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Paola Severini: «Così ho portato l’handicap tra i lustrini»

Cattolica praticante con la tessera del Partito radicale. Amica di vescovi, di preti importanti e di protagonisti della solidarietà. Giornalista, scrittrice, conduttrice radiofonica e produttrice televisiva. Già moglie di Antonio Guidi, ex ministro per la Famiglia del primo governo Berlusconi, poi moglie dello storico Piero Melograni, scomparso nel settembre 2012. Fondatrice della Cooperativa Superangeli, poi trasformata in Srl, collettore d’informazione sul mondo del volontariato. A lungo consigliere dell’Agenzia nazionale delle Onlus, organismo della Presidenza del consiglio dei ministri. Autrice di Le mogli della Repubblica (Marsilio), nel quale ha raccolto le confessioni, tra le altre, di donne come Carla Pertini, Livia Andreotti, Linda D’Alema, Clio Napolitano, libro saccheggiato da molti colleghi incapaci di ottenere le stesse interviste. A tempo perso segretario generale del Comitato internazionale Viva Toscanini. È lei ad aver fatto esibire, gratuitamente, i Ladri di carrozzelle nell’ultima serata del Festival di Sanremo. Tutto questo e molto di più è Paola Severini Melograni. L’intervista è un tentativo di arginare un fiume in piena.

Cominciamo da Sanremo?

«È stato un successo. I Ladri di carrozzelle hanno avuto una grande vetrina, all’inizio dell’ultima serata. Tutto è stato declinato nel modo giusto e dobbiamo ringraziare Carlo Conti».

Com’è riuscita a portarli all’Ariston?

«Ho stalkerizzato la Rai e loro hanno ceduto».

Memori dell’esperienza dell’anno precedente, quando, sempre gratuitamente, sullo stesso palco salì il pianista Ezio Bosso?

«Grazie a quell’esibizione Bosso, già artista gigantesco, è divenuto una stella internazionale».

Di recente è stato ospite di Paolo Bonolis su Canale 5 e prima anche Sky Arte ha trasmesso un suo concerto.

«Gliel’ho detto: ora è un artista molto richiesto. Ma il mio lavoro si è fermato dopo Sanremo».

I Ladri di carrozzelle hanno avuto grande visibilità.

«Enorme. Ho ricevuto valanghe di mail e messaggi. 13 milioni di telespettatori non si hanno tutti i giorni. Poi, a quello del Festival, ho aggiunto il pubblico di Striscia la notizia. Antonio Ricci è un amico…».

E quindi?

«L’ho chiamato e gli ho proposto di ricordare che il primo a mandarli in onda era stato lui. Detto fatto. Un paio di giorni dopo, quando Bruno Vespa ha ospitato Conti, si è rivista l’esibizione».

Erano già stati a Striscia?

«Nel 2004. I Ladri di carrozzelle esistono da metà degli anni Ottanta. Io li ho conosciuti nel 1989, quando ero moglie di Antonio Guidi. Avevo incontrato Paolo Falessi, il fondatore, quel signore alto che all’Ariston suonava la chitarra. Negli anni la band è cambiata, alcuni sono andati via, altri sono morti. Nel 2004, siccome non mi riusciva di portarli al Festival, proposi a Ricci di fare un anti Sanremo. Lui capì al volo e per una settimana fece Saneremo. I Ladri si mettevano le parrucche, cambiavano look e ogni sera si fingevano cantanti diversi».

Tutte rose e fiori al Festival?

«Non proprio. Mi è molto dispiaciuto che la Rai li abbia mandati a dormire a Imperia. Ho fatto una scenata. Pensavo dovessero essere trattati come gli altri e non credo che Zucchero o Fiorella Mannoia abbiano dormito a Imperia».

I Ladri di carrozzelle con Paola Severini a Sanremo

I Ladri di carrozzelle con Paola Severini a Sanremo

Quindi anche spine.

«Qualcuna. Comunque, tutto bene. Domenica abbiamo concluso con un pranzo della Caritas e i boy scout hanno servito ai tavoli. È venuto anche qualcuno della Rai. Sanremo non finisce con le collane di Maria De Filippi o il vestito di Diletta Leotta».

