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«Non ha alcun senso parlare di tecnodestra»

Giacomo Lev Mannheimer è stato capo della policy per l’Europa meridionale di TikTok e poi di Apple ed è co-fondatore di FutureProofSociety, una startup che aiuta le imprese a fronteggiare le grandi trasformazioni. L’ultimo saggio, intitolato I mercanti nel palazzo, appena pubblicato dal Mulino, illumina i rapporti tra aziende, big tech e potere politico.
Dottor Mannheimer, la fotografia del palco di Capitol Hill all’insediamento di Donald Trump con Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg in prima fila è la perfetta rappresentazione del titolo del suo libro?
«Una rappresentazione plastica, direi. È la manifestazione estetica di un fenomeno che, come tutte le manifestazioni estetiche, ha radici profonde e complesse nel tempo».
È un titolo che richiama l’episodio evangelico di Gesù che caccia i mercanti dal tempio?
«Che avvenne non perché i mercanti vi facevano il loro lavoro, ma perché, con la venuta di Cristo, non era più necessario commerciare animali da sacrificare. Al contrario, quello che oggi i mercanti portano nel palazzo sono informazioni utili perché, senza quelle, il palazzo sceglie male».
Quali sono le radici del fenomeno?
«C’è un’aura di mistero sul lavoro dei lobbisti e sulle interazioni tra aziende e politica. Ma in realtà è un’attività normale, utile a tutti, perfino alla stessa democrazia perché allarga la possibilità per la società civile di portare alla politica dati, punti di vista e istanze».
L’Inauguration day è stata l’espressione della tecnodestra?
«No. Sicuramente Elon Musk non fa mistero della sua opinione politica ma, innanzitutto, sono mutevoli le categorie di destra e sinistra e, in secondo luogo, tutti gli altri pensano, com’è giusto che sia, principalmente ai loro interessi».
La convince di più il termine oligarchi?
«Nemmeno, non ci vedo niente di oligarchico. Semplicemente sta accadendo alla luce del sole ciò che accade da sempre: potere politico e potere economico si parlano di continuo e in modo approfondito».
Tuttavia, quel parterre non poteva non colpire: qual è il modo corretto d’interpretarlo?
«Trump si è accorto che è più intelligente portare dalla sua parte il potere dell’industria tecnologica rispetto a quello dell’industria tradizionale com’è sempre accaduto in passato».
Ha capito che i big tech sono strategici.
«È una vittoria di Trump più che di Musk, il quale avrebbe potuto influenzare anche l’amministrazione precedente».
Dobbiamo considerarlo come un plateale endorsement pro Trump?
«Sì, bravo Trump ad averlo ottenuto in modo così plastico. Ma non era diversa la situazione quando le piattaforme collaboravano quotidianamente con l’amministrazione Biden. La differenza è che Biden non ha saputo sfruttare a suo vantaggio quella collaborazione».
Federico Rampini ha sottolineato la velocità del nuovo riposizionamento.
«Specialmente durante la pandemia ci sono prove di contatti giornalieri fra le piattaforme e il governo americano per decidere cosa si potesse dire e cosa no. Il livello d’interazione era così intenso che come allora le big tech erano sintonizzate su quale dovesse essere il loro ruolo, così lo sono adesso, con la nuova presidenza».
Perché il bersaglio principale delle critiche è Elon Musk?
«Perché si espone politicamente in prima persona da uomo più ricco del mondo. In questo è diverso da Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e gli altri».
Perché si stigmatizzano il presunto saluto romano, le interferenze sui governi europei e i conflitti d’interessi, mentre non si dice nulla su altre distorsioni come il transumanesimo, il ricorso all’utero in affitto e, in generale, il potere salvifico della tecnica?
«È un tentativo di framing, cioè di inquadrare una persona estremamente complessa dentro categorie note alla maggioranza su cui è più facile fare propaganda».
Lo si riduce in un ambito stretto omettendo inclinazioni più prossime al mainstream?
«Che lo renderebbero difficile da comprendere alle persone comuni».
È giusto allarmarsi se l’uomo più potente e l’uomo più ricco del mondo si alleano?
«Mi porrei piuttosto il problema della dipendenza dell’Italia e dell’Europa dal potere politico e tecnologico americano. Ma la responsabilità di questa dipendenza è nostra, non loro».
È giusto alzare il muro contro Starlink per proteggere la tecnologia europea?
«Con i soldi del superbonus avremmo potuto fare cinque Starlink per l’Italia».
La tecnologia europea è competitiva?
«Non lo è a causa di scelte compiute in passato. Bisognerebbe investire sulle tecnologie che determineranno i prossimi dieci o vent’anni».
Perché fino a ieri il cosiddetto allarme democratico non c’era?
«Per un fattore estetico: e qui torniamo alla brutale evidenza con cui quella foto ha reso esplicito il rapporto stretto fra poteri».
I motivi di allarme c’erano anche prima?
«A mio parere erano enormemente superiori. Perché i rapporti tra questi poteri erano non visibili e non trasparenti e avevano obiettivi prevalentemente di censura. Oggi hanno obiettivi di supremazia dell’economia americana».
Su questo fronte, come si è visto con l’intervento al Forum di Davos, i rapporti fra Trump e l’Europa sono destinati a inasprirsi?
«Trump fa gli interessi degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe imparare a fare i propri. A mio avviso non è nei suoi interessi alzare muri di leggi e regolamenti».
Che ruolo può avere Giorgia Meloni in questo scenario?
«Speriamo che faccia da àncora di salvataggio, colmando il vuoto lasciato dall’assenza di dialogo con le istituzioni europee».
Tornando al controllo dell’informazione, durante l’amministrazione Biden non si faceva che parlare di fake news.
«E questa veniva considerata un’azione meritoria. Ma come ha recentemente ammesso Zuckerberg si è trattato di un errore di valutazione».
I grandi media hanno ignorato la notizia delle pressioni dell’amministrazione Biden su Meta relative ai vaccini anti Covid e i loro effetti avversi.
«I media tradizionali sono abituati al controllo politico e l’idea che i social media possano liberarsene li spaventa perché potrebbe indirettamente indebolirli».
È una gara a censurare meglio?
«Nelle dirigenze dei media tradizionali si pensa che i social media dovrebbero essere sottoposti allo stesso trattamento cui sono sottoposti loro. Ma allo stesso tempo si pensa che è una cosa da non far conoscere ai cittadini».
Come va interpretato l’atteggiamento morbido di Trump verso TikTok?
«È una geniale operazione di marketing politico che non ha nessuna base sostanziale, ma aiuta Trump a posizionarsi come vicino agli utenti della piattaforma e ai giovani. Mi ha colpito che nelle 24 ore di blocco della piattaforma la schermata riportava esplicitamente la fiducia che Trump risolvesse la situazione».
Il riposizionamento delle big tech serve a ottenere un trattamento fiscale più vantaggioso da Trump?
«Non credo, perché paradossalmente il fisco non è uno dei principali problemi delle piattaforme. Lo è di più la possibilità di sperimentare modelli di business e uniformità di regole nei Paesi in cui operano. Un esempio è il limite allo sviluppo dell’intelligenza artificiale dovuto alle regole europee che è un ostacolo enorme al business delle piattaforme in Europa».
Come dobbiamo catalogare il silenzio che ha avvolto la notizia dei fondi Ue usati dall’ex vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans per pagare associazioni ambientaliste per le campagne a sostegno dell’agenda green?
«È un fatto gravissimo perché sono soldi pubblici, mentre il lobbing è fatto con soldi privati spesi legittimamente, fino a prova contraria».
Anche qui ritorna l’atteggiamento omertoso dei media.
«È molto grave perché, ripeto, si tratta di soldi pubblici usati per un’azione esterna al mandato istituzionale di Timmermans. Il silenzio dei media, con pochissime eccezioni, purtroppo ha una natura ideologica che dipende da un profondo imbarazzo».
Perché per lei la priorità non è difendere il palazzo dai mercanti, ma difendere i mercanti dal palazzo?
«Perché la politica sfrutta le lobby come capro espiatorio di mancate scelte, mentre più trasparenza sugli interessi privati costringerebbe la politica ad assumersi le proprie responsabilità».
Per esempio?
«Le vicende dei taxi e dei balneari su cui la politica rimanda, imputando la decisione alle categorie».
Fino a qualche mese fa i social media erano palestra e veicolo della cultura woke, del gender e del green deal, perché ora non lo sono più?
«Giocano un ruolo importante le regole interne alle piattaforme, mentre dal punto di vista politico e sociale un cambio di vento è visibile da qualche anno. Musk si è fatto interprete di questo cambio di vento. Sarà interessante vedere cosa arriverà in Europa, specialmente nelle aziende. È lì che sono cambiate le strutture, le politiche e le decisioni. In tante aziende non si sono potuti assumere uomini per anni».
Diverse aziende hanno sospeso l’adesione ai protocolli Die (diversity inclusion e equality).
«Non fanno notizia per ora e non sono sicuro che siano così tante. Infine, bisogna vedere come si concretizzerà questa sospensione».
«Niente è più forte di un’idea di cui sia giunto il tempo» è un’espressione attribuita dal politologo John Wells Kingdon a Victor Hugo. Sembra che in molte parti del mondo cresca il consenso verso posizioni conservatrici, com’è maturato il tempo di questa idea?
«È maturato dagli shock digitale, energetico e geopolitico che hanno aumentato l’incertezza diffusa e spinto le persone a tirare il freno e conservare il più possibile ciò che hanno sempre conosciuto e capito meglio».
Tuttavia, i dati economici e sociali indicano un maggior benessere rispetto a qualche anno fa. O forse si tratta più di benavere che di benessere?
«Quello che conta è la percezione e la percezione è di un mondo che va velocissimo e in cui le certezze sono sempre meno».
Ciò a cui stiamo assistendo è un cambiamento culturale, una ribellione all’establishment o una mutazione di tipo economico e geopolitico?
«Nessuna delle due. Credo sia il cambiamento in una direzione che è influenzata sempre meno dalla politica e sempre più dalle imprese».
Concorda con chi parla di fine della globalizzazione?
«No. Esiste una forte tensione tra reti digitali e fisiche sempre più globali ed esperienze e consumi sempre più individuali. Ma il mondo di per sé è molto più connesso di quanto la politica voglia far sembrare».
C’è da rallegrarsene?
«La connessione di per sé è un bene, ma ovviamente richiede grande consapevolezza e capacità critica».

