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«Il Saviano politico sbaglia: a Caivano i blitz servono»

È una delle persone più esposte al pericolo e coraggiose che l’attualità ci consegna. Don Maurizio Patriciello, «un prete e basta», da anni in prima linea nella denuncia dei clan di Caivano, dopo la scoperta delle violenze a lungo perpetrate da alcuni minori su due bambine, ha chiesto aiuto al premier Giorgia Meloni innescando una serie d’iniziative che hanno riportato la presenza delle istituzioni dove da anni latitavano.

Don Patriciello i blitz delle forze dell’ordine a Caivano si susseguono alle «stese» dei clan: è in corso una guerra per il controllo del Parco Verde?

«C’è un’attenzione particolare nei confronti di questi signori che vorrebbero comandare il territorio. Domenica c’era stata la “stesa” (raid a bordo di motorini con spari a raffica per costringere le persone a stendersi a terra ndr), compiuta forse contro l’iniziativa del governo. Poi c’è stato un nuovo blitz contro gli abusivi».

Le hanno rafforzato la protezione, ha paura?

«No. Me l’hanno rafforzata per quello che sta succedendo».

Ieri ricorrevano trent’anni dall’uccisione di don Pino Puglisi a Palermo per opera di Cosa nostra.

«Qualche anno fa, ho potuto celebrare la messa nella sala da pranzo di padre Pino Puglisi con un piccolo gruppo tra cui suo fratello e sua cognata. Una gioia grande. Sono stato tante volte nella parrocchia di Brancaccio e sulla sua tomba, nella cattedrale di Palermo. Lo prego, lo invoco, gli chiedo di illuminare il mio cammino, perché possa fare sempre e solo la volontà di Dio. Diceva: “Se ognuno fa qualcosa, qualcosa di bello accadrà”. Tento di fare la mia piccola parte».

È vero che quando al Parco Verde arriva un’auto sconosciuta alcuni ragazzi in moto l’affiancano, chiedono agli occupanti dove sono diretti e li scortano a destinazione per controllare tutto ciò che avviene?

«Ci sono i ragazzi che girano con il motorino, le vedette dello spaccio. In questi giorni con il Parco pieno di polizia e carabinieri non si vedono».

È favorevole all’intensificazione della presenza delle forze dell’ordine?

«Per risolvere il problema dobbiamo prendere alla lettera le parole del premier al fine di evitare che “in Italia esistano zone franche”. Il governatore Vincenzo De Luca ha detto che “a Caivano non c’è lo Stato”. Se servono azioni forti per ripristinarlo, ben vengano. È chiaro che non bastano, ma sono utili a bonificare il territorio».

Il decreto e i blitz sono stati molto criticati.

«Le critiche ci sono e ci saranno sempre. L’opposizione deve screditare quello che fa chi governa. È vero che da sole queste azioni non risolvono tutto. Tanti hanno citato Gesualdo Bufalino quando disse che “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestri elementari”. Quando, però, arrivano le “stese” ci vuole anche l’esercito della polizia e dei carabinieri. Un’azione non esclude l’altra».

Lei ha detto che chi critica l’iniziativa del governo si deve vergognare.

«Bisogna sapere cosa si prova quando volano i proiettili. Un conto è parlare stando sul campo di battaglia, un altro farlo seduti a casa propria. Chi vive sul posto sa che una “stesa” può essere pericolosissima per un bambino, una mamma, un papà. Ho chiesto di fare attenzione e di pesare le parole».

A chi dice che servono i centri sportivi e le biblioteche lei ribatte primum vivere deinde philosophari?

«Da qualche parte bisogna cominciare. Se ci sono bande criminali che agiscono indisturbate e gli adolescenti maneggiano le armi, bisogna bonificare prima di fare altri interventi. Sono contento che siano stati potenziati il commissariato di Afragola e la compagnia dei carabinieri di Caivano. Lo scopo è riportare alla normalità un quartiere che non vive nella normalità da molti anni».

Mi racconta una sua giornata?

