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«Sogno il Papa che sporca la veste di sangue a Gaza»

Ci penso da giorni, settimane. E non se ne va, questo pensiero. Mi chiedo: che cosa accadrebbe se papa Leone XIV andasse a Gaza? Ora. Andasse fisicamente. E la sua veste bianca si sporcasse con il sangue della guerra? Dei morti ebrei e palestinesi, i due popoli che si odiano? È un pensiero che non se ne va: che cosa accadrebbe? Forse il mondo si fermerebbe. Tratterrebbe il fiato. Forse per un momento si fermerebbe anche l’odio. Lì, in quella terra. In quelle macerie dell’umanità. Dove la ferita è più profonda e purulenta, nella carne del mondo».

Da geniaccio visionario, Carlo Freccero immagina. Segue i voli della sua mente. È molto più che un ex vulcanico direttore di televisioni. Molto più dell’ex uomo di Silvio Berlusconi e dei primi palinsesti di Canale 5 e poi di La Cinq in Francia, di Italia Uno e Rai 2. Freccero è un intellettuale non allineato. In gioventù è stato credente, poi ha letto Jean Paul Sartre e si è allontanato. Oggi è un uomo di 75 anni che continua a studiare e a interrogarsi. A non arrendersi alle lascivie del nichilismo. E a farsi domande davanti alle sciagure del mondo. Il Covid. Le guerre. Le risposte delle ideologie con le loro pretese di aggiustare i popoli a immagine e convenienza delle élite. Risposte sempre più insufficienti e che, alla fine, con le loro agende e i loro reset, producono nuove violenze come abbiamo visto con l’assassinio di Charlie Kirk. E nuovi soprusi, come vediamo attraverso la manipolazione continua dell’informazione, ultimo caso i droni russi che avrebbero provocato la distruzione di un’abitazione in Polonia e armato l’operazione Sentinella dell’Est della Nato. E allora, dice Freccero: «Solo la religione, anzi, solo il cristianesimo può, forse, rappresentare una novità».

Ripartiamo da quel pensiero che non se ne vuole andare.

«Anzi, si precisa progressivamente in forza di altri fatti».

Per esempio?

«Gliene faccio uno molto importante, che hanno visto tutti, ma che l’informazione unica ha stolidamente ignorato».

La ascolto.

«Pietrangelo Buttafuoco, presidente della Biennale di Venezia, ha concluso l’ultima Mostra del cinema invitando a parlare in un videomessaggio il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa. Il quale ha richiamato la cronaca di tutti i giorni e le immagini continue “che parlano di morte, dolore e distruzione. Siamo talmente pieni di dolore che sembra non esserci spazio per quello di altri, un clima di odio sempre più profondo nelle popolazioni ebree e palestinese”. E poi ha detto soprattutto un’altra cosa, il cardinale».

Quale?

«Che c’è bisogno di una nuova narrativa e di nuovi linguaggi per provare a sconfiggere questo odio».

La politica non ce la fa?

«No. E questo è l’altro fatto che consolida la mia riflessione. Lo vediamo tutti i giorni. Lo tocchiamo con mano. Anche Donald Trump con tutto il suo impegno, tutti i suoi interessi e tutto il suo narcisismo, non ce la fa. È chiaro, no? Netanyahu invade Gaza con la ferocia che vediamo e lui risponde che non sa e deve informarsi. È un modo ambiguo di camuffare la sua impotenza, di fatto lasciando andare le cose. Lo stesso sta accadendo con Putin e Zelensky».

E allora?

«Allora le parole di Pizzaballa hanno approfondito il mio tarlo. Solo la religione può essere questo nuovo linguaggio, questa nuova narrativa. Che cosa accadrebbe se Leone XIV andasse a Gaza, con la sua veste bianca. A sporcarla con il sangue della guerra e dei morti. Che cosa accadrebbe se andasse lì, se si inginocchiasse tra le macerie, pellegrino inerme, nel posto dove la ferita è più profonda e lacerante?».

Le rigiro la domanda.

«Penso che saremmo costretti a fermarci. Tutti. Penso che il mondo trasalirebbe. Avrebbe un attimo di stupore. Di sospensione. Forse lo avrebbe anche Netanyahu e lo avrebbero anche i terroristi di Hamas. Lo spero. Voglio crederci».

In questi giorni il Santo Padre ha detto che a Gaza c’è «una situazione inaccettabile» e che «Dio ha comandato di non uccidere».

«Esattamente. E la sua voce è la più forte e potente. Ma io mi domando, senza voler essere né presuntuoso né invadente – lo so che il rischio di sembrarlo è molto elevato ma va bene, rischio – mi domando: perché non far seguire un grande gesto, una grande testimonianza a queste parole, a queste esortazioni. In fondo, perché è stata geniale l’idea di Buttafuoco alla fine della Mostra del cinema? Perché, invece di appiattirsi sui soliti proclami e i soliti conformismi degli attori con la kefiah o dei patetici militanti della Flotilla schierati da una parte sola, ha coinvolto uno che vive lì».

In fondo, se vogliamo accentuare la visionarietà, la suggestione della sua idea, è il metodo dell’incarnazione cristiana.