 

La Verità, 25 gennaio 2025

«Il fascismo? Roba passata, basta chiedere abiure»

Un pensiero terzo nell’epoca della polarizzazione. Un pensiero laterale rispetto al pensiero unico, pigro e conforme. È quello che sgorga da Controstoria dell’Italia (Bompiani editore) di Giampiero Mughini, sottotitolo: Dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi. Mughini attinge al Muggheneim (il titolo del penultimo saggio) di libri, riviste e arredi di design della casa-museo, e alla memoria di una vita vissuta senza adagiarsi in luoghi comuni. Lo scopo è «mettere una targa di carta a rammemorare quella storia (della guerra civile ndr), nonché quella successiva della Repubblica italiana, in tutte le loro complessità e ambivalenze».
Mughini, conosciamo la controinformazione, perché c’è bisogno di una controstoria d’Italia?
«Perché le nuvole di banalità che ci avvolgono vanno alla grande. Banalità che convincono i beoti di assurdità scambiate per senso comune. Invece, abbiamo bisogno di cercare verità nuove, inedite, anche aspre, se occorre. Ritrovare vicende e situazioni che ci erano passate di mente e non contentarci delle certezze in cui credevamo 20 o 30 anni fa».
Che cosa non ti piace dell’ufficialità e del conformismo odierni?
«C’è un nuovo conformismo che è più duro di quello vecchio. Mentre abbiamo bisogno di entrare nell’universo del Terzo millennio. Un’epoca diversa da quelle che abbiamo vissuto finora e che e ci impegnerà non poco per campare».
Controstoria dell’Italia lo definiresti un libro montanelliano?
«Indro mi perdoni, ma è un riferimento che accolgo con onore».
In una controstoria serve la giusta distanza anche riguardo ai fascisti, raccontati senza risparmiare critiche, ma con il rispetto che si deve all’avversario politico?
«La giusta distanza serve sempre. Il rispetto dell’avversario fa parte del mestiere di vivere. Egli non è un tipetto che fa schifo dall’inizio alla fine e da dover distruggere. La pensa diversamente da te. Ha dei meriti che tu non gli riconosci e tu hai dei meriti che lui non ti riconosce. La vita è imparare, con il senso dell’ironia».
È il rispetto che avevi nei confronti di tuo padre?
«Mio padre mi avrà detto venti frasi in tutta la sua vita e ogni volta ha lasciato il segno. Era una brava persona e questo è ciò che più conta. Quando, poco più che ventenne, dirigevo Giovane critica a Catania e non avevo i soldi per stamparla, ci mise i suoi. E quando poi ci fu da dividere l’eredità con i miei fratelli, tolse la quota che aveva anticipato».
Contesti che il fascismo non abbia prodotto una cultura.
«Basta citare il Futurismo. La cultura non è un cumulo di truppe armate contro altre truppe armate, è l’intelligenza delle sfumature».
Farne tabula rasa dipende dal complesso di superiorità di coloro che stanno seduti sempre dalla parte giusta della storia?
«Si sta dalla parte giusta della storia come se fosse sempre quella. E come se invece non cambiasse continuamente. I fascisti avevano ragione quando replicavano a coloro che sputavano per strada contro i reduci delle trincee. Mica si erano divertiti quelli che erano stati nelle trincee».
Rivisiti la figura di Alessandro Pavolini, addirittura capo del Partito fascista repubblicano e fondatore delle Brigate nere. È il paradigma di coloro «che ci credono fino in fondo»?

«Di coloro che si giocano tutto nel crederci fino in fondo. Ciò nonostante, Pavolini non era un mostro, bensì un italiano del suo tempo, un fascista convinto, protagonista di un tempo atroce. Amico fraterno di Galeazzo Ciano, dopo il tradimento del 25 luglio 1943 è colui che ne pretende la fucilazione. Chi scrive la storia per bene, Pavolini lo deve mettere in piedi. Così come chi scrive la storia per bene, dei 15 fucilati a Dongo deve dire che un regolare processo ne avrebbe condannato uno solo. L’Italia deve riconoscere che le cose sono andate così e soprattutto non avere la libidine di rinfocolare fascismo e antifascismo. Che non esistono più. Sono quattro ragazzotti per strada, ma noi sappiamo cos’è stato dei ragazzotti per strada».
Pavolini è l’emblema del fanatismo ideologico, primo nemico anche oggi?
«Certamente. Quel fanatismo che alimenta i terroristi islamici delle Torri gemelle. E di tutti quelli che non riescono a immaginare se non la distruzione degli avversari ideologici. Come accaduto anche nella stagione del terrorismo italiano».
Scrivi che il cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, dove Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi da Walter Audisio, il partigiano «Valerio», è «il luogo fisico più carico di tragedia che io abbia mai tastato in vita mia».
«Su quel cancello si chiude una storia tragica. Quattro colpi di fucile contro un uomo anziano e una donna. L’Italia di quell’epoca finisce nel modo peggiore».
Altri posti tragici dove sei stato?
«A Piazzale Loreto, dove qualche giorno prima erano stati massacrati dei partigiani. E dove, per vendetta, appiccano quelli per le gambe… ivi compresa una donna. Un atto spaventoso».
Sei mai stato a vedere un campo di concentramento nazista?
«No. E ho l’impressione che non ne caverei il tutto, che non si possa attingere completamente a quell’orrore. Veramente spaventoso».
Parlando criticamente anche di te stesso e di un tuo intervento in occasione di un 25 aprile di molti anni fa usi il vocabolo «incultura» a riguardo della faciloneria con cui si argomenta di fascismo e antifascismo. Che cosa pensi della polemica per il mancato intervento a Rai 3 di Antonio Scurati?
«Lì non ci sono parole, in effetti. Era stato chiamato a fare un discorso, che per altro non aveva niente di speciale o originale, ma che non mi pare si potesse censurare. Era un discorso sacrosanto. Certo, un governo che ha quel colore lì non ama sentirselo dire in faccia. È stata una pagina micragnosa».
Sebbene sia documentato che i biglietti del treno e dell’hotel per la trasferta di Scurati fossero già stati pagati?
«Forse c’è stata una retromarcia voluta da qualcuno. Ho l’impressione che nel gruppo al potere ci sia una differenza notevole tra il capo del governo e i suoi attendenti».
Cosa pensi dell’insistenza con cui si richiedono abiure al premier?
«È semplicemente ridicolo. Quelli hanno avuto una loro storia. Giorgia Meloni ha avuto una sua giovinezza, in cui si diceva fascista. Ma è del tutto evidente che con la storia di un secolo fa non ha niente a che fare. Cosa stai a chiedere?».
Perché non avviene altrettanto quando a Palazzo Chigi si trova o si trovasse un post-comunista?
«Onestamente, ora la cosa è impossibile. Ma probabilmente avremmo la stessa tiritera».
Dici?
«
Penso di sì. La gente è abbarbicata alle cose in cui ha creduto e non fa un passetto per mutare la sua camminata».
Il tuo amore per il design e il desiderio di possederne i pezzi più succulenti e quello per i libri e le loro prime edizioni è una debolezza che fa prevalere l’avere sull’essere? Voglio dire, il capitolo sulla guerra civile riguarda l’identità della persona, quello sulla bellezza italiana sembra riguardare il possesso.
«Assolutamente no. Tra avere e essere non c’è differenza. Avere un libro e leggersi proprio quel particolare libro, in quella edizione, è un’esperienza che riguarda pienamente l’essere».
Perché quello su Silvio Berlusconi è stato il capitolo più faticoso da scrivere?
«E di gran lunga. Perché nutrivo una simpatia personale in quanto lui era di una squisitezza umana straordinaria. Tuttavia, certo, ne ha combinate tante, tantissime. Come si fa a dare un giudizio univoco su un tale personaggio. Anche in questo caso, l’odio contro di lui è stato di un’intensità pazzesca. Ora, io non sono stato berlusconiano un solo giorno della mia vita. Però non potevo non ammirare il costruttore, l’imprenditore che aveva delle squisitezze umane. Vicino a dove abitavo a Roma, c’era una famosa sezione del Partito comunista che poi cadde in disgrazia. Bene, lui volle venire a vederla, ci volle entrare, rendersi conto… L’uomo era questo».
Invece il capitolo più macerante è stato quello sugli anni di piombo?
«Direi quello degli italiani che si ammazzavano negli ultimi mesi della guerra civile. Non c’è cosa più brutta. Ci si ammazzava fra italiani. Sono cose spaventose rispetto alle quali, oggi, l’Italia, anziché ricucire, intinge la conflittualità e spasima di riproporre quelle zuffe».
È la perenne contrapposizione dell’antifascismo.
«Sì, lasciamola nel passato».
In un documentario sulla storia di Lotta continua in cui eri intervistato anche tu, Erri De Luca dice che gli Anni di piombo sono stati anche anni di rame.
«Non ho nostalgia per quel decennio, quando anche i ragazzi si ammazzavano per strada. Parlo di quei tre ammazzati dinanzi alla sezione fascista. E tutta la discussione su Acca Larenzia vien fatta sul braccio alzato e non sui morti ammazzati in quel modo».
Scrivi che avresti detto «presente» anche tu.
«Non col braccio teso, s’intende. Dinanzi a quei tre ventenni stroncati, dentro di me l’avrei detto».
C’è troppa indulgenza verso i giovani che manifestano per la Palestina?