«Sono un sacerdote, un parroco, un giornalista. Un prete, prima di tutto. Celebro messa, distribuisco i sacramenti, faccio direzione spirituale. Non c’è mattina in cui non vada in una scuola o nelle carceri per parlare con i detenuti. Partecipo a convegni sulla legalità, scrivo per Avvenire e Famiglia cristiana, tengo incontri di catechesi. Tempo per annoiarmi non ne ho».

A che ora inizia e a che ora finisce la sua giornata?

«Finisce tardi. Ci sono anche la preghiera e lo studio personale. Non si vive di rendita, la fede e la cultura vanno coltivate».

Sempre con la scorta al seguito?

«Certamente è più complicato e farraginoso. Quando vado a visitare le famiglie, gli ammalati, a confessare un anziano… ho sempre compagnia».

È diventato prete dopo i trent’anni: prima?

«Per dieci anni sono stato capo reparto in un ospedale. Quando sul mio cammino ho trovato un frate, è iniziata questa avventura. E, al suo interno, questo impegno… Mi immaginavo un prete più normale».

La sua prima campagna è stata contro la criminalità nella Terra dei fuochi?

«Non volevo mettermi contro nessuno, mi ci sono trovato. Venivo dal mondo della sanità e mi è stato facile riscontrare l’aumento delle patologie tumorali. Quando mi sono reso conto del vuoto di iniziative mi sono dato da fare e, grazie a Dio, se oggi tanti hanno una sensibilità ambientale, in parte si deve anche alla mobilitazione nella Terra dei fuochi. Dal 2015 in Italia c’è una legge che punisce i reati ambientali».

Si ritrova nella definizione di prete anticamorra?

«No no no, assolutamente. Sono un prete senza aggettivi. Se mi targate come anticamorra mi mettete in un angolo. Mentre a me interessa ciò che riguarda l’uomo a 360 gradi, dalla teologia ai sacramenti alle opere di carità, dai neonati ai vecchi. Mi occupo delle donne che stanno per abortire. In questi anni siamo riusciti a dare un piccolo aiuto per far nascere una dozzina di bambini che stavano per essere gettati nella fogna. Per la gioia loro, dei genitori e di tutta la comunità. Pensi la felicità quando li vedo andare a scuola».

Leonardo Sciascia parlava dei professionisti dell’antimafia, ci sono anche quelli dell’anticamorra?

«Non sono certo io, parroco di San Paolo apostolo del Parco Verde. Vivo qui e m’impegno per suggerire risposte ai bisogni della gente del posto. Se mi trovassi in Via dei Mille a Napoli farei altro».

Perché dopo la scoperta degli abusi sulle due bambine si è rivolto a Giorgia Meloni e non al sindaco, al governatore, alla magistratura.

«Siccome so quanto è grave la situazione, non posso accontentarmi di spolverare la superficie. Già per la Terra dei fuochi mi ero rivolto al Presidente della Repubblica e poi ai premier Matteo Renzi e a Giuseppe Conte».

Ha puntato in alto per la gravità della situazione?

«Corrado Alvaro diceva che per le domande serie si cercano risposte vere, è inutile cercare risposte inadeguate. Intanto sono arrivati 30 milioni per far ripartire il centro sportivo, vandalizzato da 30 anni».

Un altro fronte è l’educazione: gli adolescenti che violentavano quelle ragazzine a quali modelli si rifacevano?

«I modelli li conosciamo, non trinceriamoci dietro l’ipocrisia. A causa di noi adulti questi ragazzi hanno scoperto la sessualità attraverso la pornografia fin dalla tenera età. Ne ho parlato anche col ministro Eugenia Roccella e ci siamo trovati d’accordo. Bambini che appartengono a famiglie distratte che dedicano un’attenzione minima alla loro crescita. Mettono in pratica quello che vedono. Abbiamo rapinato il loro diritto all’amore, alla tenerezza, al primo bacio e li abbiamo lasciati all’inferno della pornografia».

