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Eugenio Borgna, grande psichiatra e anima gentile

È morto lo psichiatra Eugenio Borgna. Aveva 94 anni, viveva a Borgomanero, in provincia di Novara, dov’era nato nel 1930. Oltre a essere una delle autorità indiscusse della psichiatria italiana e internazionale, Borgna era una persona di enorme sensibilità d’animo. Umile, disposto all’ascolto, capace di farti sentire importante. Mancherà a tutti coloro che hanno a cuore la ricerca del bello e del vero. Di seguito ripubblico l’ultima intervista che ebbi il privilegio di fargli nel marzo del 2020 (nel sito se ne trova un’altra del 2017) a pandemia appena scoppiata.

«Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020

Lunga vita alle interviste dell’anima di Tv2000

Due volti uno di fronte all’altro, e basta. I due volti sono quelli di Monica Mondo, intervistatrice e conduttrice di Soul (tutti i sabati e le domeniche su Tv2000 alle 20,50, canale 28 del digitale e 157 della piattaforma Sky), e quello dell’intervistato. Una scrittrice, un regista, il ministro generale dei Frati minori, un giornalista, uno psichiatra… Soul è un «programma senza». Senza contorni, contesti, pose e concessioni alle mode. Soul è un «programma con». Con curiosità e capacità di ascolto, base di partenza per un dialogo vero che si svolge nel ping-pong di domanda e risposta. Le puntate, ora arrivate alla ragguardevole cifra di 500, sono incontri dell’anima, appunto. Essenziali come la scenografia, uno sfondo blu privo di orpelli. La formula ricorda il «Faccia a faccia» del Mixer di Giovanni Minoli, ma interpretata in modo più pacato e meno ansiogeno. Al centro c’è l’altro, il «tu» dell’altro. Per renderlo interessante, occorre saper fare le domande, anche quelle scomode. E saper rispettare chi si ha di fronte, pur provando a illuminarne le zone d’ombra.

Monica Mondo non insegue necessariamente i protagonisti della stretta attualità, ma persone che abbiano qualcosa da dire, in qualche caso da testimoniare. Se intervista Massimo Fusarelli, ministro generale dell’ordine dei Frati minori, e si parla del prossimo giubileo per l’ottavo centenario di San Francesco, coglie l’opportunità di precisare che «era cristiano, perché qualche volta sembra che vada bene per tutte le stagioni e per tutte le fedi». «E per tutte le mode… mentre era discepolo di Gesù Cristo», sottolinea Fra’ Fusarelli. «E anche le letture laiche, pensiamo all’ecologia e alla pace, colgono una parte di Francesco. A noi spetta ricordare che il codice per conoscerlo è il Vangelo», precisa il religioso. Se intervista il giornalista e scrittore Federico Rampini, autore di Fermare Pechino (Mondadori), la conduttrice riesce a fargli dire che il ceppo Han, il gruppo etnico largamente maggioritario in Cina, «è razzista». Che i tre figli cinesi che ha adottato con sua moglie ha dovuto lasciarli nel luogo in cui vivevano perché a Pechino sarebbero stati trattati «come animali». E, infine, che se volesse tornare in Cina difficilmente gli sarebbe concesso il visto.

Storie vere, si diceva. Venticinque minuti con l’aiuto di un quaderno nel quale è appuntata la scaletta delle domande, sempre rivista in diretta per cogliere uno spunto o una rivelazione, seguendo lo stimolo della curiosità. Altri spazi simili in televisione non vengono in mente, perciò lunga vita a Soul di Monica Mondo.

 

La Verità, 30 novembre 2021

Inter e Milan, l’anima la danno gli italiani

Tutti al capezzale delle milanesi. Alla ricerca dell’anima perduta. Dov’è finita? Dove si compra? Forse nello stesso posto dove si comprava l’amalgama ai tempi del Catania di Massimino? I cinesi conoscono la parola? Il dibattito è acceso nei bar sport e nelle cattedre di tattica calcistica. Inter e Milan si sono dissolte alle ultime curve prima del rettilineo con vista sulle coppe europee. I nerazzurri, due punti nelle ultime sette partite. I rossoneri, due nelle ultime quattro. A San Siro maramaldeggiano tutti. Roma, Sampdoria, Napoli, Empoli, citando in ordine sparso. Per entrambi, uno di quei punti è arrivato dal pareggio nel malinconico derby della mediocrità.

