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«Il processo dei Diavoli della bassa va riaperto»

Un poliglotta che fa l’autore di podcast?

«Ma se tornassi indietro, probabilmente prenderei un’altra strada. Penso di aver sbagliato mestiere».

Quale sarebbe quello giusto?

«L’insegnante o lo studioso di lingue, in qualche università. È questa la mia vera passione. Certo, mi piace il lavoro che faccio. Scrivere podcast mi dà molta soddisfazione. Però…».

Nato a Lipsia 42 anni fa da madre iraniana e padre italiano, Pablo Trincia, giornalista, ex iena, collaboratore di programmi come Servizio pubblico e Chi l’ha visto?, autore di reportage da premio giornalistico, soprattutto autore di Veleno, l’audio inchiesta sui cosiddetti «Diavoli della bassa modenese», parla una dozzina di lingue. Oltre al tedesco, l’inglese, il francese, lo spagnolo e il russo, anche il persiano, lo swahili, l’hindi, il wolof… «Sono un professore di lingue mancato che si è messo a fare l’autore».

In adrenalina ci ha guadagnato.

«L’adrenalina non è tutto. Ha presente Zohan? Il personaggio protagonista del film è una superspia del Mossad che sogna di fare il parrucchiere. Fatte le proporzioni, sono io».

Dov’è nato l’amore per le lingue?

«In casa. Mia madre è un’iraniana cresciuta in Russia, mio padre un italiano vissuto in Germania, dove sono nato. Ho sempre respirato un clima internazionale e poi c’è anche il mio senso per le lingue».

È un poliglotta.

«Un cittadino del mondo. Per me niente è più gratificante che trovarsi in una città dell’Africa o dell’Asia e mettersi a parlare con la gente del posto. Cambiare intonazione e gesticolare come i locali. Questa è la mia identità».

Precisamente?

«Mi sento indoeuropeo. Mezzo indiano e mezzo persiano, come il popolo che 5.000 anni prima di Cristo, partendo dal Mar Caspio è emigrato verso l’Europa e l’Asia».

In attesa che qualcuno le affidi una cattedra, ripartiamo da Veleno, la docuserie di Fremantle che Prime video ha tratto dal suo podcast, che mostra gli interventi della Asl che dal 1997 tolse 16 bambini ai loro genitori. Cos’è accaduto dopo la recente confessione di Davide, il bambino zero del caso ora trentenne, che ha ammesso di essersi inventato abusi pedofili e omicidi su pressione degli psicologi?

«Stanno emergendo altre persone disposte a parlare. Stiamo facendo tutte le verifiche delle loro testimonianze. Per adesso arrivano conferme molto interessanti».

Sono altri ragazzi, allora bambini, che riconsiderano le loro versioni dell’epoca?

«No, sono persone che li conoscono e hanno avuto a che fare molto da vicino con loro».

Nessuno dei ragazzi protagonisti?

«No, sono persone che hanno dato conferme molto importanti e coetanei di quei bambini che sono stati seguiti dai servizi sociali. O che lavoravano con i servizi sociali».

Parliamo di Mirandola e Reggio Emilia.

«Esatto. Sono testimonianze che stiamo verificando in queste ore».

L’iter giudiziario ha registrato novità conseguenti alle rivelazioni di Davide?

«Finora no. È tutto fermo a quando la Corte d’appello di Ancona ha giudicato inammissibile la richiesta di revisione del processo presentata da Federico Scotta. Probabilmente lui farà un nuovo tentativo con la Cassazione».

Il sistema giudiziario si sta dimostrando impermeabile?

«Ottenere revisioni è molto difficile. Quella che a una persona comune sembra un’autostrada nelle aule giudiziarie diventa una gimcana. Ci sono cavilli, vizi di forma, prescrizioni. Dopo due metri sei già morto. La Corte d’appello di Ancona non ha voluto nemmeno considerare le determinazioni della Procura di Mantova che, dovendo seguire l’affido di Davide alla nuova famiglia, ha raccolto i suoi racconti, ravvisando le pressioni della psicologa e della madre adottiva».

Federico Scotta vive sempre in camper?

«Sì, mentre ci si trincera dietro ai cavilli».

E di Lorena Covezzi cosa si sa?

«La sua vicenda è rimasta ferma a quando fu assolta in Cassazione nel dicembre 2014. Le sono stati riconosciuti 25.000 euro di risarcimento per l’eccessiva durata del processo. Ma i quattro figli che le furono tolti non hanno mai più voluto rivederla e incontrarla».

