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Sky ci prova, ma i David restano autoreferenziali

C’è qualcosa che non torna nel bilancio dei David di Donatello in versione Sky. C’è un divario, una discrepanza, tra l’impegno profuso, la visibilità sui media, i mezzi e le partecipazioni prestigiose, e il riscontro nei gusti e negli interessi dei telespettatori. Le considerazioni della critica non devono basarsi sull’indice di ascolto, ciò che conta è il prodotto, la qualità dello spettacolo proposto, il suo valore estetico. Per una volta, però, fa pensare l’1,2 per cento di share (307.000 telespettatori) conquistato da Tv 8, il canale in chiaro che, insieme a Sky Cinema Uno, Sky Uno e Sky Arte, ha trasmesso in diretta la serata della 61ª edizione (673.000 gli spettatori totali). Il pericolo maggiore in questi casi è quello dell’autocelebrazione, il complesso di superiorità dell’élite culturale rispetto alla massa. La consegna dei David di Donatello, gli Oscar del cinema italiano, è un appuntamento annuale che si espone fatalmente al rischio autoreferenziale, appagato anche dal ricevimento della comunità al Quirinale. Consapevoli di ciò, autori e produttori di Sky, che da due anni ha strappato l’esclusiva alla Rai, hanno tentato una formula ironica e scanzonata della cerimonia. Lo si era visto fin dai promo con Claudio Santamaria. Lo si è rivisto nell’insolito prologo con decalogo delle regole imprescindibili per conquistare il David, recitato da Valerio Mastandrea, Luca Argentero e Alessandro Cattelan. Conferma ulteriore è stata la scelta di Maccio Capatonda e Fabio Rovazzi, autori di una breve satira filmata per il premio al montaggio. Bersagli: la patina intellettuale e l’enfasi autoriale che circondano il dorato mondo.

La conduzione a tutta velocità di Alessandro Cattelan

La conduzione a tutta velocità di Alessandro Cattelan

Anche la conduzione a velocità vertiginosa di Cattelan era pensata allo scopo. Tutto giusto, tutto studiato. Salvo il pericolo di scivolare sul lato opposto del crinale. Ovvero, perdersi un pizzico di magia e la lingua sognante tipiche del cinema. Ritrovate per un attimo con Roberto Benigni e la sua poetica dedica del David alla carriera a Nicoletta Braschi. Oppure, nello sconclusionato ed esilarante ringraziamento della miglior attrice Carla Bruni Tedeschi. Insomma, l’appuntamento c’era e lo spettacolo anche. I telespettatori sono anche cinespettatori e tutto concorreva al successo. Ma il grande evento non c’è stato. Forse, tra i candidati, mancava un grande film. Oppure un grandissimo interprete che potesse far uscire il cinema dal suo recinto, trasformando una serata autoreferenziale in un evento popolare. C’è di che riflettere: la strada è giusta, ma sembra ancora lunga.

La Verità, 29 marzo 2017

Tommassini: «Il segreto di X Factor? La nostra follia»

D’accordo, i giudici; Arisa che sclera e Manuel Agnelli che spacca il capello in quattro; Fedez che gioca con i calembour e l’empatia di Soler. Ok anche la musica e le canzoni, il meglio del pop soprattutto (rock pochino). Bene anche Alessandro Cattelan, con la sua conduzione smart, agile nel risolvere le situazioni più impreviste. E poi i social, la viralità, i fan, la buona stampa e tutto il resto. Ottimi anche gli ascolti (1.340.000 telespettatori nella semifinale di giovedì scorso, più 36 per cento rispetto al 2015). Ma lo show, lo spettacolo vero, internazionale e contemporaneo, dove lo mettiamo? E, soprattutto, dove andiamo a cercarlo?