«In un certo senso sì. Leone XIV ci metterebbe il suo corpo, la sua persona fisica. Da pellegrino disarmato. A me vengono in mente anche le crociate».

Questa sarebbe una crociata disarmata.

«Come posso dire: una crociata mistica».

Ricorderebbe anche un’immagine del Vecchio Testamento, quella di Abramo che sale al monte per il sacrificio di Isacco.

«Questo lo lascio dire a a lei. Però il riferimento al sacrificio ci può stare».

Per altro, sebbene nella sua prima intervista abbia precisato che è necessario fare una «una distinzione tra la voce della Santa Sede che promuove la pace e il ruolo di mediatore, che è molto diverso e non è altrettanto realistico», papa Leone XIV si è anche detto «molto consapevole delle implicazioni di pensare al Vaticano come a un mediatore».

«Infatti, anche questo mi fa sperare. Tuttavia, il pellegrino disarmato è più del mediatore. La mediazione appartiene ancora alla sfera della politica e della diplomazia. Che, certo, può essere molto importante, in una situazione come questa. Invece, la mia provocazione ha più a che fare con la sfera della testimonianza e del sacrificio».

Però io le faccio due obiezioni. La prima: noi siamo nessuno e ignoriamo quali implicazioni avrebbe ora un viaggio del Papa a Gaza. Ricordiamoci che stiamo parlando del Vaticano, stiamo peccando di superbia.

«È vero, è così. Siamo ignoranti e possiamo apparire anche arroganti, lo so. Ma direi in un altro modo: siamo ingenui. E l’ingenuità ha una sua purezza e una sua forza».

Ha la forza bambina della speranza, direbbe Charles Péguy.

«Mi dica la seconda obiezione».

Il Papa non può essere l’aggiustatore del mondo. Lo dice e lo ripete, il suo compito è innanzitutto testimoniare Cristo all’umanità, confermare la fede nelle persone.

«E il suo andare lì, nel luogo della croce, nel Calvario contemporaneo, non sarebbe una grande testimonianza a Cristo?».

Bisogna capire che cosa ne pensa il Papa, qual è il suo primo e vero compito.

«Non tocca certo a noi suggerire nulla, ci mancherebbe. Ma a me pare che il punto sia la differenza della testimonianza cristiana in un mondo in cui le altre grandi religioni vengono piegate all’odio. Invece, il messaggio cristiano è amore. La Terra santa è la terra delle grandi religioni monoteiste, ma solo il cristianesimo conserva questa integrità. Però, forse per reazione alle crociate o anche all’Inquisizione, si è intimidito, abbandonando il pensiero forte e scegliendo il silenzio. È proprio questo il paradosso».

Quale?

«Che in una fase di integralismi e fanatismi crescenti rimane zitta l’unica fede che predica amore anziché odio. La Chiesa ha sempre dato asilo ai fedeli di tutte le confessioni. Il patriarca è rimasto a Gerusalemme, non solo come scudo delle vittime, ma anche a testimonianza dell’identità cristiana, di accoglienza e amore. Mi spingo a dire che certamente anche Pizzaballa sarebbe felice della visita di Leone XIV».

Il cui pontificato sarebbe profondamente segnato da quel gesto.

«Penso di sì. Ma ripeto, con umiltà e ingenuità, non sarebbe un bel modo di caratterizzarlo?».

 

La Verità, 20 settembre 2025

Al Lido i proPal cercano di allargare i consensi

Alla ricerca della visibilità, del consenso, dell’applauso facile. Il collettivo attori e registi militanti è in servizio permanente effettivo, da un appello all’altro. E pazienza se spesso e volentieri la mira è sbagliata. Dopo l’intemerata di Elio Germano sui finanziamenti ministeriali rivelatosi un boomerang per il salotto buono del cinema, alla vigilia della 82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica che si apre stasera con la proiezione di La grazia di Paolo Sorrentino, tiene banco la richiesta di revocare l’invito a Gal Gadot e Gerard Butler, un’attrice e un attore colpevoli di essere filo israeliani e di sostenere l’azione di Netanyahu. Venice4Palestine (V4P), la sigla nella quale si sono aggregati artisti e associazioni, ne ha fatto esplicita richiesta in un appello e in una successiva lettera aperta indirizzati ai vertici della Biennale di Venezia.

La politica viene prima dell’arte. Gaza viene prima di La grazia. Curioso che siano attori e registi a promuovere il ribaltamento delle priorità. Il direttore della Mostra Alberto Barbera ha espresso la sua contrarietà a ogni forma di censura: «Non è certamente vietando a degli artisti di partecipare a un evento che si risolvono i conflitti. Non ci sarà nessun ritiro di invito». Altrettanto chiara la replica del presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco: «Io non chiudo, io apro. Anche in tempo di guerra intellettuali e artisti devono incontrarsi e discutere».