Bisogna impedire l’accesso a questi contenuti attraverso la Rete?

«Io non sono un tecnico, ma mi sembra che fingiamo di scandalizzarci. Da tempo diciamo che bisogna regolamentare o spegnere i cellulari, poi sorgono un sacco di problemi e non si decide. La pornografia ha bisogno di spostare i limiti degli eccessi, questo è ciò che abbiamo presentato ai bambini. Ripenso alle parole di Gesù: chi scandalizza uno di questi piccoli è meglio per lui che si leghi una pietra al collo e si getti in mare. Non vedo impedimenti, se non agiamo per proteggerli significa che non vogliamo farlo».

Che partecipazione c’è stata alla veglia di preghiera che ha promosso qualche sera fa?

«Tantissima partecipazione, la chiesa era affollata. La preghiera è stata guidata proprio dai bambini, alcuni dei quali domenica avevano fatto la prima comunione. Era stata una giornata di festa, rovinata la sera da quell’azione violenta e criminale dei clan che si è mangiata la gioia e l’impegno di mesi».

È attivo anche sui social dove si rivolge alla sua «parrocchia online».

«Ho una pagina Facebook (con oltre 160.000 follower ndr) e mi arrivano migliaia di lettere dall’Italia e da fuori. Purtroppo non riesco a rispondere come vorrei, intavolando relazioni a lungo termine. Anche la mia giornata è fatta di 24 ore».

C’è un gruppo di persone che la aiuta, la comunità cristiana è visibile?

«Certo, facciamo cose belle. Poi arrivano momenti come questi che alimentano la paura e allora la comunità si assottiglia. Ma è sempre rinata. Quando ci sono stati omicidi anche nei pressi della parrocchia sono stato io il primo a dire: non venite. Volesse Dio che non ci fosse più bisogno della mia supplenza…».

Che tipo di supplenza?

«Abbiamo creato un “Comitato di liberazione dalla camorra” con molte persone in prima linea. Un altro gruppo si impegna a raccogliere fondi per i poveri e i senzatetto, quelli che papa Francesco chiama gli scarti della società. L’associazione “Noi genitori di tutti”, composta di mamme che hanno perso i figli a causa dei tumori e delle leucemie nella Terra dei fuochi, affianca altre mamme che hanno figli ammalati, in collaborazione con l’ospedale Gaslini di Genova e con il Bambin Gesù di Roma».

Perché stavolta è più ottimista che in passato?

«Capisco come vanno le cose… Qualche giorno fa ho scritto a Roberto Saviano che quando gli hanno chiesto cosa pensasse del decreto Caivano ha detto che “è la fine di tutto”. Mi è sembrata una presa di posizione politica, così gli ho risposto su Avvenire. La fine di cosa? Io cerco speranza, cerco samaritani, venga qui, Saviano; i profeti di sventura vadano altrove. Ora che qualcosa si muove c’è un po’ di ottimismo, arriveranno altre risorse. Noi cristiani siamo obbligati a sperare. La speranza devo darla anche agli altri perché non vivo per me stesso».

Con il ritorno dello Stato i topi balleranno di meno?

«Chi vive di spaccio e semina morte comincia ad avere qualche problema. In questi giorni il traffico di droga non è solo diminuito, si è azzerato».

 

La Verità, 16 settembre 2023

Gomorra, i magistrati e… guardare prima di parlare

Almeno guardatela, prima di calare giudizi. Gomorra – La serie è stata bocciata per l’ennesima volta da un pool di magistrati in prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata, ma pure in pole position nelle ambizioni di critica cinetelevisiva. Il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Giuseppe Borrelli ha detto: «La fiction televisiva non coglie alcun aspetto della camorra di oggi. Oggi la camorra ha superato lo stato di contiguità con professionisti, impresa e parte della politica. I clan esprimono una propria classe dirigente». Federico Cafiero de Raho, capo della Procura nazionale antimafia, ha detto: «Credo che evidenziare i rapporti umani come se la camorra fosse un’associazione come tante altre non corrisponda a quello che realmente è, la camorra è fatta soprattutto di violenza». Il primo ha ammesso di aver visto solo due episodi della terza stagione, il secondo di non averla mai vista. Eppure, come scolari si offrono volontari per l’interrogazione senza aver fatto i compiti. Giudicare è mestiere da magistrati. Anche in trasferta, in tema di politica, educazione, fiction tv? In fondo, tutto è riconducibile al conflitto tra arte e legge, tra creatività e istituzioni. Ma desolazione, solitudine e isolamento dei presunti eroi di Gomorra non hanno nulla d’invidiabile o di perversamente emulabile.