Questa è la situazione. Ogni settimana si dà fondo alle analisi e anche i commentatori più sofisticati e scafati ormai gettano la spugna. Perché la crisi viene da lontano, non è carenza di risultati delle ultime domeniche. Le squadre milanesi non sono competitive secondo storia e blasone da illo tempore. Senza addentrarsi nelle traversie societarie con l’avvento dei cinesi, guardiamo la faccenda al presente che le accomuna con solo una minima differenza: qualcuno sottolinea che la famosa anima manca a entrambe le squadre, qualcun altro osserva che il Diavolo, almeno un briciolo d’orgoglio ce l’ha. Roba minima. E del resto, non basta passare da un allenatore o da un modulo a un altro per risolvere il problema. Esaurita la novità si precipita di nuovo nello sconforto. Come dimostra il triplo cambio in panchina all’Inter. Cercasi anima, dunque.

L’anima di una squadra la danno i leader. Questione di maglia e di appartenenza. Questione d’identità. E i leader possibilmente, se non inevitabilmente, devono essere italiani. La Juventus ha Gianluigi Buffon (leader anche nell’advertising, con le sue quattro campagne contemporanee) e Leonardo Bonucci, riabilitato dopo la clamorosa esclusione in Champions contro il Porto, seguita al diverbio con Massimiliano Allegri. Come ha notato Arrigo Sacchi, l’allenatore ha ristabilito le gerarchie e si è ripartiti, votati e vocati alla vittoria. La Roma ha in Daniele De Rossi e Francesco Totti i suoi capitani riconosciuti. E se qualche alto e basso l’ha resa meno vincente è proprio per la difficoltà a metabolizzare il fine carriera della sua storica bandiera. Andando indietro, tutte le squadre che hanno creato un ciclo avevano punti di riferimento in campo e nello spogliatoio. Il Milan di Sacchi e Fabio Capello aveva Franco Baresi e Alessandro Costacurta. Quello di Carlo Ancelotti ha avuto Paolo Maldini e Rino Gattuso. L’Inter del triplete aveva Marco Materazzi, Javier Zanetti e Zlatan Ibrahimovic.

Con intelligenza e ironia, in questi mesi Vincenzo Montella era riuscito a tenere i giocatori al riparo dall’incertezza derivata dalle vicende societarie. C’è chi sostiene che, firmato il closing, la squadra si sia sciolta perché gran parte dei giocatori si sono sentiti meno sicuri di essere confermati dalla nuova proprietà. È una lettura plausibile. Io ne aggiungo un’altra. Molti di quei giocatori sono in prestito o hanno contratti prossimi alla scadenza. E questa situazione c’era anche prima del closing. Il Milan d’inizio anno si era distinto per il progetto dei giovani italiani (Donnarumma, De Sciglio, Locatelli, Romagnoli, Bonaventura, Calabria) suggerito da Silvio Berlusconi. Quasi tutti ragazzi del vivaio, attaccati alla maglia, che avevano in Ignazio Abate un fratello maggiore. E ai quali basterebbe aggiungere pochi campioni per fare il salto di qualità. Dopo l’infortunio di Giacomo Bonaventura, uno che l’anima l’ha sempre data, si è aggiunto quello di Abate. Da quel momento il Diavolo ha iniziato a perdere gli artigli. Non a caso Montella dice spesso che un altro giocatore come Abate in rosa non c’è. Questione di leader. Di giocatori italiani attaccati ai colori. Vista da qui, la situazione dell’Inter, una babele multietnica di lingue e provenienze, è specularmente decodificabile.