I giudici di «X Factor 10». Probabilmente nella nuova edizione Arisa non ci sarà

I giudici di «X Factor 10». Probabilmente nella nuova edizione Arisa non ci sarà

 

Di Luca Tommassini, direttore artistico di X Factor, si parla troppo poco. Per compensare questa lacuna, i quattro coach si sono inventati il gioco di chi, nella serata, chiama per primo l’applauso del pubblico per lui. Un piccolo tormentone che è un riconoscimento. Perché una delle differenze principali tra il talent di Sky Italia e gli altri in giro per i palinsesti (altre edizioni di X Factor comprese) la fa la sua direzione artistica. La sua «breve biografia», come l’ha presentata l’ufficio stampa, è un curriculum lungo così. Dite un nome nel mondo del pop e lui ce l’ha: Madonna, Prince, Michael Jackson, Diana Ross, Robin Williams, Whitney Houston, Kilye Minogue, Alicia Keys, Gwen Stefani, Phil Collins, Jamiroquai, Katy Perry, Beyoncé eccetera. Dite un nome di cantante e artista italiano di primissimo piano, idem. E poi nel mondo della moda e della tv. Vi risparmio le liste altrimenti finisco lo spazio. Per la finale di giovedì 15 dicembre, da lunedì sera tutto il gruppo è al Palaforum di Assago: «Essere pronti in tre giorni per un live in un palco e una scenografia nuovi spaventa chiunque. Ma noi siamo tutti malati di mente e di passione».

Chi è Luca Tommassini?

«Un sognatore cui la musica ha dato tanto che cerca di restituire quanto ha ricevuto».

Missione impegnativa.

«Ma anche un piacere. La mattina quando mi sveglio se ho un’idea divento contagioso e cerco di trasmetterla ai miei collaboratori. Siamo una squadra fenomenale. Siamo arrivati su Sky Uno che non era accesa. Il nostro è puro artigianato italiano, facciamo tutto insieme a Sky e Fremantle Media, scenografie, coreografie, grafiche tutto fatto in casa».

Qual è il segreto di X Factor che ogni anno, siamo al decimo, incrementa gli ascolti?

«È la formula, che attinge da tutte queste figure fondamentali, Gigi Maresca che ora firma la scenografia, la costumista Claudia Tortora, il giovane regista Luigi Antonini. Tutta gente di altissima qualità».

Un momento dell'esibizione dei Soul System durante la semifinale

Un momento dell’esibizione dei Soul System durante la semifinale

 

E tu sei il capitano…

«Ho la responsabilità creatività del live. Spingo tutti verso la follia, anche con orari disumani… Conosco tutti, compresi quelli di “attrezzismo violento”, come si sono ribattezzati gli artigiani e i falegnami che costruiscono tutto qui, con Alessandro Voltolin, il direttore di palco».

Sempre tutto perfetto? Mai incorsi in qualche incidente?

«Nell’ultima puntata, la più vista della storia di Sky, le opere di Marco Lodola fatte con la luce si dovevano accendere in diretta. La cosa mi teneva in ansia. Infatti, alla prima esibizione di Gaia, la luce non si è accesa, e abbiamo illuminato tutto da fuori, al volo…».

Il pubblico non s’è accorto di niente?

«Non credo. Il fatto che non ci siano mai stati grandi incidenti è un mio orgoglio personale. Quando abbiamo coinvolto un’orchestra di 39 elementi e 40 tra figuranti e ballerini, sul palco c’erano quasi cento persone oltre a 12 sfere e una X gigante. Abbiamo fatto il cambio scena in 2 minuti e 40 secondi».

C’è qualcosa della tua esperienza che ti sta aiutando di più a X Factor?

«Madonna è stata la mia più grande insegnante. Dico spesso che, dopo Dio, lei è la più grande creatrice artistica del mondo. Non è una cantante o una ballerina eccelsa, eppure lo show è inarrivabile. Da lei ho imparato che lavorando dietro le quinte si può andare molto lontano».

Luca Tommassini con Madonna: «Dopo Dio è la più grande creatrice artistica del mondo»

Luca Tommassini con Madonna: «Dopo Dio è la più grande creatrice artistica del mondo»

Hai scritto un libro intitolato Fattore T – L’inafferrabile scintilla del talento: perché secondo te è inafferrabile?

«La scintilla è inafferrabile e inaffidabile. Va coltivata per trasformarla in un fuoco vero. Se ti metti in questo cammino, a lavorare, puoi averne luce, vita, energia. Ma per questo devi dare tutto, come si fa con un bambino per farlo diventare grande».