Ora dove vive?

«In Francia, dove ha avuto l’ultimo figlio e si è rifatta una vita».

Per i bambini che sono stati tolti alle famiglie d’origine e che si sono costruiti una nuova identità sulla base di quei racconti quanto è difficile mettere tutto in discussione e ricominciare da capo come ha fatto Davide?

«È molto difficile. In alcuni casi quei racconti sono stratificati nella testa di quei ragazzi. Poi le famiglie affidatarie lavorano contro le famiglie naturali. C’è una forte avversione contro i genitori d’origine».

Gli inquirenti hanno riconsiderato il ruolo del Centro Hansel e Gretel diretto dallo psicoterapeuta Claudio Foti?

«Secondo me no, perché all’epoca non fu presa in esame la loro azione. La Procura di Modena ha riaperto il fascicolo dopo il podcast, ma si è nuovamente fermato tutto per la prescrizione. A livello giudiziario non è mai stato detto nulla su Hansel e Gretel. Riaprire il processo significherebbe mettere in discussione tutto».

Gli elementi ci sarebbero?

«Una persona si è fatta ingiustamente 11 anni di carcere e gli sono stati tolti tre figli. Ora i due bambini dell’epoca, Marta e Davide, lo scagionano. Valeria Donati, la psicologa che conduceva le sedute, anche se ribadisce che non era sola, ammette che potrebbe essersi sbagliata. Ma la procura ha preso per buone le sue testimonianze, senza registrazioni, senza video».

Davide parlava di uccisioni di altri bambini, ma nessun cadavere è stato trovato.

«Eppure hanno accolto quel racconto».

Non è clamoroso che non si riapra il processo?

«Quando l’associazione delle famiglie presentò la richiesta, il procuratore capo di Modena Lucia Musti disse che non è giusto “andare di nuovo a rimestare una situazione che comunque genera dolore in primo luogo per coloro che hanno lavorato a questi gravissimi reati”».

E il dolore generato sui genitori?

«Forse arriverà in secondo o in terzo luogo».

Gli inquirenti che si occupano della vicenda Bibbiano hanno acquisito il materiale della vostra indagine?

«So che lo hanno utilizzato perché contiene approfondimenti sul Centro Hansel e Gretel. Mi hanno fatto sapere che per loro era importante. Non mi sono occupato di Bibbiano, ma Veleno ha avuto il merito di portare l’attenzione su una vicenda poco conosciuta e su un metodo psicoterapeutico ignorato».

Come valuta le resistenze del sistema giudiziario?

«Sono resistenze che accomunano tutti gli ambienti, compreso quello dei media. Non ho mai visto un giornale chiedere scusa dopo aver fatto un errore e rovinato la vita di qualcuno. In pubblico non si ammette mai di essersi sbagliati. In America il New York Times e il Rolling Stone, per citare le prime testate che mi vengono in mente, hanno pubblicato evidenti ammissioni di errori. La psicologa protagonista delle sedute ha continuato a ripetere: non ero sola, c’erano altri professionisti, ho utilizzato le informazioni che mi venivano date».

Come valuta l’operato del Centro Hansel e Gretel che ha un ruolo in altri casi simili, compreso quello dell’asilo di Rignano Flaminio?

«Mi sembra risponda a un metodo e a una mentalità complottista, secondo i quali il mondo è popolato di sette sataniche e di pedofili. Per carità, la pedofilia esiste, eccome. Ma va provata. Se si chiede di verificare le accuse dei bambini, da parte degli operatori di Hansel e Gretel scatta l’accusa, molto offensiva, di negazionismo della pedofilia. Dire che è inopportuno interrogare i bambini in modo insinuante è impossibile».

Secondo lei c’è possibilità che questi operatori rivedano le loro tesi?

«Bisognerebbe chiederlo a loro. Mi sembra che si tratti di tesi molto estreme, calcificate nelle loro teste».

La docuserie ha stupito per la scrupolosità dell’inchiesta, per le attenzioni nel riavvicinare i ragazzi e per lo spazio concesso alla difesa degli operatori sociali.

«Le interviste alla Donati e a qualche altro operatore non le ho fatte io. Personalmente, avrei posto domande più ficcanti per accertare responsabilità più pesanti».

Per esempio?

