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Rocco e i suoi fratelli, la ritirata degli ultra di Conte

Che fine ha fatto Rocco Casalino? E Gianrico Carofiglio? Non che ci sia da preoccuparsi, parliamo di emuli di Ercolino sempre in piedi, ricordate? Però, così, «le domande sorgono spontanee». Su Andrea Scanzi, invece, dopo il vaccino con salto della fila incorporato, le domande scarseggiano. Ora che è stato elegantemente bannato dalle signore di Rai 3 e La7, Bianca Berlinguer e Dietlinde Gruber detta Lilli, gli è rimasto Accordi & Disaccordi, sulla Nove, la tribuna dalla quale i virologi più rigoristi dispensano i niet rimasti ancora in canna. Da quando a palazzo Chigi c’è un nuovo inquilino, il «contismo senza limitismo» (copy Dagospia) batte in ritirata, non senza disseminare il campo di battaglia di mine insidiose e accuse di complotti ai danni dell’ex avvocato del popolo.

Completato il giro delle sette chiese della telepolitica, il portavoce dell’ex premier è sparito dai radar. Anche se la solita Gruber insisteva a indicargli la via del Parlamento, l’abbiamo lasciato destinatario di «numerose proposte di lavoro, nell’ambito della televisione e del giornalismo», Casalino dixit. Niente e nessuno gli può impedire, magari all’inizio della prossima stagione, di rispuntare in veste di titolare di qualche postazione di prima serata. Da un mese a questa parte, invece, lo scrittore ex magistrato, fra i più tetragoni ideologi giallorossi, ha diradato le apparizioni. Dopo essersi vaccinato da volontario a favor di telecamera, si è dedicato alla stesura di Della gentilezza e del coraggio – Breviario di politica e altre cose. «Il breviario laico di Gianrico Carofiglio, per un nuovo modello di società civile», annuncia l’editrice Solferino. Brividi.

«Comunicheremo solo le cose che abbiamo fatto»: con una sola frase, pronunciata dopo l’insediamento, Mario Draghi ha mandato in soffitta il caravanserraglio delle dirette Facebook, delle interviste fluviali, delle conferenze stampa nell’atrio del Palazzo. Scompaiono i testimonial del contismo, si disperdono gli esponenti del «Conte Illimani», come li ha ribattezzati su Twitter Guido Vitiello. Non proprio tutti, però. Marco Travaglio e Antonio Padellaro resistono, forti dei loro record di presenze a Otto e mezzo e Piazzapulita e non si vede chi li possa spodestare. Qualcuno invoca una «Norimberga giornalistica» per i fiancheggiatori dell’infodemia. Servirà invece la nemesi della storia. Che però richiede tempo. Intanto, si cominciano a notare i vuoti, ma saranno presto riempiti con nuovi testimonial. Tanto più se la triangolazione La7 – Fatto quotidianoCorriere della sera continuerà a funzionare.

 

La Verità, 16 aprile 2021

Il tour di Casalino alla ricerca di una second life

Prosegue il tour di Rocco Casalino alla ricerca di un roseo futuro dopo gli anni da secondo(?) uomo più potente d’Italia. Prima un’intervista a Diego Bianchi (La7), poi un’ospitata a Quarta Repubblica di Nicola Porro (Rete 4) e un passaggio a Otto e mezzo, la ridotta della resistenza contiana (martedì a DiMartedì, mercoledì ad Accordi & disaccordi sul Nove). L’argomento di vetrina era la comunicazione del nuovo governo. Draghi dovrebbe parlare di più, il suo silenzio potrebbe essere un problema, ha preconizzato Casalino. Anche perché, chi continua a parlare sono i leghisti, perdindirindina. Che ne pensi Beppe Severgnini? È un istinto indomabile, non riescono a tacere, ha detto con un fremito di stizza alla Maggie Smith l’opinionista della scuderia Cairo. E tu Andrea Scanzi, cosa pensi di questo fatto che la Lega parla? ha incalzato Dietlinde Gruber soffiando dalle narici. Cos’abbia risposto l’autore de Il cazzaro verde è facile immaginare. Quel che non meraviglia più è anche che – con il lockdown duro e puro auspicato da Walter Ricciardi, i vaccini introvabili, il super commissario Domenico Arcuri sotto inchiesta, le primule appassite prima di fiorire, la presentazione del GovernoSalvaItalia in Parlamento e le quote rosa sbiadite a sinistra – con tutto questo, il problema è sempre la Lega. Del resto, il mantra è decollato durante la trattativa per il Draghi uno e anche ora la mission è la medesima: piazzare il faccione di Salvini al centro del muro e distribuire le freccette ai complici. Nel frattempo, per dare una nuova identità da spendere nel reality, Il Portavoce (Piemme) era già stato rinominato ingegnere («mi piace ingegnere», il plaudente Severgnini). Con la minuscola, essendo la maiuscola già assegnata. Ora, però, abbiamo un problema: che farà Rocco da grande? Si candiderà, vero? gli ha chiesto la padrona di casa. Chissà, forse, le proposte sono tante, anche dalla televisione… «Oddio, l’ho detto male», si è corretto l’ex portavoce, precisando che trattasi di «giornalismo». Però Lilli voleva mandarlo a tutti i costi in Parlamento e, ottenuto un mezzo sì, è passata ad altro. Sia mai che a qualcuno venga in mente di dargli un talk show su La7.

P.s. Forte dell’ospitata di Casalino, Gruber aveva registrato la puntata perdendosi le scuse del Corriere della sera per la ripubblicazione online di un’intervista di Renato Brunetta del 22 giugno scorso. Così, Scanzi ha potuto dire, senza essere corretto, che «Brunetta ha fatto arrabbiare tutta la pubblica amministrazione perché ha detto che non bisogna più fare smart working». Si sa, quando c’è da colpire l’avversario, anche le verifiche diventano più blande.

