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Carofiglio fa centro con il carabiniere melomane

Ecco dov’era finito Gianrico Carofiglio. Non vedendolo da qualche tempo nel salotto giacobino di Lilli Gruber me lo cominciavo a chiedere con un filo di preoccupazione. Possibile che l’ex pubblico ministero di Bari, l’ex deputato Pd, l’ex (speriamo) conduttore di flop televisivi, il docente universitario, il cintura nera VI Dan di karate, lo scrittore di gialli e saggista pluripremiato… possibile che un talento così poliedrico e presenzialista abbia improvvisamente deciso di mollare tutto senza avvisare? Invece lunedì sera Rai 1 ha sciolto i nostri Dilemmi (parlando di flop): stava scrivendo l’adattamento televisivo della trilogia che ha per protagonista il maresciallo Pietro Fenoglio. D’altronde, con quel po’ po’ di curriculum, il nostro è un intero ciclo produttivo. Or dunque, lunedì sono andati in onda i primi due episodi del Metodo Fenoglio intitolati L’estate fredda e ambientati nella Bari dei primi anni Novanta.

Meno indisponente di Rocco Schiavone, meno corale e dinamico dei Bastardi di Pizzofalcone, Il metodo Fenoglio si distingue per la tecnica delle indagini del maresciallo dei carabinieri di origini piemontesi trapiantato in Puglia. Un tipo molto fascinoso. Letterato, amante delle buone maniere e dell’opera che ascolta munito di cuffie anche quando vaga a piedi per la città, è un investigatore che coglie piste da dettagli insignificanti, evita l’uso delle manette, vorrebbe arrestare i criminali servendosi della psiche e non porta volentieri la pistola perché la sua vera arma è l’empatia. Un carabiniere che ha dei trascorsi movimentisti se ora va ripetendo ai suoi impulsivi collaboratori che «la nuova rivoluzione è la pazienza». Insieme a un carabiniere così – magari da magistrato Carofiglio ne ha conosciuto uno con questi tratti – l’altro personaggio forte della serie è Bari, quella del lungomare con i lampioni, quella barocca dei vicoli e delle chiese, quella del porto e delle periferie da far west. Il mix funziona (20,8% di share e 3,8 milioni di telespettatori).

Nell’estate del 1991 l’omicidio di un usuraio rompe la routine della guerra tra bande. Fenoglio (Alessio Boni) e il pm (Giulia Vecchio) sospettano un’escalation del sistema criminale, ipotesi alla quale dovrà arrendersi anche lo scettico colonnello Valente (Francesco Foti) quando, mentre la Sacra corona unita muove i primi passi, il teatro Petruzzelli brucerà in un incendio doloso.

Diretto da Alessandro Casale, la serie è un crime che tiene sullo sfondo la sfera dei sentimenti del maresciallo, della compagna (Giulia Bevilacqua) e della misteriosa pm. Un prodotto seducente e… molto carofigliano.

 

La Verità, 30 novembre 2023

«Il vero rivoluzionario fu il generale Dalla Chiesa»

A differenza di altre opere sugli anni di piombo viste di recente, compresa I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, trasmessa ieri sera da Rai 3, Il nostro generale è «un film», come preferisce chiamarlo Sergio Castellitto, che ti rimane appiccicato addosso. Merito del regista Lucio Pellegrini (e Andrea Jublin), degli sceneggiatori e di tutto il cast nel quale, oltre al protagonista che incarna Carlo Alberto dalla Chiesa, spiccano Teresa Saponangelo (la moglie) e Antonio Folletto (il carabiniere dei Nuclei speciali antiterrorismo). Gli ultimi quattro episodi andranno in onda su Rai 1 lunedì e martedì, ma sono già disponibili su Raiplay.

Sergio Castellitto, quanto conosceva Carlo Alberto dalla Chiesa prima d’interpretarlo?