«I giovani raramente hanno avuto ragione. In questo caso non mi pare ne abbiano molta. Il loro atteggiamento nei confronti di questa tragedia è molto modesto. Non hanno battuto ciglio per bambini e donne morte il 7 ottobre. Io invece, naturalmente figurati se non ho tenerezza per i bambini palestinesi che crollano a mucchi, il 7 ottobre non riesco a dimenticarlo».
Se ti si chiedesse di scrivere un nuovo capitolo della controstoria a cosa lo dedicheresti?
«Alle fesserie che si raccontano. La lotta politica in Italia si fa su un uomo del potere ha fatto fermare un treno perché aveva premura. Queste sarebbero le battaglie… Penso che raramente l’Italia sia giunta a un tale livello di bassezza».
Per chiudere, Giampiero, un tuo pensiero su Massimiliano Allegri.
«L’idea di 100.000 tifosi che vogliono dare lezione di calcio a uno che ha vinto e stravinto con la Juventus mi suona come una buffonata. Capisco che, dopo una vittoria meritata, alla fine di un’annata così, abbia avuto questo scatto di nervi. Sono totalmente dalla sua parte. Questo è stato il suo ultimo anno alla Juventus, ma vorrei conoscere un altro allenatore che abbia portato a casa un bottino di questa fatta tra scudetti e coppe varie».

 

La Verità, 18 maggio 2024

Gli «imbavagliati» si lamentano a reti unificate

Sabato sera, rientrando da una gita, ho acceso la tv trovandola sintonizzata su La7, il canale dove l’avevo spenta al mattino. A In altre parole Massimo Gramellini diceva rivolto a Roberto Vecchioni: la prossima settimana quest’uomo incontrerà il capo dello Stato Sergio Mattarella e, dopo esser stato ricevuto da papa Francesco, chiuderà un concerto sul sagrato di piazza San Pietro. «Quest’uomo». A quel punto sono saltato su Rai 3, cadendo dentro Chesarà della «co-censurata» Serena Bortone, imbattendomi in Gene Gnocchi con inguardabili calzini grigi copri-malleolo che sbertucciava in serie Roberto Vannacci, Matteo Salvini e i pro-life. Tornato su La7, dopo una stoccatina al solito generale, Gramellini stava dando il benvenuto a «un altro Roberto», ovvero Saviano. In cerca di riparo, ho virato su Rete 4. Ma lì, tra gli ospiti di Stasera Italia spiccava Giovanna Vitale di Repubblica, inflessibile nello stigmatizzare il premier Giorgia Meloni, «che non si è mai dichiarata antifascista», e «l’ossessione per il controllo dell’informazione che passa per il controllo della Rai». Insomma, gli imbavagliati imperversavano a reti unificate.
Quella stessa mattina, sotto il titolo d’apertura «Libertà, l’Italia arretra», dalle colonne del quotidiano di proprietà del gruppo Gedi, la medesima Vitale aveva nuovamente rilanciato l’allarme democratico, paventando «l’occupazione militare dell’informazione targata Fratelli d’Italia (…) che risponde a un preciso disegno di potere e di sdoganamento della cultura post-fascista concepito a Palazzo Chigi». Proprio così, il regime è dietro l’angolo. Forse, già davanti. Insieme agli opinionisti dei gruppi editoriali legati all’opposizione lo denunciano il segretario della Fnsi Vittorio Di Trapani, già leader dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico che ieri ha imposto un giorno di sciopero dei tg. Uno dei più politici degli ultimi decenni, le cui motivazioni contro l’accorpamento delle testate e la mancata stabilizzazione dei precari sono il contorno della vera ciccia, ovvero la Rai ridotta a «megafono governativo» e (l’inesistente) caso Scurati.
Sommessamente, a me pare che qualcosa non torni. E che coloro che lamentano la «deriva orbaniana» lo facciano strillando contro TeleMeloni e l’avvento dell’egemonia della destra comodamente seduti negli studi di Lilli Gruber, di Marco Damilano, di Serena Bortone o di Giovanni Floris. Sarebbe interessante quantificare la frequenza con cui i talk show riveriscono direttori, editorialisti e grandi firme, da Maurizio Molinari a Massimo Giannini, da Stefano Cappellini a Michele Serra, da Concita De Gregorio a Corrado Augias, solo per stare al quotidiano che denuncia l’italica riduzione delle libertà.
Per circostanziare un attimo lo stato delle cose può tornare utile un’occhiata a una settimana tipo di programmazione serale. Scorrendola in orizzontale si trovano le varie strisce quotidiane: su La7 c’è il sempre uguale a sé stesso Otto e mezzo, mentre su Rete 4 il nuovo Prima di domani può vantare le new entry di Stefano Cappellini, Concita De Gregorio, Ginevra Bompiani e Gad Lerner. Su Rai 3 l’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano conduce Il cavallo e la torre e, dopo il Tg1, Bruno Vespa condensa il suo «approfondimento» in Cinque minuti. Passando al palinsesto verticale, il lunedì sera ci sono Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4, le inchieste di cronaca di Far West di Giuseppe Sottile (Rai 3) e i reportage di Cento minuti di Corrado Formigli e Alberto Nerazzini su La7 che, dopo La torre di babele di Corrado Augias, riempiono il vuoto lasciato dallo spostamento di Report alla domenica. Il martedì il salotto di Giovanni Floris è il think tank dei guru d’opposizione (Pier Luigi Bersani, Michele Santoro, Augias e Romano Prodi) e su Rete 4 Bianca Berlinguer cerca una problematica quadratura bipartisan in È sempre cartabianca, mentre su Rai 3, al fallimento di Avanti popolo si è fatta seguire l’irrilevanza di Petrolio di Duilio Gianmaria. Il mercoledì, grazie alle inchieste e agli ascolti, resta Fuori dal coro di nome e di fatto Mario Giordano. Il giovedì su La7 Piazzapulita di Corrado Formigli punta a vincere il concorso di programma più antimeloniano dell’etere, perdendo però regolarmente con Diritto e rovescio di Paolo Del Debbio (Rete 4). Il venerdì sera si può scegliere tra l’antagonismo di Propaganda live (La7), che insidia le ambizioni di Formigli mixando i «monocordologhi» di Andrea Pennacchi con il retroscenismo left oriented di Filippo Ceccarelli, e la satira d’opposizione di Fratelli di Crozza sul Nove. Il sabato, come detto, ci aspetta la coppia fotocopia Massimo Gramellini e Serena Bortone (rischiando il gulag Vecchioni e Gramellini sono stati i primi a declamare il testo di Scurati sul 25 aprile). La domenica sera, invece, si chiude in bellezza con Zona bianca di Giuseppe Brindisi, che l’altro ieri ha intervistato Giuseppe Conte, Report di Sigfrido Ranucci su Rai 3 e, sul Nove, il velluto blu innervato di vendette anti-Rai di Che tempo che fa.
Questo è il quadro del regime che ci sta avvolgendo e nel quale le poche voci dissidenti rischiano quotidianamente la strozza. In realtà, «non c’è mai stata libertà d’informazione come oggi», ha detto Antonio Padellaro, incenerendo la povera Bortone. Anzi, pur considerando le tre serate di Porta a porta (di certo più bipartisan di Linea notte), l’equilibrio di Quarta Repubblica e il controcanto di Diritto e rovescio e Fuori dal coro, la teleinformazione serale resta orientata dalla solita parte. Per certi versi, con Bianca Berlinguer a Mediaset, la bilancia è più sbilenca di prima. Nelle intenzioni, la chiamata dell’ex direttrice del Tg3 doveva essere la contromisura all’annunciato spostamento a destra dell’informazione Rai. Invece, considerati i flop e il lungo rodaggio che stanno rendendo una chimera il «riequilibrio» della tv pubblica, il risultato finale è che l’asse dell’infosfera rimane, nel suo complesso, tuttora ben spostato a sinistra. Con buona pace dei presunti perseguitati dal regime.

P.s. Come hanno documentato i biglietti ferroviari e la prenotazione dell’hotel per la trasferta romana in occasione della partecipazione al programma Chesarà, Antonio Scurati non ha subito alcuna censura da parte della Rai.

 

La Verità, 7 maggio 2024

Il caso Orsini e il regime soft dei migliori

La censura dei migliori. Operata dai migliori. I buoni, quelli che stanno dalla parte giusta della Storia. La vittima è il professor Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo internazionale presso la Luiss (Libera università internazionale di studi sociali). Colpevole di avere posizioni non allineate al pensiero unico atlantico. E per di più colpevole di percepire 2.000 euro a puntata per sei puntate di #Cartabianca alle quali l’aveva invitato Bianca Berlinguer. È un filputiniano, così è stato marchiato, lo si può colpire. Dopo la prima ospitata e la levata di scudi, preventiva ma unanime, dal Pd a Italia viva, la Rai ha stracciato il suo contratto. Il direttore di Rai 3, Franco Di Mare, «d’intesa con l’amministratore delegato della Rai» ha deciso di non dar seguito all’accordo «originato dal programma #Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Orsini». È la Rai al tempo di Mario Draghi e di Carlo Fuortes. Eccezioni e dissonanze non sono tollerate. Almeno Silvio Berlusconi aveva il coraggio di diramare un editto. Ora si censura con un comunicato, in sordina. Con i modi del regime soft. «Mamma Dem comanda e la Rai ubbidisce», ha twittato Marcello Veneziani. Corradino Mineo ha parlato di maccartismo.