Spoiler ad uso di chi non l’ha vista. Nel penultimo episodio si ha la perfetta rappresentazione del fatto che «i clan esprimono una propria classe dirigente» con la messa in scena del voto di scambio nell’elezione del presidente della Regione. Nell’ultimo, invece, che «la camorra è fatta soprattutto di violenza». L’iniziazione del camorrista carrierista avviene attraverso l’assassinio di un uomo riluttante ad accettare un lavoro dal clan per mantenere il figlio disabile: si è permesso di alzare la voce una volta constatato che la paga non corrisponde all’accordo e va eliminato. Si vede il padre accompagnare il figlio alla terapia in piscina, esortarlo a rivestirsi da solo, spingere la carrozzina sulla strada deserta. Dove il sicario lo fredda con un colpo alla nuca. Nella scena successiva il ragazzo è con la madre all’obitorio.

Almeno guardatela, prima.

Anche Rai 1 vuole farci morire camorrologi

Moriremo tutti camorrologi. Oppure mafiologi. Insomma, esperti di criminalità organizzata in tutte le sue sfaccettature. Su Canale 5 è in onda Squadra mobile. Operazione Mafia Capitale, su Netflix è visibile Suburra, mentre lunedì sera è iniziata su Rai 1 Sotto copertura. La cattura di Zagaria, seconda stagione dopo la prima, in due episodi, dedicata all’arresto del boss dei Casalesi Antonio Iovine. Stavolta, per prendere il capoclan latitante da vent’anni, interpretato da un Alessandro Preziosi che fa la faccia feroce, di episodi ce ne vorranno ben otto concentrati in quattro serate (Rai 1, lunedì, ore 21.25, share del 20.22%). I due boss camorristi furono incarcerati a poco più di un anno di distanza tra novembre 2010 e dicembre 2011 al termine delle operazioni guidate dal capo della Squadra mobile di Napoli Vittorio Pisani e dunque ha una sua plausibilità la realizzazione di due serie con lo stesso titolo. Poco dopo l’arresto di Iovine, grazie alle soffiate dei collaboratori di giustizia, prende corpo la pista che porterà alla cattura di Michele Zagaria. Nella fiction, già nel primo episodio gli investigatori lo localizzano nel bunker di Casapesenna, suo paese natale. Ma la strada è ancora lunga perché, sulla base delle dichiarazioni di un pentito, il capo della polizia viene accusato di collusioni con le cosche. Accuse che innescheranno un procedimento giudiziario che si concluderà con la piena assoluzione nel giugno 2015, ma che hanno suggerito alla produzione un’identità di fantasia al personaggio di Claudio Gioè.

I clan camorristici non sono esattamente l’habitat di Lux Vide, incline a stemperare il noir criminale con le vite private dei poliziotti. Uno di loro vuole riconquistare la moglie, un altro ha in animo di lasciare la polizia per dedicarsi di più alla famiglia, il più giovane dei tre è fidanzato con la figlia del capo. Pure i camorristi hanno un cuore e il braccio destro di Zagaria cede al fascino di sua nipote. Ancor meno credibile appare l’intervento in cui Arturo deve piazzare «sotto copertura» una cimice per intercettare il boss nel bunker ma, nel momento di massima tensione, gli squilla il cellulare. Ingenuità a parte, Rai Fiction e Lux Vide sembrano averci preso gusto. Forse nell’intento di saturare il pubblico prima di Gomorra 3. Moriremo camorrologi.

