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«Cara Egonu, Vannacci non dice nulla d’offensivo»

Buongiorno Sylvie Lubamba, l’ha chiamata il generale Roberto Vannacci?

«Non ancora».

Ma vi siete scambiati i contatti.

«È appena una settimana che ci siamo conosciuti».

Spera davvero di fargli da portavoce?

«Perché no? Sebbene i media stiano cercando di trasformare un incontro tra due persone affini in un flirt».

Invece lei vorrebbe entrare nel suo staff?

«Mi piacerebbe. Le persone vanno conosciute prima di giudicarle e Vannacci l’ho ascoltato tre ore senza perdere la concentrazione, il che depone a favore della sua ascesa politica. Di solito, quando vado a un incontro pubblico, dopo un quarto d’ora la mia mente viaggia altrove e mi metto a rispondere ai messaggi arretrati. Con Vannacci non è successo».

Miracoloso, il generale.

«Mi succede anche con Vittorio Sgarbi e Morgan. Li ascolterei per ore. La comunicazione è importante, saper catturare l’attenzione dei presenti è una dote che hanno pochi politici. Li manderei tutti a scuola di comunicazione da Sgarbi, Vannacci e Morgan».

È andata alla presentazione del Mondo al contrario che immagino non abbia letto, ma l’autore l’ha conquistata?

«Ho letto solo alcuni stralci e anticipazioni. Mi aveva colpito il passaggio su Paola Egonu che è italiana pur non avendone i tratti somatici. Come me».

Ci è andata per metterla in fuori gioco dopo che lo ha denunciato per istigazione all’odio?

«Proprio per metterla “fuori gioco”, non so se ci sono riuscita. Paola potrebbe essere mia figlia, perciò la invito amorevolmente a leggere meglio e a comprendere il significato della frase».

Cioè che nei suoi tratti non si riconoscono origini italiane.

«Noi apparteniamo alla razza negroide, non siamo caucasici. È talmente palese che non c’è da offendersi».

Razza negroide si può dire?

«Sì, o razza africana».

Negroidi deriva da negro che è vietato.

«Ma è italiano corretto».

Clint Eastwood lo usa nei suoi film.

«È un attore che non seguo».

Troppo vecchio?

(ride) «In Italia, il conformismo ci impedisce di parlare di negri. Ma il mio invito alla Egonu è a non farsi strumentalizzare perché è tutt’altro che stupida. So che le sensibilità sono diverse. Noi negri ci siamo sempre sentiti dire che non siamo uguali, perciò certe parole feriscono. Lei si è sentita offesa da quella frase e ha denunciato il generale, ma il giudice ha archiviato la denuncia».

Vannacci è stato contestato anche perché ha raccontato che da bambino toccava la mano di un coetaneo nero per capire se la sua pelle era diversa.

«È successo anche a me alle elementari, dov’ero l’unica negra. Mi toccavano la manina o il braccio. Invece, alle medie e alle superiori il sedere o il seno».

E non reagiva?

«Certo che sì. Come fanno le femminucce: “Ma che fai, cosa stai facendo?”».

Non andava dai professori?

«Non ero una spiona, me la vedevo da sola. Anche perché era una cosa talmente fugace…».

Da Vannacci è andata per farsi un po’ di pubblicità?

«Forse sì. Il mio intento era conoscerlo e confrontarmi con lui. Immaginavo che la mia presenza non sarebbe passato inosservata, anche perché, come a scuola, ero l’unica negra».

Anche al concorso di Miss Italia lo era.

«Ho fatto da apripista. Quattro anni dopo vinse Denny Méndez che ho ritrovato in seguito nel reality La Talpa condotto da Paola Perego su Italia 1».

Ha ragione David Parenzo a dire che è una «simpaticissima svalvolata»?

«Sì, però scriviamolo molto virgolettato. Non ho mai creato problemi al mio prossimo né alle carriere delle persone che frequento nell’ambiente della politica, della finanza. E anche dell’esercito, adesso».

Che cosa le piace del generale?

«Il suo eloquio, ha un lessico e una grammatica impeccabili. E come affronta i dibattiti, botta e risposta. Non tutto è condivisibile, ma bisogna riconoscergli un eloquio sofisticato e aulico».

Però. Credevo subisse il fascino della divisa e dei concetti virili.

«Ci stavo arrivando. È affascinante. Questo insieme di cose lo rende un uomo estremamente attraente».

Auspica che si candidi alle Europee?

«Auspico che faccia la scelta che lo porti a crescere come uomo di potere. Per me ha tutte le caratteristiche per entrare in politica meglio di tanti che già ci sono».