Lo scandalo è doppio. Innanzitutto che Orsini esponga critiche alla Nato e all’Unione europea a proposito della situazione che ha portato all’invasione di Putin dell’Ucraina. E poi che lo faccia essendo retribuito. Da Paola Picierno a Stefano Bonaccini, da Andrea Romano a Michele Anzaldi il senso del ragionamento è questo: se vuole dire le sue opinioni lo faccia gratis. Domanda: per essere pagati, come lo sono tutti gli opinionisti da Mauro Corona ad Andrea Scanzi, da Giampiero Mughini a Beppe Severgnini per citare i primi nomi che vengono, bisogna dire cose gradite al padrone del vapore? Berlinguer ha replicato che se si vuole approfondire il dibattito (i talk non si chiamavano programmi di approfondimento?) il contraddittorio è necessario. Escludere una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società italiana lo mortificherebbe. «Serve la più ampia pluralità di idee. Non è forse questa la missione del servizio pubblico?», ha chiesto Berlinguer. Orsini si è detto pronto a partecipare al programma anche gratuitamente. Vedremo se il problema sono gli euro o i contenuti del professore. O magari la Berlinguer stessa, che la Rai draghiana vuole accantonare.

La gran cassa del monopensiero lavora a tempo pieno fin dalla pandemia. E con l’invasione dell’Ucraina ha serrato ancora di più le file. In pochi giorni abbiamo letto la lista di proscrizione di indegni filoputiniani, sorta di scomunica civile, redatta da Gianni Riotta. Abbiamo visto Beppe Severgnini accaldarsi nel dire «che bisogna leggere solo i giornali giusti e guardare solo i programmi giusti». Abbiamo letto Massimo Gramellini randellare tutti coloro che deviano dal sentiero bellico per dire che con costoro non ci può essere alcun dibattito. Abbiamo letto Antonio Polito scrivere scandalizzato che «in ogni talk show ce n’è uno». Sarebbe questo lo scandalo. Invece, mi verrebbe da dire: grazie a Dio. Anche se non condividessi nulla di ciò che questo «uno» sostiene. È un fatto di pluralismo, bandiera ammainata dalla sinistra. Di salute della democrazia, principio che ormai i dem disconoscono. Tutti allineati e coperti, si diceva da militare. E chi sgarra, in punizione. O censurati. Dai migliori.

 

«Senza conformismo non risulterei provocatorio»

Buonasera. Scusate la voce. È la mia». Esordisce così Saverio Raimondo nello show Il satiro parlante, visibile su Netflix. «Del resto», prosegue, «ho preso la voce da mio padre che è un delfino mentre mia madre è un gabbiano. Voi direte: con quella voce non dovresti parlare in pubblico. Vero. Ma con il fisico che mi ritrovo potevo fare o il comico o il nano nei film porno. Ho sempre sbagliato tutto nella vita. Ed eccoci qui. Sono il secondo di tre figli, mia madre voleva una femmina e mio padre un aborto. Si misero d’accordo per abortire una femmina e io li ho delusi». Saverio Raimondo è il più caustico e sulfureo dei comici in circolazione e Il satiro parlante è un gioiello di anticonformismo. A cominciare da quando suggerisce agli spettatori di ridere e applaudire fragorosamente, indipendentemente dall’efficacia delle sue gag, per non «fare la figura del pubblico di merda». In fondo, dice Raimondo, «vi chiedo solo un’ora d’ipocrisia in più rispetto alle altre 23 della vostra giornata». Dal 18 giugno su Disney+ sarà disponibile in streaming Luca, il nuovo cartoon della Pixar ambientato nelle Cinque terre, scritto e diretto da Enrico Casarosa. Mentre il 19 e il 20 ripartirà in tour da Senigallia e Carpi.

Con questa voce non può che doppiare i cattivi?

«Fin da bambino ho sempre preferito i cattivi, per me hanno sempre avuto più fascino. Oggi i buoni sono antieroici e quindi contendono un po’ di carisma ai cattivi. Già a nove anni ho interpretato Scar del Re Leone in una recita scolastica, una cosa miserabile…».

Cattivo fin da piccolo?

«Umanamente sono un buono. Ma la mia satira si distingue per una nota cinica, perfida e anche feroce, se possibile».

Dura andare contro tutto questo buonismo?

«Mai stato facile essere scorretti. Chi si lamenta del politicamente corretto montante o si è svegliato tardi o ha poca memoria. Per chi fa il mio lavoro misurarsi con il conformismo è stimolante. La comicità è una corsa a ostacoli. Senza, non riuscirei a essere provocatorio».

Il politicamente corretto facilita i comici e affligge le persone comuni? Non si può più dire niente…

«Dipende dal contesto. A volte un’espressione che supera la censura della tv viene contestata sui social. Così la libertà di parola si abbina alla libertà di movimento. Chi può esprimere la propria opinione nel più ampio spettro dei media gode della massima libertà. Tant’è vero che si può dire che non si può più dire niente. Una volta i censori erano figure grigie, adesso chiunque assurge a censore e anche questo, paradossalmente, è sintomo di grande libertà».

Nel cartoon Luca presta la sua voce insolente a Ercole Visconti, un bullo che se la prende con i due ragazzini protagonisti della storia.

«La mia voce è insolente per natura e anch’io sono stato discriminato a causa sua. Sono contento che un’eccellenza come la Pixar ne abbia colto il lato positivo. Perché se è vero che Nemo è profeta in patria, è anche vero che ci vuole orecchio per cogliere le voci fuori dal coro».

Sta per caso parlando di Mario Giordano?

«Potremmo incidere insieme una hit estiva, creando un duo di voci bianche».

Anche l’umorismo nero è nella sua natura: quando se n’è accorto la prima volta?

«L’umorismo nero lo scopri quando ti accorgi che la morte, la malattia e la disgrazia appartengono al nostro sistema immunitario. È un anticorpo che serve ad affrontare le curve della vita. A me non piace come esercizio umoristico, ma quando coinvolge il comico che lo usa».

Perché la sua satira non è livida e livorosa?

«Perché non nasce dalla rabbia. Se nella vita subisco un torto non provo rabbia, ma mi dispiaccio. Credo che la satira sia frutto di un lavoro, mentre la rabbia è un sentimento non elaborato».

Il suo bersaglio principale è l’ipocrisia?

«Sì, ma in senso paradossale. Ciò che non digerisco è l’ipocrisia sull’ipocrisia, cioè la condanna ipocrita all’ipocrisia».

Esempio?

«Considero l’ipocrisia una conquista sociale. Sono regole più o meno implicite per vivere in una società nella maniera meno violenta possibile. Condannare l’ipocrisia come uno dei grandi mali sociali è ipocrita perché, in realtà, tutto sommato ci fa bene. La buona educazione è ipocrita: molti di noi sono educati anche quando non verrebbe spontaneo».

Parlando del linguaggio corrente lei dice diversamente abili al posto di handicappati?

«Bisogna cogliere le sfumature. Dire handicappato nel mio caso non è ironizzare su di lui, ma su chi si esprime con quel termine».

Gabriele Salvatores e Carlo Verdone si ribellano al politicamente corretto perché rende più difficile far ridere.

«Chi l’ha detto che il comico sia un lavoro semplice? Personalmente trovo stimolante quando il gioco si fa duro. Il moralismo d’accatto e accattone che ci circonda m’ispira perché sono un saltatore d’ostacoli. Ok, ci sono persone che si offendono per una battuta. E poi? O si sono violate davvero delle leggi e si va sul penale, oppure parte l’onda di proteste su Twitter. In fondo, non è così grave: sopravvivono sia l’offeso sia l’offensore. La missione del comico è la provocazione, trovo ridicolo che si stupisca che la sua provocazione provochi».

Fra qualche anno il cattivo del cartoon Luca verrà cancellato dai censori di turno?

«Forse già fra qualche mese».

Come il principe azzurro di Biancaneve che ora passa per molestatore.

«Però è sempre lì, scopa lo stesso e se ne frega».

È ipocrisia quella di alcuni suoi colleghi satirici che in spogliatoio anziché contare i centimetri del pisello contano le censure subite?

«Certo. Le denunce per mancanza di libertà d’espressione sono un’espressione della libertà d’espressione».

Come nel caso di Fedez che si è detto censurato dalla Rai nei programmi Rai?

«Esatto. Quella volta hanno fatto tutti una figura buffa, e noi abbiamo visto che la libertà di parola è confrontarsi, non aprire bocca senza criterio. Anzi, lì forse abbiamo visto all’opera troppe libertà. Compresa quella di registrare una telefonata in incognita».

Per trafiggere un politico bastano poche parole anche senza imitazioni e travestimenti?

«Sì, ma trovo che stiamo sopravvalutando le parole. È vero che hanno un peso, ma non credo che siano così taglienti come le riteniamo».

Anche perché ora i politici fanno i simpatici.

«Rendendosi tremendamente antipatici. Non c’è niente di più antipatico della simpatia, come i comici ben sanno. L’esempio di Paolo Villaggio grande antipatico spiega tutto».

Letta vuole il Pd empatico.

«Operazione disperata».