 

La Verità, 17 febbraio 2021

Bonus, app, bancoscontri: il Conte2 fabbrica di flop

App bluff flop. Non è uno scherzo della tastiera del computer, uno scioglilingua da quiz televisivo o un esercizio di logopedia per balbuzienti. È la sintesi della triste parabola dell’applicazione «Immuni». Doveva essere la chiave di volta, il gadget risolutore, l’arma segreta che, tracciando i comportamenti dei contagiati, avrebbe tranquillizzato gli animi, placato le ansie, facilitato il compito dei nuovi tutori della salute pubblica. L’attesa del varo era scandita dal countdown. Il tonfo è fragoroso: finora l’hanno scaricata circa 5 milioni di italiani (il 13% del bacino d’utenza). Pochini perché possa dispiegare tutti i suoi effetti salvifici. E spiace un tantino anche per il buon Flavio Insinna che invano ci esorta al download perché «più siamo meglio stiamo».

Bonus e navigator

Le malinconiche sorti di «Immuni» sono l’emblema del governo Conte Casalino (copy Dagospia), specializzato in trovate inutili, invenzioni superflue, rimedi velleitari. Una pletora di sovrastrutture che mancano regolarmente il bersaglio, indisponenti come un boccale di birra pieno di schiuma. Fossimo nel calcio, con un bilancio così l’allenatore sarebbe stato esonerato da un pezzo. Nel mondo della televisione, il direttore di rete sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Prendiamo il bonus vacanze, enfaticamente annunciato dal decreto Rilancio. Altra app, altro flop. Dei 2,4 miliardi stanziati per rilanciare il turismo, finora solo 615 milioni sono stati prenotati e appena 200 utilizzati: l’8% del totale. Tra carta d’identità elettronica, credenziali Spid e Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), le procedure escogitate dal governo della semplificazione avrebbero fatto sclerare un nerd della Silicon Valley. Per non parlare dell’entusiasmo con il quale le strutture ricettive che avrebbero dovuto anticipare l’importo hanno accolto la pensata.

Una volta erano i governi successivi a smantellare le leggi approvate dai precedenti. Con il dicastero capeggiato da Giuseppi assistiamo al fallimento conclamato già in corso d’opera. Un inedito: il governo della semplificazione lo è anche dell’innovazione. Che bilancio trarre dell’operato dei Navigator, altro colpo di genio grillino? I 2846 funzionari insediati l’estate scorsa nei Centri per l’impiego con l’obiettivo di trovare lavoro ai fruitori del reddito di cittadinanza (1,132 milioni di nuclei familiari, 2,8 milioni di persone) hanno raggiunto lo scopo per il 3,5% dei beneficiari. Buco nell’acqua anche per la sanatoria voluta tra le lacrime dal ministro Teresa Bellanova: 29.500 lavoratori regolarizzati nell’agricoltura invece dei 600.000 annunciati.

Trasparenza?

Tra gli obiettivi sbandierati e il loro reale raggiungimento la forbice è sempre piuttosto divaricata. Si sa che ormai la politica coincide con la comunicazione, e sappiamo che a dirigerla è un ex concorrente del Grande fratello. Ma qualcosa non torna se la propaganda diventa lo storytelling di Palazzo Chigi. Restando nello specifico della comunicazione, il governo della semplificazione e dell’innovazione lo è anche della trasparenza. Non a caso sta battendo tutti i record di opacità. Dalla gran parte dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico alla ricerca di Stefano Merler che già il 12 febbraio anticipava la tragedia sanitaria che ci attendeva fino ai documenti delle indagini sulla strage di Ustica, Conte ha oscurato una serie interminabile di atti. L’ultimo in ordine di tempo, con grande coerenza trattandosi di un appalto pubblico, riguarda i famosi banchi scolastici monoposto. Il torvo commissario Domenico Arcuri, purtroppo niente a che vedere con Manuela, ha giustificato la segretazione con l’intento di evitare strumentalizzazioni. Poi si offendono se c’è chi si insospettisce (per dire: qualcuno ha notizie dell’inchiesta su Ciro Grillo, pargolo di Beppe? O è il caso di creare il Premio dimenticatoio dell’anno?). Temendo che, dopo tanti oscuramenti, alle prime elezioni disponibili qualcuno finisca per oscurare lui, Conte si è defilato lasciando che a smazzarsi le grane della scuola, il taglio dei parlamentari e le nuove ondate di migranti siano i relativi ministri (in)competenti. Meglio non invischiarsi, dedicarsi al più gratificante controllo dei vertici dei servizi segreti imponendo il voto di fiducia – a proposito di trasparenza – e veleggiare verso la candidatura al Quirinale.

Monopattini e bancoscontri

Il governo, intanto, una ne fa e cento ne pensa. O magari il contrario. Non potendo affollare i mezzi di trasporto, anziché aumentare le corse di bus e metro, la soluzione per recarsi al posto di lavoro nei grandi centri urbani è stata trovata nei monopattini. I pendolari dell’hinterland milanese e romano, soprattutto over 40, esultano su un piede solo, pronti per Paperissima sprint. Dai monopattini ai bancoscontri il passo è breve. Per ottemperare al distanziamento nelle classi ecco in arrivo, si fa per dire, 400.000 banchi a rotelle. Anzi no, perché ora sembra siano fuori legge. In compenso ci abbiamo perso solo un’estate, il tempo non manca. Quale fosse il nesso tra le ruote sotto i banchi e la distanza tra gli studenti sfuggiva ai più, Andrea Crisanti compreso. Ma il Conte Casalino, governo della semplificazione, della trasparenza e dell’innovazione, con una passionaccia per le due e le quattro ruote, lo è anche del dinamismo: la Ferrari dev’essere il punto di riferimento.

Nuovo verbo

Un mix di dilettantismo naif sciolto in corpose dosi d’ideologia è la ricetta aura del dicastero ancora in carica. Tra abolizioni della povertà e poderose potenze di fuoco per la ripresa si avanza spediti verso un Pil algebrico a due cifre. Il nuovo verbo è l’ecosostenibilità, il Green deal europeo, la nuova era ecologica. E pazienza se mentre si conciona di surriscaldamento globale e scioglimento dei ghiacciai ancora non abbiamo capito come sia finita la faccenda dell’Ilva di Taranto, una cosetta da diecimila dipendenti indotto escluso, l’1,4% del Pil nazionale. Oppure se a ogni acquazzone di fine estate, mezza Italia deve dichiarare lo stato di emergenza e di calamità naturale. Che sarà mai: uno più uno meno cosa cambia, Conte ci è abituato agli stati di emergenza. Ci pensa lui, con i suoi superpoteri. E se non bastassero, consoliamoci. Potrà sempre farsi aiutare dalle task force, da Vittorio Colao, da Walter Ricciardi, dal Comitato tecnico scientifico, dagli Stati generali… Perché allarmarsi, l’Italia è un modello copiato in tutto il mondo.

