui continua a parlare il Papa possiamo recuperare l’etica che abbiamo perso. Per chi ha questa sensibilità può essere un’occasione e per chi non ce l’ha, anche».
Avrebbe fatto cantare Tony Effe al Concertone?
«Non ho seguito tutte le polemiche però sì, l’avrei fatto cantare».
Tanto più che andrà a Sanremo…
«Vasco Rossi quando ci andò la prima volta aveva scritto Portatemi Dio, una canzone che diceva: “Metteteci Dio sul banco degli imputati”. Poi si è rivelato una persona generosa…».
Questo politicamente corretto ci sta facendo andare fuori di testa?
«Su alcune cose si può capire, ma è sbagliato non contestualizzare le situazioni. Via col vento dovrebbe essere bruciato perché la mami è nera? Suvvia. Il Sorpasso è maschilista, ma è un capolavoro. Con i criteri di oggi, quanti film di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi o Vittorio Gassman dovrebbero andare al rogo? E i miei? In Acqua e sapone vado a letto con una ragazzina che non ha ancora 18 anni, ma è una fiaba. Sette otto miei film dovrebbero essere eliminati. È una moda fastidiosa, diffusa sempre dai soliti salotti intellettuali, il popolo non si pone questi problemi».

 

La Verità, 28 dicembre 2024

«Il no alla legge anti Gpa è un sì al mercato dei bimbi»

Nel dibattito sull’utero in affitto e le politiche in favore della vita alcuni aspetti sono distorti, altri sottaciuti. Ne abbiamo parlato con il ministro per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Roccella.
Ministro Eugenia Roccella, ci mancava il conflitto con l’Ordine dei medici.
«Non c’è nessun conflitto, casomai un dibattito. Riconosco che segnalare le notizie di reato quando un medico ne viene a conoscenza è un problema molto delicato. Non a caso esistono una legislazione e un’ampia letteratura giuridica, oltre che di bioetica, sull’argomento».
Proviamo a dettagliare?
«L’articolo 361 del Codice penale stabilisce che, nelle vesti di pubblico ufficiale, il medico è tenuto a segnalare la notizia di reato. Mentre l’articolo 365 crea un’eccezione, in quanto bisogna salvaguardare il rapporto di cura quando è a rischio la salute della persona che si dovrebbe segnalare».
Bel dilemma.
«È un dilemma che i medici affrontano da sempre, per esempio quando si imbattono in una violenza sessuale o in molte circostanze che si verificano nei pronto soccorso. Oppure quando hanno il sospetto che si sia davanti a un possibile traffico d’organi o di fronte a maltrattamenti o abusi su minore».
Di solito come si comportano i medici?
«Non c’è un comportamento univoco, la responsabilità è di ogni singolo medico nelle diverse situazioni. Da moltissimi anni esiste questa normativa: un articolo che invita a segnalare il reato e un altro che invita a preservare la relazione di cura. Non si tratta di un provvedimento di questo governo né, tantomeno, io ho incitato qualcuno alla denuncia».
La accusano di aver invitato i medici a fare le spie.
«Questo modo di affrontare il problema è banale e semplicistico. E non tiene conto di tutte le implicazioni né di una prassi con regole già in uso. I pronto soccorso da sempre sono tenuti a stilare dei referti. Per esempio, grazie alla legge contro la violenza sulle donne si sollecita l’iniziativa del medico, che può essere risolutiva perché esistono tanti casi sommersi di donne che non denunciano».
Perché di fronte alla maternità surrogata perseguibile anche se praticata all’estero i medici vogliono limitarsi a curare?
«Adesso chi dice che, di fronte a ipotesi di reato, è chiamata in causa la responsabilità del medico passa per illiberale e repressivo. In realtà, secondo me, dietro questo atteggiamento c’è il fatto che l’utero in affitto non è davvero considerato un reato».
Mentre giuristi, legislatori e ordini professionali discutono in punta di diritto, i veri soggetti deboli della vicenda restano i bambini e le madri biologiche?

«È così. Un importante medico e scienziato, ora senatore Pd, ha dichiarato che l’utero in affitto sarebbe addirittura un’azione terapeutica. E una parte dell’opinione pubblica non lo considera un disvalore o un reato, anzi. Manca solo che lo inseriamo nei livelli essenziali di assistenza. Fino a prima della nostra azione, chi tornava in Italia con il nuovo bambino aveva visibilità sulle riviste patinate e in tv che inneggiavano alla bellezza di essere genitori. Chissà perché questa bellezza non si sottolinea mai per i genitori naturali».
Né si sottolinea la condizione della madre che si presta alla Gpa.
«È terribile. Una persona che viene cancellata dopo essere stata usata e non potrà continuare la relazione simbiotica e fondante la personalità del bambino stesso, iniziata nel suo grembo».
L’espressione «reato universale» che sembra uno stigma planetario è una debolezza della nuova legge?
«La legge che vieta la maternità surrogata è in vigore dal 2004. Noi abbiamo visto che il divieto veniva aggirato e la Gpa sempre più normalizzata dalle fiere della procreazione assistita che promuovono l’opzione della compravendita dei gameti e dell’utero in affitto. La legge vieta anche la propaganda della maternità surrogata, ma non si è mai verificato se in quelle fiere veniva violata o no».
Reato universale però rimane un’espressione poco felice.
«È semplificatoria e non l’ho mai usata. Abbiamo corretto una legge vigente per evitarne l’aggiramento e perseguire il medesimo reato quando commesso all’estero».
Sembra che persino il Dipartimento di Stato americano sia preoccupato.
«È una legge italiana e la perseguibilità all’estero riguarda solo i cittadini italiani».
Qualcuno sostiene che non è applicabile perché in molti Paesi si può praticare.
«Ricordo che per certi reati la perseguibilità all’estero è automatica, noi in questo caso l’abbiamo resa esplicita per la gravità dell’azione. Esiste una rete internazionale che ha esultato di fronte alla nostra iniziativa – che, ribadisco, è solo un’estensione – perché vorrebbe abolire la Gpa in tutto il mondo rendendolo davvero reato universale».
L’aggiramento della legge italiana è così diffuso?
«Ovviamente, riguarda una piccola minoranza. Ma essendo un fenomeno in crescita ovunque, era necessario intervenire».
Come funziona?
«C’è un’organizzazione transnazionale che mette in contatto alcuni centri di procreazione assistita con quelli che praticano la Gpa. Così può accadere che si comprino i gameti in un paese dell’Est, vengano conservati in una biobanca del Nord Europa e si vada a fare l’inseminazione in un terzo Paese. C’è un’organizzazione di consulenti legali intorno all’intero sistema perché la caratteristica di questa genitorialità è il contratto. Si diventa genitori attraverso un passaggio di denaro».
Non proprio un dettaglio.
«Che nasconde un’altra ipocrisia. Comprare un bambino già nato è reato in tutto il mondo, mentre ordinarlo da committente in alcuni Paesi non lo è. Perché puniamo la compravendita di un bambino, ma ordinarlo va bene? Credo che il mercato si debba fermare: non si comprano, non si vendono e non si affittano gli esseri umani».
Come avviene l’ordinazione?
«Sui cataloghi dove si privilegiano gli ovociti di donne belle e giovani che trasmettono il dna del nascituro. Si scelgono anche le caratteristiche e il colore della pelle, con un’azione che ha un risvolto razzista perché gli ovociti delle donne di colore costano meno».
Nichi Vendola l’ha definita un ayatollah in gonnella dicendo che non sa niente di lui, di suo marito e del loro bambino?
«
Non giudico mai le persone singole e che io non sappia niente è ovvio. Purtroppo, non sappiamo niente nemmeno della madre che gli ha venduto gli ovociti né di quella che ha partorito il bambino».
Il ricorso alla maternità surrogata riguarda molte coppie eterosessuali.
«Certo, il punto fondamentale è la pratica. Ma anche nella galassia Lgbtqia+ ci sono associazioni che non la approvano, come Arcilesbica, e persone singole come Anna Paola Concia o Aurelio Mancuso, notoriamente contrarie».
Le femministe vi hanno appoggiato quanto speravate?
«Un’ampia parte del movimento internazionale ci appoggia. Un’altra parte è appiattita sulla sinistra che è in forte imbarazzo su questo tema. Infine, c’è il transfemminismo più giovanile che è favorevole in nome dell’autodeterminazione di genere e dell’idea che “il corpo è mio”. Queste organizzazioni chiedono: perché se posso donare un rene non posso donare l’utero? In realtà, sulla donazione di cellule del corpo umano esiste una legislazione molto puntuale. Non si può vendere nulla e anche la donazione solidaristica è fortemente regolata. In nessun Paese al mondo, invece, esiste una Gpa davvero solidaristica».
Perché?
«Perché quell’organizzazione transnazionale è molto radicata e coinvolge professionalità diverse che richiedono un pagamento molto consistente. A cominciare dalla consulenza legale e proseguendo con le altre operazioni nei laboratori, nelle banche del seme e dei medici».
Non ci sono singole donne che si prestano gratuitamente per la gravidanza?
«Se avviene in un rapporto di fiducia, in una relazione di condivisione, non serve una legge né un contratto. Nella realtà, il committente vuole essere garantito e quindi chiede il contratto».
I bambini già concepiti con la maternità surrogata come saranno trattati?
«Come tutti i bambini. L’ha riconosciuto anche la Corte europea, respingendo i ricorsi sul tema e attestando che in Italia i diritti dei bambini sono garantiti. Come lo è la riconoscibilità dei partner come genitori tramite la cosiddetta adozione in casi particolari».
Come funziona?
«Secondo una certa narrazione è diventata improvvisamente lenta e farraginosa. In realtà, è una procedura in vigore dal 1983 per la quale sono passate tante donne che avevano un figlio non riconosciuto dal padre o il cui padre era morto».
Il governo che cosa sta facendo per contrastare la denatalità?