«Avrei cercato di capire da lei perché la sua onlus privata ha preso 2,2 milioni di euro per fare la terapia a bambini che lavorando nella struttura sanitaria pubblica aveva per prima definito vittime di abuso. Allo stesso modo avrei provato a capire come giustifica il fatto che una bambina dalla quale aveva raccolto i racconti di abusi sia poi divenuta sua figlia adottiva. Mi sembra che il conflitto d’interessi sia palese. Essere equilibrati non significa evitare le domande scomode. Se una versione stride con le mie evidenze continuo a scavare a costo che il mio interlocutore interrompa la conversazione, come mi è successo con due persone».

Secondo lei oggi c’è troppa ideologia attorno ad alcuni casi di cronaca come quelli di Seid Visin e Orlando Merenda che si tentano di strumentalizzare ai fini delle campagne dei diritti?

«Non posso dirlo perché non li ho seguiti da vicino. L’ideologizzazione è un problema vecchio come il mondo. Il caso Bibbiano non interessava a nessuno prima che la politica accendesse i riflettori. Quando Matteo Salvini ha iniziato a parlarne su quel palco è iniziata la gara tra chi avrebbe sparato di più sulla sinistra che, per altro, ha parecchie responsabilità ne merito. Per il resto sono abituato a parlare solo quando so tutto e il contrario di tutto, prima no. L’unica strada sono i documenti e le testimonianze, per provare a essere più scientifico possibile in un mestiere che non è scientifico».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«Ho lasciato il mondo della tv. Da novembre sono direttore creativo di Chora media, una società che produce storie in podcast. Veleno ha fatto comprendere il potenziale di questo strumento».

Può anticiparci qualche titolo?

«Ancora no, è tutto sotto embargo. Stiamo lavorando a più storie contemporaneamente».

Tra queste c’è anche Bibbiano?

«No, anche se siamo curiosi di vedere come proseguirà quell’indagine. Quella sui Diavoli della bassa invece è un’inchiesta che non mollerò mai».

La cronaca in podcast è la nuova frontiera del giornalismo doc?

«Negli Usa c’è dagli anni Ottanta. Da noi la cronaca è trattata principalmente in tv, in modo schematico e non in forma seriale. Il podcast è la base di partenza per altri media, introduce la serialità del documentario e permette di ascoltare e divorare le storie. E le grandi piattaforme l’hanno capito».

 

La Verità, 3 luglio 2021

Con Veleno la docufiction fa un salto di qualità

Raramente una docu-serie italiana ha applicato tanta cura, tanta perizia, tanta completezza nel rispetto dei diversi e contrapposti punti di vista. È il caso di Veleno, cinque episodi disponibili su Prime video, tratti dall’omonimo libro e successivo podcast realizzati da Pablo Trincia dopo anni di inchieste, colloqui, testimonianze e letture di documenti relativi alla storia dei «Diavoli della bassa modenese», un’indagine che alla fine degli anni Novanta ha tolto 16 bambini alle famiglie di origine, condannando i genitori per pedofilia e abusi ritualistici. Una storia molto controversa, con tanti lati tuttora oscuri, che si basa sul meccanismo del falso ricordo o del ricordo indotto dagli psicologi e assistenti sociali nei minori. Una storia che ha segnato in modo tragico la vita della comunità locale e che è stata il precedente del successivo e ancor più diffuso scandalo di Bibbiano. La regia della docu-serie è di Hugo Berkeley e la produzione di Fremantle.

La difficoltà degli autori era aggiungere i volti e le immagini ai testi del libro e del podcast, considerando la comprensibile riluttanza dei bambini e delle nuove famiglie adottive a collaborare con Trincia per non riaprire ferite difficilmente cicatrizzabili. Dalle prime confessioni sono passati oltre vent’anni e su quei fatti, veri o presunti, quei bambini, ora adulti, hanno costruito una nuova identità. Con una violenza fisica subita si può trovare, con grande sofferenza, il modo di convivere, dice a un certo punto Trincia. Ma con una violenza psicologica e presunta, forse è ancora più difficile trovare un equilibrio perché si ha a che fare con dei fantasmi. «È come quando dentro un bicchiere d’acqua si versano delle gocce d’inchiostro. Prima una poi un’altra, poco alla volta tutta l’acqua si colora e a quel punto è impossibile separarla dall’inchiostro».