A proposito…

«A proposito, niente moralismi. Per dire, io so e ripeto che il sesso è importante e fa bene anche agli handicappati. I Ladri di carrozzelle cantano una canzone intitolata Malattia Pat che sta per patata (“Ma quanto bene fa, è un rimedio universale, guarisce da ogni male”). Ma altresì sono convinta che in certe situazioni la forma sia sostanza. Soprattutto se si vuole portare un messaggio. Rispettare il contesto in cui sei è un fatto di educazione: non vai dal Papa in minigonna».

Dell’abito della Leotta si è parlato, della sua band?

«Pochino: ho ancora molto da lavorare. Alla fine della nostra conferenza stampa era comparso anche il dg della Rai Antonio Campo Dall’Orto, l’unica alla quale abbia partecipato, e c’erano tutte le testate. Ma non ho visto grandi uscite sui giornali».

Sanremo a parte, dove quest’anno si è rischiata un’overdose sociale, non crede che la televisione debba migliorare su certi argomenti?

«Condivido la battaglia di Fiorello contro gli eccessi di morbosità di certi programmi. Personalmente li evito, soprattutto da quando vedo che sono monopolizzati da quella che chiamo la compagnia della morte, Alessando Meluzzi, Roberta Bruzzone. Con loro perderei sempre».

Pochi giorni prima del Festival l’ex batterista Piero Petrullo si è tolto la vita: com’è stata assorbita quella tragedia?

«Piero soffriva di dolori lancinanti continui in seguito a un incidente stradale che lo aveva reso paraplegico. Nonostante i progressi fatti, analgesici e morfina sono soggetti all’assuefazione e perdono efficacia. Da sette anni, a causa dei dolori, Piero aveva rinunciato a suonare. Ma non è stato lasciato solo, era assistito dai parenti. Due giorni prima di compiere quel gesto, Falessi gli aveva parlato. Sembrava tranquillo. Non ha lasciato niente di scritto. La sua morte ci ha molto provato e abbiamo chiesto a Conti di ricordare che “Stravedo per la vita” era dedicata a lui. C’è qualcosa di misterioso in questa tragedia che dobbiamo rispettare. Mi è accaduto altre volte di vivere da vicino gesti inspiegabili».

Per esempio?

«Conoscevo Carlo Lizzani, una persona piena di vita. Non mi sarei mai aspettata che si suicidasse. Conoscevo anche Mario Monicelli, ma meno. Mio marito Piero era stato amico di suo padre Tomaso, che si tolse la vita. E pensava che anche che Mario l’avrebbe fatto».

Una cattolica praticante con la tessera radicale cosa pensa dell’eutanasia?

«Forse la mia definizione più corretta sarebbe cattosocialista, ma non è importante. Non mi piace la parola eutanasia, l’ho detto anche a Mina Welby, madre di Piergiorgio. Sono per la morte dignitosa per tutti. È anche un’invocazione del Veni creator spiritus: “Dona morte santa”. La morte santa è una buona morte».

Approva coloro che vanno a morire nelle cliniche svizzere?

«Non approvo. Personalmente farò testamento biologico, non voglio l’accanimento terapeutico. Nemmeno la Chiesa lo vuole. Com’è stato confermato anche pochi giorni fa in occasione della morte di Dino Bettamin, il macellaio di Montebelluna malato terminale di Sla. Bisogna sapere che questi malati muoiono soffocati. La sedazione profonda non è una pratica eutanasica perché non si staccano le macchine».

Quindi si occupa anche di altro: non è una specie di sacerdotessa dell’handicap.

«Ho cominciato a interessarmi a questi temi a 14 anni, quando mi sono fidanzata con Guidi. Ho conosciuto i maggiori luminari nel medicina e della psichiatria, da Franco Basaglia, di cui Guidi era allievo, a Gilles Deleuze. E i grandi protagonisti della solidarietà, da monsignor Ersilio Tonini, un vero padre spirituale, a Vincenzo Muccioli, da don Pierino di Eugenio, direttore dell’Eco di San Gabriele, ad Andrea Riccardi ed Ernesto Olivero. Nel 2000 ho fondato Angelipress, l’agenzia che informa Camera e Senato sui temi del volontariato. Siamo assillati perché ci prendono per un supermarket delle disgrazie. Ma spesso questo assillo ci permette di fare cose meravigliose».

Paola Severini con Piero Melograni, morto nel 2012

Paola Severini con Piero Melograni, morto nel 2012

Me ne dica una.