«Intanto, inserendo la natalità nelle funzioni del ministero l’abbiamo messa al centro dell’agenda politica. Finora era un tema rimosso e parlarne era considerato un po’ da fascisti. Se ne occupavano solo alcuni esperti e demografi che ogni tanto lanciavano l’allarme. Noi abbiamo stanziato 1,5 miliardi nella prima finanziaria, 1 miliardo nella seconda e 1,5 in questa».
Concretamente?
«Abbiamo messo al centro la conciliazione tra vita e lavoro. Cioè, asili gratis dal secondo figlio, congedi parentali potenziati, aumento dell’assegno unico, decontribuzione per le madri lavoratrici e, in questa finanziaria, il bonus per i nuovi nati. Tuttavia, ricordiamo che in tutto il mondo le nascite diminuiscono nei Paesi a maggior livello di benessere».
Quindi l’inverno demografico è causato dalla scarsità di aiuti in favore della procreazione o da un’idea di vita radicata nelle giovani coppie basata sul tempo libero e i weekend lunghi?
«Le cause sono diverse. Sul piano personale e del progetto di vita, il fatto di avere dei sostegni economici e di servizi, e un clima amichevole nel posto di lavoro verso chi è genitore, in particolare le donne, incide parecchio. È a questo livello che i governi possono intervenire. Poi resta da esplorare in profondità la connessione tra benessere e denatalità: l’Europa e l’Occidente ma anche la Cina e molti Paesi asiatici sono in pieno inverno demografico».
È la cultura dei diritti a renderci così fragili? Avere figli in qualsiasi modo o, al contrario, rifiutarlo interrompendo la gravidanza, sono davvero diritti?
«Non penso che avere un figlio o non averlo si possano configurare come diritti. Sono delle libertà che dobbiamo garantire, ma non tutte le libertà possono tradursi in diritti veri e propri. Certamente, c’è una cultura che, in qualche modo, non incoraggia. Penso che si facciano figli come sovrabbondanza di vita, che i figli derivino da un sentimento di felicità dell’essere al mondo. Perciò dobbiamo capire perché questa felicità si sta così accartocciando su sé stessa».

 

La Verità, 26 ottobre 2024

«Chiudere le scuole per il Ramadan è un atto grave»

L’islamizzazione dell’Europa. Non siamo più di fronte ai sintomi di una tendenza, ma a un processo in pieno svolgimento. Lo pensa Magdi Cristiano Allam, autore di Un miracolo per l’Italia (Casa della civiltà) e uno degli osservatori più puntuali del fenomeno.
Magdi Cristiano Allam, perché quest’anno si parla del Ramadan più che in passato?
«Perché è cresciuta l’islamizzazione dell’Europa. Già negli anni scorsi la fine del Ramadan è diventata un evento. Spesso a quel pranzo hanno partecipato rappresentanti della Chiesa cattolica e dello Stato, vescovi, sindaci e prefetti. Ciò ha costituito una legittimazione dell’islam in un contesto in cui, giuridicamente, l’islam non è una religione riconosciuta dallo Stato italiano».
Perché?
«Perché quando, con Silvio Berlusconi premier, questo riconoscimento poteva avvenire, i rappresentanti delle comunità islamiche non riuscirono a concordare né una delegazione unitaria né un testo condiviso. L’articolo 8 della Costituzione sancisce che le religioni abbiano pari libertà a condizione che il loro ordinamento non contrasti con le leggi dello Stato. Come invece avviene con la sharia che nega la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna e la libertà di scelta individuale a partire da quella religiosa».
Come valuta il fatto che per l’inizio del Ramadan, il 10 marzo, si sono visti servizi nei programmi di grande ascolto della Rai?
«Anche questo è frutto di un processo che ha subito una forte accelerazione a causa del diffuso odio antiebraico che prende pretesto da quanto sta accadendo a Gaza dopo la strage perpetrata dai terroristi islamici il 7 ottobre. Nel mondo occidentale la maggioranza dell’opinione pubblica è schierata contro quello che, impropriamente, viene definito “genocidio” del popolo palestinese».
Lei dice «impropriamente», ma molti pensano che sia ciò che avviene.
«È una mistificazione gravissima della realtà: il genocidio sottintende una strategia che pianifica l’annientamento di un popolo. L’obiettivo di Israele non è l’eliminazione dei palestinesi, ma la sconfitta di Hamas. Che, purtroppo, usa i civili come scudi umani e le strutture civili come basi militari».
Perché nelle nostre università si è radicata l’intolleranza?
«Il problema delle università in Italia non sono gli studenti, ma i docenti. A fine ottobre un appello contro il genocidio del popolo palestinese ha raccolto 4.000 firme di professori universitari. È un documento che mistifica la realtà storica. A partire dal concepire la Palestina non come un’entità geografica – com’è stata dall’anno 135 quando l’imperatore Adriano, dopo la strage di 580.000 ebrei, decise di sostituire il nome Giudea con Palestina – ma come un vero Stato, ciò che storicamente non è mai stata. I docenti indottrinano gli studenti con queste distorsioni. Nelle università c’è una situazione peggiore di quella degli anni Ottanta quando i fermenti del terrorismo erano limitati a gruppi circoscritti e ai loro “cattivi maestri”. Oggi l’intolleranza antiebraica è prevalente».
È curioso che a David Parenzo e al direttore di Repubblica Maurizio Molinari sia stato impedito di parlare da studenti di quella sinistra sedicente democratica che è la loro area di ferimento?
«Il giorno in cui l’Europa dovesse essere assoggettata a un potere islamico assecondato dalla sinistra globalista e relativista, tutti gli ebrei, a prescindere che propugnino la formula “due popoli, due Stati”, verranno discriminati e perseguitati. Parenzo e Molinari sono favorevoli allo Stato palestinese, ma additandoli come sionisti è stato impedito loro di parlare. È un clima che ricorda quello che precedette le leggi razziali».
Un clima ammantato d’ideologia.
«Che criminalizza Israele, come abbiamo visto con il Tribunale internazionale all’Aia. E vediamo con le esternazioni del segretario generale dell’Onu, António Guterres, e del Commissario per la politica estera europea, Josep Borrell».
In alcune città sono comparse insegne con «Happy Ramadan», ma si sostituisce Buon Natale con Buone feste.
«Queste luminarie a Francoforte, Parigi e Londra dimostrano che l’Europa è sempre più scristianizzata e sempre più islamizzata. Aggiungo che nelle scuole italiane, nel nome della laicità, si impedisce la benedizione pasquale, è successo a Genova, e i dirigenti concedono aule per la preghiera islamica».
Mentre nei suoi social il Pd milanese augura «Ramadan kareem» (che il Ramadam sia generoso), nelle scuole si tolgono i crocifissi.
«Nel 2004, invitato dal presidente Marcello Pera, l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne una lectio magistralis al Senato. In un passaggio disse che l’Occidente odia sé stesso perché è più incline ad assecondare il prossimo che a salvaguardare la propria storia. E fece il caso di come, quando si oltraggia l’islam tutti condannano e si indignano, mentre quando si oltraggia il cristianesimo tutti dicono che va tutelata la libertà di espressione».
Cosa pensa del fatto che un istituto scolastico dell’hinterland milanese chiuderà l’ultimo giorno del Ramadan perché ha studenti al 40% di origine musulmana?

«È un atto gravissimo, fossero state anche percentuali opposte. Il dirigente scolastico che ha preso questa decisione dimentica che siamo in Italia e che le festività nazionali le decide lo Stato sulla base della storia dell’Italia e della storia della cristianità».
Perché propone che lo Stato vieti il digiuno del Ramadan ai bambini musulmani?
«Perché ha il dovere di tutelare la salute soprattutto dei minorenni. La criticità nel digiuno islamico è nel divieto di bere. Non farlo per 12 ore consecutive crea problemi alla salute dei bambini. Si secca la gola, ci si disidrata, si hanno degli stordimenti. Lo certificano le denunce delle maestre e dei dirigenti scolastici».
L’islam impone il digiuno a bambini così piccoli?
«In realtà, li esenta fino alla pubertà, 13 o 14 anni».
Allora perché c’è questo allarme fin dalla scuola elementare?
«Per un eccesso di zelo le famiglie musulmane esigono che anche i bambini di 6 o 7 anni digiunino».
Sono fondamentalisti?
«Certo. Se fossero scaltri, i sedicenti imam sparsi per l’Italia impedirebbero questo digiuno infantile. Però mi auguro che lo Stato intervenga prima».
Come?
«Il ministro dell’Istruzione potrebbe diramare una direttiva dichiarando che i bambini fino alla pubertà o alla maggiore età non possono essere costretti a praticare il digiuno. Lo Stato dovrebbe farlo sulla base delle sue leggi, non sulla base della sharia islamica».
Non sarebbe un’ingerenza su una devozione religiosa?
«
No, perché il ministro non farebbe riferimento all’islam, ma alle leggi italiane suffragate da un parere sanitario che documenta che al di sotto di una certa età non si può stare 12 ore consecutive senza bere».

