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«Non c’è il diritto a emigrare. A Parigi rito massonico»

Ce lo chiediamo tutti se Dio esiste? Ora è il titolo del nuovo libro in cui il cardinale Robert Sarah risponde alle domande dell’editore David Cantagalli che lo pubblica. Sono domande dell’uomo comune: sulla fede, sull’attualità del cristianesimo, su perché Dio non cancella il dolore, su perché l’uomo si allontana dalla Chiesa. In occasione del Natale e dell’uscita del saggio, il prefetto emerito della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti che si è sempre espresso contro la teoria gender, ha accettato di rispondere anche alle domande della Verità.

Eminenza, anche questanno ci approssimiamo al Santo Natale. Che cosha di profondamente, direi oggettivamente, rivoluzionario questo giorno? In che cosa si differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni?

«Il Santo Natale del Signore Gesù è la memoria attuale dell’evento più straordinario della storia umana: il fatto che Dio sia divenuto uomo, restando Dio, e dunque che Dio abbia voluto camminare sulle nostre strade e nel nostro tempo, per salvarci dall’interno della nostra stessa esperienza umana. L’idea di un Dio lontano è superata per sempre del fatto dell’incarnazione, che rende il Dio-con-noi davvero credibile, perché vicino. Cristo è l’unico iniziatore di un “cammino religioso” che ha la pretesa di essere Dio: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Questa inaudita pretesa è la differenza cristiana. Tutte le religioni sono un tentativo umano di raggiungere Dio, ed in quanto tentativo possono avere certamente elementi di vero e di bene, ma il cristianesimo è esattamente il contrario: è Dio che ha raggiunto l’uomo. È il capovolgimento della mentalità comune. Dio prende l’iniziativa di venire verso l’uomo per farsi conoscere, farsi vedere, farsi toccare e rivelare il suo amore infinito per noi. Dio viene verso l’uomo tramite l’incomprensibile mistero dell’incarnazione del suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo».

Lavvenimento di duemila anni fa, la venuta, lincarnazione di Dio nel mondo, a quali domande delluomo risponde?

«L’incarnazione risponde a tutte le domande fondamentali dell’uomo! L’uomo, ogni uomo desidera conoscere Dio: il suo misterioso creatore. L’uomo desidera vedere il volto di Dio, aspira ad entrare in relazione con Dio, perché l’uomo sa che solo in Dio trova consistenza. Solo in Dio l’uomo può realmente entrare nella sua vera identità e nel suo vero destino. L’uomo è la sola creatura capace di autocoscienza e di ricerca di significato e tutti sperimentiamo come la presenza di un senso delle cose, coincida e sia direttamente proporzionale alla nostra libertà: senza senso non c’è libertà! L’uomo è – non solo ha – bisogno di verità, giustizia, felicità, amore… Cristo, Dio che si fa uomo, risponde a tutte queste domande, perché apre la possibilità del compimento dell’io, del pieno significato del nostro esistere e della possibilità che il “grido dell’uomo” trovi un interlocutore capace innanzitutto di abbracciarlo. Poi di rispondere in modo ragionevole, cioè, adeguato alla ragione umana».

Quindi, questo è un mistero anche razionalmente comprensibile. Essendo noi esseri umani dotati di un desiderio assoluto dinfinito, senza una promessa di eternità resa possibile dalla condivisione di Dio della nostra condizione, la vita sarebbe solo uno scherzo crudele?

«Dipende da cosa si intende per “razionalmente comprensibile”. Se si ha un concetto di tipo tecno-scientista, per cui la ragione umana si riduce a essere la misura di tutte le cose, allora direi di no: la decisione sovrana di Dio di manifestarsi all’uomo, facendosi uomo, non è “misurabile”, né prevedibile dalla ragione. Se, al contrario, si ha un concetto ampio di ragione, secondo il richiamo di Papa Benedetto XVI nello storico discorso di Regensburg a “dilatare i confini della razionalità”, per cui la ragione è concepita per quello che essa è, una “finestra spalancata sulla realtà”, allora certamente sì. La ragione, per sua natura, cerca risposte alle proprie domande esistenziali. Potremmo dire che la ragione, per il solo fatto di esistere, ha da sempre invocato “una risposta”. La divina Rivelazione cristiana è questa risposta. Il fatto che Dio si sia incarnato, rende accoglibile questa risposta, perché commisurata a quanto l’uomo può comprendere: la condivisione dell’umano, l’espressione in linguaggio umano, la prossimità alle pieghe dell’esistenza. Dio è credibile proprio perché si è fatto uomo e si è reso accessibile».