«La legge sul Dopo di noi, approvata in Parlamento nel giugno scorso con un consenso trasversale. Una legge che stabilisce la possibilità di unire soldi pubblici e privati per costruire qualcosa per gli handicappati gravi rimasti senza genitori. Le sarà capitato di leggere le cronache delle famiglie con disabili. Quando genitori e parenti si avvicinavano alla fine, il loro futuro era nero e finiva in tragedia. Questa legge, che non è perfetta, dà una prospettiva a queste persone».

In tutto questo che cosa c’entrano i radicali?

«C’entrano perché sono sensibili alle minoranze. Li vedo, lavorano con i malati e nelle carceri…».

Come i cattolici.

«Infatti, si lavora fianco a fianco. Poi io sono favorevole alle unioni civili, ho visto grande dedizione nelle coppie dello stesso sesso. Mentre sono contraria all’utero in affitto. Prima e più che contro la Chiesa, l’utero in affitto è un insulto all’umanità, perché non tiene conto di ciò che succede tra una donna e il nascituro nei nove mesi in cui sono lo stesso corpo».

Perché è finito il matrimonio con Guidi?

«Non mi amava più e se n’è andato. Da lui ho imparato molto e insieme abbiamo avuto tre splendidi figli: Valentino che ha 43 anni, Valerio, 33, e Diletta di 31».

E il rapporto con Piero Melograni com’è iniziato?

«Aveva un figlio, non suo, nato dal precedente matrimonio di Margherita Guzzinati, di cui si prendeva cura. Ci siamo conosciuti e perdutamente innamorati. Ogni giorno, per cinque anni, finché è stato bene, mi ha fatto trovare al risveglio un biglietto d’amore sul cuscino».

Che cosa trae dal lungo impegno nel Terzo settore?

«Quando entri in questo mondo non lo puoi più lasciare. Sento molto vicini a me quelli che papa Francesco, che ammiro, chiama gli scarti della società. È brutto usare questa espressione, ma rende la situazione. Poi sì, ci sono anche le onlus inaffidabili. Detto questo, parlando degli handicappati, non dobbiamo farci prendere dal sentimentalismo: non è che perché sono così sono per forza buoni, generosi e altruisti. Come tutti, possono avere difetti o essere egoisti».

Perché molte cooperative che operano nel campo dell’immigrazione sono scorrette?

«Perché lì c’è liquidità immediata e manca un’adeguata selezione del personale. Sono amica di Alberto Panfilio, il sindaco di Cona, in provincia di Venezia, dove all’inizio di gennaio è morta una giovane donna ivoriana nel centro accoglienza. In un paese di 300 abitanti erano arrivati 1400 profughi assistiti da ragazzine alle prime armi. A Capri, invece, 20 immigrati sono stati respinti. Non si fa così l’accoglienza».

E come si fa?

«Con i ricollocamenti, come in Germania. Si verificano quelli che ci servono e si prendono, gli altri si ricollocano».

Integrandoli.

«Certamente».

In che modo?

«Bisogna scegliere le persone in grado di gestire questa emergenza e che conoscono la situazione delle popolazioni. L’Italia non può essere la discarica d’Europa. Il ministro Marco Minniti ha esperienza di sicurezza, non di accoglienza e integrazione. Il prefetto Mario Morcone anche. Farei Commissario straordinario Emma Bonino per i ricollocamenti in Italia. E utilizzerei l’esperienza e la conoscenza di Romano Prodi per i rapporti con i Paesi africani».

Flavio Insinna. «Perché no lui a Sanremo?»

Flavio Insinna. Dice Paola Severini: «Perché no lui a Sanremo?»

Ancora cattolici e radicali. L’anno prossimo cos’ha in mente per Sanremo?

«Prenderò contatti con l’entourage di Paolo Bonolis, se sarà lui a condurlo, come si dice. Ho letto che ha una figlia disabile, penso che sarà attento. Anche uno come Flavio Insinna lo sarebbe e sono sicura che sarebbe anche un ottimo presentatore del Festival».

Ha altri artisti da proporre?

«Bobo Rondelli che canta insieme con un ragazzo down. Vada su Youtube».

Tra i tanti politici e artisti che frequenta chi l’ha colpita di più negli ultimi tempi e perché?

«Il presidente Sergio Mattarella ha aperto la tenuta di Castelporziano, un’oasi destinata alla stretta cerchia del Quirinale, ai portatori di handicap. Quelli gravi sono invasivi e possono essere disgustosi. Ho visto Mattarella lasciare che gli sbavassero addosso».