A conferma che il battage allestito da V4P è propaganda, c’è il fatto che, prima che la lettera giungesse a destinazione, i due attori avevano rinunciato ad accompagnare alla Mostra In the hand of Dante, il film sulla Divina commedia diretto da Julian Schnabel, il visionario regista newyorchese di famiglia ebrea che il 3 settembre riceverà in Sala grande il premio Cartier Glory to the filmaker 2025. Girato in Italia, il film vanta un cast che, oltre ai due attori scomunicati, annovera tra gli altri Al Pacino, Martin Scorsese, John Malkovich e i nostri Sabrina Impacciatore e Claudio Santamaria. Loro potranno sfilare, Gal Gadot e Gerard Butler no. Ex miss Israele ed ex Wonder woman, Gadot è colpevole di aver prestato servizio militare obbligatorio nel Paese dove vive dal 2005, divenendo istruttrice di combattimento e poi di aver posato per un servizio fotografico dell’esercito intitolato «le soldatesse più sexy del mondo». Non importa che abbia un nonno sopravvissuto ad Auschwitz e che nei giorni scorsi si sia unita alle famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas per chiederne il rilascio al fine di accelerare i negoziati. Scozzese di 55 anni, cresciuto in una famiglia cattolica e protagonista di film d’azione, Butler ha promosso con Arnold Schwarzenegger, Robert De Niro e Larry King raccolte fondi in favore dell’esercito israeliano che sta occupando la Striscia di Gaza. Chissà come sarebbe andata se De Niro avesse voluto sfilare al Lido. I democratici firmatari dell’appello, paradossalmente sostenuto anche dalla rete di Artisti #NoBavaglio, vogliono sbarrare il Lido a Gadot e Butler. Certo, non è esattamente come recita un sarcastico post su X: «Nessun boicottaggio pro Pal degli attori italiani potrà mai battere quello del pubblico verso i loro film». Ma la ricerca di consenso e di plauso dai media rimuove tante contradizioni e forse ambisce a quella visibilità che non sempre la loro arte garantisce.

Lunedì sul Foglio, Pupi Avati ha ricostruito da par suo la rinascita dell’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) illudendoci, come recitava il titolo, che «alla fine poté più il cinema della politica». Purtroppo, l’attivismo di Venice4Palestine ha smentito rapidamente l’illusione. I firmatari dell’appello – tra i quali Kean Loach, Marco Bellocchio, Matteo Garrone, Mario Martone, Gabriele Muccino, Valeria Golino, Jasmine Trinca, Laura Morante, Alba e Alice Rohrwacher, Beppe e Toni Servillo, Serena Dandini, Fiorella Mannoia e Roger Waters (fino a 1500 adesioni) – hanno chiesto alla Biennale «di esporsi con azioni e posizioni chiare e che si impegni a interrompere le partnership con qualunque organizzazione che sostiene il governo israeliano, direttamente o indirettamente». Già in luglio, in vista di possibili contestazioni, alla presentazione del programma era stata sottolineata la significativa partecipazione al concorso di The voice of Hind Rajab della regista Kaouther Ben Hania, film sulla bambina che, intrappolata in un’auto in mezzo ai parenti uccisi durante l’invasione dell’esercito israeliano di Gaza del gennaio 2024, chiede aiuto, invano, ai soccorritori. Ora V4P vuole che una sua delegazione sfili sul tappeto rosso con la bandiera palestinese e annuncia una manifestazione al Lido per sabato.

«La Biennale di Venezia e la Mostra del cinema sono sempre stati nella loro storia luoghi di confronto aperti e sensibili a tutte le questioni più urgenti della società e del mondo», hanno replicato dall’istituzione veneziana. Non basta. Attori e registi pretendono la condanna «del genocidio» e il ritiro degli inviti. Proprio come avvenuto qualche settimana fa a Valery Gergiev, il direttore d’orchestra in odore di putinismo, prima invitato per dirigere un concerto alla Reggia di Caserta e poi scaricato a furor di proteste dem. O come successo in questi giorni a Woody Allen, caduto sotto gli strali del governo ucraino per aver elogiato il cinema russo durante la Settimana internazionale del cinema di Mosca: «Credo fermamente che Putin abbia torto, ma l’arte va tenuta fuori», ha respinto le accuse il cineasta americano.

Quando si antepone l’ideologia all’arte o si confonde l’appartenenza a un popolo con l’adesione acritica al suo governo gli effetti possono essere nefasti. «Cosa c’entra Netanyahu col divieto di ospitare un artista israeliano? Allora non si dovrebbe invitare nessun iraniano per Khamenei, o nessun artista cinese per le tensioni tra Pechino e Taiwan», ha osservato Andrée Ruth Shammah, regista e direttrice del Teatro Franco Parenti di Milano, manifestando la sua amarezza per la presenza di tanti amici nelle file dei censori.

Dal palco dei David di Donatello, prima di innescare la controproducente polemica sui finanziamenti al cinema Elio Germano disse che «un palestinese ha la stessa dignità di un israeliano». Oggi si deve dire che vale anche il contrario.