È difficile far ridere sulla pandemia?

«Per me è un soggetto di grande ispirazione. All’inizio, c’era molto moralismo, ma adesso che la retorica è caduta c’è voglia di ridere in faccia al virus. Che, fortunatamente, per la maggioranza è stato un disagio più che una tragedia».

Che cosa l’ha divertita di più?

«Da cittadino ho trovato divertente il modo paternalistico e propagandistico in cui è stata gestita dal precedente governo. Nei tg si vedevano i camion di fiale dei vaccini che attraversavano il Brennero, sembravano notizie del traffico… Come essere umano mi ha divertito la nostra goffaggine alle prese con distanziamenti, mascherine, gel igienizzanti…».

L’unico rimedio trovato dal progresso scientifico è stato chiuderci in casa?

«È piuttosto triste. All’inizio la quarantena era necessaria. Ma averla adottata con disinvoltura a distanza di mesi ha tolto autorevolezza della comunità scientifica. Il fatto più ridicolo però è il tentativo della politica di gestire il virus con la burocrazia».

Tipo?

«Le autocertificazioni. E il coprifuoco alle 18 che è lì in tutta la sua ridicolaggine».

L’unica cosa da chiudere di sicuro erano le bocche dei virologi che si contraddicevano?

«Ho spesso pensato che molti virologi nella loro esposizione mediatica abbiano fatto più male alla scienza dei no vax».

Anche perché i no vax non hanno la patente della scienza infusa.

«E vanno meno in televisione, fortunatamente».

Chi è il virologo che ha trovato più comico?

«Massimo Galli: borbottava sempre e andava in tv a dire che non voleva andare in tv».

Risorgerà il mondo di prima, cinema discoteche e stadi, o è un mondo vintage?

«Penso che ritornerà. Mi colpisce il fatto che non siamo stati in grado d’inventarci un nuovo mondo, ma stiamo lavorando per far tornare quello di prima. Forse non era così male, è il massimo che riusciamo a fare noi umani. Un mondo con dei limiti e dei lati oscuri che vanno accettati. Credo ci voglia un po’ di sana rassegnazione».

Qual è il segreto del Pd che perde le elezioni ma governa sempre?

«Mi verrebbe da dire: fortunatamente. Credo nei pesi e contrappesi delle istituzioni. E quindi anche che il potere degli elettori vada limitato».

Niente voto ai sedicenni come propone Letta?

«Sono per limitare il voto più che per estenderlo perché credo che si eserciti in modo emotivo e scriteriato».

Cosa pensa dell’Erasmus obbligatorio?

«Che nessuna bella esperienza, com’è l’Erasmus, possa restare bella se resa obbligatoria».

Dopo la Lega europeista vedremo Salvini vegano?

«I selfie con il seitan non li ho ancora visti. Salvini cambia opinione velocemente, potrebbe tornare antieuropeista in pochi secondi».

Federazione del centrodestra: 2 più 2 fa 4 o 0 come dice Bossi?

«Ho fatto lo scientifico e quindi dovrei sapere la risposta. In realtà, la politica non risponde alle regole della matematica».

Del caos nel M5s tra Grillo, Casaleggio, Conte, Di Maio e Jean Jacques Rousseau cos’ha capito?

«Non mi ha appassionato, ma mi sono fatto qualche risata amara. Sospetto che il M5s non sia in difficoltà come si racconta. Un po’ come il Pd che si dice in crisi da 50 anni e c’è sempre. Magari la crisi è la nuova forza e loro sanno qualcosa che noi non sappiamo».

Nel suo spettacolo dice che le battute contro i 5 stelle sono vietate come quelle sugli handicappati, stavolta parola sua.

«Vero. Anche le notizie recenti non mi smentiscono. Di fronte a persone inadeguate e inadatte avremmo fatto meglio a parcheggiare sugli spazi riservati».

Collabora con Massimo Gramellini su Rai 3, con Porta a porta di Bruno Vespa e fa Pigiama rave su Rai 4: è uno stand up comedian mainstream?

«No, sono la dimostrazione che anche coltivando la nicchia si può lavorare. Per me non è importante il successo, ma lavorare. Perché alla fine del mese la padrona di casa non mi chiede quanti follower ho, ma l’affitto».

La Verità, 12 giugno 2021

«La Rai fa propaganda, chi è pro famiglia è oscurato»

Occhiali robusti e barba hipster, Jacopo Coghe, ha 36 anni e quattro figli. «Il quinto è in arrivo. Stiamo provando a mettere in crisi la crisi demografica».

Nobile impegno, siete sposati da molto?

«Dodici anni, quasi un figlio ogni due».

Avrete un bel da fare.

«Giornate strapiene».

Professione?

«Io ho un’azienda di comunicazione grafica e stampa pubblicitaria. Mia moglie è impiegata part-time e segue i bambini».

Da vicepresidente dell’associazione Pro Vita e famiglia, Coghe è finito nel mirino di Fedez, paladino gender del Primo maggio, festa dei lavoratori, e martire della censura.

Una settimana dopo si sono calmate le acque?

«Non tanto. Sui social c’è un flusso di haters impressionante».

Hanno scritto che starebbe bene appeso a testa in giù.

«Hanno scritto anche che dovrebbero levarmi i figli e altre cose irripetibili. Mi fa sorridere che chi si proclama a favore dei diritti non si fa scrupolo a insultare. È la solita doppia morale».

Fedez l’aveva attaccato altre volte?

«In una diretta sul suo profilo Instagram alla vigilia di Pasqua. Mi ha disegnato le sopracciglia arcobaleno attribuendomi espressioni mai pronunciate. Il fatto curioso è che mentre su Rai 3 il concertone fa 1,5 milioni di spettatori, su Instagram Fedez ha 12 milioni di followers con i quali condivide questi insulti e la doppia morale sulla famiglia».

Sulla famiglia?

«Certo, ci campa. Monetizza la narrazione del privato: vita di coppia, moglie, gravidanze, ecografie, bambini, giocattoli, abiti… Poi continua ad attaccare la famiglia naturale, sputando nel piatto sul quale mangia. Per contro, chi difende la famiglia e la vita viene pubblicamente insultato».

Ha chiesto un confronto con Fedez, ma il concertone è uno spettacolo che non prevede la par condicio.

«Però non è nemmeno un account privato. Perciò, usando le sue stesse parole: caro Fedez non puoi dire il cazzo che ti pare. La Rai è una tv pubblica che dovrebbe ospitare il pluralismo e il contraddittorio».

Invece?

«Assistiamo a questi attacchi senza replica e alla promozione di una cultura di parte».

Per esempio?

«Le esibizioni dei braccialetti arcobaleno al Festival di Sanremo in pieno dibattito sulle unioni civili. Anche quest’anno, a Sanremo…».

I quadri di Achille Lauro?
«Contenevano espressioni blasfeme. Una tv privata può avere una sua linea editoriale. Un servizio pubblico pagato dai cittadini dovrebbe rispettare le sensibilità degli utenti. Perché chi la pensa in modo diverso da Fedez non è rappresentato? Io sono solo il responsabile di un’associazione, ma mi aspettavo che qualcuno mi chiamasse dandomi diritto di replica».

Una forma di risarcimento?

«Risarcimento no, vera pluralità sì. Invece la Rai fa propaganda. Rai 3 è stata usata da uno che ha detto ciò che gli pareva attaccando persone assenti e, per di più, grida alla censura. Siamo alla follia. Per sanare l’accaduto la Rai avrebbe il dovere di organizzare un dibattito serio».

Che cosa non approva del disegno di legge Zan?

«Nell’articolo 1 viene definita l’identità di genere. Il maschile e il femminile sono considerati un’imposizione culturale e si asserisce che ognuno può scegliere come percepirsi tra infiniti generi. Già questo è un delirio».

Perché?

«Se oggi mi percepisco donna, pretendo di entrare nei bagni femminili. Se sono uno stupratore, ma mi sento donna voglio stare nel carcere femminile. Parlo di fatti reali, accaduti negli Stati uniti, non di casi di scuola».

Altri articoli che disapprovate?

«L’articolo 4 dice che sono fatte salve la libera espressione di convincimenti nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee, purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori».

Che cosa non va?

«Se dico che l’utero in affitto è un orrore potrei essere denunciato in quanto discrimino chi vi è ricorso all’estero. Inoltre, sarà ancora possibile dire mamma e papà o sarà discriminatorio verso persone dello stesso sesso che hanno adottato un bambino?».

Basta così?

«L’articolo 7 è gravissimo. Viene istituita la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Nelle scuole, fin dall’infanzia, verranno spiegate ai nostri figli l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità. Si insegnerà che non esistono maschi e femmine e che si può scegliere tra un’infinità di generi. Non ci sono più padre e madre, ma genitore 1 e genitore 2. Questa è un’enorme violazione della priorità educativa dei genitori».

Non ci sono forme di bullismo contro il mondo Lgbt da frenare?

«C’è la necessità reale di frenare il bullismo nei confronti di tutti, senza creare persone di serie A e di serie B. La legge Reale-Mancino tutela già tutti. L’aggressore che di recente ha picchiato due gay che si stavano baciando nella metro di Roma non è in giro libero. Verrà condannato, la pena può arrivare a 16 anni di reclusione».

Perché temete una legge che vuol proteggere gli omosessuali o chi vive un processo di transizione?

«La temono anche i comunisti, le femministe, i verdi. Togliamo la maschera: lo scopo di questo progetto di legge è fare cultura, rieducare i nostri figli, promuovere l’ideologia gender. Altrimenti non si spiega a cosa serva la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Se si vuole fare una legge che affermi il rispetto verso ogni essere umano bastano due articoli che il Parlamento approverebbe in una settimana».