 

La Verità, 19 febbraio 2017

 

 

 

 

 

La lampada di Carlo e la erre francese di Maria

L’inversione dei ruoli. Carlo e Maria o Maria e Carlo. Ci ha giocato tutta la settimana Maurizio Crozza nelle copertine a distanza per il Festival di NazaRemo. Naza è Maria, ovviamente (madre a Nazareth). E Remo è Carlo. «I promessi sponsor, vi chiamerebbe Alessando Manzoni» (sempre Crozza). Però, lì all’Ariston, si è visto il rovesciamento dei ruoli, una messa a fuoco originale. Dicendola semplice: è come in certe famiglie dove il padrone di casa è lui, ma i pantaloni li porta lei. Non è così in tante case, ancor più ora che, sebbene smentito dal persistente gap salariale, il sesso in ascesa è quello femminile? Insomma, l’autorità riconosciuta, era Carlo Conti, ma l’autorevolezza pendeva dalla parte di Maria De Filippi. Chi non l’ha visto? È anche un fatto fisiognomico. Senza infilarci in stucchevoli considerazioni tra politicamente corretto e scorretto, stando solo ai fatti: tra una faccia lampadata e una erre francese l’autorevolezza da che parte sta? E ancora: Maria ha ridacchiato meno di Carlo e irradiavava più sicurezza. È stata più trattenuta, meno garrula. Lui esprimeva il lato nazionalpopolare, lei quello istituzionale, da servizio pubblico si potrebbe dire, forse osando, ma neanche tanto. Nemmeno la faccenda della trattativa con Mediaset ha particolarmente giovato a Conti. Vera o inventata che sia (di sicuro qualcuno, non Dagospia, ha inventato un incontro ad Arcore con Silvio Berlusconi), ha finito per distrarre il conduttore. Conti era il padrone di casa ospitante. Ma la De Filippi su quel palco si è mossa come se lo calcasse da sempre, con disinvoltura e senza impacci visibili. Per dire: all’inizio della terza sera, dopo le canzoni dei giovani e l’esibizione del coro dello Zecchino d’oro e tutto il resto, alle 21,35 la serata delle cover non era ancora partita e Conti smaniava per l’allungarsi dei tempi. De Filippi, manco una piega. Non so se avete notato, l’ultima sera, dopo avergli portato i fiori, ha voluto accompagnare dietro il palco Francesco Gabbani, poi vincitore. Casi della vita. E del televoto al Festival.

Maria ha portato i fiori a Gabbani prima di accompagnarlo nel retropalco

Maria ha dato i fiori a Gabbani e lo ha accompagnato nel retropalco

La famosa «conduzione per sottrazione» comporta asciuttezza, essenzialità, sintesi: tutti ingredienti dell’autorevolezza. Quando Maria The Queen, com’è stata ribattezzata, presenta l’ostetrica novantaduenne o l’impiegato senza un giorno di assenza ci si chiede che cosa pensa mentre dice poche parole. Ci sono le pause, s’intuisce (e incuriosisce) il non detto. Quel qualcosa di trattenuto produce un magnetismo proprio perché non si palesa. Un po’ come la caramella che teneva in bocca: non si nota ma, in qualche modo, influenza la dizione. Tutto ciò non significa che lui «gli ha fatto da valletto» come si è volgarmente scritto. Conti è così, sincero, semplice, un buon mediano della televisione. Maria è un’altra cosa: «Non sono una conduttrice, ma un’autrice che conduce». Stature diverse.

Incantevole. Marica Pellegrinelli, moglie di Eros Ramazzotti

Incantevole. Marica Pellegrinelli, moglie di Eros Ramazzotti

Ospiti allo sbando. Conti, invece, è un conduttore che fa anche il direttore artistico. Riuscendoci fino a un certo punto, come si è visto in quest’edizione del Festival. Eccettuate un paio (Fiorella Mannoia e Paola Turci) le canzoni non sono state di gran livello. Ancor più modesti gli ospiti. Tutti impaginati maluccio. Le cose peggiori si son viste con quelli internazionali. La malinconica intervista a Keanu Reaves, il villaggio turistico di Ricky Martin, le inutili Anouchka Delon, figlia di Alain, e Annabelle Belmondo, nipote di Jean Paul, l’ennesima LP, fissa in tutti i varietà che passa la tv. Impacciato e fuori parte anche Raoul Bova. Mentre, a proposito di sex symbol, ha incantato per fascino e dolcezza Marica Pellegrinelli, ex modella e moglie di Eros Ramazzotti: una scoperta per il grande pubblico. Per il resto, unici a salvarsi, Francesco Totti e Mika, entrambi talenti naturali e dunque non bisognosi di copione. Perché questo è il punto: è mancato il copione, un racconto che potesse includere e dare logica a queste passerelle. Senza narrazione.