La Verità, 18 ottobre 2017

Dove va a parare la terza stagione di Gomorra

Quando si arriva alla terza stagione di una serie tv, peraltro già molto celebrata dalla critica oltre che baciata dal successo internazionale come Gomorra, non è facile continuare a crescere senza sbilanciarsi e perdere un po’ l’equilibrio. È accaduto a marchi prestigiosi della serialità europea come la britannica Fortitude e la francese Les Revenants che, dopo la stagione d’esordio, hanno esasperato certi toni, smarrendo compattezza narrativa. Anche un titolo come House of Cards, già pericolosamente esposto sul crinale della plausibilità, è atteso al varco dell’incombente quinta annata. Finora la serie tratta da un’idea di Roberto Saviano ha esplorato molte vie della ferocia della camorra con originalità della scrittura, imprevedibilità narrativa e centralità del territorio realizzando il fenomeno della serialità universalmente apprezzato. «Siamo appena tornati dagli screenings di Los Angeles dove sono stati presentati i prodotti della prossima stagione», svela Nils Hartmann, direttore delle produzioni originali Sky, «e dall’insistenza delle richieste dei produttori americani sulla data di uscita della nuova stagione posso dire che esiste un prima e un dopo Gomorra. Con questa serie è cambiata la percezione della produzione italiana e forse anche europea». Per tranquillizzare tutti va detto subito che si tratta di attendere solo fino a novembre, quando decollerà su Sky Atlantic. E, banalmente, dopo le imprevedibili morti di Imma Savastano, moglie di don Pietro nella prima stagione, e di Salvatore Conte, capo della cosca rivale, oltre che dello stesso don Pietro, nella seconda, vien da chiedersi che cosa dobbiamo aspettarci nella prossima. E questo più che per vagheggiare l’escalation di una storia già estrema, per tentare di capire quali strade proverà a perlustrare una serie che ha già notevolmente elevato la qualità della produzione. «Non si tratta d’innalzare il livello della ferocia infiocchettando il racconto o studiando abbellimenti per compiacere il pubblico», sottolinea Claudio Cupellini che, insieme a Francesca Comencini firma i 12 episodi (sei a testa) della nuova stagione. «È vero, a volte, come si legge anche in questi giorni, la realtà è più cruda della peggiore fantasia. Ma noi possiamo solo inseguirla con il massimo impegno, non avendo ancora la capacità di anticiparla». Nebbie dialettiche anti spoiler a parte, comunque nella prossima stagione le novità non mancheranno. Dopo una prima scena in Bulgaria, la contesa tornerà interamente a Napoli, dove le fazioni «dei Talebani», per le barbe arabeggianti dei loro appartenenti, contenderanno il dominio sul territorio ai clan di Genny Savastano (Salvatore Esposito) e del rivale Ciro Di Marzio (Marco D’Amore). Anche un rampollo della Napoli bene rimarrà sorprendentemente affascinato dal potere dei clan camorristici: «È uno studente universitario che può condurre una vita agiata, un personaggio che persegue un’affermazione di sé in ambienti lontani da quelli abituali», illustra Loris De Luna che lo interpreterà. Comunque, si tratta di un «personaggio coerente con tutta la storia», sottolinea Cupellini. «Noi non forziamo le sceneggiature per esigenze industriali. In questo siamo diversi dalle produzioni americane», rimarca Hartmann. «Romanzo criminale l’abbiamo fermato dopo due stagioni perché la storia si era compiuta. Invece, anche se non è facile migliorare lo standard delle precedenti, di Gomorra stiamo già scrivendo la quarta stagione». Se il concept è forte «si può aggiornarlo e ricollocarlo in nuove situazioni», accenna Roberto Amoroso, direttore creativo della fiction Sky. Nella prossima stagione, oltre a un approfondimento interiore dei vari personaggi alla ricerca della consacrazione criminale, il territorio sarà ancora più protagonista che nelle prime due. E questo è «un altro aspetto che ci differenzia dalla serialità americana fatta principalmente di testo e attori che lavorano in studio», osserva Riccardo Tozzi, produttore con Cattleya. «Gomorra allarga lo spettro della visualità, inserendo il realismo del territorio come elemento fondamentale della narrazione». Finora rimasta nella periferia delle Vele e nei quartieri fatiscenti di Scampia e Secondigliano, la guerra di camorra si allargherà a macchia d’olio fino a conquistare il centro di Napoli. Nel quartiere Forcella si girava ieri una scena del quinto episodio, diretto da Francesca Comencini, in cui la cosca di Ciro deve riconquistare una zona abbandonata. L’Immortale – è il suo soprannome – stende la cartina toponomastica della città cerchiando con il pennarello il luogo dove deve esplicarsi l’azione del commando: «Per sopravvivere dobbiamo essere sempre un passo avanti a chi ci sta addosso», ammonisce Ciro. «Ma noi non vogliamo solo sopravvivere», obietta qualcuno. «Questo lo vedremo», lo zittisce il boss. Ora, in conferenza stampa, Marco D’Amore conclude, savianeggiando: «Diamo il benvenuto nella serie a Napoli, nuovo protagonista in tutto il suo splendore e le sue contraddizioni. Consapevoli che Neapolis, città d’origine greca, potrà mettere le basi della sua rinascita solo partendo dalla risposta dei suoi cittadini».