Il pregio della docu-serie, che rappresenta uno scatto di qualità del genere, è la narrazione a spirale, fatta di testimonianze dei protagonisti e delle vittime, la cui vita è stata profondamente e irrimediabilmente segnata. C’è stato un suicidio e chi è morto di crepacuore. Documenti, filmati dai tg, brevi stralci recitati e interviste agli operatori sociali, autori di terapie molto discutibili, realizzano un racconto che avvince lo spettatore come fosse un legal thriller di finzione. Particolarmente efficaci gli ultimi due episodi, imperniati sul making of dell’inchiesta di Trincia che condivide con Alessia Rafanelli il lavoro, i dubbi sul loro operato e la preoccupazione di rispettare le sensibilità già provate dei protagonisti.

 

La Verità, 10 giugno 2021

«L’Italia si sta svegliando dall’anestesia di sinistra»

Lucida, controcorrente, reazionaria. In una parola, divisiva. In un recente post su Dagospia, Maria Giovanna Maglie si è autodefinita «tetragona salviniana, ah se lo sono». Outing perfetto per diventare bersaglio dei commentatori politically correct. Avvezza alle polemiche fin dai tempi della corrispondenza da New York per il Tg2 di Alberto La Volpe, figuratevi se si scompone. Spesso ospite di Stasera Italia su Rete4, su La7 all’Aria che tira e da settembre a Non è l’Arena, stenta a farsi largo in Rai. Ma nemmeno questo la deprime. Da qualche settimana ha inaugurato su Facebook e Instagram una diretta bisettimanale all’ora di pranzo intitolata Maglie strette – «dal titolo di una rubrica che mi ha concesso Roberto D’Agostino, al quale devo la mia rinascita» – che ha 200.000 visualizzazioni.

Pierluigi Diaco ti vuole arruolare per Io e te, Pietrangelo Buttafuoco per il remake teatrale di Thalasso, il film francese con Gerard Depardieu e Michel Houellebecq. Stai diventando mainstream?

«Neanche per sogno. A volte anche chi non è mainstream può essere usato come foglia di fico. Altre volte, ed è ciò che mi auguro, può esprimere l’esigenza del tempo».

Sei la Houllebecq italiana?

«Magari, lo adoro. Infatti, ho deciso di scrivere un libro houellbecquiano sull’Italia. L’unica differenza sarà che, mentre lui è pessimista sulla Francia, io sono speranzosa per il nostro Paese».

Ci arriviamo. Il complesso di superiorità è il più clamoroso autogol della sinistra?

«Per tanti anni è stato un gol che ha consentito l’affermarsi di un’egemonia, smantellare la quale è impresa titanica. Oggi questa presunta superiorità si è trasformata in un autogol. Gli italiani si stanno svegliando da un’anestesia culturale che durava dall’immediato dopoguerra».

Matteo Salvini cresce nei consensi perché la sinistra si crede superiore?

«Salvini incarna lo spirito del tempo. Certe asprezze sono necessarie per superare le incrostazioni consolidate nel nostro modo di pensare».

La corsa del figlio sulla moto d’acqua della Polizia non gli ha giovato.

«Anche lui ha ammesso che è stata una scivolata sul piano dell’etichetta. Ma è un fatto talmente infimo che mi dispiace parlarne. Oggi tutti riprendono tutto. Anziché cercare d’impedirlo, gli uomini della scorta avrebbero potuto far fare un giro ad altri due ragazzini come avviene spesso sulle motoslitte in montagna e tutto sarebbe finito. Alla gente è chiaro che Salvini va al Papeete di Milano Marittima e non in un resort di lusso nell’atollo delle Maldive. È qui la differenza».

«Zingaraccia» se lo poteva risparmiare?

«Un epiteto può scappare quando qualcuno dice che ti meriti una pallottola in testa. A Pigi Battista che su Twitter ha postato “Zingaraccia dillo a tua sorella” ho risposto: “Perché, sua sorella va in giro facendo minacce di morte?”. Ciò detto, i campi rom vanno sgombrati».

Non c’è una gestione troppo naif del ruolo?

«Il linguaggio della politica è cambiato. Brad Parscale, consigliere per la comunicazione di Donald Trump, e Luca Morisi, responsabile della comunicazione di Salvini, hanno capito che l’unico modo per rivitalizzare il rapporto esausto della popolazione con la politica è usare un linguaggio diretto».

Rispondendo in Parlamento sul Russiagate avrebbe dimostrato di rispettare le istituzioni?

«Se vuoi innovare devi cambiare certe regole conformiste. Perché presentarsi a parlare del nulla? Perché è di nulla stiamo parlando: al massimo di un’amicizia inadeguata con una persona che non aveva alcun incarico pubblico né di governo e di un evento verificatosi in un luogo improbabile e con persone improbabili, prive di soldi e di ruoli. A volte i nodi vanno recisi».