 

La Verità, 3 settembre 2020

L’info emergenziale, nuovo format del Tg1

Belle le vacanze nei posti remoti. Ma se la tv riceve solo i tg Rai, insomma. Certo, si può resistere. Siamo passati per un inusitato confinamento fisico, che sarà mai un pizzico di libertà vigilata informativa? Di esclusiva del Tg1 – nel senso che si vede solo quello? Perché, anche se in qualche arcipelago sperduto o a un metro dal confine alpino il primo pensiero non è l’informazione, tuttavia il tambureggiamento giallorosso, con annessa campagna della paura, un tantino infastidisce. L’infodemia non si porta bene sulle infradito o sulle scarpe da trekking. Almeno in spiaggia o in rifugio si vorrebbe rilassarsi un filo e staccare dal tam tam emergenziale, nuovo format dei tg Rai.

Da giorni il coro dei media cavalcava la nuova intesa tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti per le elezioni comunali del 2021 (Virginia Raggi a parte). Alleanza strategica, accordo foriero di un futuro radioso per l’Italia tutta, era la ola delle redazioni. E pazienza se per il M5s trattasi di tradimento della ragione sociale anticasta battezzata col Vaffa. L’establishment e Virginio Bettini tifano per la saldatura e dunque: testa nella sabbia e avanti con la fanfara. L’altra inversione a u è la rottura del tabù dei due mandati. Ci pensa il Tg1 diretto da Giuseppe Carboni a condire l’apostasia come «evoluzione», il rinnegamento come «svolta di maturità». Così Di Maio e Zingaretti veleggiano verso un avvenire d’armonia e tutti contenti, o quasi. Alla coppia Conte Casalino a un certo punto devono essere girati i cabasisi per l’eccesso di miele sul capo della Farnesina e il segretario Pd proposti spesso in garrula abbinata, il primo dichiarante su Facebook il secondo mascherinato tra i collaboratori. Così quella sera, prendendo la rincorsa, Emma D’Aquino annunciava che il premier si era pronunciato su alleanze, economia, Covid, scuola, Libia, Libano e per dessert macedonia con panna. Mentre il giornalista distillava il Contepensiero, eccolo in persona personalmente avanzare spedito con lo staff, seduto alla scrivania, incedere con pochette nei saloni di Palazzo Chigi, intravisto nello studio dalla porta socchiusa, parlare a una convention con microfonino ad archetto, digitare sulla tastiera, dialogare con le folle e camminare sulle acque… Confrontati, i cinegiornali dell’Istituto Luce sono satira corrosiva. Oppure la fonte ispirativa potrebbe essere la tv del Fatto quotidiano. Il quale proprio quella mattina, aveva pubblicato, in versione cartacea, l’intervistona a Giuseppi bisfirmata da Marco Travaglio e Salvatore Cannavò. Non è una bella sintonia tra il tg ammiraglio e il foglio cacciatorpediniere?

Del resto, il Tg1 (meno di 4 milioni di spettatori, share attorno al 24%) è pronto scattante malleabile. Se i giornaloni sono i portali del pensiero unico, il telegiornalone va dritto sull’indottrinamento. La giusta stigmatizzazione dei furbetti dei 600 euro che siedono in Parlamento serve per lanciare la campagna per il referendum sul taglio di deputati e senatori. E, fatto che non guasta, ad assestare un colpetto alla Lega (non pervenute le inchieste sugli onorevoli d’Italia viva e Pd che hanno richiesto il bonus). Anche dell’avviso di garanzia al premier e ad altri sei ministri spiccato dalla Procura della Repubblica di Roma non si hanno notizie. Quel giorno cascano i due anni dal crollo del ponte Morandi e quindi spazio alla commemorazione della tragedia, impreziosita dalla passerella genovese del premier. In totale, sei servizi sei. Poi ci sono i già citati resoconti sulla «maturazione» e il «cambio di passo» del M5s. E quindi non c’è spazio per altre notizie. Né quella di mezzo governo indagato. Né quelle relative al caos scuole (disaccordi tra il ministro Lucia Azzolina e il Cts, presidi in rivolta, distanziamenti sì no ni, mascherine obbligatorie facoltative inutili) che già agitano famiglie e insegnanti. Siamo alla vigilia di Ferragosto, perdiana. È tempo di escursioni, alpinisti, vacanze ecologiche, maghi, diete… Il 16 agosto invece è il giorno della chiusura delle discoteche. Dal Manzanarre al Reno, dagli Appennini alle Ande, il virus impazza ovunque. La seconda ondata è imminente, colpa dei giovani indisciplinati, scoperti una volta doppiato il Ferragosto. Evidentemente, prima tutti immaginavano che nelle discoteche i ragazzi stessero distanziati. Nulla da dire invece sui sistemi di controllo al rientro dai Paesi a rischio e sui focolai creati dai centri di accoglienza immigrati. Non pervenuti servizi sulla caserma Serena fuori Treviso, 230 positivi al coronavirus.