Se si candiderà andrà a votare altrimenti no?

«Non avevo intenzione di farlo, ma se si candidasse lo voterei e, dopo tanti anni, farei il mio dovere di cittadina italiana».

Di solito va alle presentazioni di libri?

«A volte, ma la mia presenza alla presentazione di quello di Ilary Blasi non ha destato questo scalpore. E nemmeno a quello di Gerry Scotti o di Rita dalla Chiesa». (ride sonoramente)

Per presenziare da Vannacci ha pagato 30 euro per l’ingresso?

«No, ero ospite».

Di chi?

«Di Mirko Gargiulo, il fotografo titolare dello showroom molto raffinato dove si è svolto l’evento».

Che cosa le piace e che cosa non le piace dei politici italiani?

«Della maggior parte non mi piace proprio l’incapacità di catturare l’attenzione. Meno male che abbiamo un premier che non è così».

Invece, una cosa che le piace?

«Il fatto che ricoprono ruoli di potere, uno status che mi ha sempre affascinata. Poi bisogna conoscere le singole persone, come in passato mi è accaduto».

Mi svela qualche frequentazione importante?

«Mi sarebbe piaciuto averne. Il rapporto di amicizia non è mai sfociato in rapporto professionale, forse per una forma di pregiudizio».

Di tipo razziale?

«No. Se una persona ha qualche piccolo muro, appena mi conosce cade subito. Un freno può sussistere perché sono una donna intraprendente e allegra e magari si preferisce una collaboratrice più sobria e meno appariscente. È un peccato… Ha visto cos’è accaduto a Luca Morisi, il portavoce e social media manager di Matteo Salvini. Era bravo e capace, io l’avrei tenuto. Ognuno nella vita privata può fare quello che vuole».

I politici temono che la sua presenza li metta in ombra?

«A Markette su La7 Piero Chiambretti mi chiedeva sempre: “Signora Lubamba lei è scura e oscura?”. Forse aveva ragione».

Attualmente cosa sta facendo?

«Lavoro in radio da quattro anni. Sono innamorata della radio, ma il primo amore rimane la tv».

Che radio è e che programma conduce?

«Il programma s’intitola Spaghetti e gossip e va in onda tutti i venerdì dalle 20 alle 22, su TOradio».

Un partner con cui vorrebbe lavorare?

«Non nego che mi piacerebbe tornare a creare la sinergia indimenticabile che c’era con Chiambretti. Quando vado al supermercato o in tram mi chiedono spesso quando si riformerà la coppia».

Poi ha lavorato con Mario Giordano a Lucignolo.

«Stavo benissimo anche con lui. Facevo l’inviata d’assalto, la provocatrice senza pietà, ruolo perfetto per me». (ride di gusto)

La tv oggi si fa con gli agenti, lei ce l’ha?

«Ho l’ufficio stampa, non sempre basta».

Con la giustizia italiana è tutto a posto?

«Sono passati dieci anni dall’arresto e sette dalla scarcerazione. Tutto abbondantemente superato».

Tutto iniziò per delle carte di credito false?

«Dobbiamo parlarne ancora?».

Come ricorda il momento di quando, detenuta a Rebibbia, durante la Messa in Cena domini, papa Francesco le lavò i piedi?

«Era giovedì santo, 2 aprile 2015, una data indimenticabile per me. Sebbene siano passati nove anni sono ancora incredula di aver avuto un contatto così intimo con uno degli uomini più potenti del mondo come papa Francesco. Gli ho dedicato un capitolo nel mio libro (Lubamba. La mia libertà oltre lo sbaglio e le sbarre ndr)».

Cosa scrive in questo capitolo?

«Racconto le emozioni e lo scambio di sguardi tra me e lui, anche perché non c’è stato un dialogo. Era una funzione religiosa, terminata la quale il Papa è andato via. Però nel suo sguardo ho percepito l’incoraggiamento di un papà che dice alla figlia di non rinunciare ai suoi progetti e che si può ricominciare. In fondo, la Pasqua è il giorno in cui tutto si azzera e ricomincia».

Che esperienza è stata il carcere?

«Faticosa e molto brutta. Ma sopportabile. Ho scelto la via del perdono e non del rancore. Ho seguito lo studio biblico, dedicandomi anche alla preghiera e seguendo gli insegnamenti suggeriti dalla Bibbia. Quando sono finita a Rebibbia mi ero rassegnata a dimenticare il mondo dello spettacolo. Invece, la visita del Papa mi ha spinto a rimettermi in gioco. Ho scritto il libro e l’ho presentato in tutta Italia».