Non è troppo insistere sulla Flat tax senza coperture mettendosi in rotta di collisione con l’Europa?

«Questo governo sta in piedi per la finanziaria. Purtroppo non è abbastanza acclarato che se cadesse si dovrebbe andare a votare. Dopo l’elezione della commissaria europea Ursula Von der Leyen con i voti di Pd, Forza Italia e M5s, una cosa che in Italia si chiamerebbe inciucio, e il concorso di una certa ingenuità degli eurodeputati leghisti, è difficile non andare allo scontro. Sono convinta che non si possano non fare la Flat tax e altre misure che, però, né i 5 stelle, né il Capo dello Stato, né il ministro dell’Economia vogliono».

Intanto Sandro Gozi, ex sottosegretario di Renzi e Gentiloni, lavora per il governo francese.

«Concordo con Giorgia Meloni che ha chiesto che gli venga tolta la cittadinanza italiana. Quando dovremo descrivere cosa significa comportarsi da antitaliani sapremo che esempio portare».

Su Dagospia hai scritto di un’egemonia che permea tv, premi letterari, scuola e università. Chi sono i «conduttori isterici con quelli che non la pensano come loro»?

«I Floris, i Formigli, le Gruber. Li vedo troppo convinti dalla giustezza assoluta delle loro idee e troppo infastiditi da quelle degli altri. Gruber minaccia di spegnere il microfono, altri lo fanno direttamente. Ma se sei un bravo conduttore gestisci il dibattito senza censurare. Nei talk mi trovo spesso una contro due, contro tre, anche contro quattro».

In Rai ti si vede poco.

«Appunto. In Rai c’è stato un gran casino per Fabio Fazio che ha semplicemente traslocato di canale. Il suo programma del lunedì lo farà Franco Di Mare, area Pd storica oggi 5 stelle. Massimo Giletti è rimasto a La7, per la mia striscia è successo un pandemonio e Rai3 è sempre uguale. Tolto l’esperimento surreale e piacevole di Carlo Freccero, dove sarebbe la Rai leghista di cui si legge continuamente? La Rai è irriformabile e irredimibile».

Questa cultura domina anche il mondo dello spettacolo: Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni sono stati stigmatizzati perché hanno voluto rompere il silenzio sul caso Bibbiano.

«Se vuoi stare nel mondo dello spettacolo, dell’arte e della cultura o sei di sinistra o sei niente. Questo schema è così consolidato che non ci sono remore nell’attaccare chi dissente. Bibbiano è una vicenda che fa venire i brividi. Dal punto di vista dell’informazione credo che il tentativo di silenziarlo sia un’autoattribuzione di responsabilità. Imponendo il silenzio dichiaro di essere colpevole o complice».

Il comportamento della maestra che augurò la morte ai rappresentanti delle forze dell’ordine, quello della professoressa che ha consentito il paragone tra leggi razziali e decreto Sicurezza bis e quello di colei che ha postato «Uno di meno» dopo l’assassinio del carabiniere a Roma mostrano la cultura che pervade scuola e università?

«Questi episodi rivelano un mondo sommerso. L’insegnante di Novara un anno fa voleva impedire a un agente in divisa di fare la spesa al supermercato. Sulla scuola io vorrei che i genitori esercitassero molta più attenzione su ciò che viene insegnato ai loro figli. Il sessantottismo ha sostituito l’istruzione con l’ideologia. L’unico modo di cambiare questa situazione è il controllo dal basso. Ma per renderlo efficace bisogna scardinare la famosa anestesia».

Cosa succede nei premi letterari?

«Se si guarda da chi sono composte le giurie si capisce perché vengono selezionati solo libri di un certo tipo. Anche quest’anno che ha vinto il premio Strega un libro come M – Il figlio del secolo, il suo autore ha dovuto e voluto alzare il pugno chiuso per sottolineare la sua appartenenza. Non so che cosa ci voglia per sconfiggere la cappa che domina in questo Paese».

Che anche la destra studi e impari a confrontarsi con la complessità?

«A destra gli intellettuali ci sono sempre stati. Purtroppo dietro c’era il nulla. Idem a sinistra. Gli intellettuali sono élite, sia di qua che di là. Per questo sono fissata con la scuola e l’università. E anche con la tv, che però è un mezzo. È lì che si costruisce il futuro e si sconfiggono le ideologie. Ma in una comunicazione fatta di spot, selfie e blog è tutto più difficile. Bisogna togliere alle élite il monopolio della cultura».