Ma il talento è un dono?

«Tutti ne abbiamo qualcuno, bisogna cercare di capire quale. E poi dobbiamo capire che farne. Sono dell’idea che da solo non basti: serve metà talento e metà lavoro, metà genio e metà impegno».

Che cosa ti fa scattare l’idea per una coreografia di una canzone?

«L’idea non è mai un problema. Sembra banale: ascolto la canzone a occhi chiusi e lascio andare la fantasia. A volte non arrivo nemmeno alla fine del brano. Conoscendo il cantante o l’attore entro in un mondo e inizio a sognare. Poi però mi do la sveglia per iniziare a lavorare».

Da mercoledì sarai anche giudice nel talent di Dance dance dance di FoxLife. La danza è il tuo grande amore: ricambiato?

«Lo è stato quand’ero bambino. A 18 anni, nel 1988, ho vinto lo Star Search International, il primo talent a livello mondiale. Grazie al ballo ho superato la depressione che mi venne appena smisi. Riprendendo, mi è passata. Ora faccio anche pubblicità per le auto, regie teatrali, ho recitato al cinema. Tornare a discutere di ballo mi attira. Ho già fatto il giudice in grandi programmi in Gran Bretagna, in Italia invece è la prima volta».

Non sono troppi i talent show?

«Assolutamente no».

Non affermano un’idea prefabbricata del talento?

«Penso di no. Per esempio, X Factor è l’occasione per mettere in scena quelli più pronti. Scegliamo 12 ragazzi che hanno già individuato le loro doti. Vengono dalla strada o dal laboratorio. Non serve una scuola, ma mettere a fuoco le loro potenzialità e portarli a un livello professionale».

Stai coltivando qualche nuovo progetto?

«Ho già lavorato nel cinema come coreografo. Ora mi piacerebbe raccontare una storia mia come regista. Magari anche nel mondo dell’opera».

 

La Verità, 13 dicembre 2016

 

Veltroni copia Fazio che vent’anni fa s’ispirava a Veltroni

Il fazzismo è il proseguimento del veltronismo con un altro mezzo, su questo siamo tutti d’accordo. Ma se ora Veltroni sbarca in tv e, copiando, vuole prolungare nel tempo il fazzismo, il corto circuito è inevitabile. Anzi, è un corto circuito a doppio senso di marcia perché, nel frattempo, lo stesso Fazio ha mollato il fazzismo e si è dato all’arborismo, che è la sua seconda anima. Fermiamoci un attimo per evitare le vertigini e ricominciamo da capo. Con la messa in onda di Dieci cose, nuovo – come definirlo, varietà? talk show? gioco di società? – programma tratto «da un’idea di Walter Veltroni», la nostra macchina del tempo è andata in tilt. Se ne parla da due giorni per i costi alti (un milione a serata) e gli ascolti bassi (10,89 per cento). E perché non era il caso di «mettergli nelle mani (a Veltroni ndr.) quattro milioni per organizzare una specie di fallimento» (Vittorio Feltri). In realtà, il budget è andato ai produttori di Magnolia e chissà se e quanto ne è arrivato all’ideatore. Caso mai, una volta ascoltata l’idea, la Rai avrebbe fatto bene a stringergli la mano: già vista, caro Veltroni.

Il programma di Rai 1 consiste nella partecipazione di due ospiti che compilano una lista di dieci preferenze (persone film libri luoghi e cibi che vengono evocati, illustrati e commentati con esibizioni). Sabato sera erano Alessandro Cattelan e Gianluigi Buffon, il portiere della Juventus che, in contemporanea, stava giocando cotro l’Udinese. E già questo è uno strafalcione gigantesco. La contemporaneità non è l’ubiquità degli ospiti, ma è proprio su questa che Dieci cose cade rovinosamente. Per dire: c’era anche la campionessa paralimpica Bebe Vio alla vigilia della partenza per partecipare allo «State dinner» di Obama, ma al momento della registrazione, non se ne sapeva nulla.