Una delle principali obiezioni è il dolore provocato dallingiustizia e dalla malvagità delluomo? Perché Dio tace di fronte a queste? Pensiamo alla guerra in Ucraina o ai massacri continui tra palestinesi e israeliani.

«La domanda sul dolore, soprattutto sul dolore innocente, è la domanda delle domande. Noi sappiamo, per divina Rivelazione, che il male è entrato nel mondo a causa del peccato e che ogni uomo sperimenta, nella propria vita, il dramma del peccato personale, che poi diviene peccato sociale. La maggior parte dei mali del mondo è causata dalla malvagità, dal cattivo uso del libero arbitrio, da parte degli uomini. Dio non tace, semplicemente rispetta la libertà che Egli stesso ha donato alla sua creatura, perché “se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (2Tim 2,13). Dio soffre, Dio odia perfettamente il male, le perversità e i crimini barbari che commettiamo. Però Egli rispetta le opere buone e cattive, e le scelte e le decisioni dell’uomo e dei responsabili politici che, per esempio, hanno deciso e programmato la guerra in Ucraina e in Palestina, provocando così tanti massacri e sofferenze di popolazioni innocenti. Però nella nostra fede cristiana, crediamo che Cristo Signore, poi, ha assunto su di sé tutto il male del mondo, morendo sulla croce. Per questo, solo nella luce della croce, cioè nella fede in Dio che muore con tutti gli innocenti, è possibile stare di fronte al mistero del dolore, sia invocandone la liberazione, sia permanendo nella comunione con Dio e con i fratelli. La risposta a tutte le brutture del mondo resta sempre la divina misericordia».

Qual è lattualità del cristianesimo? Perché è una risposta credibile al mondo contemporaneo?

«L’attualità del cristianesimo è l’attualità dell’uomo. Al di là di tutti i condizionamenti storici, culturali e sociali, noi sappiamo che l’uomo, il cuore dell’uomo è sempre uguale a sé stesso, con sempre delle esigenze che gridano salvezza. Certamente queste, molto spesso, sono silenziate, perché fanno così male che non incontrare una risposta può essere terribile; ed allora scatta il meccanismo dell’anestesia individuale o sociale, della fuga dalle domande, che però è fuga da se stessi. In una cultura che voglia “farla finita con l’uomo”, il cristianesimo risulta estraneo, ma se vogliamo continuare a esistere e a esistere con un senso, allora non possiamo non guardare alla proposta di Cristo, unica persona divina-umana, che dà senso, dignità, consistenza e vera felicità all’esistenza umana. Infine, nessuna tradizione storico-religiosa ama la libertà umana più del cristianesimo, e anche in questo è attualissimo».

Duemila anni fa Cristo fu accolto dai pastori e respinto dagli intellettuali e i presunti costruttori di civiltà. Perché oggi i cristiani, nonostante anche San Paolo ammonisse di non conformarsi, sono così preoccupati di avere il consenso del mondo?

«Non penso che tutti i cristiani cerchino affannosamente il consenso del mondo. Certamente alcuni paiono rincorrerlo irragionevolmente, credendo di trovare risposte più “a buon mercato”. Qualcuno lo fa, ingenuamente, pensando di essere più accettato o di evangelizzare. Forse è vero che il mondo è penetrato molto nella mentalità di tutti e questo è accaduto anche tra i cristiani e nella Chiesa; ma l’umanità non ha bisogno di una Chiesa più umana, più immersa nelle tenebre del nostro mondo, nascondendo così la luce del vangelo di Cristo, ma di una Chiesa più divina, di una comunità credente più raggiante di valori cristiani, che abbia consapevolezza della propria identità di “presenza divina nel mondo” ed offra a tutti gli uomini l’esperienza della prossimità di Dio, indicando costantemente la sua presenza».

Proclamando i diritti umani e civili come prioritari le agenzie internazionali, gran parte dei media e delle comunità artistiche tendono a creare le premesse di una nuova religione che renda superflua la ricerca della trascendenza?

«La ricerca della trascendenza non sarà mai superflua, perché appartiene all’identità dell’uomo; finché ci sarà un solo uomo, questi cercherà il significato dell’essere e della vita, dunque cercherà il mistero, l’infinito, la trascendenza, Dio. Il grande tema dei diritti umani e civili, di cui il cristianesimo è sempre il primo vero promotore, domanda di essere declinato insieme alla verità sull’uomo ed al bene comune. Senza questa “compagnia virtuosa”, i diritti umani divengono mera obbedienza a una arbitraria soggettività e quelli civili pretesa di riconoscimento pubblico dei propri desideri, anche volgari, indegni di un essere umano, non sempre corrispondenti alla propria profonda identità e natura. Certamente la consapevolezza della irrinunciabilità della dimensione religiosa può portare a immaginare una “super-religione” mondiale aconfessionale e priva di ogni dottrina, di ogni insegnamento morale e di ogni trascendenza, ma non basterà mai al cuore dell’uomo».