 

La Verità, 27 agosto 2025

Buttafuoco e la Biennale come fabbrica di cultura

Metti una sera dopocena ad ascoltare il commento al vangelo di Giovanni scritto da Meister Eckhart, grande teologo e mistico tedesco, contemporaneo di Dante. Tre attori con leggero trucco argenteo – Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita – avvolti in un tendaggio circolare che dal tetto precipita a terra declamano il testo alternato ai canti del repertorio gregoriano tardo medievale, eseguiti dal coro della Cappella Marciana guidato dal maestro Marco Gemmani. Siamo nel Portego delle colonne della Scuola grande di San Marco dell’ospedale San Giovanni e Paolo di Venezia. Alle pareti dell’oratorio scorrono in verticale grafiche in bianco e nero di intarsi e luoghi sacri, per una drammaturgia (di Antonello Pocetti e Antonino Viola) che da antica si fa contemporanea. I tre attori incalzano salmodiando versi dai padri della Chiesa, da Sant’Agostino, dal testo evangelico rivisitato: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo».
È l’Expositio sancti evangelii secundum Iohannem (tratto dal monumentale Commento al vangelo di Giovanni di Johannes Eckhart, edito da Bompiani con testo latino a fronte) che il presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, ha voluto proporre per due settimane come progetto speciale in collaborazione con l’Archivio storico delle arti contemporanee (Asac): ogni sera un tema specifico (Logos, Essere, Amore, Bene/Male, Anima/Corpo), introdotto da personalità come il cardinal José Tolentino de Mendoça, prefetto del dicastero vaticano per la cultura, o come il filosofo Peter Sloterdjik. Sono serate di ascolto e meditazione di parole essenziali e di voci inattuali, che proprio l’attualità di vocii incessanti e assordanti intendono sanamente contestare. Idea del presidente, che festeggia il primo anno a Ca’ Giustinian, è creare una nuova Biennale della parola, con prossimi eventi su testi di Friedrich Hegel e di Claude Lévi-Strauss. E non poteva esserci viatico migliore di un commento al vangelo che inizia con «In principio era il Verbo».
Buttafuoco, si sa, non è solo manager e organizzatore culturale, per altro figure di cui si avverte necessità. È anche scrittore e studioso. E sebbene la sua nomina, voluta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, sia stata accolta con scetticismo dagli storici ambienti di riferimento della Biennale, ora che si compie il primo giro di calendario, bisogna riconoscere che una certa impronta si comincia a vedere. Ci sono coraggio, dinamismo e carattere propositivo nel palinsesto che via via prende corpo con la nuova presidenza. E, prima ancora, c’è stata una buona dose di sagacia, nell’abilità con cui, appena nominato, Buttafuoco ha saputo gestire la 60ª Esposizione d’Arte intitolata «Stranieri ovunque» e affidata dal suo predecessore Roberto Cicutto al curatore di militanza queer Antonio Pedrosa.
Figura identitaria e al contempo uomo di mondo, con un mix di continuità e rinnovamento, Buttafuoco ha provveduto alle nomine prorogando il direttore del Cinema Alberto Barbera, protagonista di una sequenza di mostre fucine di Oscar in serie (ultimi i tre di The Brutalist con Adrien Brody e quello per Io sono ancora qui di Walter Salles), e il responsabile del settore Danza, Wayne McGregor. Diversamente, ha impresso un cambio di passo scegliendo l’attore Willem Dafoe per il Teatro, nominando Caterina Barbieri per la Musica del biennio 2025-26, e nelle Arti visive con l’artista svizzera-camerunense Koyo Kuoh, che ha l’incarico di allestire la 61ª Esposizione d’Arte del 2026.
Votata a un’idea più movimentista che istituzionale dell’Ente, questa presidenza mostra di volersi spingere oltre l’agenda delle esposizioni. La vetrina è certamente importante, ma per un intellettuale irregolare e critico del mainstream qual è l’autore di Beato lui. Panegirico dell’arcitaliano Silvio Berlusconi (Longanesi), il vero obiettivo è fare della Biennale un soggetto di produzione culturale autonoma. Un ambito di creatività del pensiero a disposizione del presente e rivolto al futuro, per realizzare il quale è sempre più centrale il ruolo dell’Archivio storico, centro di ricerca sulle arti contemporanee che avrà presto la nuova sede all’interno dell’Arsenale. Buttafuoco si muove con cautela, lasciando parlare i fatti. Ha avviato il progetto speciale È il vento che fa il cielo. La Biennale di Venezia sulle orme di Marco Polo per i 700 anni dalla sua scomparsa, con eventi a Hangzhou in Cina e successivamente a Venezia. E, a 53 anni dall’ultimo numero del 1971, ha fatto rinascere la rivista trimestrale La Biennale di Venezia, affidando la supervisione editoriale a Debora Rossi e la direzione a Luigi Mascheroni. I due numeri usciti, il primo dedicato al tema dell’acqua e ai «Diluvi prossimi venturi» e il secondo alla «Forma del caos» e alla conservazione della memoria in opposizione alla cancel culture, consegnano un nuovo strumento ricco di testimonianze e contributi volti ad analizzare l’evoluzione del pensiero attraverso il prisma delle discipline della Biennale stessa (arte, cinema, architettura, musica, teatro e danza) per offrire materiali di riflessione alla discussione internazionale.