 

 

La Verità, 19 marzo 2024

«Sound of freedom è vero perciò riempie i cinema»

A volte anche i film hanno strane storie. Percorsi tortuosi e risultati inattesi. Come nel caso di Sound of freedom – Il canto della libertà, pellicola diretta da Alejandro Monteverde e interpretata da Jim Caviezel (Gesù in The Passion di Mel Gibson), Mira Sorvino, Bill Camp e Eduardo Verástegui (qui anche produttore, con Gibson). È un film che racconta la storia vera di Tim Ballard, un agente che lascia il Dipartimento di sicurezza americano per fondare un’organizzazione no profit (Operation underground railroad) e combattere la tratta dei bambini, gestita da una rete di pedofili tra America latina e Stati Uniti. La pellicola è stata subito accusata dalla pubblicistica mainstream di seguire tesi cospirazioniste care alla Qanon. Mentre, in realtà, è stato girato nel 2015 quando Qanon non esisteva.

Dopo le anteprime sold out in Italia, Sound of freedom è stato prenotato dai principali circuiti di sale cinematografiche. Chi ne conosce la storia è poco stupito dall’impatto del film perché già in America aveva battuto blockbuster come Indiana Jones e Mission impossible, incassando 180 milioni di dollari (250 in totale) con un budget di 15. Federica Picchi Roncali, per esempio, fondatrice della Dominus production che lo distribuisce, non è sorpresa. Anzi, ci ha creduto da quando l’ha visto la prima volta, parecchio tempo fa. Perché, alla fine, la storia strana dei film la fanno le persone.

Signora Picchi Roncali, com’è arrivata a Sound of freedom – Il canto della libertà?

«Sono un distributore cinematografico e ho acquistato i diritti».

Gliel’ha segnalato qualcuno?

«Già cinque anni fa me ne avevano parlato. Questo film è pronto da tempo, prodotto dalla 20th Century fox, poi acquisita dalla Disney, che l’ha tenuto a lungo nel cassetto. L’avevo trovato subito interessante, ma dubitavo di essere abbastanza coraggiosa per distribuirlo».

Perché?

«Sono molto sensibile a tutto ciò che riguarda i bambini. Ma poi mi sono accorta che era un film delicato, che non indugia su scene di violenza. Una storia vera raccontata con lo stile del poliziesco e del thriller».

Perché un film viene richiesto dalle grandi catene di esercenti solo dopo le anteprime?

«Perché abbiamo avuto la media spettatori più alta per copie distribuite. E, di solito, gli esercenti danno la precedenza alle major».

Ricominciamo da capo, signora: mi fa il suo identikit?

«Sono una persona di alti ideali. Cerco di agire con la mente, ma in realtà mi trascina il cuore. Perseguo questi ideali occupandomi di messaggi valoriali rivolti soprattutto ai giovani».

Per questo è passata dall’alta finanza al cinema?

«Sì. Dopo la laurea in Bocconi ho collaborato con la Georgetown university di Washington dc e mi sono occupata di consulenze strategiche. Poi sono entrata in JP Morgan a Londra dedicandomi ai mercati in via di sviluppo, infine alla Standard bank, una banca d’affari leader in Sudafrica».

Poi cos’è successo?

«Viaggiando nei Paesi in via di sviluppo mi sono resa conto che la ricchezza di una nazione non sono le materie prime o le riserve auree, di cui quei Paesi sono ricchissimi, ma la cultura che si tramanda ai più giovani».

A quel punto?

«Mentre questa consapevolezza maturava, è avvenuta la morte improvvisa dei miei genitori. Prima mio padre di infarto, poi mia madre di tumore. Avevo trent’anni ed ero molto legata a loro. Ho realizzato che la vita è un battito di ciglia. E che siamo quello che lasciamo. Nei mesi in cui ho assistito mia madre ho trascorso molto tempo a guardare la tv con lei e mi sono accorta della banalità dei contenuti. Ai giovani non proponiamo ideali in cui credere. Questa constatazione mi ha spinto a cambiare e a creare una realtà che potesse portare all’attenzione di tutti storie vere e di bellezza».

La Dominus distribuisce solo film americani?

«Non necessariamente. Il criterio è che si tratti di storie vere, con un contenuto positivo. I protagonisti sono i più diversi, dal generale di Cristiada al cantante di Una canzone per mio padre fino all’insegnante e agli studenti universitari di God’s not dead».

Perché ha scelto un nome latino in un mercato anglofono?

«Il nome completo è Dominus production, quindi un accostamento di latino e inglese perché il mercato è trainato dall’America. Il latino è una lingua ricchissima che ha permesso la comunicazione internazionale. E che, allo stesso tempo, è un segno delle nostre radici che ci permettono di dialogare con chiunque».

Come si regge una società che distribuisce un film all’anno?

«A volte anche due o tre. Noi offriamo un prodotto molto apprezzato da un pubblico che ci segue da anni. È composto da fan della Dominus, una base che negli anni si è molto allargata. Questo pubblico è, in un certo senso, il nostro asso nella manica. Quando propongo un titolo, eventi e anteprime sono sempre sold out. Cinetel è lì a documentare che ho la più alta percentuale di spettatori per sala. In questo modo risparmio anche sulla promozione perché sono gli spettatori stessi a farla con il passaparola».

Un circolo anche economicamente virtuoso?

«Entro certi limiti. In passato, grandi distributori hanno chiesto il mio supporto, ma ho rifiutato offerte economicamente importanti perché il prodotto non era adatto al pubblico che ci segue. Se il criterio fosse solo economico mi sarebbe convenuto rimanere in banca d’affari».

Come sceglie i film?

«Li vedo, spesso dopo le segnalazioni di persone di cui mi fido. Ho una rete di produttori anche in America che ogni due mesi mi mandano le loro produzioni. Se credo che un film sia buono lo condivido con mio marito, che fa altro, ma il cui giudizio per me conta molto».

Come si può spiegare che il nono incasso annuale negli Stati uniti non abbia trovato un distributore più potente della Dominus?

«I distributori potenti c’erano, ma i produttori mi hanno scelto per la mia storia».

Mel Gibson?

«Dopo anni di ferma nei cassetti della Disney la Angel studios e Eduardo Verástegui sono riusciti a liberarlo per la distribuzione. Verástegui mi ha scelto perché mi conosce come distributrice di storie vere che hanno un target numeroso. Il problema è che di solito questi film erano visti nelle assemblee e nelle parrocchie, circuiti invisibili che non venivano conteggiati ufficialmente. Una delle mie battaglie è stata far capire alle associazioni e agli spettatori l’importanza di vedere un film in sala senza aspettare l’arrivo in dvd, ufficializzando la propria presenza».

Li proiettate in circuiti di sale particolari?

«Abbiamo accordi con parecchie multisala del circuito Uci cinema, di Giometti e Lucisano e di molte altre sale importanti. Per questo film, dopo le anteprime abbiamo avuto richieste anche dal circuito The Space».

Sound of freedom fa centro per la storia o per il valore artistico?

«Per entrambi i motivi. Jim Caviezel è straordinario e Alejandro Monteverde si sta facendo conoscere per le sue doti di regista. È un action movie molto accattivante per il pubblico giovane. Il contenuto è importante, ma lo stile del thriller riesce a ponderare la delicatezza del tema con un racconto molto attrattivo».

È un film complottista?

«Assolutamente no, è una storia vera. Rappresenta una serie di operazioni che alla fine si vedono anche nelle riprese reali della polizia colombiana».

Molte recensioni dicono che è un film controverso, strano, rivolto a un target particolare.

«Gli incassi lo smentiscono. È un film che attira preadolescenti, adolescenti, adulti».

Il protagonista della storia, Tim Ballard, l’ex poliziotto che ha fondato l’organizzazione che combatte il racket dei pedofili è stato accusato a sua volta di molestie?

«Sa come funzionano le accuse di molestie in America… Questa accusa non entra nel merito del film e non riguarda le operazioni di Ballard narrate nel film. Finché non ci sono condanne vale la presunzione d’innocenza».

Negli anni scorsi ha distribuito Unplanned, God’s not dead e Cristiada che sono catalogati come film religiosi o di destra. È così?

«A vedere Unplanned sono venuti anche gruppi di femministe che alla fine mi hanno abbracciato e ringraziato. Quando porto un film in sala non punto il dito contro nessuno. Apprezzo le posizioni di tutti e il percorso di ognuno. Le storie vere sono testimonianze e aiutano a riflettere tutti su alcuni accadimenti di cui la società o non parla, come nel caso della tratta dei minori di Sounds of freedom, o lo fa in modo superficiale, come nel caso di Unplanned. Le storie vere servono per mettere in comune un’esperienza, un principio di realtà, come diceva Pier Paolo Pasolini, sul quale tutti possiamo interrogarci e confrontarci da punti di partenza differenti».

Il suo è un cinema militante alternativo a quello mainstream?

«Non scelgo i film perché sono militanti, ma perché mettono in luce aspetti poco trattati. Non cambio la vita a nessuno, promuovo opere che permettono di riflettere».

C’è il pericolo di auto-ghettizzarsi?

«I dati dimostrano che non è così, il pubblico è in crescita. Ne è una riprova il fatto che le major mi chiedono di far loro da consulente. Da quando ho iniziato le platee si sono allargate e variegate. Vado a presentare i film nelle scuole, nelle carceri, nelle comunità di recupero».

Cosa pensa del fatto che tanti film italiani, magari finanziati, rimangono in sala pochi giorni?

«È un problema enorme. Io non ho mai preso un centesimo. Ci sono meccanismi che non rispondono alla logica delle presenze in sala, ma a logiche che stanno in piedi in modo artificiale».