«Lo conoscevo bene, da cittadino di quegli anni terribili. Ero un attore giovane, allievo dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico a Roma, e nutrivo ammirazione per lui. Perciò, ora, trovandomi a interpretarlo, non ho avuto problemi di conflitto. Nutro ammirazione anche ora per i suoi figli, per il modo in cui hanno difeso, testimoniato e protetto la figura del padre fino a oggi, e per il pudore con cui non hanno mai ceduto al vittimismo che avrebbe potuto prenderli».

Come definirebbe il generale Dalla Chiesa?

«Una persona di stampo quasi ottocentesco, ma che ha saputo essere contemporanea al suo secolo. Trovo significativo il successo che il film ha avuto finora, perché per la prima volta una serie tv racconta che il piombo era quello delle P38, ma anche la pesantezza che avevamo nell’anima».

Perché trova significativa la risposta del pubblico?

«Ho avuto la sensazione di una collettività interessata a ritrovarsi attorno a questo grumo di memoria, quasi un’emotività nazionale, non dico patriottica, oggi parola rischiosa. Nell’approfondire la memoria di quel decennio può esserci la ricerca di un’identità. Forse l’abbiamo rimosso, ma abbiamo vissuto un clima da guerra civile. Ricordo che una mattina, nel breve tragitto per l’Accademia la polizia mi fermò per tre volte, chiedendomi i documenti».

Forse abbiamo rimosso quel clima e anche Dalla Chiesa lo ricordiamo solo per due o tre cose, l’iscrizione alla P2, il secondo matrimonio con Emanuela Setti Carraro e l’agguato della mafia?

«Questa è la narrazione prevalente, non la mia. La vicenda della P2 è stata banalizzata, dimenticando il contesto in cui gli proposero l’iscrizione, quando s’ignorava ciò che sarebbe diventata. In quel momento, Dalla Chiesa era solo e isolato anche nell’Arma dei carabinieri perché i suoi successi ingelosivano. Quanto al fatto di essersi risposato, dopo aver sempre amato teneramente la prima moglie e aver incontrato un altro amore in un momento ancora di solitudine, questo me lo rende ancora più umano e vicino. A proposito della morte tragica, lo ricordo come il generale, non come il prefetto di Palermo. Con il cappello, l’uniforme e un linguaggio che può sembrare retorico quando parla del dovere di difendere la democrazia».

Può essere retorico pensare che un ufficiale dei carabinieri sia un grande servitore dello Stato?

«Non ne sono convinto. Quando un poliziotto, un finanziere o anche un politico sbaglia lo si definisce corrotto. Quando sbaglia un carabiniere si usa la parola infedele. Questa è la differenza. Nell’Arma la fedeltà non è alle regole, ma ai principi che stanno sopra le regole e che lo guidano nei momenti di svolta».

Quando gli chiedono di tornare a Palermo per combattere la mafia?

«Tutti i nuovi incarichi li accetta per senso del dovere, perché non poteva non farlo, per continuare a guardare in faccia i figli. Ricordiamoci che ha vissuto e fatto vivere la sua famiglia in una sorta di reclusione, nelle caserme. La figlia Simona si è sposata in un garage, il funerale della moglie si celebrò in un hangar. Quando va a trovare Patrizio Peci, in carcere, gli dice: “Ho vissuto tutta la mia vita in guerra”».

Guerra è la parola più pronunciata.

«Perché lo è stata. Una guerra che ha segnato non solo gli schieramenti politici di quei giovani, ma i tragitti esistenziali fatti di rimorsi, di pentimenti, di ferite non rimarginabili. Una generazione di italiani è diventata orfana».

Il racconto si snoda nella contrapposizione speculare tra due gruppi di giovani, «i monaci della rivoluzione» e «i monaci di Dalla Chiesa».