L’innovazione del Tg1 giallorosso è l’informazione ibrida come le Toyota. Il notiziario va con la benzina dell’indottrinamento governativo e con l’alimentazione elettrica dell’evasione e dell’ambientalismo all’acqua di rose. Il comun denominatore è il verbo emergenziale che richiede uno o più salvatori: il premier in primis, e a ruota i nuovi sacerdoti della pandemia, gli ecoallarmisti, le Grete varie. Dal 15 al 25 agosto l’ossessione da Covid non conquista l’apertura del tg solo il giorno del ritrovamento dei resti del povero Gioele Parisi, il figlioletto della dj Viviana trovata morta in Sicilia, nell’anniversario del crollo del ponte di Genova e in quello del terremoto di Amatrice. Ma in questi ultimi due casi c’è di mezzo la sfilata del premier che va a rincuorare, confortare, massaggiare. Altrimenti domina la campagna della paura di cui la politica dell’emergenza è diretta emanazione. Come lo è la gestione delle scuole: quante volte abbiamo visto i due dirigenti che tendono il metro tra i banchi? La bionda Laura Chimenti tambureggia cifre e allarmi Covid con aria accigliata. La curva dei contagi non fa che impennarsi, le terapie intensive in calo o stabili vengono taciute. Potrebbero anche saltare le prossime elezioni regionali, ma per ora meglio non scoprire le carte. Se qualcuno osserva che l’indice del contagio diminuisce in rapporto ai tamponi «potrebbe essere un numero sottostimato perché calcolato solo sui sintomatici». Viviamo nell’incubo dell’imminente «bomba virale». Giusto il tempo per rifiatare con gli esteri, utili a mostrare che fuori dall’Italia felix imperversano loschi figuri da Donald Trump a Jair Bolsonaro da Vladimir Putin ad Aleksandr Lukashenko, e si torna a parlare di Covid nel mondo e, con la cronaca, nelle discoteche, negli aeroporti, nel porto di Civitavecchia, non in quello di Lampedusa però. Per «alleggerire» il terrore da contagio in molti servizi si sposa l’evasione con la nuova sensibilità green. Ma il risultato è tra il comico involontario e il pittoresco: il lago di Massaciuccoli è minacciato da una pericolosa pianta acquatica, ci sono due oranghi da curare nel Borneo, l’azienda avellinese che produce componenti per sonde spaziali non ha la connessione internet, rinasce la fattoria dei cavalli degli zar, ritorna Winnie the pooh, nelle acque dell’Alaska è ricomparsa l’orca bianca, l’orso M49 è scappato di nuovo, il parto del panda di una mamma anziana ha avuto un «boom di visualizzazioni», Laura e Marco sono «uragani paralleli». Nell’annunciarli, D’Aquino, Chimenti e Francesco Giorgino sono seri. Per il 2021 si consiglia agriturismo con tv satellitare.

 

La Verità, 26 agosto 2020

«Che errore uniformare tutta l’Italia con i decreti»

Professor De Rita, lei ha 88 anni ma conserva lo spirito ribelle dei ventenni: niente app e niente mascherina.

«Nessuno che mi conosca direbbe che ho uno spirito ribelle. Sono un uomo tranquillo, arrivato a 88 anni camminando con passo lento verso la morte, compimento della vita. Il mio detto preferito si trova nel salmo 83: “Cresce lungo il cammino il suo vigore finché compare dinanzi a Dio in Sion”».

Era una provocazione. Capisco la difesa della privacy meno il no al dispositivo di protezione.

«Oltre al fastidio, ci sono due ragioni. La prima è che mi sembra di respirare l’anidride carbonica del mio fiato. Forse proteggerà gli altri, ma a me non pare salubre. La seconda ragione è che la mascherina fa risaltare gli occhi e quando guardo i miei coetanei, diciamo gli over 75, vedo sguardi in parte disperati e in parte inespressivi. Non voglio apparire così».

Ecco: intervistare Giuseppe De Rita vuol dire imbattersi in pensieri originali e motivati. Fondatore e presidente del Censis – il Centro studi investimenti sociali che tutti gli anni ci consegna una fotografia del sistema nervoso del Paese – romano, otto figli avuti da Maria Luisa Bari, scomparsa nel 2014, De Rita è una delle figure più lucide e autorevoli del panorama intellettuale italiano. Un grande saggio. Che, con l’eccezione della partecipazione allo staff di Ciriaco De Mita a fine anni Ottanta, ha sempre mantenuto un’equilibrata distanza dalla politica. Nonostante questo, all’elezione per la Presidenza della Repubblica del 2006 ricevette 19 voti.

Professore, è corretto il confronto di questo periodo con quello della guerra?

«Non direi. Chi lo fa non ha visto le centinaia di quadrimotori americani che sganciavano bombe sulle nostre città. O le motociclette delle SS che attraversavano Roma mitragliando ad altezza d’uomo. Quella di oggi è una paura viscida e indistinta. Perciò anche persone razionali possono non controllarla. Qualche giorno fa a Roma alle 5 del mattino si è avvertita una piccola scossa di terremoto. C’è chi è sceso affannosamente in strada, io no. Una certa paura è stata alimentata dal clima generale di emergenza. C’è stato poco “ragionamendo”, direbbe De Mita».

L’enfatizzazione del pericolo è servita a puntellare un potere fragile?

«Questa mi sembra un’esagerazione. Il fatto è che tutto il sistema italiano era impreparato. E quando si è impreparati si sbanda. La Germania ha risposto diversamente. Ha funzionato il rapporto tra i länder e lo Stato centrale, non ci sono stati problemi per le mascherine e i letti in terapia intensiva. Il muscolo ha assorbito la botta e ha permesso di controllare la paura. Noi siamo abituati ad arrangiarci giorno per giorno. È la virtù dell’Italia. Ma abbiamo copiato la Cina, dicendo che gli altri ci seguivano. Non era vero. Così, alcuni errori ne hanno innescati altri».

Il principale?

«Stare tutti insieme appassionatamente, mentre l’Italia è fatta di differenze. Non era pensabile trattare la Lombardia come la Basilicata o Bergamo come Viterbo. Per differenziare bisognava essere sicuri che la muscolatura avrebbe risposto bene. Non essendolo, abbiamo fatto norme uguali per tutti».

Siamo nella crisi più complessa della nostra epoca governati dai politici più sprovveduti della storia repubblicana?

«Come ha detto Giulio Sapelli, siamo governati da eterni disoccupati. Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti. Ma non è tutta colpa loro».

E di chi?

«La ventata anticasta si è trasformata in lotta contro il merito e l’esperienza. Un risvolto disastroso. Quando governava la Dc c’era un lungo percorso di formazione, da vicesindaco ad assessore regionale fino a deputato. Una volta alla Camera, i primi anni si trascorrevano a imparare. Se appena arrivati si va al governo è inevitabile che i governanti siano inadeguati».

Di conseguenza?

«Il dilettantismo genera improvvisazione e semplicismo. Non si mette in quarantena una società complessa come la nostra senza tener conto della specificità di situazioni e corpi intermedi, dalla Chiesa alle filiere produttive, dalle categorie professionali ai sindacati. È come andare avanti chiudendo gli occhi per evitare di vedere il pericolo».