Comici col freno a mano. Con l’eccezione di Checco Zalone, altro sconfinato talento naturale, non ha spaccato nessuno, nemmeno Maurizio Crozza che si affacciava da Milano. L’ultima sera ha rotto la scatola per spuntare all’Ariston nella maschera di Antonio Razzi. Perché, mica facile graffiare incorniciati dentro una finestra floreale. Il comico genovese ci ha provato, ma gli sono mancati Andrea Zalone e Giovanni Floris. Ancora di più, è stato il contesto di Rai 1 a frenarlo. Ci si può spingere fino a un certo punto. E allora Crozza ha tentato di giocare sull’attualità politica, assente nel resto della kermesse, ricamando sulle disavventure di Renzi e Virginia Raggi, sulla modestia di Gentiloni, sugli eccessi di Matteo Salvini, su Trump, sulla caricatura di Nando Pagnoncelli. Una performance onorevole, ma priva di acuti. Lo stesso tocca dire della molto attesa esibizione di Virginia Raffaele, discutibile già nella scelta dell’ottantaquattrenne Sandra Milo, figura piuttosto periferica nell’immaginario attuale. Sarà che avrà voluto conservare altri bersagli per le sue prossime serate su Rai 2 o sarà quello che volete, fatto sta che per la prima volta la vulcanica imitatrice non ha convinto. Sottotono anche Luca e Paolo, che hanno proposto una sequenza di situazioni di cui hanno paura: più un corsivo alla «Quello che non ho» che un monologo di satira. Anche a loro è mancata l’abrasività che ci si aspetta da un duo comico, se si fa eccezione per l’unico graffio al volgere di serate farcite di partecipazioni omosessuali: «Dopo Tiziano Ferro, Ricky Martin e Mika, Luca e Paolo… Ci vuole coraggio… noi siamo diversi, siamo fuori linea: ci piace la patata». Per il resto, il perbenismo corretto ha avvolto anche i comici. Spuntati.

Maurizio Crozza in versione Antonio Razzi

Maurizio Crozza in versione Antonio Razzi

Overdose sociale. Assente la politica, la narrazione più studiata si è vista nelle storie affidate a Maria De Filippi. I volontari e le forze di soccorso del terremoto e dell’Hotel di Rigopiano, l’ostetrica novantaduenne tuttora in servizio, l’impiegato che ama il proprio lavoro e non sa cosa siano le assenze, l’Orquesta dei Reciclados di Cateura in Paraguay, il nonno e il nipote superstiti della strage di Nizza, i Ladri di carrozzelle. Lo scopo era evidente: rappresentare l’Italia vera, la vita reale, gli eroi del quotidiano. Le esperienze di vita basta metterle in scena, non serve romanzarle. Parlano da sole. Se poi le introduce una che è «un’autrice che conduce» va ancora meglio. Emotainment.

Mostri da Twitter. L’infortunio di Caterina Balivo che con un tweet ha attaccato Diletta Leotta per poi scusarsi pubblicamente è stato solo l’ultimo esempio di polemica via social network. Prima e più ancora che di haters di professione, Twitter trabocca di maestrini di cinismo e supponenza, narcisi convinti che i lettori bramino di conoscere i loro coriandoli di saggezza e di spocchia. Abbonati alla stroncatura da ipertrofia dell’ego. In un’intervista a Silvia Truzzi del Fatto quotidiano De Filippi ha detto: «Chi fa questo mestiere ha un estremo bisogno di gratificazione, che alla fine è patologico… Mi auguro che questa malattia non mi prenda». Purtroppo, sembra abbia già preso certi osservatori che stanno fuori e per i quali la tv è tutta uno schifo. (Fortuna che tra tante patologie c’è uno come il cardinale Gianfranco Ravasi che nel suo profilo twitter ha postato, senza commenti, due versi di Che sia benedetta di Fiorella Mannoia e di Ora mai di Lele.) A-social.