Sul Corriere della Sera Antonio Polito ha descritto la strategia del TTS, tutti tranne Salvini. Come in passato ci furono il tutti tranne Berlusconi e tutti tranne Renzi: poteri forti e opposizioni si coalizzano contro l’uomo forte. Su cosa si basa il tuo ottimismo sull’Italia?

«È un’analisi acuta, ma basata sui corsi e ricorsi. Per me sono tutte situazioni diverse tra loro. Soprattutto è diverso il popolo italiano. Nel 1993 la caduta della Prima repubblica è stata possibile in un clima di disillusione degli italiani, disposti a credere che Craxi si era portato la fontana del Castello sforzesco ad Hammamet. Il crollo del Muro di Berlino ha aperto la strada alla magistratura e Berlusconi è stato troppi anni al governo senza fare le riforme. Nel 2011 ci fu il golpe dello spread con un ruolo tutt’altro che secondario del Quirinale, come hanno confermato i libri dell’ex premier spagnolo José Luis Zapatero e dell’ex ministro del Tesoro americano Timothy Geithner. Quanto a Renzi, mai stato un leader del popolo, da premier non eletto, è riuscito a buttare a mare un consenso del 40% con un referendum che solo lui e i suoi uomini chiusi nei palazzi non hanno capito quanto fosse demenziale».

Giancarlo Giorgetti ha invitato i ministri gialloblù a tenere in ufficio la sua foto come ammonimento.

«Esatto. Ma Salvini ha preso la vecchia Lega al 4% e, inserendo belle teste che pensano avanti, l’ha portata al 17% dell’anno scorso e a ciò che avrà alle prossime elezioni. Rispetto al TTS tante variabili vanno considerate. Per esempio, la capacità di Salvini di usare insieme i social, la tv e la presenza sul territorio».

La tua speranza è motivata dal fatto che Salvini sa mixare questi tre elementi?

«Dal fatto che c’è un leader che ha il coraggio di esporsi con il proprio corpo. Che qualcuno torna a parlare di patria davanti a un’invasione lenta e progressiva. Che con Trump e Boris Johnson la situazione è modificata a livello mondiale, mentre l’asse Parigi-Berlino si sta indebolendo».

 

La Verità, 4 agosto 2019

«L’overdose di gay è il nuovo conformismo»

Nella sede di Rtl 102.5 a Cologno monzese fervono i preparativi per il trasferimento a Villasimius in Sardegna da dove l’emittente trasmetterà fino a fine agosto. «Io invece, mi trasferisco a casa mia a Parma», confida ironico Mauro Coruzzi, in arte Platinette. «Devo rimettermi in sesto per poter dare una mano a una persona cara che ha bisogno di me». Il tempo a disposizione non è molto, alle 17 incombe Password, il programma che conduce con Nicoletta De Ponti. Pochi convenevoli e si parte.

Dalla mise, l’intervista è a Mauro Coruzzi.

«Se per lei ha importanza… è un conformismo anche questo».

Mauro sta chiedendo più spazio?

«No. Credo sia un work in progress, come direbbero quelli che parlano bene. Non amo seguire regole neanche nell’abbigliamento o altre che indicano qualche segretario di partito o qualche televisivo. Neanche a scuola le seguivo».

Coruzzi frequenta la radio e Platinette, più telegenica, la tv?

«No. Platinette è un riciclaggio di me stesso e di modelli altrui, da Mae West a Mina, splendida ragazza madre nell’Italia dei Sessanta. Cerco il difforme, non il conforme. Platinette è una travestita, ma se la trova certe notti nella bassa padana non la riconosce. Mauro è un ragazzo obeso, con una testa che lavora più del corpo e tanta voglia di migliorare il suo aspetto».

Tra i due c’è intesa?

«Una felice collaborazione, come quella che ci fu tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini quando fecero la legge contro l’omofobia. La dobbiamo a loro, non agli illuminati di sinistra, tipo Franco Grillini dell’Arci o Vladimir Luxuria, che ha approfittato dell’anno in Parlamento per rifarsi le tette. Personalmente ho speso un patrimonio in questa battaglia, solo la tessera radicale costava 600 euro. Ma c’era Marco Pannella…».

Marco Pannella.