Hanno tolto anche a lei il reddito di cittadinanza?

«Dal primo gennaio 2024».

Va avanti bene lo stesso?

«Diciamo di sì. Era una boccata d’aria».

Adesso ha l’orgoglio di essere indipendente?

«Avevo i requisiti per chiederlo».

Ma ora è contenta di farcela da sola?

«Il reddito mi permetteva anche di dare una mano alla mia numerosa famiglia. Ho fatto dieci puntate ospite di Barbara D’Urso a spiegare tutto, perché mi attaccavano…».

Cosa pensa del fatto che a Barbara d’Urso non è stato rinnovato il contratto a Mediaset?

«In passato è successo anche ad Antonella Clerici, ad Alessia Marcuzzi, a Nicola Savino… Il mondo dello spettacolo è tanto bello quanto precario. Un giorno ci sei, il giorno dopo no».

Cos’ha fatto per la Giornata della donna?

«Ho partecipato al convegno alla Camera dei deputati sulla sindrome Pandas (Pediatric autoimmune neuropsychiatric disorders associated with streptococcus infections ndr), una malattia rara autoimmune. Si è parlato dell’esperienza di Nicole Minardi, con parecchie personalità ed esperti».

Il patriarcato è ancora difficile da sconfiggere?

«La strada è lunga».

Come si manifesta?

«È intrinseco nell’educazione famigliare. Nel mio Paese di origine è ancora peggio. Si parla di genitore 1 e genitore 2, una cosa assurda. Il genitore 1 è sempre il padre e moglie e figli devono obbedire».

Se si continuasse a scrivere padre e madre sarebbe tutto più semplice?

«Forse. Le quote rosa in politica e magistratura qualcosa stanno facendo. Ma un giorno sì e uno no viene uccisa una donna».

In molti casi i femminicidi avvengono quando la donna decide di lasciare il compagno che non lo accetta e ricorre alla violenza. Questo è un uomo forte o debole?

«È un padrone fragile».

E della mascolinità tossica cosa pensa?

«Cos’è? In Italia, a Firenze e a Milano, tutta questa mascolinità opprimente non l’ho subita. Forse sono stata fortunata».

A cena con Matteo Salvini o Giuseppe Conte?

«Con Conte che non conosco, ma so che quando insegnava all’università di Firenze era molto amato dalle sue alunne».

Con Massimo Giletti o Marco Travaglio?

«Con Travaglio perché è un altro che cattura l’attenzione e quando lo vedo nei talk show mi soffermo».

Un compagno vero se lo troverà o resterà una simpaticissima svalvolata?

«Auspico di trovare un compagno fisso con il quale formare un giorno una famiglia».

 

La Verità, 9 marzo 2024

Il fascino distopico del Re del carcere di frontiera

È una storia senza cornice quella che si racconta in Il Re, la nuova serie Sky Original interpretata da Luca Zingaretti, diretta da Giuseppe Gagliardi e prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment con Wildside e la collaborazione di Zocotoco. Siamo dentro il carcere di San Michele, un istituto di frontiera sebbene sul mare, dove vengono rinchiusi i peggiori criminali. Più sono pericolosi e più Bruno Testori, il direttore, li accoglie volentieri. Dentro c’è di tutto, spacciatori, uxoricidi, criminali comuni, islamici, nigeriani, trans… L’uccisione del comandante delle guardie (Giorgio Colangeli), migliore amico di Testori, mette in pericolo lo strano equilibrio su cui si regge la vita del carcere. Qualche giorno dopo viene trovato impiccato anche il detenuto più influente, un ergastolano alleato del direttore. Inevitabile l’apertura di un’inchiesta affidata al pubblico ministero Laura Lombardo (Anna Bonaiuto) che inizia subito a sospettare l’esistenza di «un sistema». Troppe cose non tornano: la vita tutto sommato comoda di alcuni galeotti, l’omertà delle guardie negli interrogatori, il comportamento poco collaborativo del direttore. Ostacolare il lavoro della giustizia è un reato, lo avverte il magistrato. Della vostra giustizia che identifica la persona con il male che ha compiuto senza conoscerne la storia e le motivazioni non so che farmene, è la risposta. La verità è che «il re» governa il suo regno con metodi a loro volta fuori dalla legge. Gestisce il racket dello spaccio, ricatta i detenuti per averne informazioni, muove i fili delle guardie carcerarie promuovendo inaspettatamente l’unica donna (Isabella Ragonese), vigila su tutto ciò che avviene nelle celle con un sofisticato sistema di telecamere e cimici. Il pericolo maggiore sembra nascondersi nel gruppo di detenuti di stretta osservanza musulmana. L’idea del controllo diventa ancora più ossessiva dopo l’uccisione dell’amico. Ma il prezzo è la crisi del rapporto con la moglie (Barbora Bobulova), funzionaria dei servizi segreti, compensata solo dall’empatia che invece scorre con la figlia (Alida Baldari Calabria).