Vede anche lei una sovrapposizione della comunicazione sulla politica come appare da una certa strategia degli annunci?

«La pandemia ha accentuato la verticalizzazione delle decisioni. Tutto si concentra al vertice: Protezione civile, Comitato tecnico scientifico, due o tre ministri con il premier. Quando prevale l’angoscia, il potere si concentra. Il risultato è che anche il rilancio è statalizzato. Ma questo non è un meccanismo privo di conseguenze».

Quali, per esempio?

«Avrà notato che non c’è stata beneficenza privata, se si eccettua l’iniziativa di Gaetano Caltagirone in favore del Gemelli e dello Spallanzani. Per il resto, niente appelli dei giornali o della Chiesa. Tutta la beneficenza è andata allo Stato attraverso l’app della Protezione civile».

Qualcuno veramente c’è stato… E la prevalenza della comunicazione?

«Verticalizzando e statalizzando si crea una distanza che si colma attraverso gli eventi. I famosi decreti, i provvedimenti poderosi. Gli eventi sono il terreno della comunicazione. Oggi si sottolinea il ruolo dei social, della Bestia di Salvini, del portavoce del premier, innalzandolo ad artefice. In realtà, Rocco Casalino dipende da un processo più strutturale».

L’approccio sanitario all’epidemia doveva essere complementare a una visione sociologica che è mancata?

«Non vorrei che la mia sembrasse una critica antagonista. Anche il ruolo quasi esclusivo avuto dai virologi nell’emergenza fa parte del processo di verticalizzazione. Il Comitato tecnico scientifico è composto in un certo modo. Cardiologi, animatori e altri specialisti sono rimasti al margine. Solo ora con le autopsie si inizia a vedere che non si muore di coronavirus, ma di altre complicazioni. Se domina la virologia il corpo umano è ridotto a portatore del virus e si perde di vista una visione completa».

Come giudica il decreto Rilancio?

«La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire».

Ha visto la chat privata fra alcuni magistrati che attaccano Matteo Salvini? Quanto la cultura inquisitoria che domina nel M5s e nella magistratura può aiutare la ripresa?

«Tra Tangentopoli e post-Tangentopoli siamo diventati un Paese inquisitorio. Personalmente non amavo Francesco Saverio Borrelli, ma era un signore che aveva una storia familiare e suonava il pianoforte. Quelle espressioni fanno parte del protagonismo di magistrati che inseguono il protagonismo di Salvini. C’era anche in Borrelli, ma non in queste forme scomposte. Il degrado inquisitorio dipende dalle persone che interpretano ruoli e leggi. Non credo che potrà ostacolare la ripresa del Paese. L’Italia è meglio della magistratura che si precipita nelle Rsa nel pieno della tragedia».

Come possono sentirsi i piccoli e medi imprenditori di fronte al ricorso al prestito statale di Fca con sede nel Paese europeo a noi più ostile?

«Se si fa una società liberale e liberista si stabiliscono criteri che valgano per la richiesta Fca di oggi o per quella del Censis di domani. La Sace e la banca fanno le istruttorie tecniche e concedono il prestito in base a valutazioni oggettive. Ognuno fa il proprio mestiere. Se invece si introducono elementi politici si nega il prestito ai Benetton a causa dei morti del ponte Morandi e alla Fiat perché ha la sede in Olanda. Ma così non si gestisce più nulla».

Da cosa deriva l’eccesso di burocrazia che ci affligge? E perché siamo così impotenti nel combatterla?

«Si sottolinea la burocrazia statale, ma anche in banca e nei commissariati chiedono decine di firme. La burocrazia è il prodotto della diffidenza dell’italiano medio nei confronti del proprio simile. Se va in campagna un contadino non le parla bene del suo vicino. Moltiplichi questa diffidenza cellulare nelle relazioni più complesse, tra enti e organismi, ci aggiunga dieci anni di cultura del Vaffa, e avrà la burocrazia che ci sommerge».

Si può estendere il modello del ponte Morandi senza Codice degli appalti alla ripresa post-coronavirus?

«A Genova hanno applicato quello che a Roma si dice “famo a fidarse”. Sindaco e presidente della Regione si sono fidati, consapevoli di rischiare. Se fosse caduto un calcinaccio e qualcuno avesse aperto un’inchiesta… Non credo si possa agire in deroga per rifare le strade di Roma».

Il ponte Morandi mi ha ricordato l’Autostrada del Sole completata in anticipo di tre mesi.

«E anche il traforo del Monte Bianco, realizzato sulla spinta del conte Dino Lora Totino. Era un clima diverso, c’erano entusiasmo collettivo, gioia di vivere, voglia di crescere. Oggi non riusciamo a fare dieci chilometri di Tav. Se serve la firma del funzionario a ogni metro la gioia di vivere è finita».

In questa crisi i vecchi hanno mostrato di avere più carte di tanti giovani sprovveduti. Dopo la rottamazione è il momento di ricorrere all’usato sicuro?

«Persone come Sabino Cassese e il presidente Sergio Mattarella hanno fatto la ricostruzione e il boom economico, ma appartengono a una generazione che ha dato quello che poteva dare. Al massimo può consigliare chi deve decidere. Non però come le task force che stabiliscono i metri di distanza tra marito e moglie. Ho letto l’invito di Sapelli a coinvolgermi. Ma per far cosa?».

Il presidente della Repubblica, visto che già nel 2006 qualcuno la votò.

«Ne parleremo alla prossima intervista».

 

La Verità, 23 maggio 2020

«Vi spiego perché Casalino va sostituito subito»

Uomo di pensiero, uomo di sinistra, uomo di giornali e riviste colte. Del resto, nella sua Bari, Giuseppe «Peppino» Caldarola è cresciuto nelle sale felpate della Editori Laterza. 73 anni, a lungo vicedirettore di Rinascita, mensile comunista fondato da Palmiro Togliatti, una breve direzione dell’Unità, una più lunga di ItalianiEuropei, la fondazione di Massimo D’Alema, ora a capo di Civiltà delle macchine, il trimestrale della fondazione Leonardo, Caldarola ha l’onestà dell’osservazione ponderata e di posizioni mai settarie. Qualche giorno fa ha scritto che per costruire il dopo pandemia bisogna ripartire da «scienza e umanesimo», stelle polari della rivista. Personalmente, penso che non basti.