 

La Verità, 20 marzo 2025

«La sinistra mi ha cacciato perché non sa più ridere»

Quello di Simone Lenzi, l’assessore alla Cultura di Livorno che si è dimesso a causa di un paio di post su X che hanno provocato la sconfessione del sindaco Pd Luca Salvetti, anziché spegnersi come una querelle di periferia, sta diventando, man mano che passano i giorni, uno di quei casi rivelatori di una patologia profonda. Ovvero: la mancanza di libertà di critica nella quale è precipitata una certa sinistra. In questa vicenda, l’ipocrisia è condita da un linguaggio distorto e da accuse fasulle di omofobia e transfobia. Che, letteralmente, significherebbero paura degli omosessuali e dei transessuali. Trattandosi poi di Livorno, la città dove nel 1921 fu fondato il Partito comunista italiano, la faccenda assume anche contorni simbolici. Andiamo, però, con ordine, dando la parola a un divertito Lenzi. Scrittore riconosciuto, sceneggiatore, front-man dei Virginiana Miller, rock band con un discreto seguito, e autore di canzoni, una delle quali (Tutti i santi giorni) vinse nel 2013 il David di Donatello come miglior brano originale del film omonimo di Paolo Virzì, per altro derivato da un suo romanzo.
La polemica non cessa: se l’è presa anche con Pierluigi Bersani, santone intoccabile della sinistra-sinistra.
«Ma no, non me la sono presa con Bersani… Solo che ha fatto un post sul libro di Piero Marrazzo riconoscendo che a volte si è più duri con chi si prende delle libertà sessuali che con chi ruba all’Inps. Naturalmente sono d’accordo con lui. Però gli ho fatto notare che non sono stati fatti grandi passi verso il pluralismo visto che il sindaco di Livorno, appoggiato dalla maggioranza Pd, mi ha fatto fuori per un commento estetico su una statua della Biennale d’arte contemporanea».
La stupisce che la accostino a Piero Marrazzo sebbene la sua vicenda sia parecchio diversa?
(Ride) «Personalmente, mi sono limitato a un commento estetico su una statua che giudicavo molto didascalica e, come tutta l’arte didascalica, profondamente noiosa».
Riavvolgiamo il nastro dall’inizio: lei si è dimesso o è stato fatto dimettere?
«Mi è stato chiesto di dimettermi e, per evitare al sindaco di rischiare una mozione di sfiducia, gli ho consegnato le mie dimissioni. Ho sempre pensato che il bene pubblico venga prima di quello privato».
Il motivo è il post contro la vignetta di Natangelo sul Fatto quotidiano sul massacro del 7 ottobre ordito da Hamas o sono i post precedenti, definiti transfobici?
«Quello contro la vignetta ha scatenato tutto. Poi sono andati a frugare nella timeline di X e hanno trovato cose vecchie per impacchettare il dossier».
Aveva scritto: «Ho uno champagne in frigo, pronto per quando chiuderà, sommersa dai debiti, la fogna del @fattoquotidiano, laboratorio di abiezione morale, allevamento di trogloditi, verminaio del nulla». Un po’ forte, lo riscriverebbe?
(Ride) «Visto che ha prodotto il mio licenziamento, magari no».
Sperava in un po’ più d’ironia dei suoi interlocutori?
«La cosa che più mi dispiace, non tanto per questo ma per gli altri post, è il fatto che la sinistra abbia smarrito la capacità di prendersi in giro, che era la sua più grande forza».
Si potrebbe pensare che lei sia scomodo in un momento in cui si lavora alla nascita del campo largo?
«Credo che lei sopravvaluti la mia influenza. Se poi me lo chiede, a me il campo largo non piace».
Questo mi era chiaro. Invece Elly Schlein le piace?
«Domanda tosta. È molto pop, come lo era Matteo Renzi ai suoi tempi. Ci sa fare. Resta però ancora indefinito quale popolo rappresenti».
Perché sono andati a ripescare il post in cui criticava la statua della Biennale che raffigura una donna con il pisello?
«Perché volevano costruire il dossier per procedere alla character assassination: prendi uno e lo metti alla gogna».
Sotto quella statua c’era una didascalia lapidaria: woman.
«Non mi piace l’arte che ti dice come devi pensarla su qualunque tema, non solo su questo».
Quell’unica parola era la provocazione?
«Infatti, ho scritto che non sono il borghese scandalizzato, ma il borghese annoiato da questa pedagogia».
Fobia significa paura e l’accusano di transfobia e omofobia: ha paura di trans e omosessuali?
«L’accusa di omofobia è assolutamente cretina, ma pure quella di transfobia. Perché: a) non ho paura di nulla; b) sono liberale e libertario e per me ogni adulto può fare ciò che vuole del proprio corpo».
A volte dando dell’omofobo si vuol dire che si odiano gli omosessuali: lei li odia?
«Assolutamente no».
Possibile che il sindaco Salvetti e Irene Galletti, capogruppo alla regione Toscana del M5s, non abbiano colto la sua autoironia sulle 28 identità sessuali?
«Infatti. A 56 anni provo sollievo nel non dovermi identificare in qualcuna di quelle 28 categorie. M’interessa più la buona cucina, ormai».
Livorno è sempre la città del Vernacoliere?
«Evidentemente non più».
È la città di Paolo Virzì e dei film in cui sbertuccia lo snobismo della sinistra?