«Certo. Teniamo presente che l’idea d’insurrezione armata può essere molto seducente per una generazione che pensava di avere ragione. La lotta contro l’ingiustizia sociale può esprimersi con metodi pacifisti o con la violenza, come avvenne. Anche Dalla Chiesa è stato a sua volta un innovatore. Ha inventato un metodo investigativo, ha capito che serviva una specializzazione professionale, ha dato la giusta importanza alla psicologia, ha riconosciuto dignità all’avversario».

A Peci che gli chiede perché ha fatto il carabiniere, il napoletano Trucido risponde: «Per gli stessi motivi per cui tu volevi fare la rivoluzione, un mondo più giusto dove la gente non deve avere paura dei prepotenti».

«Sono due giovani che si confrontano su un tema che li investe in modo totalizzante. Però, si deve scegliere da che parte stare».

Quando Peci gli dice: «Sei un proletario che ha sbagliato divisa», viene in mente la poesia di Pier Paolo Pasolini su Valle Giulia che vedeva i proletari tra i poliziotti mentre i rivoltosi erano figli di papà?

«Solo uno illuminato come lui poteva accorgersi lucidamente di chi fossero quei giovani, cogliendone le storie esistenziali, oltre l’ideologia e la sociologia. A questo riguardo bisogna ripetere che proprio il generale si è dimostrato un rivoluzionario».

In che senso?

«Facendo il proprio dovere ha pescato i ragazzi del Nucleo speciale secondo i suoi criteri fino a creare con loro una seconda famiglia. Era il loro capo, il capo dell’Antiterrorismo, ma in un certo senso anche un loro padre. E spesso i livelli di coinvolgimento si mischiavano».

Risponde a questa impostazione anche raccontare la storia con gli occhi di un uomo dei Nuclei speciali?

«Direi di sì. È un  punto di vista diverso dal solito. Ci sono i terroristi, le vittime e i sopravvissuti che portano la memoria del dolore che, altrimenti, rischia di essere archiviato. È importante dopo quasi mezzo secolo parlare di quei fatti con distacco, ma senza perdere l’odore delle ferite. Questa storia ricade inconsciamente anche sul carattere dei miei figli perché hanno un padre che ha vissuto quegli anni. I nostri libri di storia si fermano alla Seconda guerra mondiale mentre i decenni successivi restano ancora prigionieri delle polemiche. Soprattutto il decennio dei Settanta, che sono stati anni ciechi; appunto, di piombo».

Nella docu-serie su Lotta continua trasmessa da Rai 3 Erri De Luca dice che i loro, che pure portarono all’assassinio del commissario Luigi Calabresi, erano «anni di rame».

«Il rame si ossida e diventa scuro, assumendo presto il colore del piombo».

Cosa vuol dire che anche in una guerra come quella bisognava avere rispetto dell’avversario?

«Dalla Chiesa parla di rispetto perché dice che i terroristi si comportano anche loro come dei soldati. Anche in termini strategici, rispettare l’avversario vuol dire capirlo meglio e avere così più possibilità di batterlo».

Pur condannando violenza e terrorismo resta la possibilità di una redenzione per chi li ha praticati?

«Alcuni di quei brigatisti hanno fatto un percorso oltre il pentimento. Una volta mi colpì molto Franco Bonisoli, un membro della direzione delle Br che, intervistato da Sergio Zavoli, manifestò tutta la sofferenza e il tragico rammarico per gli atti compiuti, testimoniando la possibilità reale di un cambiamento».

Dopo Giovanni Boccaccio nel Dante di Pupi Avati e Dalla Chiesa cosa dobbiamo aspettarci?

«In questo periodo sono a teatro con Zorro, un monologo scritto vent’anni fa da Margaret Mazzantini, ma attualissimo. È la storia di un uomo che perde tutto e diventa un clochard: la dignità ce la dà la regola della società civile o un atteggiamento interiore? Personalmente, a volte trovo umilissimi contadini pieni di una dignità invidiabile al confronto di grandi intellettuali con i quali non dividerei un pasto».