La Verità, 30 maggio 2017 

Santoro a Napoli, oltre Gomorra c’è la realtà

Ancora Napoli? Dopo tutto quello che abbiamo letto e visto in questi anni, da Marcello D’Orta a Saviano, dai film con Toni Servillo alle pièces teatrali fino alla Gomorra televisiva? Ancora Napoli, un’altra Napoli, in questo Robinù, opera prima di Michele Santoro, presentato nella sezione Cinema in Giardino della 73esima Mostra del Cinema di Venezia (ci sarà Napoli anche il 5 ottobre su Raidue, nella prima delle quattro serate con l’ex conduttore di Servizio Pubblico). Per smentire i politici, premier e sindaco De Magistris compresi, usi a ripetere “questa non è Napoli, non è l’Italia” quando si trovano davanti a una fotografia scomoda. O davanti a volti come quelli di questi di baby-boss, protagonisti della “paranza dei bambini” di cui i media non parlano – “l’altro giorno in una piazza ce n’era uno di otto anni che brandiva una pistola”, rivela il giornalista – perché non fanno più notizia, perché rimane una cosa locale, perché si ammazzano tra loro. E allora eccoci dentro i bassi di Forcella, Porta Capuana, i Tribunali, dentro il carcere di Poggioreale e di Airola, enclave criminali abbandonate dalle istituzioni.

Gioventù bruciata a Poggioreale, Michele al centro

Gioventù bruciata a Poggioreale, Michele al centro

Robinù è un tuffo nella realtà cruda di una gioventù carbonizzata. Realtà di adolescenti che hanno come traguardo “mettere paura” alla gente, “più reati fai, più macelli fai, più la gente ti teme” ripetono spavaldi, incoscienti, occhi che brillano. Realtà, non finzione. “Più che i protagonisti di Gomorra, che necessariamente diventano maschere, il modello di questi ragazzi con le loro barbe e le loro acconciature, sono i militanti dell’Isis, il radicalismo nel proteggere il territorio, la sfida continua con la morte, la mitologia del terrore”, analizza Santoro. È una disarmante galleria di adolescenti malavitosi, teorici della via criminale alla maturità che comincia con  il figlio di una guardia carceraria, abbonato alle bocciature, professori e genitori che si arrendono. “Non è che siccome mio padre vive così io non posso scegliere ‘o malamente e devo seguire la sua…”. Il discorso s’inceppa, le parole non vengono, il sorriso è malizioso: “… la sua”. Punto. Un altro sostiene che la carriera camorristica è normale, si può fare il carabiniere, il brigadiere, o il boss, evoluzione naturale del ragazzo di strada. Ma devi cominciare presto “perché se vai in galera a vent’anni, almeno quando esci a 40 hai tutta la vita davanti”. Per continuare a delinquere. Imbracciare ‘o kalash provoca adrenalina come “avere Belén tra le braccia”, esemplifica Mariano in un monologo da brivido.

