Inter e Milan, l’anima la danno gli italiani
Tutti al capezzale delle milanesi. Alla ricerca dell’anima perduta. Dov’è finita? Dove si compra? Forse nello stesso posto dove si comprava l’amalgama ai tempi del Catania di Massimino? I cinesi conoscono la parola? Il dibattito è acceso nei bar sport e nelle cattedre di tattica calcistica. Inter e Milan si sono dissolte alle ultime curve prima del rettilineo con vista sulle coppe europee. I nerazzurri, due punti nelle ultime sette partite. I rossoneri, due nelle ultime quattro. A San Siro maramaldeggiano tutti. Roma, Sampdoria, Napoli, Empoli, citando in ordine sparso. Per entrambi, uno di quei punti è arrivato dal pareggio nel malinconico derby della mediocrità.
Questa è la situazione. Ogni settimana si dà fondo alle analisi e anche i commentatori più sofisticati e scafati ormai gettano la spugna. Perché la crisi viene da lontano, non è carenza di risultati delle ultime domeniche. Le squadre milanesi non sono competitive secondo storia e blasone da illo tempore. Senza addentrarsi nelle traversie societarie con l’avvento dei cinesi, guardiamo la faccenda al presente che le accomuna con solo una minima differenza: qualcuno sottolinea che la famosa anima manca a entrambe le squadre, qualcun altro osserva che il Diavolo, almeno un briciolo d’orgoglio ce l’ha. Roba minima. E del resto, non basta passare da un allenatore o da un modulo a un altro per risolvere il problema. Esaurita la novità si precipita di nuovo nello sconforto. Come dimostra il triplo cambio in panchina all’Inter. Cercasi anima, dunque.
L’anima di una squadra la danno i leader. Questione di maglia e di appartenenza. Questione d’identità. E i leader possibilmente, se non inevitabilmente, devono essere italiani. La Juventus ha Gianluigi Buffon (leader anche nell’advertising, con le sue quattro campagne contemporanee) e Leonardo Bonucci, riabilitato dopo la clamorosa esclusione in Champions contro il Porto, seguita al diverbio con Massimiliano Allegri. Come ha notato Arrigo Sacchi, l’allenatore ha ristabilito le gerarchie e si è ripartiti, votati e vocati alla vittoria. La Roma ha in Daniele De Rossi e Francesco Totti i suoi capitani riconosciuti. E se qualche alto e basso l’ha resa meno vincente è proprio per la difficoltà a metabolizzare il fine carriera della sua storica bandiera. Andando indietro, tutte le squadre che hanno creato un ciclo avevano punti di riferimento in campo e nello spogliatoio. Il Milan di Sacchi e Fabio Capello aveva Franco Baresi e Alessandro Costacurta. Quello di Carlo Ancelotti ha avuto Paolo Maldini e Rino Gattuso. L’Inter del triplete aveva Marco Materazzi, Javier Zanetti e Zlatan Ibrahimovic.
Con intelligenza e ironia, in questi mesi Vincenzo Montella era riuscito a tenere i giocatori al riparo dall’incertezza derivata dalle vicende societarie. C’è chi sostiene che, firmato il closing, la squadra si sia sciolta perché gran parte dei giocatori si sono sentiti meno sicuri di essere confermati dalla nuova proprietà. È una lettura plausibile. Io ne aggiungo un’altra. Molti di quei giocatori sono in prestito o hanno contratti prossimi alla scadenza. E questa situazione c’era anche prima del closing. Il Milan d’inizio anno si era distinto per il progetto dei giovani italiani (Donnarumma, De Sciglio, Locatelli, Romagnoli, Bonaventura, Calabria) suggerito da Silvio Berlusconi. Quasi tutti ragazzi del vivaio, attaccati alla maglia, che avevano in Ignazio Abate un fratello maggiore. E ai quali basterebbe aggiungere pochi campioni per fare il salto di qualità. Dopo l’infortunio di Giacomo Bonaventura, uno che l’anima l’ha sempre data, si è aggiunto quello di Abate. Da quel momento il Diavolo ha iniziato a perdere gli artigli. Non a caso Montella dice spesso che un altro giocatore come Abate in rosa non c’è. Questione di leader. Di giocatori italiani attaccati ai colori. Vista da qui, la situazione dell’Inter, una babele multietnica di lingue e provenienze, è specularmente decodificabile.