Cupa, claustrofobica e violenta, Il Re è una serie che si snoda in un luogo e in un tempo sospesi, priva di riferimenti storici o geografici esterni. La dimensione di onnipotenza, una sorta di prigione psicologica nella quale vive il direttore del carcere interpretato da Zingaretti, lontanissimo dal personaggio rassicurante di Salvo Montalbano, ne fa quasi una serie distopica.

 

La Verità, 27 marzo 2022

«Io, fondatore dei Pac, cambiato dal perdono»

Di Arrigo Cavallina colpiscono i toni sommessi e la riluttanza a dare giudizi definitivi. Forse è il suo modo di restituire lo sguardo misericordioso di cui egli stesso è stato oggetto non solo nei lunghi anni di carcere. Non era così il fondatore dei Pac (Proletari armati per il comunismo), il gruppo terroristico nel quale arruolò Cesare Battisti, quando lo conobbe Cesare Cavalleri, suo professore di ragioneria a Verona. Era il 1964 e i due già litigavano, stimandosi. Iscritto alla Fgci e contemporaneamente all’Azione cattolica, il ragazzo; membro dell’Opus Dei e fondatore delle edizioni Ares, il docente. Dopo il diploma, le loro strade si separarono. Il prof. tornò a Milano e Cavallina s’immerse nella clandestinità. Vent’anni dopo, l’arresto per l’inchiesta «7 aprile» li riavvicinò. Appresa la notizia, Cavalleri scrisse all’ex allievo recluso a Rebibbia: «Sappi che non sei solo». Ne scaturì una corrispondenza durata oltre trent’anni e ora resa pubblica con il titolo Il terrorista e il professore – Lettere dagli anni di piombo & oltre (Ares edizioni). Soprattutto, ne scaturì un’amicizia grandiosa e radiosa, fatta di visite in carcere, presenza ai processi, aiuto concretissimo. Senza aver partecipato ad azioni di sangue, Cavallina detiene il primato di carcerazione preventiva, 11 anni dei 22 comminati, poi ridotti a 12 per indulto e buona condotta. Tornato in libertà, insieme alla moglie, Elisabetta Antolini, si dedica al volontariato fra i carcerati con l’associazione La Fraternità.

Nella prefazione al libro Michele Brambilla sottolinea il mezzo del rapporto con Cavalleri: «Lettere, fogli bianchi scritti a macchina o a mano, imbustati e affrancati e poi spediti…». Se negli anni Ottanta ci fosse stata la posta elettronica per lei che cosa sarebbe cambiato?

«Con la velocità di oggi sarebbe stata una corrispondenza meno ponderata e sofferta. Una lettera scritta a penna o a macchina costringeva a pensare un po’ di più. Poi c’era l’attesa della risposta… Erano riflessioni più meditate».

Il libro s’intitola Il terrorista e il professore: almeno un ex davanti ci poteva stare

«All’inizio non volevo che fosse usata quella parola. Il terrorismo colpisce vittime indiscriminate, come nei casi delle bombe di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia o dell’Italicus. Poi il termine è entrato nell’uso comune, perciò ho accettato di definirmi terrorista o ex terrorista, anche se non sarebbe corretto».

Che possibilità c’è per chi ha praticato la lotta armata di costruire un futuro non definito dal passato?

«Anche il passato non è definito dal fatto di essere stato terrorista e, nel mio caso, ancor meno assassino non avendo mai ucciso. La persona ha una sua complessità. Perciò non sono d’accordo nel dire che una persona è un terrorista, e basta. Quella persona è quella cosa, ma è anche quell’altra e quell’altra ancora».

Ai Pac da lei fondati si aggregò il delinquente comune Cesare Battisti. Chi è per lei Cesare Battisti?

«Era un ragazzo conosciuto nel carcere di Udine con la voglia di cambiare le cose che soffiava nell’area comunista. Successivamente venne a chiedermi d’imboscarlo perché era ricercato. Lo aiutai e ci frequentammo, finché aderì alla banda nascente orientata ad azioni contro il sistema carcerario».

Tra le quali non c’era l’omicidio di Pierluigi Torregiani.