Come quella presentata da Forza Italia e Lega che prevede l’inasprimento delle pene per gli atti discriminatori?

«Secondo me non ce ne sarebbe bisogno. Ma è una mossa politicamente astuta per stanare le vere e malcelate intenzioni del ddl Zan. Se l’obiettivo è colpire gli atti discriminatori violenti, tutti i partiti dovrebbero approvare la proposta del centrodestra di governo».

Che cosa fa concretamente l’associazione Pro Vita e famiglia?

«Promuoviamo una visione antropologica e culturale basata su questi valori attraverso campagne mediatiche, convegni, progetti per la libertà di educazione. Regaliamo prodotti per la prima infanzia alle famiglie e alle mamme indigenti che decidono di portare avanti la gravidanza. Garantiamo il patrocinio gratuito per i disabili che non hanno gli insegnanti di sostegno, diamo borse di studio. Durante la pandemia abbiamo iniziato a distribuire i pacchi-spesa alle famiglie bisognose».

Dalla giornata del Family day al Circo Massimo del 2016 con 2 milioni di persone il movimento è un po’ sparito?

«Tutt’altro. Le famiglie continuano a seguire le attività dell’associazione. L’anno scorso abbiamo manifestato in 120 piazze in tutta Italia contro il ddl Zan e ora, superate le restrizioni della pandemia, speriamo di arrivare a 150 manifestazioni con una partecipazione maggiore».

Nel marzo di due anni fa alle giornate della famiglia di Verona è emersa una certa contiguità con l’estrema destra.

«Le famiglie non hanno colori politici, quindi parliamo con tutti. A Verona invitammo anche i 5 stelle, ma Luigi Di Maio e altri esponenti della sinistra preferirono denigrarci. Se forze di destra si riconoscono nella famiglia composta da padre e madre perché dobbiamo escluderle? Condividiamo queste battaglie anche con Marco Rizzo del Partito comunista, contrario all’utero in affitto, e con le femministe che contestano l’identità di genere».

Come mai un impegno di questo tipo ha poca visibilità sui media?

«La comunicazione è monopolizzata dal pensiero unico. Siamo una maggioranza silenziata dal politically correct».

Vi danneggia anche una certa incoerenza personale dei politici che aderiscono alle vostre manifestazioni?

«Non giudico la vita personale dei politici. Provo ad avere uno sguardo più ampio. Mi interessa che ci siano partiti che difendono le nostre tematiche. Anche perché i leader passano, i partiti si spera che durino».

La Chiesa vi appoggia come volete?

«Oggi non è più il tempo dei vescovi pilota, come ha detto papa Francesco, ma soprattutto dell’impegno dei laici. La Cei ha affermato che non c’è bisogno di una legge sull’omofobia. È in atto una grande opera di distrazione di massa».

In che senso?

«Con buona pace di Enrico Letta che parla di benaltrismo, questo governo è nato per fronteggiare la pandemia e avviare la ripresa economica. Le famiglie non arrivano a fine mese, si è perso un milione di posti di lavoro: il ddl Zan è una priorità?».

Che speranza avete che i vostri valori facciano breccia nella società attuale?

«Ci hanno accusati di essere medievali, ma la vera sfida riguarda il futuro. C’è la nostra visione fondata su valori antropologici non negoziabili e un’altra basata sul relativismo della società liquida ed edonistica. Nel breve periodo, questo secondo modello può sembrare appagante, ma a lungo termine rivelerà tutta la sua inconsistenza».

Auspicate una rappresentanza politica unitaria?

«Credo che su questi temi una pluralità di rappresentanze sia più efficace. Anche in questi giorni Matteo Salvini, Antonio Tajani e Giorgia Meloni si sono espressi chiaramente».

Come replica a chi la definisce ultracattolico?

«Io non giudico chi ha Fedez, ma perché Fedez critica chi ha fede? Al di là della battuta, essere ultracattolico significa ascoltare le parole di papa Francesco quando afferma che il gender è uno sbaglio della mente umana? O quando dice che ricorrere all’aborto equivale ad affittare un sicario? Se così fosse, sarebbe ultracattolico anche papa Francesco».

Esistono paesi che dopo l’approvazione di leggi favorevoli all’interruzione della gravidanza hanno avviato un processo di revisione?

«Alcuni Stati americani lo stanno facendo. In Louisiana si è deciso di ridurre il tempo per l’interruzione a prima della comparsa del battito cardiaco. Con l’ecografia in 4d si vede che il feto è subito un essere umano già formato. Disconoscere questa evidenza vuol dire essere antiscientifici. Quando una sonda su Marte individua un batterio si grida “c’è vita su Marte”, ma guai a dire che un embrione è già vita».

La vostra è una battaglia di retroguardia, già persa?

«Al contrario. Sono stato più volte alla Marcia per la vita in America che porta in piazza centinaia di migliaia di persone, moltissimi giovani. Le scuole ne programmano la partecipazione con un anno di anticipo. Lì ho acquistato la t-shirt creata da ragazzi sedicenni sulla quale è scritto: “Noi siamo la generazione che abolirà l’aborto”».

Salvo quello a scopo terapeutico?

«L’ho vissuto in prima persona, l’aborto non è mai una terapia».

 

La Verità, 8 maggio 2021

«Se vince il politicamente corretto addio risate»

Ebbasta co’ sto politicamente coretto. Basta, ne abbiamo le palle piene, nun se ne pò più… Sta diventando ’na patologgìa». Era una tiepida sera di fine agosto e in piazza San Cosimato a Roma si parlava di Alberto Sordi e del suo cinema nel centenario della nascita. Dopo la proiezione de Lo scapolo (1955), il regista Francesco Zippel aveva chiesto a Carlo Verdone se secondo lui era più facile fare cinema negli anni Cinquanta e Sessanta o adesso.

E lei che cosa gli ha risposto?

«Che forse era più facile allora, per tanti motivi. Innanzitutto, perché il periodo storico offriva molti spunti. Uscivamo dal dopoguerra, iniziava il boom economico, poi ci fu l’avvento del terrorismo. Sordi era stato protagonista della rappresentazione del boom. Poi, con Un borghese piccolo piccolo, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, lo diventava anche dei nuovi conflitti. Il cinema di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Nino Manfredi poteva attingere alla narrativa… Piero Chiara, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda… Noi questa letteratura non ce l’abbiamo. In compenso, abbiamo un altro problema…».

Ovvero?

«Sembriamo sceneggiatori liberi e indipendenti. Invece, se diamo retta alle regole del politicamente corretto, proprio tanto liberi non siamo».

Racconti.

«In questo periodo sto scrivendo la sceneggiatura di Vita da Carlo, una serie in parte autobiografica in dieci episodi per Amazon Prime. Bene, ogni giorno con i miei collaboratori dobbiamo fermarci per qualche parola impronunciabile o qualche tabù inviolabile. È uno stillicidio. Spesso si riesce ad aggirare l’ostacolo, salvando la battuta magari un filo scorretta, ma che fa scaturire la risata. Altre volte non ci riusciamo… Questa pressione è un errore micidiale perché con l’andar del tempo faremo sempre meno ridere. Questo non si può dire perché s’incazzano quelli, quest’altro nemmeno perché s’incazzano l’altri. Ci dobbiamo continuamente autocensurare. È un fenomeno che arriva al cinema, ma attraversa tutta la società. Non c’è giorno che non resti basito per la protesta di qualcuno».

L’ultimo caso?

«L’altro giorno ho letto quello che è capitato alla popstar Adele in occasione del carnevale di Notting Hill (una tradizione londinese nata da cittadini di origine caraibica che quest’anno non si è festeggiata causa Covid ndr). Ognuno dovrebbe potersi mascherare come gli pare… Adele, che è dimagrita, ha postato una foto in bikini con i colori giamaicani e si è acconciata con le treccine. Prima si è beccata le proteste degli obesi, tipo: hai voluto dire che noi grassi siamo schiavi, non tutti hanno i soldi per il dietologo come te… Poi si sono scatenati quelli che difendono l’appartenenza culturale: con quell’acconciatura ti sei burlata della nostra etnia, ma tu sei bianca…».

Ha definito il politicamente corretto è una patologia. A quando risalgono i primi sintomi?

«Credo che tutto sia iniziato da Woman is the nigger of the world, una canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1972. All’epoca era giusto cominciare a difendere le donne e pure mettere i puntini sulle i sul modo di chiamare i negri. D’accordo, li chiameremo in un’altra maniera: neri, colored…».

Ricordandoci che esiste anche la negritudine.

«Esatto. Il problema è che quelle istanze in partenza giuste sono state esasperate fino ad assumere toni dittatoriali».

Una dittatura che pesa molto nel cinema?

«Il Festival di Berlino ha abolito l’Orso d’argento per le interpretazioni maschile e femminile, istituendo il premio neutro-gender. Un cedimento incredibile, inventato per non offendere chi non si sente maschio o femmina. Questa è una nuova frontiera. Una mia amica progressista si è presa un pistolotto da una persona che lei aveva chiamato con il pronome she. In quanto polisessuale, si rifiutava di essere catalogata al femminile e pretendeva di essere chiamata con they. Capisce?».

L’anno scorso alla Mostra di Venezia Lucrecia Martel, presidente della giuria, contestò la presenza in concorso di Roman Polanski: i festival del cinema un tempo laboratori anticonformisti si stanno trasformando in luoghi di omologazione?