La moda delle liste iniziò vent’anni fa con i libri di Nick Hornby e ebbe diverse applicazioni prima nella Rai 2 di Carlo Freccero (Anima mia di Fazio e Baglioni, 1997), poi sempre con Fazio, stavolta spalleggiato da Saviano, in Vieniviaconme (Rai 3, 2010) e Quello che (non) ho (La7, 2012). Soprattutto quella firmata con Saviano era tv pedagogica, fortunatamente tramontata. Anche Fazio ne ha preso le distanze, rinnovando il suo format con il «bar show» di Che fuori tempo che fa, un gruppo di ospiti che cazzeggia attorno a un tavolo parlando di libri, film, tv, umanità varia. Per questo un anno fa ha riscoperto Nino Frassica, il più arboriano dei comici, e ora ha sostituito autori storici come Duccio Forzano e Pietro Galeotti. Che ora, invece, firmano Dieci cose. Dove c’era il tavolo con gli ospiti, ancora in versione pedagogico-moraleggiante, ed è comparso pure Frassica. Che la Rai sta, colpevolmente, spalmando ovunque. Dieci cose, ritorno al passato.

Su Italia 1 Alvin studia da Cattelan

«La musica non è mai stata così divertente»: era questa la promessa un tantino iperbolica di Bring the Noise, il nuovo programma di Italia 1 condotto da Alvin e tratto da un format inglese (mercoledì, ore 21.15, share del 6,94 per cento). Esagerazioni a parte, inevitabili nel lancio di uno show che si prefigge di recuperare il pubblico giovanile, bisogna ammettere che il divertimento c’è. Adrenalina, tormentoni, bolgia, anche caciara a volte. Alvin è il conduttore-animatore del gioco che si svolge attraverso prove che vedono in competizione due squadre di quattro concorrenti ciascuna. L’altra sera erano Paola Barale, Katia Follesa, Jack LaFuria dei Club Dogo e Francesco Cicchella da una parte, Mercedes Henger, Francesco Facchinetti, Andrea Pucci e Fabio Rovazzi dall’altra. Le sfide consistono nell’indovinare il titolo di una canzone attraverso il ritornello cantato al contrario, o urlato dentro un catino pieno d’acqua, oppure ascoltando il testo pronunciato dalla voce di un navigatore satellitare, o leggendo il labiale del compagno di squadra dietro il cristallo di una cabina con isolamento acustico. I concorrenti devono anche esibirsi ballando e cantando in playback un brano pop famoso, giudicati dall’insindacabile Alvin. La riuscita del game dipende in gran parte dalla capacità del conduttore di diffondere l’adrenalina della festa e dalla disinvoltura con la quale gli ospiti accettano la presa in giro (Rovazzi è stato massacrato tutta la sera). Non ci sono altri obiettivi che il divertimento puro, due ore di giochi musicali, nell’occasione intervallati dalle battute sempre in agguato di Andrea Pucci. Immancabile l’esibizione canora di un prete che ha trasformato l’«andiamo a comandare» di Rovazzi in «andiamo a confessare».

Anna Tatangelo e Alvin provano la seconda serata di «Bring the Noise»

Anna Tatangelo e Alvin provano la seconda serata di «Bring the Noise»

Dopo una puntata si può dire che l’impianto si regge sulla comunicativa contagiosa di Alvin, alla prima conduzione di un programma tutto suo dopo una lunga gavetta come spalla nella quale, soprattutto da inviato dell’Isola dei Famosi, aveva già dimostrato le sue potenzialità. Meno forbito e forse meno raffinato, ma con la stessa versatilità e spontaneità nel gestire i momenti dello show e gli ospiti sul palco, Alvin può rappresentare la risposta di Mediaset ad Alessandro Cattelan di Sky. Attenzione a non bruciarlo, però: per questo forse sarebbe stato più opportuno un avvio in seconda serata. Ma tant’è, la musica è divertente. Sul non esserlo «mai stata così tanto», invece, va ricordato Furore con Alessandro Greco, di cui Bring the Noise è una versione altrettanto coinvolgente, ma più moderna.