«Lo dico con grande vergogna: noi pensavamo che una fascia di emarginati che rifiutavano la legalità, criminali dunque, fosse potenzialmente vicina alle nostre istanze. Si volevano colpire le persone che, come Torregiani e Lino Sabbadin, avevano osato difendersi dai rapinatori, nostri alleati in carcere. Era una mostruosità, con la quale non c’entro perché avevo già lasciato i Pac».

Nei quali ha militato dal 1978 al?

«1978. Eravamo anche amici oltre che combattenti. Progressivamente non mi riconoscevo e non partecipavo. In questa posizione di dissenso sono arrivato ai primi mesi del 1979, non più di un anno in totale. Non ci fu un atto formale di uscita».

Che cosa di preciso le fece prendere le distanze?

«Alla base delle tesi dei Pac come le avevamo formulate io e Luigi Bergamin, mio caro amico ora in attesa di estradizione dalla Francia, c’era la critica alla dittatura della merce. Non pensavamo di conquistare il potere come le Brigate rosse, ma di renderci padroni della nostra vita. Anche oggi siamo in un sistema di bisogni indotti, allora associavamo a questa constatazione una visione marxista. L’uso delle armi doveva restare un fatto minore».

Che cosa la fece allontanare?

«Quando rapinarono delle armi vidi alcuni militanti giocarci felici. Per loro l’arma era una cosa bella, per me una necessità tristissima».

Cosa suscitò in lei la prima lettera di Cavalleri?

«Grande stupore. Ero contento di aver ritrovato una persona che stimavo. Mi colpì così profondamente che gli risposi aprendogli il cuore».

Ma scrivendo: «Leggo con un’insanabile riserva mentale».

«Dopo aver sbagliato abbracciando un’idea totalizzante, avevo forte timore di ripetere lo  stesso errore aderendo a un’altra certezza».

Guardare il proprio passato «come in uno specchio rotto» nel quale non ci si riconosce è l’effetto dell’ideologia?

«Quando mi chiedevo che cosa c’è all’origine del mostro, di quello che non mi andava di me stesso, l’ideologia era la risposta che mi davo. Ideologia è una parola piena di significati, ma se vogliamo condensare è quella giusta».

Come superare «lo scandalo di me che mi riempie»?

«Continuavo a chiedermi: nel processo si può essere sinceri? Posso dire quello che non è vero ai fini della difesa processuale? Posso reggere il peso della menzogna davanti alle persone a cui voglio bene e che mi aiutano? Alla fine ho concluso che m’importava di più essere me stesso. E il processo vada come vada».

È molto duro il suo giudizio sul pentimento che si traduce in meno carcere per il collaboratore di giustizia a fronte di più carcere per altri terroristi.

«È un giudizio duro sul pentimento come calcolo, ma non sempre è questo. Bisogna capire le debolezze e le motivazioni. Ci sono persone che hanno detto cose vere. Approvo la rivelazione che impedisce ad altri di continuare nel reato ed evita la soppressione di altre vite».

Nell’impegno per la dissociazione, oltre il dualismo tra irriducibili e pentiti, quale risultato è stato più importante?

«Essere riusciti a far passare l’idea che una pena retributiva, rendere male per male, induce alla menzogna. Possiamo fare l’esempio di Cesare Battisti. Noi sosteniamo un valore riparatorio della pena. Se so che per ciò che ho fatto non mi viene restituito altrettanto male, non ho difficoltà a riconoscere la verità. La pena riparativa può essere un aiuto a ricostruire una nuova identità».

Perché nella cronologia degli anni di piombo compare l’incontro in carcere tra Giovanni Paolo II e Ali Agca?

«Ciò che Giovanni Paolo II ha fatto e detto è stato importantissimo per me. Il tema del perdono è centrale anche nella corrispondenza con Cavalleri. Nel discorso ai detenuti di Rebibbia il Papa affermò la dignità compiuta di ogni persona. Fu sconvolgente: per gran parte della magistratura e del sistema carcerario noi coincidevamo con i nostri reati».

Chi avversava il movimento per la dissociazione?

«Il maggior riconoscimento è venuto dagli ambienti cattolici. Le figure della riconciliazione sono state Giovanni Paolo II, il cardinal Carlo Maria Martini, monsignor Luigi Di Liegro, il cappellano di San Vittore e don Matteo Zuppi, allora pretino della comunità di sant’Egidio».

E le resistenze?

«Erano maggiori da parte comunista. Anche se Leda Colombini e Angiolo Marroni, vicepresidente della regione Lazio, aiutarono a costruire un ponte tra società e carcere».