Che film ha visto in sala negli ultimi mesi?

«Lavoro così tanto che non sono riuscita ad andare al cinema».

Mi dica il suo film della vita allora, quello che ha amato di più?

«Shooting dogs, un film bellissimo che parla di un produttore della Bbc durante il genocidio nel Ruanda. Se fossi stata già nel cinema avrei fatto di tutto per distribuirlo io».

La domanda era rivolta alla spettatrice non all’imprenditrice. Ha visto Io capitano, Perfect days, Foglie al vento?

«No. Ho gusti precisi, non le dirò quali per non far torto a nessuno».

Qual è il prossimo progetto?

«Ho in calendario un film da distribuire e uno in produzione. Sarebbe il primo».

Ce ne può anticipare il cast?

«È ancora presto. Sarà una storia italiana che parla del rapporto tra l’uomo e la natura, di un ostacolo da affrontare e del suo superamento».

 

La Verità, 24 febbraio 2024

«Con me anche gli islamici rispetteranno le leggi»

Nei formidabili Settanta Monfalcone era la Stalingrado d’Italia, ora è uno dei comuni a più alta densità islamica. Circa 7.000 cittadini di religione musulmana su un totale di 30.000 residenti. Stando alle parole di Paolo Mieli ospite di Quarta Repubblica di Nicola Porro, Anna Maria Cisint «è una Vincenzo De Luca moltiplicata per mille». In questi giorni, la sindaca leghista è accusata di impedire ai musulmani di pregare mentre la comunità islamica ha convocato una manifestazione nazionale a Monfalcone per il 23 dicembre, antivigilia di Natale.
Anna Maria Cisint, come devo chiamarla?
«Sindaco».
È primo cittadino dal 2016…
«Mi pare fosse il 5 novembre quando ho vinto la prima volta. Pier Luigi Bersani disse in tv di non aver dormito tutta la notte perché aveva perso Monfalcone. Nel 2022 sono stata rieletta al primo turno con quasi il 73%».
… perché ha aspettato il secondo mandato per mettere su questo casino?
«Non è un casino, è rispetto della legge».
Perché è diventato attuale adesso?
«I dirigenti dell’ufficio urbanistico e la polizia locale hanno appurato che le moschee non erano a norma».
Prima lo erano?
«No, perché il piano regolatore, che non ho fatto io, stabiliva che quei locali erano destinati a commercio e attività direzionali. Non si può dire che non lo si sapeva. Poi, ultimamente, si sono aggiunti due fatti: la forte crescita dei musulmani a Monfalcone e l’invito online delle associazioni ad andare a pregare nelle moschee».
Sono moschee, parcheggi, hangar, centri culturali?
«Quelle in questione erano moschee di fatto, finti centri culturali».
Che cosa la preoccupa?
«Sono preoccupata perché ho una responsabilità istituzionale nei confronti dei cittadini. Abbiamo fatto tutte le verifiche per dire che in quelle moschee c’era una presenza massiccia di islamici che andavano a pregare. Perciò si poneva sia un problema di legalità che di sicurezza pubblica».
In che senso?
«La legalità garantisce pari diritti e doveri per tutti. Un garage non può diventare una discoteca. Un vecchietto che ha costruito una tettoia e deve pagare il condono edilizio può chiedermi perché tollero che quei centri commerciali siano diventati luoghi di culto. Poi c’è il problema logistico, uscite di sicurezza, sistemi antincendio. Ma non solo…».
Vede pericoli di reclutamento terroristico?
«Dopo il 7 ottobre alcuni ragazzi bengalesi si sono arrampicati sul campanile e hanno gridato “Allah akbar. A morte Israele”. Qui nessuno ha condannato l’azione di Hamas. In quelle moschee non si prega in italiano e non si parla italiano, perciò non sappiamo che cosa predicano gli imam. Pochi giorni fa è stato espulso da Milano un terrorista protetto da oltre un anno dai capi di una moschea. Non alimento paure, sono solo preoccupata per la sottovalutazione di questi fenomeni e voglio capire se c’è un processo di radicalizzazione».
Ha segnali che lo fanno pensare?
«Le ho appena citato i ragazzi che si sono arrampicati sul campanile. Poi ci sono altri fatti. Prima di tutto l’aumento delle coperture integrali delle bambine, anche nelle scuole. Le preparano a diventare schiave. Ci sono già le spose bambine. Pochi giorni fa abbiamo risposto alla richiesta di soccorso di una ragazzina di 15 anni picchiata dai genitori che volevano mandarla a sposarsi in Bangladesh e contrastavano la sua volontà di frequentare un amichetto. Ci ha chiamato e l’abbiamo portata in un luogo protetto. La stessa cosa è successa due anni fa con una tredicenne che vive tuttora in luogo protetto. Abbiamo salvato due potenziali Saman (Abbas, la diciottenne pakistana uccisa perché si opponeva al matrimonio con il cugino voluto dai genitori ndr)».
Questi fatti li vede solo lei?
«Li vedono tutti. Anche la sinistra e la comunità musulmana che, nominalmente, mi danno ragione, ma non fanno nulla per fermarli».
Perché a Monfalcone gli immigrati sono in gran parte bengalesi?
«Perché c’è Fincantieri. Dal 2005 è stata fatta una modifica produttiva delocalizzando al contrario e portando la manodopera più povera a Monfalcone».
E sono arrivati soprattutto bengalesi?
«Sì. Va detto che in Italia è facile ottenere i ricongiungimenti. Se un bengalese ha il permesso di soggiorno grazie a un contratto di un anno e guadagna meno di 13.000 euro, può ricongiungere ben due persone. La conseguenza è che il welfare comunale è quasi tutto a beneficio degli immigrati».
Perché?
«Con i ricongiungimenti, dopo un anno sono in tre. Quando arriva la moglie la famiglia inizia a crescere, ma lavora uno solo. Così gli aiuti per la casa, la scuola, la mensa, i trasporti sono assorbiti da loro. I beneficiari del bonus bebè sono stati al 98% bengalesi».
Perché gli italiani non fanno figli?
«Perché loro ne fanno tanti. Su 7.000 bengalesi lavorano 1.700, di cui solo 7 sono donne, per loro la donna è una schiava».
E lei non vuole farli pregare.
«È una fake news. È sconvolgente che gli organi d’informazione che dicono di combatterle siano quelli che le promuovono. Mai detto che non possono pregare, ma che la legge va rispettata da tutti».
Trovare un altro luogo di culto per gli islamici?
«Il piano regolatore fatto dalle giunte di sinistra non lo prevede perché la città ne ha già e io non ho intenzione di modificarlo. Monfalcone non è un’isola alla fine del mondo».
I preti si sono schierati dalla parte dei musulmani?
«Altra cosa scritta da Repubblica che non mi risulta. Hanno fatto delle riflessioni condivisibili sulla libertà di culto».
A Monfalcone però sembra difficile praticarla.
«Ripeto: a Monfalcone c’è un piano regolatore. Non è colpa del comune se sono in 7.000. Rinvio la palla nel loro campo. Se andassi in un Paese islamico dubito che si preoccuperebbero di costruire la chiesa cattolica».
Mi dice una persona importante per la sua formazione?
«Mio padre, soprattutto. Operaio che ha costruito navi nelle aziende del territorio, morto di amianto dopo decenni di lavoro senza protezioni adeguate. Mi ha insegnato cosa significa avere la spina dorsale e mantenere la rotta in mezzo alle difficoltà».
Perché ha deciso di candidarsi e com’è diventata sindaco?
«Per 29 anni sono stata dirigente comunale, poi ho deciso di mettere la mia competenza amministrativa a servizio della comunità, prima all’opposizione e ora al governo della città».
Il suo modello è l’ex sceriffo di Treviso Giancarlo Gentilini?
«La devo deludere, le persone intelligenti governano inserite nei contesti in cui si trovano. A Monfalcone è imprescindibile la presenza di Fincantieri dove ci sono 8.000 persone che lavorano provenendo da fuori. È inutile parlare di modelli».
Il suo primo provvedimento qual è stato?
«Contrastare il degrado ereditato, c’era spazzatura ovunque, e recuperare vivibilità. Poi, essendomi insediata a novembre, organizzare il Natale secondo la nostra storia. Chi c’era prima aveva eliminato il presepio perché riteneva fosse un affronto a qualcuno. Adesso nella sala del comune c’è una mostra con 19 presepi realizzati da artisti locali e nella piazza principale troneggia il simbolo della nostra tradizione».
Nel 2018 ha fissato un tetto del 45% per bambini stranieri negli asili. Quanti ne sono rimasti esclusi e che asili hanno frequentato?
«In questi anni ho fatto costruire quattro scuole. Quando sono arrivata c’era una lista d’attesa per l’infanzia di 90 bambini. Come detto, gli stranieri sono molto prolifici. Era una situazione inaccettabile sia per loro, perché ghettizzati, sia per gli italofoni, perché perdono pezzi di programma. Il tetto è servito e serve a stabilire condizioni di equilibrio. Altrimenti un bambino italofono può trovarsi in una classe con 20 bengalesi che non vogliono scrivere la parola cane perché il cane è un animale impuro. Per i bengalesi abbiamo messo a disposizione gli scuolabus e hanno frequentato gli asili sul territorio dove, per altro, non c’erano bambini sufficienti a formare le classi».
La sinistra propone ogni settimana lo ius soli e lo ius culturae mentre lei mette delle soglie d’ingresso agli studenti stranieri: si stupisce che la contestino?
«La sinistra sta sempre dalla parte sbagliata. Tutti gli anni a fine gennaio si spertica per ricordare la Shoah, ma quando Hamas aggredisce barbaramente Israele strizza l’occhio alla Palestina. Dice di battersi per le donne e poi tace sulle situazioni che le ho illustrato. Per la sinistra e i suoi giornali la legge va rispettatat solo se si allinea alle loro idee».
Michele Serra ha proposto di identificarla.
«Sono a disposizione. Se verrà lo porterò a vedere i presepi vicino al Municipio».
Gorizia è terra di confine e di commistione fra culture diverse, l’integrazione è possibile?
«Effettivamente le etnie sono diverse. Con quella rumena, che è la seconda per importanza, non abbiamo mezzo problema. L’integrazione è un contratto biunivoco: con le comunità che pretendono di mantenere la loro cultura creando un’altra città nella città l’integrazione non si realizza».
Il tetto per i bambini stranieri, i vincoli urbanistici per pregare… i suoi provvedimenti sono tutti per frenare le altre etnie?
«Siamo in Italia. Ci sono una storia e una cultura da salvaguardare. Nessuno ha chiesto a nessuno di arrivare. È giusto chiedere rispetto del nostro Paese e delle nostre leggi».
Mi dice un suo provvedimento per promuovere positivamente la nostra etnia?
«Monfalcone era uno spogliatoio di Fincantieri e noi abbiamo messo al centro il rispetto della città. I provvedimenti sono innumerevoli, dal recupero del Natale con una serie di eventi fino alla valorizzazione della storia con le mostre sul Carso e le sue trincee».
Si candiderà alle Europee?
«Sono lusingata del fatto che il mio partito diretto molto bene da Matteo Salvini mi tenga in considerazione. Se potrò dare una mano alla Lega che ha le idee giuste per l’Italia e l’Europa lo farò. Ma sono orgogliosa di fare il sindaco di una delle città più difficili d’Italia, perciò la mia scelta sarebbe rimanere qua. Vedremo».
Si farà la manifestazione del 23 dicembre indetta dalla comunità islamica?
«Le manifestazioni sono libere, perciò penso che si farà. Ma la trovo una provocazione nei confronti dei cittadini che vogliono trascorrere un Natale tranquillo e dei commercianti che sperano negli incassi di quei giorni. Chiamare a raccolta 5.000 musulmani obbligando alla chiusura del centro storico mostra il volto di una comunità che se non riesce a fare ciò che vuole pone problemi. Martedì si riunirà il Comitato di pubblica sicurezza composto da prefettura e questura. Se vogliono parlare e confrontarsi, sono a disposizione».