Qual è la sua valutazione dell’operato del governo Conte nella crisi determinata dal coronavirus?

«Ci siamo trovati davanti a un problema inedito con un governo altrettanto inedito. Inevitabilmente, si è avuta un’azione a più facce. All’inizio una risposta titubante, poi una comunicazione incerta. Quando si è capito che le piccole misure erano insufficienti e, anche su stimolo dell’opposizione, si sono introdotte norme più rigide, il governo ha acquisito maggiore autorevolezza. Rimane il problema della comunicazione, ma sembra irrisolvibile».

Secondo lei Rocco Casalino va sostituito?

«Certamente sì. Non ho nulla da dire sulla persona. Ma a mio avviso siamo in presenza di una metodologia sbagliata, una scelta di spettacolarizzazione del premier che non gli giova. Credo servirebbe una figura più professionale, che sappia stare nell’ombra».

È solo un vizio di comunicazione quello che il 27 gennaio a Otto e mezzo ha fatto dire a Conte «siamo prontissimi» ad affrontare l’epidemia?

«Nell’epoca moderna si comunica in ore prestabilite e a quell’ora, caschi il mondo, l’uomo di governo parla. Il prolungarsi dell’attesa fa crescere i seguaci sui social ma anche l’inquietudine dei cittadini. La comunicazione rassicurante di Conte ha pagato il prezzo di centellinare la strategia della chiusura che, invece, andava decisa e comunicata subito».

Insisto: Conte diceva che il governo era «prontissimo».

«Si pensava di avere di fronte un virus curabile con la tachipirina e qualche posto letto. Sarebbe stato un linguaggio più veritiero dire: “Non siamo pronti, ma saremo pronti”».

Inseguivamo primati in Europa.

«La sottovalutazione ha coinvolto dal premier a Nicola Zingaretti a Matteo Salvini. Tutti pensavamo si trattasse di un’influenza un po’ più aggressiva. Solo i virologi più competenti hanno avuto l’esatta percezione del pericolo. Il mondo politico ha cominciato a capire quando si è visto che il contagio attaccava le zone forti del Paese».

Parlando di Europa, questa tragedia sancisce anche la fine della cosiddetta Unione?

«Sono stato europeista tutta una vita, l’ho difesa anche quando non lo meritava. Oggi quell’idea si è in poche settimane bruciata. È una sconfitta per la mia generazione, dobbiamo ripensare e trovare nuovi amici, nuove solidarietà nel mondo».

Che responsabilità ha chi ripeteva di essere in possesso delle contromisure?

«I componenti di tutta la classe politica attuale non hanno vissuto la guerra e il dopoguerra, non hanno visto il colera a Napoli e Bari, erano bambini durante il sequestro Moro, ragazzi durante il terremoto dell’Aquila. È una classe dirigente che, non per colpa sua, non si è confrontata con nessuno dei drammi italiani contemporanei».

È culturalmente impreparata a fronteggiare le emergenze?

«Lo è anche psicologicamente».

Questo deficit che forma prende nell’azione di governo?

«Prende la forma del giudizio ondivago. Si passa rapidamente da <non è niente> a <è gravissimo>».

E questo trasmette insicurezza?

«Una classe dirigente forte trasmette certezza di giudizio. Se lo sbaglia, lo corregge e trova quello giusto. Invece siamo appesi alle valutazioni di giornata di Roberto Burioni, di Ilaria Capua, di Massimo Galli».

Approva la cabina di regia aperta all’opposizione?

«Certo, a condizione che ci si entri disarmati».

Senza secondi fini politici?

«Questa battaglia si vince insieme o non la si vince. La guerra per decidere chi è stato più bravo comincia un minuto dopo la sconfitta del Covid-19. Fino a quel momento siamo tutti corresponsabili».

Le norme adottate contemplano limitazioni eccezionali della vita dei cittadini: può stabilirle un governo con un premier non eletto?

«Il governo ha una maggioranza parlamentare. Negli anni del terrorismo uno schieramento che faceva capo agli Stati uniti e l’altro all’Unione sovietica hanno introdotto e osservato norme molto borderline che violavano alcune regole costituzionali. Oggi si potrebbe firmare un patto che metta insieme maggioranza e opposizione. E venti giorni dopo l’ultimo contagio si potrebbe andare a votare».

L’attuale premier è in grado di guidare un governo del genere?

«Credo di sì. Un patto è un patto, ci dev’essere disarmo non solo dell’opposizione, ma anche della maggioranza. La solidità del patto deriva proprio dal fatto che è stipulato tra forze opposte e reciprocamente antipatizzanti. Non che arriva un terzo personaggio…».

Mario Draghi.

«Draghi può servire ad altro, se lo faccia dire da un comunista. Potrebbe essere il De Gasperi della situazione che arriva nel dopoguerra, si fa dare gli aiuti e tira in piedi l’Italia».

In questa situazione sarebbe servito un sistema operativo più snello e decisionista?

«Avrei preferito da subito la nomina di un commissario. Una figura che, su delega del governo, si assumesse tutta la responsabilità operativa necessaria. In Italia, oltre a quello di Guido Bertolaso, al quale vanno i miei auguri, abbiamo avuto l’esempio di Giuseppe Zamberletti che, con determinazione e violando all’occorrenza le regole, ricostruì il Friuli in tempi record. E, in anni più recenti, l’esempio di Gianni De Gennaro che, dopo il fallimento di altri commissari, risolse l’emergenza rifiuti a Napoli».

Conte ha temuto che un supercommissario gli facesse ombra?

«Tenere la prima linea è stato il secondo errore di Conte. In queste situazioni serve una figura che in nome del governo possa ordinare a una fabbrica di riconvertire la produzione, vigilando che lo faccia. O ritirare l’ambasciatore se un Paese rifiuta di venderci le mascherine. Ho massima fiducia in Domenico Arcuri, ma temo sia arrivato tardi».

C’è chi guarda alla Cina e alla Corea invidiando la tracciabilità dei cittadini tipica dei sistemi dittatoriali. Non le pare che anche le nostre norme abbiano caratteristiche da regime?