Nelle corti giudicanti e in genere nella magistratura?

«Noi pensavamo che dietro le posizioni più dure, come quelle espresse nel teorema Calogero, ci fosse il Pci. Ma forse c’entravano le persone più che l’appartenenza».

In risposta a una delle prime lettere di Cavalleri che le suggerisce la necessità di un confronto con un Giudice che contempla il perdono lei sottolinea di non avvertirne il bisogno.

«Poi, invece, è diventata la cosa più importante su cui ho riflettuto. Ci ho fatto la tesi di laurea e scritto un libro. È l’argomento di cui cerco di parlare quando vado nelle scuole».

Cavalleri la invita a confessarsi dicendo che la verità esistenziale la aiuterà ad affrontare quella processuale. Non trovava troppo insistenti queste esortazioni?

«Al contrario, le ho stimate perché erano dimostrazioni di affetto. Da un lato era giustamente insistente su ciò che secondo lui era il mio bene. Dall’altro mi diceva di sentirmi libero nell’aderire o no. È stata una bella lezione, l’antitesi del settarismo».

Il suo blocco riguarda soprattutto il sacramento della confessione: che cosa glielo fa superare? Nel libro non lo esplicita…

«Non voglio avvalorare l’idea della conversione come spartiacque, o di qua o di là. La conversione è una ricerca con delle certezze. La prima delle quali è la persona di Gesù Cristo: questa è la strada che voglio percorrere».

Riferendosi a Cavalleri, scrive: «Qualcuno deve volermi molto bene per avermi mandato uno come te».

«Me lo dico spesso, non solo a proposito di Cesare, ma anche di mia moglie Elisabetta».

Molti ex terroristi hanno trovato nella Chiesa un interlocutore per il proprio cambiamento. Chi ha coagulato l’intellighenzia degli appelli ha scelto di restare nel territorio dell’ideologia?

«Ognuno ha scelto una propria strada. Alcuni hanno cercato un significato profondo e altri sono rimasti più in superficie, parliamo di un movimento di migliaia di persone. Una certa intellighenzia ha creato una rete di solidarietà, anche questo può essere un calcolo. Tuttavia, non possiamo sapere se uno, dentro di sé, è cambiato. Molti di coloro che si sono rifugiati all’estero hanno cercato di presentarsi come perseguitati politici e di non ammettere reati gravi per non rischiare l’estradizione».

Perché a suo avviso in Italia il Sessantotto è durato alcuni decenni?

«L’ho vissuto poco, per me il Sessantotto era già in ritardo, non lo vedevo come una liberazione. La cosa che mi colpisce di più è la pretesa del marxismo: un’ideologia durata un secolo che, appena ha provato a misurarsi nelle sue conseguenze con la realtà, è crollata».

 

La Verità, 18 settembre 2021

«Dopo lo choc la Chiesa riparte dal carcere»

Il clangore del cancello echeggia nel lungo corridoio con dipinti alle pareti. Non sembra una galera. I secondini confabulano e ridono tra loro. All’ingresso hai già depositato cellulare, portafogli e chiavi, ma adesso c’è da superare un altro metal detector. «Qui o è ferro o è cemento o è carne», scandisce il cappellano don Marco Pozza, 38 anni, nativo dell’Altopiano di Asiago. Il Due Palazzi di Padova è una casa di reclusione di massima sicurezza. Vi scontano pene definitive ergastolani ostativi (che non possono ottenere riduzioni di pena), detenuti per reati sessuali (pedofili), criminali comuni. Don Marco ci viene dal 17 settembre 2011. I detenuti sono i suoi parrocchiani. Tra sabato sera e domenica mattina celebra cinque messe perché sono vietati i contatti tra reclusi di regimi carcerari diversi. Arrivati nella cappella incontriamo Ciro Ferrara, 57 anni, ergastolano, entrato in carcere «nell’83 o ’84, non me lo ricordo nemmeno, avevo la terza elementare». Ora è laureato in filosofia, tesi sul tempo in Sant’Agostino, e si è iscritto alla magistrale.