«Quando andò ad Arcore ebbi un orgasmo. Speravo nella fusione tra la sua creatività e lo spirito liberale di Berlusconi. Non trovo che il sistema delle cooperative abbia migliorato la convivenza civile. Purtroppo, l’avvicinamento tra i due non ha avuto seguito. E il mio spirito liberale e libertario è rimasto orfano pur avendo i genitori».

Ricominciamo da quelli veri.

«Contadini inurbati da Langhirano a Parma, sperando in un miglioramento. Mia madre era operaia in una fabbrica di conserve di pomodoro, mio padre muratore. Non conoscevano l’italiano, la sera guardavano Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi per imparare qualcosa».

Infanzia e adolescenza in povertà.

«Avevo intuito che la cosiddetta cultura, senza la k degli anni Settanta, poteva essere d’aiuto. Alle magistrali ero un inguaribile secchione che però partecipava alle occupazioni, al Movimento studentesco e tutto il resto. Studiavo perché mi piaceva, e mi piace tuttora».

Amici?

«Amori in classe, nella scuola, come tutti».

Non se omosessuali.

«Non solo omosessuali».

Figure importanti di quegli anni?

«Una professoressa d’italiano, tale Irma Traversa Coscia, donna fantastica, unghie curatissime e cervello fulminante. Le chiesi cosa potevo presentare di difforme alla maturità. Scegliemmo Alberto Moravia che avevo conosciuto attraverso Il conformista del parmense Bernardo Bertolucci. Non pago, aggiunsi L’uomo che si gioca il cielo a dadi, una canzone di Roberto Vecchioni».

Garzone di fruttivendolo, poi giornalista: cosa c’è in mezzo?

«Volevo dei soldi per i cavoli miei. Finii le medie facendo consegne della spesa per un verduraio, come i rider di oggi. Guadagnavo 500 lire ogni sabato che spendevo in cinema pizza e Coca cola. Come regalo per la terza media, anziché il Ciao chiesi a mia madre, complice con il figlio frocio come da copione, di andare al concerto di Mina a Parma. Fu un’apparizione, era il 1968».

La sua svolta?

«L’inizio di una devozione. Poi il destino generoso me la fece incontrare ancora. Nel 1981 eravamo nel suo ufficio per fondare il Mina fan club quando lei arrivò, pelliccia fino a terra e maglione nero: “Io prendo un cappuccino scuro, voi?”. Sparì, ma ci fece sapere che l’idea del fan club le piaceva. Noi ci esibivamo en travesti col nome di Le Pumitrozzole, crasi di puttane mignotte troie zoccole lesbiche. “Magari, d’ora in avanti quando mi chiamano mando voi”, buttò lì».

Invece?

«La ritrovai a fine anni Ottanta quando lavoravo per Rock Caffè di Rai2 e mi suggerirono di provinare Benedetta Mazzini, sua secondogenita. Arruolata, ma la madre sorvegliava, così ebbi l’occasione di frequentarla. Un’altra l’ho avuta per gli spot della Tim durante il Festival di Sanremo 2018».

Maurizio Costanzo dove l’ha scovata?

«Uscì un articoletto su Panorama sulla speaker di un piccolo network radiofonico di nome Platinette che faceva dell’esagerazione e dell’irriverenza la sua cifra. Mi fece chiamare per una serata del Costanzo show dedicata alle drag queen. Declinai. Ci riprovò per una puntata sulle patologie alimentari, argomento che conosco bene. Quando arrivò al Parioli e io ero seduto in platea prima del trucco chiese agli assistenti: “E quello chi è?”. Non poteva riconoscermi, ma da quella sera c’innamorammo».

Qualche giorno fa ha scatenato un putiferio dicendo che gli omosessuali hanno troppo spazio.

«Trovo che la lamentela continua delle associazioni Lgbt abbia poca ragione d’essere. Non si fa un film o un talent o un reality show senza una travestita o due omosex che litigano. Un’overdose. Un nuovo conformismo. Cristiano Malgioglio io so che è un grande autore, ma non sono sicuro che il pubblico colga. Nel pomeriggio di Rai1 Pierluigi Diaco conduce un programma sui buoni sentimenti, con la posta del cuore. Sembra di essere nel dopoguerra».

La sua è una critica di costume?

«Non solo. In Italia se non sei famiglia, compresa quella omosessuale, non sei niente. Non ce l’ho con chi si unisce civilmente, il rapporto codificato dalle leggi mi fa piacere. Ma così si uccide la singolarità, io sono famiglia di me stesso. Se esco con certi amici tradizionali o anche omosex mi annoio a morte. Parlano di figli, di carriere a Londra, portano una cena normale come prova di solidità del rapporto: “Era caldo, non sapevamo che fare, abbiamo tagliato un melone e cenato alle otto di sera”. Sì, e alle otto e dieci?».