«Noi stiamo applicando norme borderline, manca poco che siamo fuori dalla Costituzione. Inoltre stiamo gestendo l’emergenza con la logica dell’apparato di forza. Io rovescio la prospettiva: ai cittadini va dato un servizio».

Esemplifichiamo?

«Invece di essere usato solo per controlli e sanzioni, l’esercito potrebbe diventare tramite fra i cittadini anziani o malati e la distribuzione alimentare. Si firma un’intesa tra il ministero della Difesa e i grandi distributori. Si studia il sistema di pagamento, i cittadini ordinano la spesa, i militari caricano i camion e le consegnano. Si fa la selezione dei nuclei familiari idonei al servizio: anziani soli, famiglie con ammalati, con disabili eccetera. Secondo esempio. Dove ci sono zone di resistenza alle regole si controlla il territorio con l’aiuto dell’esercito».

Non crede che si parli molto del «dopo» e che si tenda a sfuggire al «durante»?

«Parlare del dopo è un esercizio intellettuale di consolazione. Non credo alle teorie catastrofiche. Mi auguro che si cominci ad apprezzare l’obbligo dell’interscambio».

Cioè?

«La possibilità che rinasca un’idea popolare di coesistenza pacifica anche tra schieramenti opposti e tuttavia consapevoli di aver bisogno, da avversari, l’uno dell’altro. Questo non è buonismo, ma coscienza della necessità di una reciproca collaborazione».

Paradossalmente con questa situazione abbiamo risolto il problema dell’inquinamento, del traffico, dello spreco di cibo, stiamo recuperando la solidarietà, imparando le risorse della digitalizzazione… Ci servono decine di migliaia di morti per apprendere il senso del limite? L’esito finale sarà la decrescita felice?

«La decrescita non è mai felice. A quelli della mia parte politica dico di non illudersi che sia finita l’epoca del turbocapitalismo. Dobbiamo confrontarci con tutto quello che sta accadendo sapendo che non c’è nessuna teoria di destra o di sinistra che ci dà la ricetta del futuro. In quello che lei chiama durante vedo un conflitto aperto di soluzioni».

Si spieghi.

«Credo che il segreto del dopo sarà la collaborazione interculturale. Questa forma di guerra che è la pandemia ha messo in mora due figure. La prima è il cretino, ovvero colui che parla senza sapere, derivata dalla convinzione populistica del M5s che un click vale decenni di studi. La seconda bocciatura è della figura dell’egomostro. Questa battaglia non la vincono i superuomini, ma le reti di collaborazione».

Che garanzie abbiamo che scienza e umanesimo basteranno in futuro?

«Non bastano perché a entrambe manca ciò che i cattolici chiamano fede e per i credenti di altre religioni è una dimensione meno elitaria dell’umanità. Capace di più interrogativi e di più voglia di affidarsi».

Anche perché scienza e umanesimo, pilastri del Nuovo ordine mondiale, hanno prodotto prima la crisi di Wall Street e ora questa di Wuhan. Basterà registrare meglio la macchina per ripartire?

«Non basterà. La globalizzazione è diventata una forma di ubriachezza molesta. C’è la necessità di una interdipendenza, di una nuova concordia nelle decisioni da parte dei veri poteri mondiali che non sono necessariamente quelli politici».

Sta dicendo che Trump non va bene?

«Esatto. Quello che posso sperare è che ci sia una presa di coscienza basata sul primato del vero, e quindi della scienza, dell’umanità, e quindi della relazione, della persona, e quindi dell’umiltà».

 

La Verità, 29 marzo 2020

«Una crisi gestita da esperti improvvisati»

Buongiorno signor capo di gabinetto, è così che la chiamano nei palazzi romani della politica, giusto?

«Buongiorno a lei. Proprio così, con naturale sussiego e dovuta deferenza».

Leggendo il suo libro anonimo Io sono il potere – Confessioni di un capo di gabinetto (Feltrinelli), denso di aneddoti e circostanze molte delle quali vissute da testimone oculare, raccolte da Giuseppe Salvaggiulo, mi viene il sospetto che tanti addetti ai lavori non potranno non riconoscerla. Sbaglio?

«Qualcuno ci prova, inevitabilmente. È la parte più divertente. Ma io resto uno, nessuno e centomila. Impersonale, come il potere autentico».

Parliamo del coronavirus, una situazione senza precedenti non solo per l’Italia. Prima di entrare nei dettagli, come descriverebbe con un’immagine la gestione istituzionale dell’emergenza?

«Molti hanno parlato di 8 settembre. Piuttosto mi pare una via di mezzo tra il grand bazaar di Istanbul e Caporetto».

Dire che il premier Giuseppe Conte brancola nel buio, come si faceva parlando di certe indagini della polizia, è troppo forte e troppo colorito?

«Io non do giudizi politici, non è il mio ruolo. Io lavoro nella politica, con la politica, per la politica. In questi giorni tutti annaspano. Non solo premier e ministri ma anche capi partito, sindaci e governatori più esperti. Alla fine si faranno i conti. Non escludo rivalutazioni, quando gli altri Paesi copieranno dall’Italia».

Come giudica che nemmeno 48 ore dopo la proclamazione della Lombardia e di 14 province zone arancioni si estendono queste norme a tutto il Paese?

«È quello che si sarebbe dovuto fare due settimane fa. Meglio chiudere tutto e subito che un po’ alla volta, ingenerando confusione. Nel nostro ambiente se n’era discusso».

E perché poi non si è fatto?

«Perplessità sui presupposti sanitari e giuridici, oltre che incertezza politica. Anche da parte di chi oggi chiede di chiudere tutto».

Decreti a singhiozzo che si accavallano possono trasmettere ai cittadini senso d’insicurezza e il sospetto che chi ci governa non abbia completamente in mano la situazione?

«È più di una sensazione, anche per noi uomini di Stato. Prenda le carceri. Nel ministero della Giustizia c’è grande preoccupazione, dietro le dichiarazioni rassicuranti. Il capo di gabinetto esperto ipotizza tutte le ripercussioni delle decisioni politiche. Risolve preventivamente i conflitti, minimizza gli effetti indesiderati. Così aiuta a far accadere le cose, nella direzione giusta. Altrimenti sono grida manzoniane, se non boomerang».