In questi mesi la Chiesa padovana è stata attraversata dagli scandali del sesso in canonica. Una storia di orge e sfruttamento della prostituzione durata anni. Che ha portato alla sospensione a divinis di don Andrea Contin, parroco sulla cinquantina dalla doppia vita, e ha coinvolto qualche altro prete, coetaneo di don Marco. Ne hanno parlato i giornali e le televisioni di mezzo mondo. In una lettera alla comunità cristiana, qualche settimana fa il vescovo, monsignor Claudio Cipolla, ha scritto: «Questi fatti gettano un’ombra tenebrosa soprattutto sulla nostra Chiesa: forse è per questo che mi vergogno e vorrei chiedere io stesso perdono per quelli che, nostri amici, hanno attentato alla credibilità del nostro predicare». Don Marco: «Ringrazio il mio vescovo per aver usato la parola vergogna. Solo chi è capace di vergognarsi può davvero capire cos’è la misericordia di Dio». Scrittore di successo, l’ultimo libro s’intitola Iradiddio (edizioni San Paolo) e completa una trilogia che comprende L’imbarazzo di Dio e L’agguato di Dio, e collaboratore di quotidiani e riviste con menzione speciale al Premio internazionale «Biagio Agnes», don Marco impegna molti pomeriggi per incontrare i giovani nei teatri e nei palazzetti. Dulcis in fundo, è sportivo, un maratoneta tosto: «Dormo poco. Sei mesi all’anno, quando mi alzo vado a correre un paio d’ore. Poi mi piace arrivare qui quando tutto è avvolto nel silenzio. Mentre il carcere ancora dorme, prego. E sento le celle che si aprono, qualcuno che si stiracchia, chi esce a fumarsi una sigaretta…».

Come sono le canoniche delle orge viste dalla cappella del carcere?

«Sono un’occasione di crescita. Se questi fatti fossero stati scoperti d’estate sarebbe stato diverso. Invece, è successo sotto Natale. Dopo il contraccolpo per lo scandalo, ci ho visto un invito a tenere i piedi per terra. Dio è nato in una concretezza ferita, umiliata e, in un certo senso, triste. Nel Natale dei vangeli c’è il rifiuto a ospitare Gesù, c’è la nascita in una stalla».

Don Marco Pozza con il vescovo Claudio Cipolla in carcere

Don Pozza con il vescovo Cipolla in carcere

I suoi parrocchiani come l’hanno presa?

«Qui non abbiamo mai emesso giudizi sui sacerdoti coinvolti. Se Dio non si vergogna di confondersi con le nostre miserie, perché dovremmo farlo noi? Non mi fa paura lo sbaglio, ma lo sbaglio che diventa sistema. I detenuti lo sanno bene. Abbiamo provato un senso di compassione per chi ha trasformato lo sbaglio in stile di vita. E per coloro che, come il vescovo, i preti e le famiglie, sono stati coinvolti dalla sofferenza provocata da questo immondezzaio».

Come può reagire la Chiesa di fronte a uno scandalo così?

«Niente sarà più come prima. La Chiesa non può che uscirne cambiata, diversa. Il 18 febbraio scorso il vescovo, don Claudio, è venuto in visita al carcere insieme a una ventina di preti: siamo tutti un misto di miseria e grandezza. È stato un gesto per dire che la Chiesa riparte da qui. Il carcere è il luogo del peccato e della redenzione».

Perché è importante ricominciare da qui?

«Perché si riparte dalla periferia più estrema. Penso che non ci sia un posto più radicale di questo: non ce n’è un altro in cui l’uomo viene messo di fronte in modo così radicale alla scelta di appartenere al bene o al male».

Di recente Alberto Savi, banda della Uno bianca che sta scontando qui la sua pena, è uscito per la prima volta in permesso…

«Un permesso di 12 ore, senza nessun clamore. Ci sono delle vittime. Quanto più in passato si è fatto del male, tanto più colpisce il cambiamento. Papa Francesco dice che “più il peccatore è grande, più Dio freme per incontrarlo”. Oltre che nella resurrezione dei morti, credo nella resurrezione dei vivi».

Che cosa significa fare il prete qui?

«Significa che i detenuti non sono il reato che commettono. Sono persone. Non esiste il killer, esiste l’uomo che ha commesso omicidio. Non esiste il prete puttaniere, esiste il prete che ha commesso bassezze. A chi mi chiede perché vado a perdere tempo in carcere rispondo che ci vengo perché mi migliora come uomo. Pensavo di essere a posto e mi annoiavo; venire qui mi fa rendere don Marco simpatico a me stesso. Madre Teresa diceva: “Il bene lo faccio prima di tutto a me stessa; e se sto bene io, forse posso aiutare a star bene anche gli altri”».

Che cosa le ha scritto il Papa?

«Ha scritto ai detenuti, non a me. A margine di un convegno contro la tortura e per l’abolizione dell’ergastolo ci ha invitato a Santa Marta. E ci ha esortato ad aiutare il mondo e le autorità ad aiutare a ridare speranza alle persone che hanno sbagliato».

Come e quando ha deciso di diventare prete?