Dalla Chiesa appare una persona che ha saputo stare in prima linea in un momento tragico ed essere ottimo padre e marito. Oggi è più difficile combinare dimensione pubblica e privata?

«Penso sia più difficile a causa della disintegrazione procurata dalla virtualità apparentemente democratica che ci fa costruire o demolire tutto in un cinguettio di poche battute. Credo che quel nucleo che si chiama famiglia, quell’aggregato di affetti, amore, sangue e anche conflitti sia una necessità fondante. Per me è così. Essendo artisti abbiamo l’opportunità di accedere a codici e strumenti come la fantasia e l’immaginazione, e questo ci aiuta. Lo dico senza fare nessun parallelo con Rita, Simona e Nando che hanno saputo rimanere sentinelle della memoria del padre».

L’ultima volta che ci siamo parlati era critico sulla gestione delle norme per la pandemia. Oggi lo è di meno?

«Spero non si ricominci a chiudere tutto. Paradossalmente, potrebbe aiutarci a evitarlo il meccanismo dei media secondo il quale, appena c’è qualcosa di più importante, come oggi sono le accise e il caro bollette, anche i problemi di salute passano in secondo piano».

Vorrebbe una revisione critica maggiore degli anni che abbiamo vissuto?

«Più onesta e più critica. Io sono iper-vaccinato, ma non approvo l’atteggiamento punitivo al quale ho assistito verso chi non voleva sottoporsi ai protocolli. Uno Stato che punisce chi non sta dentro una regola sanitaria non mi appartiene. Sì, vorrei una revisione maggiore. Una delle notizie che mi ha stupito di recente è che lo Stato paga un milione di euro al mese a chi deve mantenere nei magazzini le mascherine rivelatesi fuori norma. Siamo precipitati dentro un girone kafkiano».

Che cosa le piace e che cosa no dell’Italia di oggi?

«Mi piace il fatto che, alla fine, gli italiani trovano sempre da qualche parte risorse per avere fiducia nel futuro».

 

La Verità, 14 gennaio 2023

«Chef Rubio farebbe bene a rileggersi Pasolini»

Rita Dalla Chiesa è nata e vissuta in caserma, con la sua famiglia e il disprezzo per le forze dell’ordine non lo tollera. Ben oltre la polemica con chef Rubio – per il quale le colpe dei fatti di Trieste sono di «un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente» – «la figlia del generale» torna sull’argomento con grande lucidità. Ma qui, purtroppo, non siamo dentro un film con John Travolta.

Perché c’è questo disprezzo nei confronti delle forze dell’ordine?

Non l’ho mai capito. Ho vissuto il Sessantotto, ho visto gli sputi e le monetine contro i militari. Siccome erano figli del sud e si mantenevano facendo i carabinieri o i poliziotti, quello stipendio era considerato una forma di assistenzialismo, l’equivalente del reddito di cittadinanza di oggi. Mi sembra di vedere una scia di ex terrorismo.

In che senso?

Risuonano le stesse parole degli anni di piombo: due di meno, due sottoterra… Anche quando hanno ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega a Roma…

È frutto di una cultura precisa?

Temo di sì. Una persona che si rivolge a un poliziotto o a un carabiniere lo fa perché da loro si sente protetta. Lei era bambino, io ricordo gli sputi e le urla al funerale di Antonio Annarumma. Ora passo per fascista perché difendo le forze dell’ordine, ma io le difendo come loro difendono noi cittadini.

Chef Rubio è un caso estremo o esprime una mentalità diffusa?

Diciamo che è un caso non così estremo come vorrei che fosse.

Si pensa che poliziotti e carabinieri siano inetti e approssimativi?

Se fosse così non ci sarebbero tutti gli arresti che ci sono e le carceri sarebbero vuote. Nessuno considera che si pagano i corsi di aggiornamento e che non possono usare le manette anche quando colgono un delinquente in flagrante perché sarebbero additati come torturatori. Viviamo in un Paese più preoccupato di difendere i delinquenti di chi cerca di assicurarli alla giustizia.