Di che cosa è sintomo il fatto che un governo convochi una conferenza stampa per comunicare decisioni drammatiche alle 3 della domenica mattina?

«Strutture impreparate, assenza di leadership, troppi “esperti” improvvisati. E sottovalutazione della comunicazione con i cittadini: nella gestione delle crisi sanitarie conta quanto la scienza. Anche qualche gabinettista non se n’è accorto, impiccandosi a moduli e autocertificazioni».

A suo giudizio i consulenti tecnici cui si affida il governo, da Walter Ricciardi a Angelo Borrelli a Rocco Casalino, sono sufficientemente preparati?

«Non spetta a me giudicare. E comunque si tratta di ruoli e persone troppo diversi. Uno scienziato, un burocrate, il terzo non saprei definirlo».

Com’è avvenuto che il decreto del presidente del consiglio dei ministri è stato diffuso prima che fosse firmato?

«Troppe bozze in giro, per giunta con lo stemma e l’intestazione di Palazzo Chigi. Quindi con il crisma dell’ufficialità. Da troppi anni girano bozze, bozzette e bozzacce. Su cui si esercitano manine e manone. In una materia così delicata, una follia. E senza nemmeno le precauzioni da gabinettisti esperti».

La tecnica del baco nelle copie dei documenti che ora potrebbe rivelare chi è stato a trasmetterla in anticipo all’esterno?

«Constato che è un lettore attento delle mie “confessioni”. Metodo acuto e prudente: lo introdusse Sabino Cassese alla Funzione pubblica, nel 1993. Ora invece siamo alle insinuazioni tra istituzioni. E non possiamo escludere che le manine siano più di una, come in Assassinio sull’Orient Express».

Sono confessioni che illuminano l’anatomia del potere. Quali compiti sta assolvendo il capo della Protezione civile? Noi lo vediamo solo aggiornare il bollettino dell’emergenza…

«Angelo Borrelli è un rispettabile, dignitoso e diligente funzionario pubblico. Che gli si faccia recitare il bollettino di guerra pomeridiano, oltre che irriguardoso nei suoi confronti, è un errore strategico. S’è capito tardi che siamo in uno stato di eccezione. Lei è tifoso di calcio?».

Sì, certo. Perché me lo chiede?

«Domenica, mentre guardavo la partita, ho ripensato a Carl Schmitt: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Nel calcio, sovrano è chi tira un rigore all’ultimo minuto. Nella Juventus il pallone lo prende Cristiano Ronaldo, non De Sciglio».

Per la sua esperienza, servirebbe un supercommissario?

«Servirebbe, perché manca una regia unica. Ma l’esperienza insegna che i commissari, che la politica teme perché se funzionano fanno ombra ai politici, vanno nominati subito. A questo punto suonerebbe come una delegittimazione dei titolari delle istituzioni. È doloroso osservare che la gestione di un’emergenza così grave sia finita in pasto alle furbizie e ai calcoli politici».

Non siamo più in tempo a distinguere le macchine operative una per la gestione ordinaria e un’altra con libertà d’azione per quella straordinaria?

«Di ordinario non c’è più nulla».

Tanto più. I frequenti conflitti di poteri con sovrapposizioni tra governo centrale, regioni, capo della Protezione civile non bastavano a consigliare questa soluzione?

«Nella prima fase l’autorità politica riteneva di essere in grado di gestire la vicenda da sola, supportata dal comitato tecnico-scientifico. Quando la situazione è esplosa, ha capito che non bastava. Per questo è stato richiamato Ricciardi».

Com’è possibile che si stabiliscano norme per i cittadini con conseguenze drammatiche senza disporre contemporanei sostegni per famiglie, scuole e imprese?

«Tempistiche e selezione di questi interventi appartengono a valutazioni politiche che non competono a un capo di gabinetto».

Sono state sottovalutate le problematiche del sistema sanitario?

«Si è tardato ad attrezzarlo, soprattutto nelle regioni più esposte. Non si è ipotizzato un piano per lo scenario peggiore. Per troppi giorni i medici sono rimasti senza mascherine. E solo poche ore fa è stato assegnato l’appalto per raddoppiare gli apparati respiratori per la terapia intensiva. Improvvisamente tutti riscoprono il valore della sanità pubblica, ma la sottovalutazione ha radici antiche. Sono trent’anni che, quando si fanno le riunioni preparative sulla finanziaria, il ministero della Sanità è in cima alla lista dei tagli. E il capo di gabinetto può solo cercare di limitare i danni».

Richieste del sistema ospedaliero sottovalutate, carceri in rivolta, sport nel caos: queste situazioni danno l’idea di un Paese allo sbando. È un’impressione che si ha anche dall’interno della macchina governativa?

«Per noi lo Stato non può essere allo sbando, per definizione, nemmeno quando lo appare. Dopo Caporetto c’è sempre Vittorio Veneto. Ci salveranno i medici e gli infermieri che saltano i riposi e rischiano la salute negli ospedali. Sono i nostri Armando Diaz».

Che ripercussioni ha avuto questa situazione sul funzionamento della macchina governativa?

«Assistiamo a scene inimmaginabili. A Palazzo Chigi sono stati limitati gli accessi: ogni ministro può far entrare un solo collaboratore, anziché la pletora di capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi, vice e vice dei vice. Nemmeno Renzi, che pure ci detestava, l’aveva mai fatto. E poi è partito il vortice della delazione. Se qualcuno salta un pre-consiglio dei ministri o una riunione tecnica, dilagano sospetti e pettegolezzi. E dagli all’untore. I capi di gabinetto sono spietati. E qualcuno ne approfitta per regolare conti o tarpare le ali a gabinettisti novizi ma, come dire, “cagionevoli”. Io, nel dubbio, non tossisco mai. Nemmeno per schiarirmi la voce».

Se si chiudessero tutti i servizi pubblici a eccezione di alimentari e farmacie si tratterebbe di una decisione da governo di salute pubblica, un discreto salto istituzionale per il quale forse sarebbe indispensabile un intervento del Capo dello Stato, non crede?

«Si dice che necessitas non habet legem. Camminiamo sospesi su un filo, il capo dello Stato è garante di un equilibrio fragile».

 

 La Verità, 12 marzo 2020