«Speravo lo fosse ancora. Il problema è che quando prendi tutto sul serio, passa il bambino e dice “il re è nudo”. Ringrazio per la solidarietà Virzì, esponente di una sinistra che sa ancora prendersi in giro».
Nella lettera di dimissioni ha scritto che «alla sinistra, che avevo visto fin qui come la roccaforte di ogni libertà, della libertà autentica non interessa affatto». Giudizio pesante.
«Sì. Per sintetizzare ho coniato l’espressione “narcisismo etico”, che è quell’atteggiamento per cui è importante sembrare buoni e giusti, senza preoccuparsi di esserlo davvero».
Può precisare, sempre per l’importanza delle parole?
«L’unica cosa che conta è andare a letto la sera sentendosi parte della schiera dei buoni e dei giusti, anche se magari non abbiamo cambiato il mondo di una virgola».
Sostituendo all’eguaglianza l’inclusione come stella polare questa sinistra tende a escludere chi non si allinea al nuovo verbo?
«La metterei così: prima seguivamo grandi principi universalistici, venuti meno i quali è subentrato una sorta di tribalismo. E il tribalismo ha continuamente bisogno di capri espiatori».
Il narcisismo è un autocompiacimento, in fondo inoffensivo, nel quale ci si crogiola in una presunta superiorità?
«Esattamente questo».
Se fosse così i danni sarebbero contenuti: non le pare che la patologia della sinistra sia piuttosto l’esibizionismo etico?
«L’esibizionismo è una componente fondamentale del narcisismo».
Il sindaco che l’ha costretta a dimettersi l’ha fatto per avere l’approvazione dell’opinione pubblica?
«Questo andrebbe chiesto a lui. L’unica cosa che gli dico, con un po’ d’affetto, è che forse poteva gestire la conferenza stampa in un modo umanamente più… inclusivo anche nei miei confronti».
Narcisismo, esibizionismo: questo si può chiamare bullismo etico?
«Mmmh. Variazioni sul tema ce ne sono tante. Diciamo così: siccome nel tribalismo il capro espiatorio si sente in colpa e vorrebbe rimanere in un angolo sperando che tutti si dimentichino di lui, per carattere, io sono il capro espiatorio sbagliato».
Quindi gliela farà pagare?
«No. Continuerò a essere me stesso e a godere della mia libertà di pensiero e di espressione».
Lei ha parlato di psico-polizia del pensiero, un comportamento messo in atto anche da lei quando due anni fa vietò una conferenza sull’Ucraina al professor Alessandro Orsini dicendo «abbiamo denazificato» il teatro Goldoni?
«Anche quella era una battuta».
Però Orsini non parlò al Goldoni.
«Il punto è diverso e glielo spiego a mia volta con una domanda. Comunque la si pensi, Orsini ha parlato al Regio di Parma, alla Fenice di Venezia o alla Scala di Milano? No. Per questo non ha parlato nemmeno al teatro Goldoni, che è un antico teatro di tradizione».
Quello dove si svolgeva il congresso socialista dal quale uscirono Antonio Gramsci e compagni per fondare il Pci.
«Proprio quello. Per altro, qualche tempo prima Orsini aveva fatto un post pesantemente offensivo della memoria di Gramsci. Motivo in più per non farlo parlare al Goldoni».
Non mi ha convinto, lei non è un libertario?
«Al Regio di Parma o alla Fenice, Orsini non ha parlato».
Ma non ha chiesto di farlo.
«Se l’avesse fatto glielo avrebbero negato. Comunque, parlò al teatro Quattro Mori di Livorno, a mio avviso più adatto. Non concordo su nulla di quello che dice Orsini, ma sono un libertario e ritengo che ogni voce debba avere l’ambito adeguato».
Si aspettava che qualcuno dei vertici del partito si pronunciasse sulla sua vicenda?
«Qualcuno l’ha fatto, Pina Picierno mi ha espresso solidarietà».
In privato o in pubblico?
«In un post su X. Anche altri esponenti, non del Pd, l’hanno fatto. Ivan Scalfarotto, Anna Paola Concia e Chiara Valerio, che è una paladina dei diritti Lgbtq+».
Nessuno di loro è un dirigente Pd.
«Lo è la Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo. Comunque, il fatto è curioso perché poi fanno eleggere in Europa Marco Tarquinio che sull’aborto ha posizioni più vicine a quelle della destra, e defenestrano me per una battuta».
Livorno è la città dov’è nato il Pci: spera in un esame di coscienza, come direbbe Tarquinio, della sinistra su questa vicenda?
«Spero che si apra un reale dibattito».
Paolo Rumiz su Repubblica ha scritto che la sinistra si è fatta scippare dalla destra parole come patria, identità, tradizione. Concorda o queste sono sempre state parole di destra?
«Vorrei dire un’altra cosa che la sinistra si è fatta scippare dalla destra almeno su alcuni temi: il buonsenso. Che poi la destra usa come un randello».
La sua vicenda mostra che si toglie la parola a chi non parla come vogliono i custodi del pensiero?
«La mia vicenda è nota, poi ognuno ne trae le conclusioni che ritiene».
Adesso che farà? Scriverà un libro, magari il seguito ancora più sofferto del precedente In esilio?
«Credo che lo farò. Questa vicenda mi piacerebbe raccontarla e ora ho tutto il tempo per farlo. Per il resto, usando un’espressione che piacerebbe a Rumiz: Dio provvede».
Oltre alle dimissioni indotte dalla giunta, sta riflettendo a dimissioni spontanee dalla sua appartenenza storica?
«La verità è che ero un cane sciolto prima e un cane sciolto resto ora».