La Verità, 1 ottobre 2016

Dove va la nuova Sky in sei mosse

Seratona al Teatro degli Arcimboldi di Milano per la presentazione dei palinsesti Sky, loro li chiamano Upfront… Red carpet con star e talent della casa e ragazzini vocianti a caccia di autografi da Del Piero a Ilaria D’Amico, da Claudio Bisio ad Alessandro Cattelan. L’esordio è all’insegna della grandeur, ma anche dell’autoironia. Mix non facile. Sulle note della colonna sonora di Star Wars, Cattelan plana sul palco su uno skate alla maniera di James Bond e annuncia: “Umiltà! È questa la parola chiave della serata…”. Per scaldare ancora l’ambiente l’orchestra esegue la sigla del Festival di Sanremo e poi si corregge con quella della Champions League (a proposito, in contemporanea la Juve esordiva su Premium e chissà se Sky ha piazzato il suo galà in contemporanea per rubarle visibilità). Altro esempio di grandeur autoironica. Al momento di The Young Pope, Cattelan compare nell’abito bianco indossato da Jude Law – papa Pio XIII° mentre una voce dall’alto lo rampogna: “Stavolta avete davvero esagerato… Però, siccome sono un fan, mi procurate due biglietti per la prima di X Factor?”. Dunque, grande spettacolo e parterre. Insomma, sarà perché l’anno scorso non c’ero e la differenza salta di più all’occhio, fatto sta che davanti a questa profusione di energie e risorse, vien da chiedersi dove va Sky? cosa vuol essere o diventare?

 

Fiorello con Meloccaro all'Edicola, dal 10 ottobre su Tv8

Fiorello con Meloccaro all’Edicola, dal 10 ottobre su Tv8

  • Sempre meno pay tv. Dimenticato il conteggio degli abbonati (in lieve calo), la tv di News Corp gioca su più tavoli e piattaforme. Molto spazio ai canali in chiaro. Tv8 in particolare con la crescita della “rete generalista” (+ 14 per cento), ma anche il posizionamento di SkyTg24 (0,8 per cento). Più incerte identità e audience di Cielo.
  • Televisione giovane. Sky lavora sulla ricerca e il lancio di giovani talenti. Dopo Cattelan, che dalla prossima stagione condurrà quotidianamente il suo EPCC avvicinando ulteriormente l’inavvicinabile Dave Letterman, ora il nuovo astro nascente è Lodovica Comello, già apprezzata per immediatezza e simpatia in Singing in the car su Tv8.
  • Televisione delle eccellenze. Tra i momenti più divertenti della serata il collegamento con Fiorello, solita forza della natura, con la squadra dell’Edicola (dal 10 ottobre su Tv8): “Semprini e Mika se ne sono andati in Rai… Vabbé, se vogliono guadagnare di meno…”. Sky vuole mantenere e ampliare firme e brand. Oltre Fiorello, Paolo Sorrentino, Gomorra, X-Factor e le collaborazioni con HBO e Showtime.
  • Si lavora per addizione. La tv si allarga in orizzontale senza perdere in penetrazione. L’esempio è il lancio di una serie di 18 documentari sotto il titolo Il Racconto del reale, in programmazione su Sky Atlantic, il canale delle storie. Tra gli autori ci sono Giancarlo De Cataldo, Mimmo Calopresti, Beatrice Borromeo, il gruppo di 42° Parallelo, Michele Bongiorno.
  • Innovazione tecnologica. Forse la novità più forte: è stato annunciato l’avvento del sistema AdSmart attivo sui decoder My Sky, che consentirà agli investitori di mirare per target e area geografica le campagne pubblicitarie, indirizzando spot diversi a diversi abbonati, con annunci affini ai gusti e alle preferenze degli spettatori.
  • Tv più italiana. Forse il processo più interessante. Con le serie esportate all’estero, con i talent e le nuove produzioni, con l’acquisizione di nuovi artisti, Sky si propone come soggetto editoriale più italiano. L’origine australiano-americana si stempera progressivamente. Con il nuovo claimSiamo le vostre storie – reso da un bellissimo video, Sky vuole stabilire un meccanismo di identificazione anche emotiva con il suo pubblico. Siamo la stessa cosa…

 

 

 