Questa nuova religione sta attuando la sua prova generale durante la gestione globalizzata delle varie emergenze, cominciando dalla pandemia del Covid e proseguendo con quella ambientale?

«Le nuove tecnologie, utilizzate in tempi di emergenza, possono certamente creare l’illusione, in chi le gestisce, di un “controllo globale”. Non sono lontani gli esempi di Stati che, in certo modo, anche se ancora su base volontaria, stanno già attuando quello che si chiama “punteggio sociale”, divenuto un vero e proprio status symbol, che sostituisce ogni valutazione dell’agire morale, privato e sociale, divenendo nuovo criterio di giudizio. È sempre necessario, nelle emergenze, da parte di tutti conservare un vivo senso critico, senza mai lasciarsi prendere dal panico e, da parte delle autorità, evitare decisioni non sufficientemente ponderate. La chiusura delle chiese, forse, è stata una di queste».

Che cosa ha suscitato in lei la rappresentazione artistica allestita in occasione della cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, forse levento più globale del pianeta?

«Al di là del cattivo gusto e dell’oggettiva “bruttezza” della rappresentazione, che nulla aveva di artistico, mi pare sia stata la misura dell’odio al fatto cristiano. Mi ha positivamente stupito che la Conferenza episcopale francese, che certamente non può essere accusata di oscurantismo, abbia espresso una protesta formale, seguita da quella della Santa Sede. Vede, quella rappresentazione blasfema e satanica ha mostrato al mondo come i finti irenismi non abbiano spazio e come la battaglia per la verità e il bene sia, in fondo, sempre anche una battaglia soprannaturale. E le battaglie soprannaturali si combattono con le armi soprannaturali: la preghiera, i sacramenti e i sacramentali, inclusi gli esorcismi. Sono molto legato e grato alla Francia, paese a cui la mia storia personale deve moltissimo, e so che quella rappresentazione non è stata affatto l’espressione di tutto il popolo francese, ma di una minoranza ideologizzata, massonica e opportunamente finanziata».

Tra i nuovi diritti proclamati dagli intellettuali e anche da molte personalità del clero c’è quello a emigrare. Perché si fa molto di meno per favorire il diritto, forse più primordiale, a crescere là dove si è nati?

«Non esiste il diritto a emigrare, se l’emigrazione è forzata, organizzata, pianificata per nascondere una forma nuova di schiavitù o di traffico di esseri umani. Esiste il diritto a una vita buona, a esprimere le qualità della propria personalità, a non morire di fame o di malattie perfettamente curabili, e tutto questo potrebbe essere realizzato nei vari Paesi del mondo in difficoltà. Basterebbe ricordare che un terzo del cibo prodotto nel mondo viene gettato via».

Poche settimane fa sono usciti i dati dellAnnuario cattolico. Per la sua conoscenza del mondo africano ed europeo, come si spiega il fatto che i cattolici sono in aumento in tutti i continenti a eccezione che in Europa?

«Credo ci sia una fondamentale ragione di tipo demografico. Noi in Africa amiamo la vita, nonostante tutte le sue difficoltà. A me fa una certa impressione passeggiare in alcune città dell’Europa e non vedere, per ore e ore, un solo bambino. La vera emergenza dell’Europa è quella demografica e alcuni governi lo stanno comprendendo. Il cruciale problema demografico viene dalla distruzione sistematica della famiglia, del matrimonio, dall’egoismo e dall’individualismo come scelta della società occidentale. Ciò chiude una società in sé stessa. Tutto il mondo sarebbe molto più povero senza gli europei e senza gli italiani. Bisogna guardarsi attentamente da ogni tentazione o illusione di sostituzione etnica. Poi c’è una freschezza del cristianesimo africano, vivace e dinamico, perché giovane, che forse quello europeo, un po’ stanco e troppo istituzionalizzato, può aver perduto. Infine, c’è l’ideologia illuminista anticristiana e soprattutto anticattolica, che in Africa non è mai sbarcata, se non per quegli intellettuali che hanno studiato in Europa, esportandone il peggio».

Quali responsabilità ha la Chiesa nellallontanamento di molti dal cristianesimo? O, per dirla con T. S. Eliot, è la Chiesa che ha abbandonato lumanità o lumanità che ha abbandonato la Chiesa?