 

La Verità, 19 ottobre 2024

Cara Biennale, senza padri gli stranieri sono ovunque

Terzomondismo e terzosessismo. In fondo, con un titolo così, era prevedibile. Stranieri ovunque – Foreigners everywhere è un gigantesco link alle minoranze. Un magnete di vittimismi. La 60ª Biennale d’Arte di Venezia è una chiamata a raccolta delle comunità outsider, laterali, emarginate, violentate dal potere, dagli Stati, dal pensiero unico, dalla globalizzazione. Ecco allora il terzomondismo e l’ideologia queer alzare il proprio pianto, lamentarsi, recriminare. Un coro a più voci, nelle varie tonalità che compongono la polifonia finale. Quella dell’esclusione patita. Della vessazione. Del sopruso. Dell’oppressione. Migranti, nomadi, apolidi, indigeni, aborigeni, sradicati, rifugiati ed espatriati si accostano a omosessuali, queer, fluidi, disforici, non binari in una comune condanna dell’Occidente colonialista, selettivo, discriminatorio, razzista. Il quale, per sgravarsi dal pesante complesso di colpa, li accoglie, li sdogana, li legittima e li esalta secondo i dogmi dell’inclusione e dell’accoglienza. Parole care anche a papa Francesco che, prima volta di un Pontefice, visiterà la Biennale, in particolare il Padiglione Vaticano (alla quarta partecipazione) allestito nel penitenziario femminile all’isola della Giudecca per l’esposizione intitolata Con i miei occhi e realizzata con la supervisione del cardinal José Tolentino de Mendoça (prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione). Ad aspettarlo, domenica mattina Francesco troverà l’opera di Maurizio Cattelan: due piante di piedi, come quelli che ogni giovedì santo Bergoglio va a lavare nel carcere femminile di Rebibbia.

Su questa edizione ha già scritto magistralmente Marcello Veneziani, basandosi sul titolo voluto dal precedente presidente Roberto Cicutto, con sagacia ereditato da Pietrangelo Buttafuoco, e segnalando le parole del curatore che tiene a proclamarsi queer Adriano Pedrosa: «In profondità, siamo tutti stranieri». Niente di nuovo sul fronte artistico. Non serviva vedere i padiglioni e le installazioni se non per trovare conferme e aggiungere dettagli, rilievi formali, classificazioni di schieramenti.

Per esempio, il fatto che, rispetto a quello di origine geografica, il sentimento di estraneità a causa dell’orientamento sessuale è quantitativamente maggioritario forse perché più di moda tra le élite intellettuali. All’ingresso dell’Arsenale ci accoglie Refugee Astronaut II, creazione dell’artista britannico-nigeriano Yinka Shonibare, quasi una summa delle precarietà e dei disconoscimenti odierni. È un astronauta a grandezza naturale, che indossa una tuta di stoffa con motivi nigeriani e porta in un sacco di rete attrezzi e strumenti per superare sfide ecologiche e umanitarie. Senza, però, riuscire ad ambientarsi, tanto da rivolgersi allo spazio. Inoltrandosi nei saloni ai Giardini, invece, si trovano denunce più circostanziate. Nei dipinti elementari di Marlene Gilson che affiancano soldati e indigeni c’è l’oppressione subita dagli aborigeni dell’Australia, mentre nelle fotografie e negli arredi di Pablo Delano si ripercorre la storia di Porto Rico dalla dominazione spagnola alla subalternità agli Stati Uniti. La critica al colonialismo tocca anche l’Italia nell’opera Gheddafi in Rome: anatomy of a friendship di Alessandra Ferrini, artista fiorentina che ripropone l’incontro del leader libico con Silvio Berlusconi del 2009, analizzando il rapporto tra i due Stati fin dall’occupazione italiana del secolo scorso. Nell’enorme arazzo di Pacita Abad (Singapore), si fotografa invece la stratificazione sociale della globalizzazione: nella fascia alta dei grattacieli compaiono le sigle della finanza, nella seconda i marchi della moda, nella terza le famiglie dei ceti medi e nell’ultima, a terra, i più poveri. Il racconto della resistenza al regime di Pinochet realizzato su grandi tele da Arpilleristas, artiste cilene ignote, è ingenuo e colorato dal sole, segno di una speranza che non demorde. Restando in Sudamerica, l’argentina Mariana Telleria dichiara che Dios es inmigrante nell’installazione con alberi di barche a vela che compongono una grande croce, collocata nel giardino di un ostello vicino al porto di Buenos Aires. Più militante e antipotere il lavoro di Disobedience archive, raccolta di «tattiche di resistenza contemporanea» realizzata dal Marco Scotini, composta da una collezione di video sulle forme di protesta nel mondo. È una delle poche opere audiovisive del capitolo sullo sradicamento geografico che riempie anche i padiglioni dei Giardini, dove il frontespizio è affrescato dal collettivo brasiliano Mahku. Per il resto, dominano pittura, scultura e la stoffa degli arazzi, familiari nelle comunità terzomondiste degli anni Settanta.