I David di Donatello di Sky portano Hollywood sul Tevere

L’idea era lì, a portata di mano. Ma finora nessuno l’aveva raccolta. Eppure non era difficile. Visto che i David di Donatello sono considerati gli Oscar italiani, i David Awards, perché non trattarli alla maniera di Hollywood? Perché non hollywoodizzarli? Al mattino, c’era da sempre anche il ricevimento al Quirinale col discorsetto del Presidente della Repubblica… Era semplice no? In mano a Sky, l’appuntamento televisivo relegato alla differita per pochi cinefili e un pubblico di nicchia si è trasformato in evento: cinematografico, mediatico, anche mondano, per quel che conta. Una cerimonia di poco più di due ore è riuscita ad armonizzare carattere istituzionale, linguaggio moderno, ambizione artistica, autoironia e glamour da tappeto rosso. È il risultato della volontà di pensare in grande. Trasformare il rito dei David in evento è un piccolo mattone nella costruzione di un’industria che voglia produrre arte rivolta al grande pubblico. Bisogna crederci giorno per giorno e sorprende – ma non tanto – che non sia la Rai, il servizio pubblico anche produttore e distributore cinematografico, protagonista di questa operazione.

Premiazione perfetti sconosciuti

Diversi altri mattoni vanno aggiunti per far avanzare il progetto, a cominciare dalla rottura di certe consorterie dure a morire che resistono all’interno dell’Accademia (1916 giurati) e si sono viste all’opera nella distribuzione dei premi che, manco a dirlo, hanno proditoriamente escluso Quo vado? di Checco Zalone, peraltro già ampiamente sdoganato dalla critica più engagé. Più plausibili il trionfo di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti che ha visto premiati tutti quattro gli attori (Claudio Santamaria, Ilenia Pastorelli, Luca Marinelli e Antonia Truppo, forse almeno il David all’attrice non protagonista poteva esser dirottato su Sonia Bergamasco), il successo di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese (miglior film e miglior sceneggiatura) e il riconoscimento a Il racconto dei racconti di Matteo Garrone per la miglior regia e nelle categorie tecniche.

Tornando alla televisione, la sessantesima edizione dei David proposti in prima serata su SkyUno, SkyCinemaUno e, in chiaro, su Tv8, non è immune da impacci e ingenuità. A cominciare da Alessandro Cattelan,  acclarato talento della conduzione, ma forse troppo giovane e giovanilista per un evento così istituzionale. Lo si è intuito all’ingresso in teatro, quando con la sua verve da dj, ha presentato Toni Servillo in tutte le sue rughe da attore consumato. Il cambio d’inquadratura ha reso il salto generazionale e di carisma. Sensazione confermata poco dopo quando, citando Gianluigi Rondi, presidente dei David e autorità assoluta del nostro cinema, ha menzionato i suoi 94 anni, per invitare i premiati a ringraziamenti brevi. Per non parlare della gaffe sull’autore del motivo di Lo chiamavano Trinità (Franco Micalizzi e non Ennio Morricone). Altri nei: la lettura del gobbo di molti dei premiatori, le immancabili e veltroniane interviste ai bambini su chi è il produttore. Per il resto, narrazione ritmatissima, forse un filo discontinua, tra parodie dei Jackal, video registrati, gag di attori e attrici molto scritte (il presunto battibecco tra Matilde Gioli e Matilda De Angelis) e corsa indiavolata di Cattelan nel tentativo di recuperare il (presunto) ritardo. Pur con queste imperfezioni, dettate dall’esordio, alla prima prova Sky fa registrare un notevole cambio di marcia rispetto al passato. L’ironia di Paolo Sorrentino che si presta a giocare con i Jackal (“È il Cinema che mi manda”), l’emozione di Luca Marinelli e quella di Ilenia Pastorelli, l’intero cast artistico e tecnico di Perfetti sconosciuti sul palco restano momenti memorabili di una bella serata d’intrattenimento tra glamour e arte.

C’è da lavorare, c’è da limare. Ma abbiamo gli Oscar italiani, fruibili e godibili anche dal grande pubblico (grazie a Tv8). Una buona notizia, per la televisione e per il cinema.