 

La Verità, 16 dicembre 2023

«Macché TeleMeloni, la Rai è unica e si ama sempre»

Alla fine sul palco della Sala A di Via Asiago è spuntato anche Adriano Pappalardo per intonare con la sua voce di catrame: «Lasciatemi cantare, senza Viva Rai2! non so stare: ricominciaamooo…». È l’ultimo colpo di scena del minishow allestito per il varo della seconda stagione di Viva Rai2! Dal 6 novembre alle 7 sul secondo canale cinque giorni la settimana e, novità di quest’anno, su Radio 2 alle 14. Il primo, studiato, colpo di teatro era stato l’inizio della conferenza stampa senza Rosario Fiorello, Fabrizio Biggio e Mauro Casciari. Tutto schierato, invece, lo stato maggiore Rai, dall’amministratore delegato Roberto Sergio, al direttore dell’Intrattenimento prime time, Marcello Ciannamea e il suo vice Claudio Fasulo. Del resto, l’artista siciliano è ormai un patrimonio della tv pubblica, forse il suo asset creativo più pregiato. Al punto che, sottolineando la fruibilità del «mattin show» su tv, radio e Web, Sergio ha parlato di «Rai Fiorello». Conta su di lui anche per risollevare Rai 2, «dove si è voluto sperimentare»: i palinsesti autunnali si sono decisi in velocità, ma «adesso la vera sfida sono i palinsesti di gennaio. Rosario ci aiuterà…». Sedendosi al suo fianco, Fiorello ha duettato con l’amministratore delegato. «Da quando sei arrivato tu, i danni…». «Erano in itinere», ha puntualizzato Sergio. «È vero che Francesca Fagnani andrà sul Nove?». «No», risposta secca. Ma Fiorello voleva giocare tra il serio e il faceto: «Chiamerò Francesca e le dirò: “Se vai sul Nove vengo sotto casa tua e buco le gomme della macchina di Enrico Mentana” (forse dimenticando che non ha la patente). La Rai è la Rai a prescindere dal governo che c’è», ha proseguito. «Adesso si parla di TeleMeloni. Allora prima c’era TeleDraghi e prima ancora gli altri, fino a TeleMonti. La Rai è unica al di là del governo in carica. Tu hai votato la Meloni?». E Sergio: «Lo sai che sono democristiano».

Altra polemica di giornata lo spostamento al Foro Italico della location. Il disappunto dei residenti di via Asiago per il rumore ci poteva stare, ma erano i fan degli ospiti a provocarlo. «Però quando hanno detto che lasciavamo sporca la strada mi sono risentito perché non era vero. Sul serio vogliamo parlare di pulizia delle strade di Roma? Stavo per fare un reportage col telefonino sui cumuli d’immondizia…».

Argomento immancabile Sanremo, tanto più dopo la boutade di affidare a Fedez l’edizione del 2025. Qualche giorno fa c’è stata anche la riconciliazione tra il rapper e Sergio. Che però ha frenato: «Prima c’è da fare il Festival del 2024». Ma quello è già sistemato: «Nel 2025 prendete Fedez, chiamate Fazio e pagate la liberatoria alla Warner, che saranno due euro». E tu, Fiore, non pensi al Festival? «Non è il mio mestiere, ancora non avete capito? Ormai, quando mi chiedono se lo conduco quasi mi offendo. Alla quinta canzone da presentare potrei scappare. Avete creduto anche a Jovanotti ospite per cantare una canzone scritta da Lazza e intitolata Lazzaro, prima di buttare via le stampelle. Cosa dovevo dire ancora per far capire che era una gag?».

Paziente, Fiorello ha risposto alle domande sul talento, sui suoi stessi difetti, sul posto che riserva a Viva Rai2! in una classifica dei suoi programmi («considerato il pubblico eterogeneo lo metterei sul podio»), sulla sua multimedialità. E anche sulla satira dei fuori onda: «Striscia la notizia lo fa da sempre. Se lavorassi a Mediaset saprei che c’è la bassa frequenza e Antonio Ricci è così e mi comporterei di conseguenza. Tant’è che si sente che qualcuno glielo dice (a Giambruno ndr) di fare attenzione. È la cifra di Striscia. Noi ne abbiamo fuori onda?».

A 63 anni, Fiorello è un artista che l’Unesco dovrebbe proteggere come patrimonio universale del divertimento. Ma è anche un artista maturo. E a chi gli chiede se c’è qualcosa su cui non si può scherzare risponde: «Ci hanno chiamati per regalare un po’ di buonumore, 45 minuti senza riferimento ai fatti che ci angosciano tutti. La Rai ha una copertura del 100%, perché dovremmo dire anche noi la nostra? Io non ho un retaggio culturale adeguato… Se ti esprimi devi conoscere bene i fatti e io non li conosco abbastanza», ha sottolineato con grande consapevolezza. «Viene chiesto a tutti per chi parteggi… Ma non è Milan-Inter, ci sono bambini che muoiono, siamo tutti devastati. Se qualcuno mi chiedesse per chi parteggio lo manderei a quel paese. Qualsiasi cosa dici sei strumentalizzato… Io parteggio perché questa situazione venga risolta, ma da chi la deve risolvere. Non ci credo più molto, siamo arrivati al capolinea. Si dice che una parte deve farsi il suo Stato e l’altra il suo, certo. Ma non credo accadrà domani. Se non stiamo attenti qualcosa di drammatico può diventare ancora peggiore. Io, Rosario Fiorello, non ho risposte. Ma consentitemi l’indignazione, il dolore di veder uccidere i bambini, sia palestinesi che israeliani», ha sottolineato differenziandosi da Fedez che aveva detto che «c’è una sola parte dove si può stare, quella dei bambini e dei civili che a Gaza hanno perso o stanno perdendo la vita».

In chiusura, quanto ti deve la Rai? «La riconoscenza è reciproca. Io lavoro qui e mi sento a casa. Se il Nove mi chiamasse ci andrei…», gioca ancora. «Lo sapete che è in differita di un minuto? L’ho scoperto domenica quando ho chiamato Fazio sul cellulare. “Ma come, mi chiami adesso che c’è la pubblicità?”, ma io lo vedevo in onda. Hanno 60 secondi in più perché sono americani: servono per tagliare le parolacce».

Arriva Pappalardo: «Ricominciaamooo».

 

La Verità, 31 ottobre 2023

 

«La surrogata sdogana il nuovo schiavismo»

Femminista storica sebbene abbia frequentato le scuole delle suore Orsoline, già regista nella casa di produzione del Pci e fondatrice del collettivo Studio Ripetta di Roma, scrittrice e autrice di Basta lacrime. Storia politica di una femminista 1995-2020 (Vanda edizioni), Alessandra Bocchetti, esponente del «femminismo della differenza» è delusa dalla sinistra, Pd compreso, per l’ambiguità in tema di maternità surrogata e diritti civili: «Il mercato dei corpi», dice, «un tempo si chiamava schiavismo».