«Fortunatamente Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ha espresso molte perplessità nei confronti della decisione del Festival di Berlino. Mi sembra che tutto nasca da un atteggiamento post femminista estremo e non dialogante. Da un moralismo proveniente dall’America talmente radicale da paralizzare l’espressione creativa».

Restando in America, il cinema di Clint Eastwood meriterebbe più attenzioni?

«È un cinema che racconta un’anima autentica di quel paese. Eastwood sembrerebbe un conservatore, e sicuramente lo è, ma ben analizzati i suoi lavori mostrano più tolleranza di quelli di altri registi schierati. Credo che la stima nei suoi confronti sia unanime o quasi».

Perché questo moralismo trova terreno fertile nella critica cinematografica?

«Perché è una critica tendenzialmente radical chic, molto intellettuale, spesso espressa da donne con qualche frustrazione. Una conseguenza di ciò che è successo al povero George Floyd è stato censurare un film come Via col vento. Sono decisioni infantili, i film vanno contestualizzati. C’è la mamy di colore… Via col vento è una bandiera di Hollywood. Con questo criterio prendiamo le opere dei futuristi e le buttiamo al macero perché alcuni degli autori simpatizzavano per il fascismo. Oppure abbattiamo i monumenti fatti erigere da Diocleziano».

Da Un sacco bello a Benedetta follia: quali scene dei suoi film sono state contestate?

«Ricordo una volta, il trailer di Io e mia sorella. Io stavo sempre al telefono al posto di Ornella Muti. Nel trailer dicevo a un suo amante che lei non era in casa, ma quando usciva dalla vasca da bagno mi subissava: come parli? T’impappini che sembri un handicappato… o uno spastico; non ricordo bene. Fatto sta che arrivò la lettera di un’associazione di portatori di handicap che minacciava denuncia. Di notte, a tempo di record, prima che il film uscisse, cambiai la battuta e mi salvai».

Certi film oggi non riuscirebbe a farli?

«Forse Viaggi di nozze, di sicuro Gallo cedrone. Il rimorchiatore che guarda il culo di una ragazza e commenta “chi te l’ha scolpito quel fondoschiena, Michelangelo? Stava in forma quel giorno”, non passerebbe il vaglio di questi censori. Per il resto sono sempre stato rispettoso delle donne. Tutte le attrici che hanno recitato con me sono state valorizzate e hanno conquistato premi e riconoscimenti».

Il politicamente corretto è una questione che riguarda il linguaggio o il complesso di superiorità di certi ambienti?

«È un moralismo da salotto, un po’ costruito, frequente in ambienti alto borghesi. Invece di dire “cameriere” o “domestico”, dicono “l’indianinio” o “il filippinetto… te lo faccio portare dal filippinetto”».

Si teme di offendere certe minoranze?

«Una misura ci vuole, ci mancherebbe. Ma se iniziano a comandare certi ayatollah addio leggerezza. Oggi la scena di “lavoratori!” de I vitelloni non si potrebbe girare».

Quindi c’era molta più libertà creativa allora?

«Erano film al maschile, là sì la donna era l’oggetto del desiderio. Se si eccettuano Franca Valeri, Monica Vitti, Mariangela Melato e poche altre, in gran parte le attrici erano prese per quanto erano belle, e spesso cornificavano. Si rideva della nostra immoralità, del nostro sbracamento sentimentale».

Scoppiò una guerra di religione per La dolce vita che portò al licenziamento di suo padre da un giornale.

«Però fortunatamente intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich si schierarono in difesa del film e un certo bigottismo democristiano polveroso non vinse. Tutti la vedevano Via Veneto, come si poteva definire pornografia pura La dolce vita? Anche nel mondo cattolico, padre Nazareno Taddei e il cardinale Giuseppe Siri lo difesero».

Che idea si è fatto del movimento #Metoo?

«È stata una goccia che ha riempito ancora di più il vaso. Una vicenda traumatizzante. Da una parte lo appoggio perché qualcuno si è comportato molto, molto male. Dall’altra, alcune ragazze non potevano non sapere che certi produttori avevano determinate riprovevoli abitudini. Dopo le denunce delle prime, altre si sono accodate per avere risarcimenti e notorietà. Ora stiamo scoprendo che Jeffrey Epstein era peggio di Harvey Weinstein. Un attore del carisma di Kevin Spacey non può più lavorare perché ha la sfortuna di essere americano e non si è salvato nemmeno con la residenza britannica. Noi che siamo un popolo cattolico e viviamo in un Paese nel quale il Papa è seguito, abbiamo quasi santificato Pasolini».

Lei riabiliterebbe Spacey?

«Mi chiedo se sia giusto cancellare definitivamente un attore così a causa di azioni che hanno compiuto tanti altri. Tanti registi si portavano i ragazzi nello yacht. Se si legge Hollywood Babilonia non si salva nessuno. Ma quegli attori, registi e attrici non sono stati toccati, forse perché il politicamente corretto non era ancora in voga».

Alberto Sordi è la figura che l’ha maggiormente influenzata?

«Più ancora mi hanno influenzato i primi film di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone, La dolce vita, I vitelloni. La messa in scena della coralità, i personaggi minori, caratteristi come Leopoldo Trieste mi hanno fatto amare presto il cinema. Credo che Fellini sia stato il più grande psicologo che il cinema abbia avuto».

Quando si è scoperto fotografo delle nuvole?

«Sono vent’anni che fotografo il cielo e metto tutto in un hard disk. Era un hobby privato. Quando Elisabetta Sgarbi ne ha letto in un’intervista e mi ha detto che voleva vederle per la Milanesiana, mi sono messo a riguardarle e gliene ho mandate venti. Ha insistito per vederne altre, le ha mandate a dei critici e alla direttrice del Museo Madre di Napoli, dove ora sono esposte. È una passione che nasce come reazione a un lavoro nel quale sono sempre in rapporto con le persone e inquadro continuamente dei volti. Qui rivolgo l’obiettivo verso l’alto, nel silenzio assoluto, da solo. Se qualcuno mi chiede dov’è la mia anima, lo invito a guardare quelle fotografie. Ci sono il cielo, le nuvole, il vento, i colori, la ricerca di Dio. Non sono immagini malinconiche, ma preghiere senza parole. Carezze».

Ci rivela un tic, un segreto, qualcosa che fa incazzare Carlo Verdone?

«Mi fa incazzare l’omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero. Se oggi qualcuno volesse raccontare la cafoneria come ho fatto in Grande grosso e Verdone o in Gallo cedrone non riuscirebbe a causa del piattume generale. Poi la realtà mi ha ampiamente superato».

In cosa, per esempio?

«Certi personaggi che sembravano estremi ora sono normalissimi. Una volta all’anteprima di Viaggi di nozze Lietta Tornabuoni (storica critica cinematografica della Stampa ndr) mi venne incontro: “Film bellissimo, Carlo. Ma che esagerazione il ristorante con tutti quei cellulari che squillano”. “Vedrai Lietta, vedrai”».

Il film più bello visto di recente?

«Green book, affettuoso e pieno di grazia, con un Viggo Mortensen strepitoso. E poi Joker, con Joaquim Phoenix: nessuno ha mai interpretato così la follia».

La serie prediletta?

«Braeking beads».

Il libro?

«Durante il lockdown ho riletto Viaggio in Italia di Montesquieu, ritrovandoci ancora cose nuove sul nostro paese».

Che cosa trattiene del periodo di clausura?

«Molti miei amici sono ricorsi agli antidepressivi o agli ansiolitici. Personalmente, ho imparato a bastare a me stesso. Ne ho approfittato per sistemare il soggetto del prossimo film, scrivere la serie e ultimare il mio terzo libro».

Che s’intitolerà?

«Non ha ancora un titolo. Prende spunto dal ritrovamento di uno scatolone sigillato dal mio compianto segretario. Aprendolo, racconto fotografie, oggetti, lettere, intraprendendo un viaggio nel passato intrecciato a racconti del presente. Uscirà nel 2021».

Come Si vive una volta sola, il film rinviato a causa del Covid?

«Esatto. L’abbiamo stoppato e con Aurelio De Laurentiis abbiamo deciso di aspettare la riapertura dei cinema. I film sono fatti per uscire in sala».

Si vive una volta sola vuol dire?

«Non posso anticipare nulla perché il titolo è legato a un colpo di scena finale».

Come vede l’Italia al tempo della pandemia?

«Mi preoccupano alcune persone di governo inadeguate. Una sorte che ci accomuna alla Gran Bretagna, la Spagna, la Francia… Noi, con tutti gli errori che sono stati fatti per esempio a Bergamo e Brescia, ci siamo arrangiati. L’altra cosa che mi preoccupa è il futuro delle giovani generazioni, l’assenza di lavoro. Mi piacerebbe molto poter allenare il talento dei ragazzi. Temo che tra poco si troveranno a pagare le conseguenze di una crisi spaventosa».

 

La Verità, 5 settembre 2020

«Un codice etico al Salone del libro? Mi auguro di no»

Libri ovunque, naturalmente. Alle pareti, sui tavoli e sulle madie. Nell’attico di Casa Rustici in corso Sempione a Milano, vive Gian Arturo Ferrari, gran signore dell’editoria italiana. «Anche se ritengo che il libro sia la più importante invenzione dell’uomo», premette, «io non sono un bibliofilo. Certo, ne possiedo di antichi, questa è una cinquecentina di Manuzio e mi piace… Ma soprattutto m’interessa quello che c’è scritto dentro. La lettura è come una droga, quando ne scopri il segreto non smetti più». Nato a Pavia, storico direttore generale di Mondadori, autore della voce Libro nella prestigiosa collana dei Sampietrini di Bollati Boringhieri, Ferrari ha calcato anche le stanze di Rizzoli, Einaudi, Electa, Sperling & Kupfer, Piemme. Ora, a settantacinque anni portati senza il sussiego proverbiale di molti intellettuali, si gode la splendida abitazione progettata da Giuseppe Terragni, massimo esponente italiano dell’architettura razionalista. E soprattutto si diverte. Come quando impreziosisce Dago in the Sky di Roberto D’Agostino o scruta con disincanto il polverone che avvolge il Salone del libro di Torino.