Mariano, autore di un elogio del kalashnikov

Mariano, autore di un elogio del kalashnikov

Il volto più sconfortante è quello di Michele, ventiduenne con 16 anni da scontare a Poggioreale. Carismatico, irridente, consapevole. Rifiuta l’arruolamento nelle cosche perché vuole essere boss da subito. Poi ci sono i genitori. Madri e padri dilaniati dal dolore. Divorati dai rimorsi, impotenti, commoventi. Altri no. Mamme spacciatrici che finito di cucire il grembiule al bambino iniziano a distribuire ovuli di cocaina. Che ammirano i ragazzi di strada perché affidabili. C’è da fare a botte, ci sono. C’è da controllare il quartiere , ci sono. C’è da uccidere: ci sono sempre. Per la festa di compleanno di Michele si sparano i fuochi d’artificio davanti alle grate del carcere. I neomelodici intonano serenate sotto le finestre di chi è agli arresti domiciliari. Il carcere è tutt’uno con il quartiere. Le gerarchie, le preoccupazioni, lo scorrere del tempo sono uguali. La rassegnazione, l’abbandono delle istituzioni e del mondo adulto sembrano inevitabili. Ma in questo ritratto che Santoro definisce “pasoliniano c’è anche una grande passione per la famiglia e per la vita. In un Paese a crescita zero dove si fanno le campagne per la fertilità, quello è uno dei pochi posti dove si fanno figli con gioia”.

C’è di che riflettere. Santoro riparte da questo lavoro durato un anno e mezzo, realizzato con Maddalena Oliva e Micaela Farruocco, che sarà nei cinema a metà ottobre, distribuito dalla Videa di Sandro Parenzo, anche lui presente in sala. Ci sono anche Alba Parietti che si aggiusta il rossetto, il magistrato di Napoli, John Henry Woodcock, abbronzatissimo, Giulia Innocenzi in abito lungo, Gianni Barbacetto, in smoking, tutti nelle file della delegazione. In sala anche Enrico Ghezzi e Angelo Guglielmi. Si sperava nella presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma non s’è visto. Santoro si augura che la Rai pensi a una prima serata, e che Mattarella, Renzi e magari il ministro della Pubblica Istruzione, Giannini, possano vederlo.

Michele Santoro ha presentato a Venezia Robinù, sua opera prima

Michele Santoro ha presentato a Venezia Robinù, sua opera prima

Nell’ottobre 2013 – permettemi questa digressione personale – scrissi sul blog del Giornale un post intitolato “Caro Santoro, fatti non parole”, dicendo che quell’anno alla Mostra aveva vinto un doc come Sacro Gra, che le chiacchiere dei talk show avevano stancato e le inchieste sul campo avevano un’altra forza. Con un’ironia che difetta a conduttori molto meno blasonati di lui, Michele m’inviò un sms così: “Caro Caverzan, fatti i fatti tuoi”. “Caro Michele, ho fatto solo il mio mestiere”, fu la mia replica. Oggi Santoro è al Lido con un documentario e con una preoccupazione umana, educativa. Diceva D’Orta che i ragazzini si arruolavano nella camorra perché era l’unica proposta credibile in campo. “C’è una sorta di welfare della criminalità, dobbiamo ammetterlo, finora vincente. Ma questi ragazzi hanno energia, passione, fanno figli. A 15 anni sparano nelle strade, a venti sono genitori, a 40, se ci arrivano, sono già nonni. Non possiamo dire che non sono Napoli. Dobbiamo offrir loro una strada, partire dall’educazione. Creare scuole dove non si sentano estranei. È difficile, ma è l’unica strada”. Sostiene Santoro.