Rivoluzione in vista, ecco come sarà XF10

Era finita da una manciata di minuti la finale di XF9 con l’inattesa vittoria di Giosada sui superfavoriti Urban Stranger che già TvZoom, il sito diretto da Andrea Amato, lanciava un sondaggio sui giudici: “chi verrà eliminato dopo questa edizione di XFactor? Fedez, Mika, Elio, Skin?”. Quesito tutt’altro che peregrino, perché, al culmine di un ottimo risultato della finale (9,7 per cento di share sommando gli ascolti di Sky Uno e Cielo in chiaro per circa 2,3 milioni di telespettatori, più 17 per cento rispetto alla finale dello scorso anno che totalizzò l’8 per cento e due milioni di persone), non altrettanto positivo durante il percorso di avvicinamento, è giusto prevedere una svolta per la decima edizione. Un cambiamento consistente, se non proprio una rivoluzione, ancor più giustificato se proseguirà la sfida a distanza con il Grande Fratello, l’ex Ferrari dei reality, che ha fatto registrare un trend positivo rispetto all’edizione della primavera 2014, ma ha segnato un netto calo nella puntata finale (22 per cento di share con 4,3 milioni di spettatori contro 24,2 e 4,7 milioni dell’edizione numero 13 quando andava in onda il lunedì).

A questo punto conviene mettere un po’ di ordine nei numeri e chiedersi se lo scontro diretto, il derby tra reality e talent show, non riproduca in un certo senso, gli effetti già visti per il raddoppio dei talk show al martedì sera (diMartedì su La7 e Ballarò su Raitre) con conseguente divisione del target. Quella di Mediaset è stata una chiara scelta di controprogrammazione: con il Grande Fratello al giovedì si voleva coprire XFactor. Obiettivo raggiunto solo parzialmente perché la controprogrammazione si è rivelata un’arma a doppio taglio, per due motivi. Il primo è che ormai il brand del talent è molto radicato soprattutto nel pubblico giovanile e femminile, lo stesso del Gieffe. XFactor è un fenomeno di costume, un argomento di discussione tra amici, un marchio che fa tendenza: quello che Grande Fratello è stato un decennio fa. Il secondo motivo, più tecnico, è che, contestualmente, le reti Mediaset sono uscite dalla piattaforma Sky e il pubblico sintonizzato sul talent, difficilmente, durante le lunghe pause pubblicitarie, cambia telecomando per sintonizzarsi su Canale 5 in digitale. Ma siccome vale anche il processo contrario, il non-zapping dal digitale al satellite, ecco che, salvo che per la finale dove XFactor è risultatoo chiaramente in crescita, hanno perso qualcosa sia il reality che il talent.

Chiusa la lunga parentesi sugli ascolti, torniamo agli scenari futuri e al sondaggio sui giudici di XF9. Ieri in un’intervista al Corriere della Sera, con molta astuzia Skin ha auspicato la continuazione della sua carriera nel talent (“l’anno prossimo vorrei vivere qui”; facendo il giudice a XF10? “Non ne abbiamo ancora parlato… Se tornerò l’anno prossimo saprò come mettere a frutto quello che ho imparato in questa edizione”).  Ma è sotto le orecchie di tutti che, con tutta la carica e l’empatia dimostrata verso i ragazzi e nonostante l’apprezzabile impegno, il problema della lingua persiste. Si vedrà. Un po’ più solidi appaiono gli altri componenti della giuria. Mika e Fedez, però, hanno tenuto a puntellare la loro posizione esplicitando in diretta l’orgoglio di lavorare nel miglior show musicale in circolazione, come conferma anche il livello degli ospiti nazionali e internazionali (dai Coldplay a Moroder). Quanto a Elio, lasciare da vincente non sarebbe un errore. Chi ha il posto assicurato anche per il prossimo anno è invece Alessandro Cattelan, la cui conduzione, al netto di qualche euforia di troppo (per esempio, dopo l’infelice esibizione di Battiato), è brillante e agile allo stesso tempo. Infine, a proposito di diretta, è apparso un po’ stucchevole quel “Ciao Milanooo” ribadito a squarciagola come un mantra da tutti. Non sarebbe da stupirsi se, nella prospettiva del cambiamento, quel “ciao” dovesse essere sinonimo di addio, in vista di un trasferimento dello show a Roma o altrove…