Alessandra Bocchetti, che cos’è il femminismo della differenza?

«È un femminismo che crede profondamente che una donna sia differente da un uomo per il corpo, per la sua esperienza e per la sua storia, di uguale uomini e donne hanno solo la dignità che spetta a tutti coloro che condividono la vita su questa terra, compresi gli animali. Con la coscienza della propria differenza la donna non è più a fianco dell’uomo ma di fronte. Uomini e donne si guardano finalmente, da questo si dovrà lavorare per un modo nuovo di stare insieme per governare i beni comuni. A questo cambiamento lavora il femminismo della differenza».

In che cosa si diversifica da altre correnti femministe?

«Adesso si dice che ci sono tanti femminismi… che vuole che le dica… Senza l’idea di differenza, per me, non è dato femminismo. Comunque si, c’è il femminismo della parità, quello che io chiamo femminismo di Stato. Il cui punto di arrivo è fare avere alle donne quello che hanno già gli uomini. Questo femminismo vuole riparare un’ingiustizia ma là si ferma. È un progetto corto. Sinceramente, io voglio di più e meglio di quanto ha un uomo oggi e non do affatto valore ai privilegi di cui ancora gode, anzi. E poi ci sono i femminismi delle giovani donne con uomini accanto, e questi mi sembra che prendano energia e senso soprattutto dall’essere antagonisti, essere contro. Manca, a mio avviso l’idea di governo, manca un progetto. E poi c’è il transfemminismo, che guardo con stupore, dove quello che le donne possono fare non si deve nominare. Non si può parlare di partorire, di mestruazioni, di allattamento perché se no sei discriminante e poco accogliente. Fatto sta che il risultato è non nominare quello che un uomo non può fare. E l’uomo, con il suo corpo chiuso, resta la misura. Questo trovo sia il patriarcato peggiore, quello che buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché la sua verità è che le donne, quelle biologiche, le vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, definitivamente».

Molte sigle del femminismo internazionale hanno accolto con favore la proposta di legge di Fratelli d’Italia di proclamare il ricorso all’utero in affitto reato universale, lei che cosa ne pensa?

«Ho poca dimestichezza con le leggi. Su questa proposta se ne dicono tante: che non si può fare, che è anticostituzionale, che è ridicola… Per quanto mi riguarda mettiamola così: non vorrei che in nessuna parte del mondo una donna fosse costretta a fare del suo corpo un contenitore di figli altrui. E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri».

Come valuta il fatto che i partiti di sinistra e il Pd in particolare con una segretaria donna abbiano una posizione poco chiara su questi temi?

«Sinceramente non me lo spiego. Non riconosco la mia sinistra e non mi spiego come possa una femminista essere favorevole alla maternità surrogata. Senta, io sono stata comunista e ancora oggi penso che il comunismo abbia fallito non perché fosse una cattiva idea, ma perché era un’idea troppo alta, troppo nobile per il cuore umano, che nobile non è. Non siamo stati capaci di costruire una società dove tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno senza sfruttare nessuno, ne credo lo saremo mai e me ne rammarico. Ero una ragazza borghese, educata dalle orsoline fino a diciotto anni. Mi sono iscritta alla cellula della facoltà di lettere, perché mi era insopportabile l’idea dello sfruttamento dei corpi, del lavoro alla catena di montaggio. Sono scesa in piazza per il corpo dei metalmeccanici contro il lavoro alienante della fabbrica. Vuole che io possa essere favorevole all’utero in affitto? Esiste lavoro più alienato? Una donna che per bisogno mette a disposizione di coppie danarose il suo corpo, che convive per nove mesi, sentendolo crescere dentro di sé, con un perfetto sconosciuto – e guai se non fosse così – uno sconosciuto che non ha di suo neanche mezzo gamete e per questo lei deve essere imbottita di ormoni, per scongiurarne il rigetto, per tutto il tempo della gravidanza, ormoni, si sa, altamente cancerogeni. A lei mi dicono, arriveranno tra i 15 e i 20.000 euro, per i più cinici basta fare i conti, per nove mesi, 24 ore su 24: una miseria. Tutta l’impresa invece costerà circa duecentomila euro se non di più, soldi che finiranno in altre tasche. Ma non è questo il punto. Si fa mercato. C’è un contratto. Che invenzione il contratto, una vera magica potenza che può rendere lecito ciò che lecito non è. Ma quando si fa mercato di corpi, di cosa si tratta? Un tempo si chiamava schiavismo».

La soluzione potrebbe essere la Gpa solidale e altruistica ora promossa dalle famiglie arcobaleno? Si eliminerebbe il mercato…

«Non c’è che da leggere questa proposta con animo sereno. Il pagamento diventa “congruo compenso” e la povera donna rischia una mancia. Il mercato entra sempre, non si fa mettere da parte tanto facilmente. Di questi tempi l’interesse ha la meglio sui buoni sentimenti, ahimè, quasi sempre. Mi meraviglia che la Cgil caldeggi questa proposta, o forse no, non più di tanto, in fin dei conti la Cgil caldeggia anche la regolamentazione della prostituzione, altro bel lavoro alienato. È un lavoro come un altro, dicono. Ma allora è meglio farne un altro, dico io».

Perché ha suscitato scandalo l’impugnazione della Procura di Padova delle trascrizioni dei bambini figli di coppie composte da due mamme?

«L’impugnazione della Procura di Padova ha fatto scandalo perché se questo gesto non fosse tragico sarebbe ridicolo. Un risveglio improvviso della Procura, perfettamente a tempo con la discussione sulla gravidanza per altri come reato universale. Ai sindaci non era dato per legge trascrivere quegli atti di nascita con due genitori dello stesso sesso, lo hanno fatto lo stesso, chissà come gesto provocatorio, esemplare, coraggioso, gesto di sfida… Fatto sta che ne risulta un pasticcio che può provocare molto dolore. Personalmente, quando si fa politica sulla pelle della gente la politica mi fa orrore. La temo».

Di fronte alla decisione della Procura di Padova, facendo leva su un certo sentimentalismo, si è detto che si creano orfani per legge.

«Per far passare la maternità surrogata si mettono avanti i bambini e il loro già esserci, anche questo è puro cinismo. Ma questa strategia non riesce a farmi dimenticare chi questi bambini ha messo al mondo e in quali condizioni e perché. Si raccontano falsità su falsità, si tenta la via del patetismo. Non è vero che l’aspirante genitore non possa andare a prendere i bambini a scuola, basta un permesso e così per le visite in ospedale. È falso che i bambini con un genitore non abbiano diritto al pediatra, al rimborso delle medicine, alla scuola. Ma di una cosa questi bambini avranno sicuramente bisogno forse più degli altri, avranno bisogno di un amore speciale, che dia loro la certezza di essere ben accolti. Sarà duro per loro il racconto della nascita, racconto che spesso i bambini chiedono, una nascita “scomposta” fra due o tre soggetti attivi e diversi: ovulo, seme, utero, impossibili riunirli in una prossimità e la prossimità per un bambino è un grande valore».

La sentenza della Cassazione del dicembre scorso prevede in questi casi l’adozione in casi particolari: perché non va bene?

«La strada c’è ed è quella dell’adozione. Il genitore non biologico deve adottare, solo che la procedura per farlo è troppo lenta, come sempre e come tutto in questo Paese, e anche poliziesca per di più. L’aspirante genitore viene trattato come un indiziato e questo non va bene. Tutto questo deve essere semplificato, velocizzato e fatto con serenità».

Perché i genitori arcobaleno non accettano di percorrere questa strada e provano a mettere sotto accusa l’ordinamento italiano strappando dalla Corte europea, che per altro lo ha negato, il consenso alle trascrizioni e la liberatoria per la surrogazione?

«Perché il movimento ha scelto un confronto duro».

Ideologico, quindi?

«Assolutamente sì, non c’è nulla di nuovo. Arrivano a rifiutare l’adozione perché hanno scelto una linea dura. Non c’è altro da dire».

Ma così non si va da nessuna parte.

«Esatto».

La proposta della ministra Eugenia Roccella di applicare una sanatoria per i bambini nati con la maternità surrogata rischia di indebolire la proclamazione dell’utero in affitto reato universale?

«È una possibile mediazione, ma sono perplessa anch’io. L’iniziativa della sanatoria non mi convince, ma d’altra parte è necessario trovare una soluzione. Non so se lo sia la sanatoria. Ci troviamo in una situazione nella quale il movimento arcobaleno ha scelto una posizione rigida, non accettando nemmeno la stepchild adoption».

Come, a suo avviso, si potrà arrivare a una sintesi accettata dalla maggioranza dell’opinione pubblica su questi temi?

«La madre è una sola, è quella che ti ha fatto nascere, è quella che ha pronunciato quel sì necessario ad aprirti le porte del mondo. È quella da cui sempre ti aspetti il bene, anche se la odi, e se il bene non arriva, perché può succedere, allora sono guai per te e per la società dove vivi, probabilmente porterai la tua ferita per tutta la vita. Un tempo le donne facevano figli anche quando non volevano. Ma adesso, che le donne sono libere, per entrare nel mondo ci vuole il loro “sì”. Difficile cancellare la madre, essere due in un corpo solo lascia tracce indelebili. Due donne che vogliono essere madri dei figli che solo una di loro ha partorito, non mi spaventa, perché le donne sanno amare. Solo auguro loro che il loro amore reciproco sia durevole. Mi spaventa invece quando due uomini vogliono essere padri dei loro figli senza madre. Sono sincera. Temo che non basti entrare in sala parto e farsi mettere il bambino sul petto. Non basta rubare la scena per cancellare la madre. Che potrà succedere quando verrai a sapere che quel suo “sì” è stato pagato?».