Più variegata nei linguaggi, sebbene sia assente quello digitale, la denuncia delle comunità omosessuali, queer e non binarie. Si va dalla performance video di danza su lenzuola appese al soffitto di Isaac Chong Wai (Hong Kong) alle raffigurazioni di gaiezza quotidiana dell’americano Louis Fratino. Il sudafricano Sabelo Mlageni sceglie invece dei murales in spazi rurali per raccontare la sua non binarietà, mentre Puppies Puppies intitola Woman la scultura di un maschio normodotato. Ahmed Umar, queer sudanese e musulmano riparato in Norvegia, assomma entrambe le forme di estraneità, ritraendosi in abiti, gioielli e trucco femminili nell’opera intitolata Talitin, ovvero «terzo», tipico insulto arabo. Più inquietante è l’evoluzione di Void, il video di Joshua Serafin (Filippine), in cui un corpo evolve in uno spazio fangoso dalla condizione strisciante a essere eretto, fino a proporsi come divinità fluida. La rappresentazione più estrema è, però, quella di Xiyadie, «padre, contadino, omosessuale, lavoratore, migrante e artista» che illustra su enormi tele il disagio dell’identità queer in Cina, raffigurando fellatio e scene di autolesionismo genitale. Infine, in Cyber-Teratology Operation di Agnes Questionmark (Italia), un corpo in sala operatoria, gravido e con arti pinnati – quindi trans-specie, transgender e transumano – è una sorta di summa dello sterminato capitolo dedicato ai percorsi trans.

In conclusione, la tonalità ultima della polifonia è quella del pianto, lamento non sempre fuso nella protesta. In cui più che la qualità e l’innovazione artistica, conta il messaggio originato dall’appartenenza a una delle minoranze rappresentate. Tuttavia, lo stupore è in modica quantità. In un’epoca che con il Sessantotto ha ucciso i padri e abolito il principio di autorità e con l’avvento della globalizzazione ha cancellato le patrie, gli stranieri sono ovunque. E, grazie alla Biennale d’Arte di Venezia, ai media mainstream e all’industria dell’audiovisivo hanno molte possibilità di diventare maggioranza.

 

Ma il Padiglione Italia e il Padiglione Venezia hanno una visione altra

Un piccolo grande elemento di discontinuità rispetto allo spartito immaginato dalla coppia Roberto Cicutto Adriano Pedrosa, rispettivamente ex presidente e attuale direttore della sezione arte della Biennale viene dal Padiglione Italia e dal Padiglione Venezia, curati da Luca Cerizza e Giovanna Zabotti. Sono avulsi dalla narrazione della gran parte degli altri spazi perché parlano una lingua diversa, costruttiva verrebbe da dire se non fosse una parola tabù nel nichilismo imperante. Al Giardino delle Tese dell’Arsenale, ecco Two here (due qui) che, giocando sull’assonanza con To hear (ascoltare), suggerisce una sorta di sospensione per fare spazio all’altro. In un labirinto di tubi innocenti echeggia un suono costante e rigonfio che forse vorrebbe richiamare il perenne saliscendi dell’acqua e fango che riempiono un grande catino. All’inaugurazione il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro vi ha immerso le mani, schizzando come in uno scherzo impertinente che ha suscitato la riprovazione dell’autore, Massimo Bartolini («Lei sta dando pessimo esempio…»). Ma trovando l’immediata difesa del presidente Pietrangelo Buttafuoco: «Il nostro sindaco è come quel bambino che fa i baffi alla Gioconda». In conclusione, appare curioso che il padiglione italiano vanti un titolo inglese, ma tant’è.

Più coerenti e, in un certo senso, orientate in direzione contraria, risultano le proposte dello spazio Venezia, in fondo ai Giardini. Il titolo è Sestante domestico e dice della ricerca di una bussola per il presente, sulla scorta di una poesia di Franco Arminio: «Abbiamo bisogno/ di un luogo: ci vuole/ una mano/ una casa, un sorriso/ qualcosa che ci faccia/ da perimetro». E gli artisti si sono espressi al meglio. Vittorio Marella ha dipinto una parete di sabbia nella quale due ragazzi si abbracciano («Mi è stato chiesto di rappresentare la mia idea di casa, proprio mentre stavo cercando casa… Invece, ho trovato una persona. Nel nostro volerci bene, nel nostro abbraccio, c’è la mia casa»). L’ottantenne Safet Zec, pittore e grafico della Bosnia-Erzegovina, già esule per la guerra e da un ventennio cittadino veneziano, espone povere figure in preghiera e padri che corrono per portare in salvo figli sofferenti. Opere intrise di tenerezza che si intitolano «Vie della bellezza».

 

La Verità, 24 aprile 2024