«L’uomo abbandona la Chiesa, o la fede, ogni volta che si dimentica di sé stesso, che censura le proprie domande fondamentali; la Chiesa non ha mai abbandonato e mai abbandonerà l’uomo. Alcuni cristiani, a ogni grado della gerarchia, possono aver abbandonato gli uomini ogni volta che non sono stati sé stessi, cioè ogni volta che si sono vergognati di Cristo, tacendo la ragione unica del proprio essere cristiani».

Perché, a suo avviso, negli ultimi concistori papa Francesco ha creato solo tre cardinali africani?

«Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo al Santo Padre. La Chiesa africana non è in concorrenza con le Chiese sorelle ed è molto onorata di avere nuovi cardinali».

 

La Verità, 14 dicembre 2024

«Il pubblico ha meno pregiudizi dei critici»

Incontro Paolo Sorrentino, ultimo Premio Oscar italiano, in un hotel di Bari durante una pausa del tour promozionale di Parthenope, il film in cui, attraverso la vita della protagonista, abbozza una meditazione sullo scorrere del tempo e il rapporto con la bellezza e l’amore.
È soddisfatto di come sta andando il film al botteghino?
«Molto, non è scontato di questi tempi. Sono felice delle reazioni di molti spettatori che lo vedono come una rappresentazione della grande avventura della vita. Non come un film bello o brutto, ma come un’emozione profonda nella quale specchiarsi e rinvenire le domande che ci corrispondono. È un lavoro con una trama emotiva e sentimentale».
Si aspettava questo successo dopo l’accoglienza della critica?
«Ero molto preoccupato perché la critica non è stata benigna. Migliore quella italiana, più aspra quella anglosassone. Fa parte del gioco».
I critici sono più freddi sui temi esistenziali?
«Non so se questa sia la chiave giusta. Ci sono due modi per vivere un film: esaminarlo nelle sue diverse parti o immergersi nel flusso dei sentimenti che affronta. Il primo modo appartiene alla critica, il secondo al pubblico. Questo fa sì che questo film piaccia di più al pubblico. Se è vero che la nostra cultura è la somma dei nostri pregiudizi, come dice Alessandro Piperno, allora, secondo me il pubblico ha meno pregiudizi».
Che cosa ha innescato questa meditazione sul tempo?
«Sono entrato in un’età in cui si comincia a interrogarsi su come è passato il tempo e come scorrerà successivamente. Mi sembra il tema dei temi… quando uno guarda alla propria vita… Trovo commovente lo scorrere del tempo, la cosa più decisiva che accade a ognuno di noi».
Chi è Parthenope?
«Una donna libera, che si ostina nel mantenimento della sua libertà. Questo la rende un personaggio epico, in un’accezione moderna dell’epico. Non rinuncia alla spontaneità e alla bellezza della seduzione».
È una donna in ricerca che non si accontenta delle risposte che offre una città caleidoscopica come Napoli?
«È una donna che si lascia vivere, quando è giovane. Forse per questo a molti risulta emozionante, ci si lascia andare a quella vertigine di estasi che tutti abbiamo provato in gioventù. Quando entra nell’età della responsabilità guarda la città più da fuori, senza lasciarsi sopraffare. E le capita di andare via».
È anche una donna che non si compromette e resta sempre un po’ distante?
«Sì. Avendo questa vocazione all’antropologia guarda la sua vita da fuori. Però a Capri si lascia andare…».
Per usare le sue chiavi interpretative, sa cos’è l’irrilevante, ma le sfugge il decisivo?
«Secondo me sa anche cos’è il decisivo, come di solito lo sanno le donne. È una generalizzazione, certo, ma mi pare che le donne sappiano sempre come stanno le cose».
Per malizia?
«No, per una forma istintiva di conoscenza della vita che le donne hanno più degli uomini».
L’intelligenza emotiva vince su quella razionale?
«È come se i presentimenti delle donne siano più vicini alla realtà di quanto lo siano i presentimenti degli uomini. La mia è una sensazione».
Parthenope non si convince a fare l’attrice, delusa dall’incontro con Greta Cool alias Sophia Loren…
«Non è Sophia Loren, ci tengo a dirlo, ma la rappresentazione di una diva di quegli anni».
In tanti abbiamo riconosciuto lei.
«Contro il mio parere, visto che l’ho creata io».
Lei è soddisfatto di essere un artista?
«Sono molto fortunato e privilegiato. Faccio un lavoro molto divertente che la maggior parte del tempo non percepisco nemmeno come lavoro».