Concorda con la sensazione che il Gay pride goda di stampa molto migliore di quella del Family day?

«Ammazza! Non c’è dubbio. Se dissenti sul Gay pride non hai cittadinanza. Eppure le conquiste sono state fatte, ci si può un po’ prendere in giro. Volevo affittare una decappottabile per sfilare come Lana Turner. Mi hanno detto di no perché l’auto inquina. Capisce? Ho ripiegato su un risciò, che è costato quasi più della decappottabile».

Si impegnerebbe senza se e senza ma sui matrimoni gay? Da uno a dieci…

«Quattro. Come i figli di Lorella Cuccarini…».

Sulla stepchild adoption.

«Zero, senza incertezze. Tiziano Ferro se ne faccia una ragione».

Sull’utero in affitto?

«Sottozero. È una forma orribile di sfruttamento delle donne. Ti presto il mio forno per cuocere le tigelle e poi le mangi tu. Dopo l’approvazione della legge Codice rosso per la violenza sulle donne voluta da Giulia Bongiorno non ho visto né sentito esultare le organizzazioni Lgbt: solo perché Bongiorno appartiene a uno schieramento diverso?».

Sul Me too?

«Uno. Guarda caso, si salvano tutti. Fausto Brizzi è tornato, persino Cristiano Ronaldo non sarà processato. Si vogliono moralizzare anche le donne che sono felici di concedersi per trarne un vantaggio. Perché le nostre attrici, bravissime per carità, erano tutte sposate a produttori cinematografici?».

Sulla triptorelina, il farmaco che rallenta la pubertà per chi avverte disforia di genere.

«Zero anche qui. Ci fosse un ormone che ci permettesse di stare in bilico tutta la vita, quello servirebbe».

Nemmeno le unioni civili la convincono?

«Non mi convince il matrimonio come mutuo soccorso. L’assistenza, la successione, la reversibilità erano possibili anche prima, bastava andare dal notaio con 100 euro. Non m’interessano la metà del cielo e quelle cose lì. Anche Maria di Nazareth era sola… Nasciamo singolarmente, ma non si fa mai una legge per l’individuo».

Ha seguito la vicenda di Bibbiano?

«Poco. Non mi ha preso emotivamente, anche se mi rendo conto… Ciò che mi colpisce è che questi fatti avvengano a Reggio Emilia, città di partigiani e comunisti, governata a lungo da Graziano Delrio. Allora è vero che i comunisti mangiano i bambini».

Definisca Linus.

«C’è qualcosa da dire?».

Barbara D’Urso.

«L’unica che abbia sottomesso la volontà per ottenere dei risultati. Ho massima ammirazione, ma vorrei vederla applicata su altre tematiche, oltre alla difesa delle donne e dei gay».

Maria De Filippi.

«La donna che avrei voluto essere. Mai visto un copione, mai avuto tanta libertà come con lei. Una gratificazione riuscire a farla ridere fino a scapicollare».

Regista cinematografico preferito?

«George Cukor. Donne è un capolavoro assoluto: un film con tutte le star di Hollywood che parlano di uomini per tutto il tempo senza che se ne veda uno. Ex equo con Luchino Visconti ed Ernst Lubitsch».

E il cinema italiano? Ferzan Ozpetek, Luca Guadagnino, Gianni Amelio…

«Non lo seguo molto. Per carità, con Ozpetek e Amelio ho anche lavorato. Chiamami col tuo nome mi è parso retorico al confronto con Il giardino dei Finzi Contini o Rocco e i suoi fratelli».

Letture preferite?

«Le biografie. Non avendo una vita interessante, leggo quelle altrui. Aprirò una libreria di sole biografie».

Che cosa le manca di più oggi e in prospettiva futura?

«Un faro. Rifaccio il nome di Pannella, per il tipo di visione costante che rende la vita soddisfacente. Non ha mai nascosto il suo essere omosessuale, ma non ne ha mai fatto strumento di lotta se non al servizio del cittadino, come dimostrano le battaglie per l’aborto, il divorzio e l’eutanasia».

Alla fine si è avvicinato alla Chiesa.

«Sì, doveva fare i conti con qualcuno. Con la sua coscienza, credo; più che con il Dio dalla barba bianca».

 

La Verità, 28 luglio 2019