Che idea se n’è fatto? Con Francesco Polacchi, editore di Altaforte vicino a Casapound, indagato per apologia di fascismo e lo stand espulso è tutto a posto e niente in ordine?

«In questi giorni mi è tornato alla mente un episodio di gioventù. Era il 1975 e alla Fiera di Francoforte l’editore Giuseppe Ciarrapico aveva proposto una ristampa anastatica di Signal, la rivista delle Ss italiane. Noi smaniavamo nell’onda lunga del Sessantotto e la Germania era un paese conservatore. Con alcuni amici organizzammo una chiassosa protesta, salvo scoprire una quindicina di anni dopo con stupore che Ciarrapico era diventato grande amico di Carlo Caracciolo, editore dell’Espresso e di Repubblica, e mediatore nella spartizione di Mondadori. Perciò, chissà, non escludo che tra qualche anno anche questo Polacchi possa avere un futuro nell’establishment. La nostra Italia è un paese di sorprese e trasformismi».

La levata di scudi contro Altaforte è giustificata o è un eccesso d’intransigenza ideologica?

«Forse è anche il desiderio dei protagonisti di mettersi in evidenza. Personalmente, ritengo che la libertà di espressione non sia negoziabile, esattamente come il non uccidere. Mi sembra evidente che questa querelle sia nata dalla pubblicazione del libro intervista a Matteo Salvini. Tutti i politici hanno fatto libri di interviste. Anche gli ex brigatisti rossi li hanno fatti. Il Salone del libro di Torino è una manifestazione importante e prestigiosa e l’editore si è proclamato fascista. Ma partecipare a una fiera non è una decorazione al merito della Repubblica italiana: si paga per avere uno stand».

La vera causa di tutto è il libro di Salvini?

«Quest’ondata d’indignazione ha illuminato un editore sconosciuto. Finora chi conosceva questa piccola editrice? Di solito i libri dei politici vendono poco, magari stavolta no. Se non produrrà vendite clamorose sarà solo perché in maggioranza i lettori italiani dissentono dalle opinioni di Salvini. Alle europee si prevede che la Lega conquisti la maggioranza relativa, è comprensibile che catalizzi tanta ostilità».

Altaforte c’è da un anno circa, il nome nasce da una sestina di Ezra Pound.

«In Italia ci sono parecchie case editrici orientate a destra, altrettante a sinistra e, in passato, anche, pericolosamente, all’estrema sinistra. Fortunatamente ognuno può pubblicare ciò che vuole. Vogliamo discutere Ezra Pound, uno dei maggiori poeti del Novecento, mentore di Thomas Stearns Eliot? Sì, era un fascista… un po’ come Fernand Céline, addirittura nazista. Saremmo tutti contenti se la qualità artistica coincidesse con quella morale. Spesso non è così».

Chi esce peggio da questa vicenda?

«Mi ha stupito in negativo l’intervento del Comune di Torino e della Regione Piemonte. Non capisco perché le autorità pubbliche debbano stabilire i criteri di ammissibilità degli editori che pagano per esporre i propri libri».

Regione e Comune sono tra i fondatori del Salone.

«Sono favorevole alla distinzione dei ruoli. La sfera morale appartiene solo alla coscienza dei singoli».

L’aut aut posto da Halina Birenbaum, la scrittrice ebrea superstite del lager, ripropone il tema dell’intangibilità della vittima le cui condizioni sono sempre incontestabili e vincenti?

«Io sono un cultore dell’Olocausto. In Rizzoli ho pubblicato il testo di Shoah, il documentario capolavoro di 9 ore di Claude Landzmann sui campi di sterminio in Polonia. Poi l’ho ripubblicato con il dvd da Einaudi. Ho letto quasi tutto sull’argomento, pochi giorni fa ero ad Auschwitz e non per la prima volta. Era comprensibilissimo che la scrittrice deportata non volesse vedere persone che si dichiarano fasciste ed era un suo sacrosanto diritto non partecipare».

L’Olocausto giustifica la censura?

«L’Olocausto è qualcosa da meditare due o tre volte al giorno per capire che cosa gli uomini possono arrivare a fare. Tuttavia, deploro che il potere politico si erga ad arbitro, non credo sia suo compito».

Hanno sostenuto la tesi della censura giusta.

«È un’idea che c’è sempre stata. La civiltà moderna è nata proprio contro questo. Giuste o sbagliate: tutte le censure sono censure tout court. Poi ci possono essere delle questioni di coscienza. Per esempio, un libro che elogia la pedofilia… Ma se si censura, allora dovremmo bruciare anche Lolita di Vladimir Nabokov».

Cosa pensa dell’idea di un codice etico che vagli i partecipanti al Salone?

«Spero proprio di no. Chi decide? Chi è il tribunale titolato a giudicare in caso di controversie?».

Gli editori «salonabili» dovrebbero essere graditi agli intellettuali giusti.

«Allora la stessa cosa dovrebbe valere anche per i festival cinematografici e per ogni altra manifestazione di cultura. Non scherziamo. Questa povera sinistra culturale si trova a vivere in un paese in cui la maggioranza dell’opinione pubblica non la segue più e prova a difendere la propria roccaforte. La vaccinazione morale è un’assurdità. Siamo prontissimi a difendere la libertà d’espressione quando si tratta della nostra, mentre invece va difesa quando riguarda le opinioni a noi avverse».

Stavolta il soggetto censurato ha fatto apologia di fascismo.

«Non è che nel 1945 i fascisti siano spariti. Quello che la Costituzione soprattutto impedisce è la ricostituzione del partito fascista. Per molto tempo qualcuno ha ritenuto che il Msi fosse fuorilegge, dopo di che la Dc decise di non accanirsi. In Germania si è scelta una linea più rigida, con risultati da verificare. Io non sono un giurista e preferisco l’ironia al muro contro muro. La scena dei Blues Brothers in cui John Belushi e il suo socio si lanciano in macchina contro un gruppo di fanatici inneggianti al Führer, procurando loro un bagno fuori programma, mi diverte sempre».

Nel nostro milieu intellettuale pochi possiedono l’arte dello sberleffo dei Blues Brothers. In passato non senza una certa dose di cinismo sono stati pubblicati I Diari di Mussolini «veri o presunti».

«Erano falsi, usiamo le parole nel loro significato. Li rifiutai nonostante le molte pressioni. Gli storici a cui li feci analizzare ne dimostrarono la falsità. La prova regina era il divario cadenzato tra il giorno delle udienze a Palazzo Venezia e quello in cui ne dava notizia Il Popolo d’Italia. Nel diario erano sempre annotate le date della pubblicazione sul giornale».

Il complesso di superiorità di un certo mondo intellettuale è una forma di razzismo culturale?

«Questo era vero 30 o 40 anni fa. La sinistra ha egemonizzato la cultura italiana fino agli anni Ottanta. Oggi sono rimasti solo i brandelli di quel glorioso manto. Certo, provano a stenderlo di nuovo, ma con scarso successo».

Ha mai pubblicato o fatto pubblicare un libro maledetto?

«Quand’ero in Mondadori, unici editori al mondo, pubblicammo i Versetti satanici di Salman Rushdie dopo la fatwa dell’ayatollah Khomeini. Io e altri dirigenti girammo con la scorta per sei mesi. Una parte degli intellettuali criticò la nostra decisione sottolineando che ogni civiltà ha i propri valori, di fatto difendendo le posizioni del regime iraniano. Anche le polemiche per il Libro nero del comunismo furono accese. Molti asserirono che era stato Silvio Berlusconi a volerlo. In realtà, insieme con il capo della saggistica Marco Vigevani, lo acquistammo da un editore francese in un corridoio della Fiera di Francoforte. Berlusconi non c’entrava niente. Pensavamo solo che avrebbe venduto molto. Se nel caso di Rushdie, tra i dubbi di molti dirigenti, fu Carlo De Benedetti a darci una mano a stamparlo, nel caso del Libro nero del comunismo quando fummo attaccati, ci difese Berlusconi, ben contento di farlo».

Secondo Augusto Del Noce, diventando una religione, l’antifascismo ha trasformato il fascismo nel demonio moderno, da qui la sua inafferrabilità e onnipresenza, anche fasulla. Fascismo eterno di Umberto Eco ne ha confermato il carattere soprannaturale. È il nemico necessario per ricompattare la sinistra?

«Il fascismo è la maggiore invenzione politica italiana dell’età moderna. Non a caso Adolf Hitler nutriva grande ammirazione per Mussolini. Prese il potere nel 1922 come risposta alla rivoluzione bolscevica del 1917. Il nazismo, arrivato nel 1933, ha aggiunto l’elemento darwinista della superiorità ariana alla guerra tra comunismo e capitalismo. Gli italiani hanno il copyright mondiale del fascismo, da qui l’ipersensibilità della sinistra sull’argomento. In Germania il nazismo è sepolto, in Italia il fascismo potrebbe tornare. Additarlo, anche dove non c’è, è un’efficace scorciatoia per ricoagulare le stanche truppe dei suoi antagonisti storici».

 

La Verità, 12 maggio 2019