«Il giorno in cui – sono un ragazzo fortunatissimo – ho incrociato il sorriso nel volto del parroco del mio paese. Quel giorno si è accesa in me una curiosità folgorante: “E se anche la mia felicità abitasse dentro quella scelta?”. Mi sono incamminato e, strada facendo, ho scoperto d’essere nel mirino dello sguardo di Cristo. Accettare che Lui decidesse della mia vita è stata la mia forma massima di libertà. Libero nell’esser servo dei suoi sogni su di me. Servo, non schiavo».

La copertina dell'ultimo libro di Marco Pozza

La copertina dell’ultimo libro di Marco Pozza

Oggi è più difficile fare il prete di dieci anni fa?

«Fare il prete è sempre difficile, perché deve incarnarsi nel mondo sapendo di non appartenere al mondo. Oggi forse si devono affrontare sfide più sofisticate. Ma, come diceva Marco Pantani, più l’avversario è forte più la vittoria è bella. Prego perché l’avversario sia forte così da costringermi a una verità sempre maggiore. Di fronte agli sguardi di queste persone non puoi barare. È come se mi dicessero: se Dio non ha cambiato la tua vita come puoi chiedere che cambi la mia?».

Come mai il suo sito si apre con tre citazioni di allenatori: Giampaolo Montali, coach della Nazionale di pallavolo, Carletto Mazzone, allenatore anche della Roma, e José Mourinho?

«Sono cresciuto nel mondo dello sport, prima il ciclismo, ora la corsa. Da ragazzo, quando avevo un grande istinto per i casini, lo sport mi ha salvato dalla galera, dandomi stimoli e disciplina. Amo gli sport individuali e di fatica, li avvicino all’ascesi cristiana. Lo sport è una metafora della vita perché è fatto di sofferenza, successi, cadute, rinascite. Nello sport di fatica vinci se sposti più in là di un millimetro il tuo limite».

Che tempo fa nella maratona?

«Il mio record è 2 ore e 45 minuti. Il mio sogno è 2 ore e 39. Ce la farò, a breve: lo sento».

E gli allenatori?

«I bravi allenatori sanno educare sia i fuoriclasse che i gregari. Gesù sapeva incontrare ognuno personalmente, per questo il vangelo è come un atelier dove ogni abito si cuce su misura. Personalmente ho sempre avuto la tendenza a innamorarmi di chi è caduto nell’inferno. A vedere la storia dalla parte degli sconfitti».

Il carcere è proprio il suo posto.

«Piangerò quando mi toglieranno da qui, perché prima di tutti il carcere serve a me. Italo Calvino diceva che nell’inferno c’è anche qualcosa che non è inferno. Allora hai due possibilità: o diventare anche tu inferno, oppure sederti vicino a ciò che non è inferno per fargli spazio. Mi fido più di chi mi incita a cercare la bellezza senza nascondermi la miseria, piuttosto che di chi me la nasconde».

Don Marco a un incontro con i giovani

Don Marco a un incontro con i giovani

Com’è nata la «parrocchia virtuale», ovvero il suo sito?

«Dal bisogno di dare continuità al dialogo con i ragazzi che si sviluppa negli incontri, nelle assemblee, nelle scuole. L’ho intitolato Sulla strada di Emmaus perché mi affascina il fatto che Cristo incontra gli uomini sulla strada, non in chiesa o in un edificio riparato. E poi li incontra in una sera di delusione quando, per quei due viandanti, tutto sembrava perduto. Lo riconoscono in un gesto, senza che lui si dichiari esplicitamente. Lo scopo è creare le condizioni perché nei fatti di cronaca, nera e nerissima com’è quella del carcere, le persone possano vedere che Cristo c’è».

Che lezione possono trarre le gerarchie dalla vicenda di don Contin?

«Non mi permetto di indicare lezioni a nessuno. Penso che in passato per tanti anni abbiamo guidato la gente con la paura del sesso. Il moralismo non ha mai convertito nessuno: è governare con la gioia che cambia il cuore».

E il cuore di don Marco com’è?

«In cammino. Per 40 anni mio padre ha lavorato al tornio otto ore al giorno. Io non faccio niente di più. A volte, quando arriva sera e ho ancora energie mi sento in colpa. Allora mi metto a studiare, a pregare. Sono cresciuto in una famiglia leghista e ho pensato che il mondo normale mi desse tutti gli strumenti per essere perfetto. Non avrei mai immaginato che un posto come il carcere mi avrebbe fatto capire che la verità è più della perfezione».

 

La Verità, 12 marzo 2017