Come giudica lo scandalo della benda sugli occhi di uno dei due accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello?

Quando arrivarono i genitori di quel ragazzo dall’America il gregge, come lo chiamo io, si è dimenticato che era morto un uomo e che sua moglie era vedova. E si è preoccupato della benda: poverino quel ragazzo… Peccato che avesse appena collaborato all’uccisione di un poliziotto.

Se poliziotti e carabinieri reagiscono sono fascisti, se non reagiscono sono incapaci e se muoiono sono impreparati?

Sono nata e vissuta in caserma, so cosa c’è dietro le divise, i turni di notte, i natali passati in servizio. Li ho visti tornare con le divise strappate… Li vedo anche ora quando quelli che vengono fermati, magari giovani col macchinone, li guardano con sufficienza.

Però la tragedia di Stefano Cucchi non ha giovato alla stima verso le forze dell’ordine.

Certo. Anche quello che è successo nella scuola Diaz al G8 di Genova: sono fatti terribili dei quali vergognarsi e me ne vergogno io per prima. Ma grazie a Dio sono episodi, non la normalità. I nostri militari erano odiati anche prima di Genova e di Cucchi.

Rubio dovrebbe rileggere la poesia scritta da Pier Paolo Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia nel 1968 in cui simpatizzava per i poliziotti, «figli di poveri»?

Certo. E non solo quella. Anche certe lettere di mamme e di poliziotti che ricevo spesso. O un articolo di Antonio Ruzzo sul Giornale che raccontava gli stati d’animo dei militari disprezzati per la divisa.

Il fatto che percepiscano stipendi modesti e lavorino con attrezzature obsolete dimostra che si sottovaluta l’importanza del loro compito?

Non so come le istituzioni possano farlo. Mancano i soldi per la benzina e per i giubbotti antiproiettile e certe missioni si trasformano in una roulette russa. Se ci sono sette giubbotti e capita all’ottavo di essere colpito?

Un uso maggiore delle manette darebbe più sicurezza?

Per la cattura in flagrante dovrebbero scattare in automatico. Le manette non servono per umiliare, ma a proteggere chi compie azioni di polizia. Trovo che le forze dell’ordine siano poco supportate dai cittadini che le vedono come una realtà separata e dallo Stato che si gira dall’altra parte. Salvo poi fare un uso smodato delle scorte.

Spieghi.

Quando fa comodo si ricorre a questi uomini per salvare la pellaccia di potenti o presunti tali. Ma quando emerge la necessità di attrezzature adeguate, si gira la testa dall’altra parte. E se lo facessero i poliziotti nel momento del pericolo?

Come valuta la revoca della scorta al capitano Ultimo?

Non capisco come le autorità si siano potute rimangiare quanto già deciso dal Tar del Lazio a giugno. Non capisco questo accanimento contro un ufficiale dei carabinieri al quale dobbiamo molto. C’è qualcosa che non mi torna. Non mi sembra che la mafia faccia sconti a nessuno. Perché non si prendono sul serio le minacce di cui è oggetto? Mica passano in giudicato o vanno in prescrizione…

Cosa pensa del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni condannata a 21 anni per l’omicidio di Massimo D’Antona?

So bene com’erano quegli anni, quando mio padre ha combattuto le Brigate rosse… È giusto che quando una persona ha pagato il suo conto con la giustizia deve potersi rifare una vita. Ma chi si è messo contro lo Stato ora non può chiedere aiuto allo Stato. Non ci sto.

 

Panorama, 16 ottobre 2019

 

 

«Salvini o Renzi? Meglio il doppio forno»

«Certo, siamo contenti di come sono andate le amministrative. Ha visto Toti? È uno dei nostri, è uscito da Mediaset, ha lavorato bene». Fedele Confalonieri è di buonumore. Tra qualche minuto inizierà la presentazione di Storie in divisa, la nuova docuserie targata Mediaset, da martedì prossimo in onda su Canale 5. E le alte cariche non sono ancora arrivate.