 

La Verità, 24 giugno 2023

«I grandi critici tv non spostano uno spettatore»

Piero Chiambretti, siamo sulla Verità quindi giuri di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Dica: lo giuro.

«Lo giuro, sulla testa di Pier Silvio».

Come fece il padre: i giuramenti finiscono sempre sulla testa dei figli.

«Esatto. Fatico a vedere Pier Silvio come un editore, lo vedo più come figlio, anche perché è più giovane di me. Ci siamo conosciuti molti anni fa al Vecchio porco, un ristorante vicino a Corso Sempione dove ci si incontrava per caso la sera tardi. Scattò una simpatia che poi si è trasformata in lavoro».

È il suo sponsor in Mediaset?

«Si dice che io sia il suo cocco e per questo lavori, ma mi sembrerebbe limitativo per lui. Credo non abbia interesse ad assoldare chi non lo merita. Io mi sforzo di dare il meglio e penso che lui sia sempre rimasto soddisfatto. Più semplicemente mi pare che stimi il mio lavoro e in questi 12 anni me l’ha dimostrato».

È soddisfatto di com’è andata La tv dei 100 e uno? Si ricordi che ha giurato…

«Molto soddisfatto, ho raggiunto i tre obiettivi che mi ero prefissato. Il primo, divertire; il secondo, emozionare; il terzo, sorprendere».

I momenti più memorabili?

«Ne dico due. Quello della sigla iniziale con i 100 bambini che entrano in studio sulle note di Another break in the wall con una sedia sulla testa. E quando abbiamo parlato della pandemia, dedicando la trasmissione a mia madre. Poche battute dei 100 si sono rivelate più profonde dei fiumi di parole ascoltate in due anni di televisione sul Covid 19».

Lei e sua madre siete stati ricoverati insieme.

«A distanza di 24 ore nello stesso ospedale, dove cinque giorni dopo lei morì».

Aveva qualche timore a tornare in prima serata su una rete ammiraglia?

«No, però prima di cominciare alcuni amici mi hanno consigliato di andare dallo psicologo».

Per focalizzare i rischi che stava correndo?

«Esatto. Il primo era che non sono una faccia da Canale 5, il secondo era il prodotto stesso, cioè il varietà con i bambini rivolto agli adulti, il terzo il linguaggio. Invece, dopo la prima puntata molto complicata, in pratica un numero zero, il programma ha trovato stabilità nei suoi appuntamenti e i bambini sono diventati riconoscibili, trasformandosi in un cast».

Gli ultimi suoi programmi sono stati un varietà con gossip in prima serata su Rete 4 e un talk notturno di calcio su Italia 1. Perché si è buttato sui bambini?

«È una metamorfosi. Prima mi sono occupato solo di donne per raccontarle a modo mio e farne un manifesto, poi del mondo maschile della repubblica del pallone. Oggi ho scelto i bambini che non sono i grandi di domani, ma i bambini di oggi. Tre universi lontani tra loro raccontati in orari e reti diverse, ma con il denominatore comune della mia curiosità e della mia identità».

Perché dava loro del lei?

«Perché volevo giocare una partita alla pari. Davo del tu agli ospiti e del lei ai bambini perché sono già grandi».

In questi casi il rischio del paternalismo, della scarsa spontaneità o della vocina infantile è sempre in agguato?

«Anche la retorica e il trombonismo lo sono. A me piace dividere, infatti hanno detto che sono un vecchio rincoglionito e un genio, uno sfruttatore di bambini e un visionario che sfida la tv. Mi vanno bene tutte le etichette: a un’azione corrispondono delle reazioni. Io sono sereno come una Pasqua, che per altro è vicina».

Come li avete trovati così talentosi?

«Con diversi mezzi, dalla chiamata alle armi dei serpentoni tv alla società di scouting di Sonia Bruganelli, fino al passaparola di amici e parenti. Sono stato fortunato perché, insieme ai talenti che cantavano, ballavano e parlavano con proprietà di linguaggio superiore alla loro età, molti dei 100 che non hanno mai aperto bocca hanno fatto gruppo con quelli che scendevano in campo. Li voglio ringraziare perché sono stati importanti come i talenti. Al termine della terza puntata ho visto scene di dispiacere come da fine delle vacanze».

Alcune domande e risposte erano farina degli autori?

«No. La redazione spiegava i temi di discussione e le domande se le preparavano da soli. Alcuni erano predisposti come si è visto dai provini, qualcun altro interpretava il ruolo dell’opinionista. Io non ho parlato con loro se non durante le registrazioni. Volevo essere sorpreso. Non ho imposto niente altrimenti non ne sarebbe valsa la pena. Il suo giornale è La Verità e questo era un programma sulla verità, che in tv esiste in modo approssimativo perché ognuno si fa i fatti propri. Una cosa che non succede con i bambini, i quali dicono sempre la verità: anche quando è una castroneria è sempre vera perché non è mai costruita».

Le hanno rimproverato di averli fatti parlare di Putin e Zelensky?

«E cosa c’è di male? Non vivono in una campana di vetro, sono bombardati dai tg, vedono i giornali e le foto che parlano solo di quello».

Perché ha scelto come sigla Another break in the wall dei Pink Floyd?

«Più che una sigla era un’ouverture ed è la prima cosa a cui ho pensato. Ho cercato la canzone più popolare al mondo contro il nichilismo della scuola, per dare il tono di un programma spettinato nel quale i bambini rivendicavano la libertà di pensare con la loro testa».

Soddisfatto dell’accoglienza del pubblico?

«Ho ricevuto molti messaggi di apprezzamento da colleghi e addetti ai lavori. E avuto un ottimo riscontro dal pubblico a cui il programma era rivolto, mamme, genitori, bambini. Un bagno di folla in un mondo che non mi conosceva. Nella sua biografia Woody Allen dice che un artista deve mettere in scena le proprie idee senza preoccuparsi dei riscontri, altrimenti se si insegue il consenso si finisce per abbassare il livello creativo».

Dell’accoglienza di Mediaset?

«All’inizio eravamo tutti in allarme, poi, man mano che il progetto prendeva corpo, cresceva la convinzione. Le maestranze e i cameraman sono stati i primi tifosi. Alla fine anche i più scettici si sono congratulati. Dopo la prima puntata, Pier Silvio, che è la persona alla quale si fa sempre riferimento, mi ha telefonato dicendosi contento di essere l’editore di questo progetto».

E dell’accoglienza della critica? Ricordi che deve dire la verità…

«La critica dev’essere critica, se fa i complimenti non serve. Il critico è un generale che spara sui suoi soldati. Leggendo più i titoli degli articoli ho visto che molti erano distruttivi, mancava solo il bazooka. Mi è venuta nostalgia della critica del passato, quella di autori come Ugo Buzzolan, Oreste Del Buono e Beniamino Placido».

Perché?

«Perché, sebbene attaccassero anche me, usavano la penna e l’ironia dando consigli per migliorare prodotti a volte balbettanti. I critici di oggi, anche i più rinomati, invece usano la roncola e il livore».

A proposito di verità, le sottopongo una frase di Alexis Carrel, premio Nobel della medicina: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Vale anche per la critica televisiva?

«Le verità sono difficili da trovare. Un critico è un essere umano che scrive e pensa secondo le proprie simpatie e perciò rappresenta solo sé stesso. La critica tv italiana non sposta un telespettatore, quella americana ti fa chiudere un cinema».

Quella che l’ha più irritata è che lei è sempre uguale e non cresce?

«Sulla crescita lo sapevo, me l’aveva già detto il mio endocrinologo. Più che una critica è un’inesattezza. Io sono sempre diverso in uno stile che rimane invariato. Armani è sempre Armani pur facendo vestiti sempre diversi, Valentino lo riconosci dal colore rosso e l’amatriciana in tutta Italia è sempre la stessa pur cambiando regioni e ingredienti».

Adesso che cosa farà?

«Mi metto sulla riva del fiume e aspetto».

Chi o che cosa?

«Di capire cosa fare con Mediaset. Il contratto è scaduto, sono in stand by, ma capirò presto cosa fare perché abbiamo già deciso di incontrarci. Nel frattempo guarderò la tv degli altri, quella che piace alla critica e che io non so fare, come i talent e i reality show. Sono propenso a tornare con La tv dei 100 e uno. Se non arriverà l’idea del secolo che mi farà cambiare programma, lavorerò alla vendita all’estero di questo format. Sarebbe una gratificazione d’autore, prima ancora che economica».

Questo programma è una piccola svolta perché ha a che fare con la sua vita privata?

«Diciamo che inaugura una seconda giovinezza, come se fossi entrato nella piscina di Cocoon. Tutto è nato dall’osservazione di mia figlia che mi spiazza tutti i giorni. Dice cose dritte e sintetiche che mi sorprendono sempre».

Ogni quanto la vede?

«La vedo con qualità più che con quantità. Vive con la mamma, ma trascorre due lunghi weekend al mese e un giorno la settimana con me».

È solo la televisione italiana a starle un po’ stretta o anche qualcos’altro?

«La  mia vita è stata la tv. Anche il libro autobiografico molto voluto dalla Mondadori è stato importante. Le altre esperienze sono servite per non farle più. Attraverso la tv ho raccontato il Paese con il mio linguaggio, la mia musica, me stesso».

La nostra politica le sta stretta?