Quindi la formula Toti e l’alleanza con la Lega la convince.

«È stato un buon risultato, non le pare?».

Certo, tanto più che Genova e la Liguria hanno una tradizione di sinistra…

«Invece, se si lavora bene… Niente è scontato. Adesso bisogna pensarci».

Pensare a Salvini?

«Lavorare con lui non è facile».

Lei preferisce l’alleanza con Renzi?

«Alleanza… Meglio parlare di accordo. Un accordo finalizzato alla legge elettorale».

E quindi Renzi la ispira di più?

«Non lo so. La politica è così. Berlusconi può pensarci, valutare. Sa come si diceva una volta?».

Dica.

«Si parlava della politica dei due forni».

Epoca democristiana.

«Avere due opportunità è una posizione forte».

Ma Renzi secondo lei è affidabile?

Arrivano le alte cariche. Oltre al presidente Mediaset, a firmare l’operazione, c’è il comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. E poi, ecco ospite gradito ai vertici della tv commerciale e dell’Arma, anche il procuratore di Milano Francesco Greco. Foto di rito. Congratulazioni reciproche. Squadra dei Carabinieri impettita. Per oltre 200 ore di riprese le troupe dirette da Roberto Burchielli hanno «pedinato» brigadieri, marescialli e appuntati del Comando di Rho, filmando le azioni sul campo, gli interventi nella vita quotidiana, l’assistenza ai cittadini, nell’intento di aumentare il grado di sicurezza della popolazione. A volte «c’è differenza tra sicurezza reale e sicurezza percepita», argomenta Del Sette. In realtà, «negli ultimi anni gli omicidi e i grandi crimini sono diminuiti, almeno quelli provenienti dagli appartenenti alla comunità italiana. Eppure si ha la sensazione di essere meno protetti. Questo avviene perché siamo diventati giustamente più sensibili a tutto ciò che riguarda la nostra tranquillità quotidiana». Confalonieri ammette di aver presenziato a un’infinità di conferenze stampa, ma poche erano impegnative e di qualità come questa. Il tema della sicurezza dei cittadini sta a cuore anche a lui. A volte certe fiction mitizzano il ruolo dei criminali e romanzano il lavoro delle forze dell’ordine. «Qualche volta mia moglie mi critica: “Mostrate sempre delitti, notizie di cronaca nera, mariti che uccidono”. Ma sono cose che accadono, che fanno parte della realtà. Raccontare la realtà invece è compito nostro. Per fortuna fa parte della realtà anche l’impegno dell’Arma». Se dopo i Carabinieri verranno storie con altre divise dipenderà dall’audience. «Intanto, abbiamo cominciato dall’Arma: io mi chiamo Fedele, potevamo fare diversamente?», scherza Confalonieri visibilmente contento di questa produzione. «La sicurezza è un tema molto sentito. A volte i media, anche le nostre televisioni, danno la sensazione che ce ne sia poca, troppo poca. Ma non sempre è così».

Presidente, siamo stati interrotti sul più bello…

«E qual era?».

Renzi è affidabile?

«Sì, sì».

L’altra volta, col primo Nazareno, non lo è stato.

«Si sa com’è la politica. È volubile. Ogni giorno cambia».

Meglio poter scegliere?

«Esatto. Una volta è meglio fare in un modo, un’altra in un altro. Vediamo».

E cosa dice del nuovo Milan? Andrà ancora allo stadio?

«Certo. Perché no. Tranne quando fa freddo».

E la serie 1993 l’ha vista?

«No».

Ma parla di Tangentopoli e anche di voi.

«Lo so. Ma non le guardo mai quelle serie».

 

La Verità, 14 giugno 2017