«No. Tutta la società nel suo complesso è diventata una marmellata. Oggi si va a votare una persona e tra due anni la mandiamo in nomination come al Grande Fratello. Non ci sono più punti di riferimento certi».

E il politicamente corretto?

«È un vecchio adagio, tutti ne parlano come di un limite alle idee, ma se uno le ha le può spendere. A volte non si ha il coraggio di farlo perché il politicamente corretto ci spinge tutti nella stessa direzione. Se in Italia ci fosse la rivoluzione ci si andrebbe in macchina».

Che preda farebbe divorare a Ignazio, il dinosauro del programma?

«Gli direi di mangiarsi la maleducazione. Siamo il Paese dei furbi e dei maleducati. Lo si vede da come stiamo a tavola, da come ci vestiamo, dallo sperpero, da come ci meniamo allo stadio. La maleducazione è al potere».

Invece una cosa che salverebbe?

«L’Italia come paese geografico: storia, radici, passioni. Ciò che mi piace di Google maps è lo stivale stesso. Non restringo la mappa, la allargo al mare, alla montagna, alla provincia. Lì mi ritrovo… Specialmente quando trovo parcheggio».

E noi quanto dovremo aspettare per ritrovarla?

«Non lo so. Se non succede nulla, apro un asilo».

 

La Verità, 1 aprile 2023

Piero non vuol essere un mattone nel muro della tv

È un altro Piero Chiambretti. Tutto un altro, rispetto a quello cui siamo abituati, colui che conduce La tv dei 100 e uno (Canale 5, mercoledì, ore 21,44, share del 12,6% per 1,7 milioni di telespettatori). Del resto, si cambia nel corso della vita. Si evolve, soprattutto se si attraversano situazioni particolarmente complicate, come gli è capitato. A 66 anni, Chiambretti non è più quello del Portalettere o Il laureato, ma nemmeno quello di CR4 – La Repubblica delle donne, dove ha reinventato Iva Zanicchi, Barbara Alberti e Alda D’Eusanio, sdoganato Drusilla Foer e consolidato pure Cristiano Malgioglio (che poi è iconograficamente degenerato). Allora le accuse di trash tv si sprecavano e lui le cavalcava sempre con la sua verve, scanzonata e abrasiva ad un tempo.

Oggi, con la solita squadra di autori interamente confermata (da Romano Frassa a Tiberio Fusco), ha voglia di nuova televisione e lo show imperniato sui bambini è un desiderio che coltivava da tempo. I precedenti non mancano, da Chi ha incastrato Peter Pan a Bravo, bravissimo! fino al recente The Voice Kids, che però è un talent. E neppure mancano i rischi di scadere nel manierismo del genere. Chiambretti riesce in gran parte a evitarli, forte del suo proverbiale registro pierinesco. Non ci sono paternalismo, buonismo e consolazioni varie nel relazionarsi ai kids, ma proprio l’autoironia permette di entrare con profitto nel mondo dei 100 talentuosi che fanno lo show. Il quale è diviso in vari segmenti («I grandi temi dell’umanità», «Il club delle mamme»…), introdotti da citazioni letterarie sul tema perché, alla fine, dev’essere visto anche dal pubblico adulto. L’altra idea è centrifugare l’impertinenza dei piccoli fans con gli adulti, convocati in qualità di maestri della loro materia (Vittorio Sgarbi ha illustrato la storia della Gioconda). Ma anche chiamati a rispondere e difendersi dalle curiosità del parterre. Così, a Sgarbi viene chiesto perché perde spesso la pazienza e si arrabbia. O a Elettra Lamborghini se ha paura d’invecchiare. Domande autoriali, certamente. Niente aiuti in soccorso, invece, nelle brevi esibizioni al pianoforte (un bambino di 5 anni non riesce a indovinare un paio di opere dalle prime note), nella danza, nell’interpretazione di La vie en rose o della sigla iniziale (Another breaking in the wall) eseguita alla chitarra. Giusto per dire che anche questi ragazzini non vogliono essere un altro mattoncino dell’omologazione. Un po’ come prova a fare in punta di piedi questo show, nel muro piuttosto uniforme dei palinsesti tv.

 

La Verità, 24 marzo 2023

L’azzardo di Ammaniti è una distopia di nome Anna

Niente male come azzardo. Produrre una serie distopica nella quale un virus ha falcidiato gli adulti in un momento in cui una vera pandemia sta mietendo vittime soprattutto tra gli anziani. O la va o la spacca. Il rischio potrebbe comportare il rifiuto del pubblico televisivo, già quotidianamente sommerso da un’informazione apocalittica. Abbiamo i telegiornali farciti dalla contabilità pandemica e tutti i canali intasati di talk show pullulanti di virologi ed epidemiologi che disegnano scenari più o meno foschi: ci mancava Anna, miniserie in sei episodi tratta dall’omonimo romanzo (Einaudi), pubblicato nel 2015 da Niccolò Ammaniti, qui alla seconda prova da regista per Sky Italia (dopo Il Miracolo). Prodotta da Wildside del gruppo Fremantle e coprodotta da Arte France, The new life company e Kwaï, scritta dallo stesso Ammaniti con Francesca Manieri, la serie Sky original andrà in onda dal 23 aprile, giorno in cui tutte le puntate saranno disponibili per la visione sequenziale.
All’epidemia soprannominata «la rossa», un virus che si manifesta con strane macchie sulla pelle prima di attaccare gli organi vitali fino alla morte, sono sopravvissuti solo i bambini e gli adolescenti. In loro il virus «è dormiente», per adesso. In una Sicilia di rottami e rifiuti, dove la natura fagocita i resti della civiltà, resiste solo la legge della sopravvivenza. Ma quando Anna (l’esordiente Giulia Dragotto) fa ritorno nella casa dentro il bosco dove sfanga la giornata, il fratellino Astor (Alessandro Pecorella, anche lui debuttante) non c’è più, rapito dalla banda dei Blu. Oltre all’aiuto di Pietro (Giovanni Mavilla), coetaneo complice e rivale, Anna può contare sul Libro delle cose importanti nel quale la mamma (Elena Lietti) ha trascritto regole e consigli utili ad affrontare la vita «quando io non ci sarò più». Una sorta di lascito, di bussola per l’esistenza in cattività. «Fuori dal bosco ci sono tanti pericoli, ma voi insieme li affronterete. Siete fratelli, siete una famiglia», sottolinea, sebbene abbia istericamente allontanato il compagno al primo palesarsi dell’infezione. Tra piccole insidie e grandi agguati, tra un flashback e qualche reminiscenza da Io non ho paura, tra qualche visione onirica e le apparizioni del fantasma materno, inizia la caccia al fratellino rapito. Che è ricerca del legame con il passato e possibilità di costruzione di un futuro.

«Volevo raccontare una ragazzina costretta a superare i propri limiti, a fare la madre senza esserlo», spiega l’autore e regista. «Volevo vedere che cosa fanno i bambini senza gli adulti, come affrontano il futuro. L’adolescenza è una delle mie ossessioni. E siccome sono un biologo, mi è venuta in mente la situazione creata da un virus che li costringe a far da soli. Con l’esclusivo aiuto della memoria, di un’educazione che proviene dal passato e che si condensa in quel libro delle regole».

Insomma, la chiave interpretativa è nel passaggio di contenuti dagli adulti agli adolescenti. Forse è per questo che fin dalle parole dell’incipit rivolte dal fratellino ad Anna – «Mi racconti del fuori?» – echeggia l’aria moraleggiante dell’«andrà tutto bene» del primo lockdown. Raccontare una catastrofe epidemica in un momento come questo sperando di non creare sovrapposizioni è impresa ardita assai. «L’epidemia da Covid 19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese», si avverte all’inizio di ogni episodio. Certo per segnare la distanza dall’attualità. Ma forse, al contempo, anche per segnalare una certa preveggenza autoriale. Chissà se queste sottigliezze convinceranno i telespettatori. Ha un bel dire Nicola Maccanico, vice presidente esecutivo di Sky Italia, che, non essendo voluta, «la sovrapposizione con l’attualità ci ha liberato dal dubbio» di rinviarne la programmazione. Se ci sono, sono «assonanze involontarie. Anna è una meravigliosa storia di fantasia che va a toccare le domande più profonde delle persone». Tutto vero. Ancor più vera è la quotidianità nella quale cade la finzione. Pure Maccanico deve ammettere che «la sera in tv si stenta a trovare una rete in cui non si parli del Covid. Ma», assicura, «Anna è un viaggio diverso, porta speranza». Tuttavia, a conti fatti, è probabile che la storia creata da Ammaniti sedurrà più facilmente quella parte di pubblico che crede che «la pandemia ci renderà migliori». E che, sebbene per fiction, abbia voglia di un’ulteriore immersione nella tragedia dei contagi e della morte. Invece, all’Italia che ha patito davvero per il Covid, la distopia di Ammaniti potrebbe risultare un fastidioso esercizio da laboratorio. Un’epidemia da manuale. La situazione giusta per avviare il ricalcolo della civiltà ad opera dei migliori. Come quello echeggiato dalla sigla della serie, Settembre di Cristina Donà: «Tu mi dicevi che la verità e la bellezza non fanno rumore/ Basta solo lasciarle salire, basta solo farle entrare/ È tempo di imparare a guardare/ È tempo di ripulire il pensiero/ È tempo di dominare il fuoco/ È tempo di ascoltare davvero».

Insomma, la palingenesi dei buoni.

 

La Verità, 13 aprile 2021