Parthenope cerca invano una complicità d’intelligenza con lo scrittore John Cheveer: a lei il mondo della letteratura ha dato le soddisfazioni che cercava?
«Sì, ho scritto nel tempo libero, non frequento il mondo della letteratura. Hanno tutti ragione è nato nell’attesa che Sean Penn fosse libero da impegni, per non ciondolare un anno a casa in pigiama. Mi ha dato soddisfazione, è un libro che ha avuto successo e ancora viene letto».
Anche con la contestazione Parthenope non si coinvolge: lei ha partecipato ai movimenti studenteschi?
«No, sono stato adolescente negli anni Ottanta quando erano diventati più occasionali».
Il suo interesse per la politica è diminuito perché mancano figure come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi o, magari da cittadino, fa credito a qualcuno?
«Da regista è abbastanza calato. Da cittadino ho grande ammirazione per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche per Mario Draghi. Per il resto la scena politica m’interessa meno del passato».
Le elezioni americane l’hanno appassionata?
«Più che appassionarmi a una parte o all’altra mi sono preoccupato nel vedere che un Paese tanto importante era così coinvolto in dinamiche che hanno poco a che fare con la democrazia».
Adesso è più preoccupato?
«Francamente sì».
Non per le guerre nel mondo, però?
«Tendo a fidarmi quando una persona mostra equilibrio, saggezza e prudenza, doti che non ravviso in Donald Trump. Questo non c’entra con l’essere di destra o di sinistra».
Per la protagonista del film c’è la possibilità dell’amore e vediamo il triangolo incestuoso con il fratello e il fidanzato e il rapporto con il cardinal Tesorone: non lo sa proprio gestire questo sentimento.
«Secondo me, invece lo gestisce bene. L’amore, per definizione, è abbastanza ingestibile perché è una dinamica travolgente e quando si è travolti non si gestisce nulla. Mi sembra che il repertorio dei suoi incontri sia simile a quello di tanti di noi. Ha a che fare con le varie facce dell’amore, anche quella sordida quando incontra il camorrista. Poi è tentata dalla seduzione di una persona che, in teoria, sarebbe l’anti-seduzione come il cardinale. Ci capita di essere attratti da persone che non pensiamo possano attrarci. S’imbatte nell’amore impossibile per John Cheveer che è omosessuale. Poi c’è l’amore giovanile con il primo fidanzatino e un altro amore impossibile per il fratello, nel triangolo della nostalgia. Ho provato a raccontare le diverse imprevedibilità dell’amore».
Non è gestibile perché è un dono che ci supera?
«Non so  definire l’amore. Faccio dire al cardinale quella frase sulla sua grandezza per cui tutti provano a insegnarci a gestirlo. Ma siamo come squali che girano intorno alla preda, senza riuscire ad afferrarla».
Invece,
il rapporto tra Parthenope e il cardinale come lo definirebbe?
«Mi sembra una gentilissima, delicata, meravigliosa schermaglia di seduzione tra due esseri umani pienamente liberi e coscienti. La seduzione è bellissima perché è l’unico duello in cui si può giocare senza farsi del male».
Fino
a prima dell’atto.
«La seduzione ha a che fare con il prima, non con il sesso, che è una conseguenza marginale e non deve necessariamente accadere. Il cardinale è abilissimo perché è allenato a sedurre le anime».
Mette in relazione il miracolo di San Gennaro con il contatto fra il cardinale e Parthenope: hanno qualche ragione a risentirsi i cattolici devoti al santo?
«Per me no. Io so qual è il mio approccio alla religione, sempre rispettoso. Il fatto che metta in scena dinamiche inusuali non vuol dire che siano irrispettose, sono legate alla realtà. Il mondo è pieno di religiosi che seducono uomini e donne. E sul sangue di san Gennaro non ho detto niente di nuovo, i credenti lo reputano un miracolo, i non credenti un non miracolo».
Da The Young Pope al dissoluto cardinal Tesorone, è più incuriosito dalla Chiesa che da Gesù Cristo?
«Sì».
Però la dipinge spesso corrotta.
«Lo nego. In The Young Pope e The New Pope non era corrotta».
Molto trasgressiva?
«In mondi in cui le regole sono rigide è inevitabile trasgredire. Nelle serie mi sono sforzato di raccontare l’incredibile capacità della Chiesa di navigare da 2000 anni in acque sempre molto agitate».
I suoi conterranei si sono risentiti per l’invettiva di Greta Cool?
«I miei conterranei sanno benissimo che siamo legati alla città, ma allo stesso tempo anche autocritici».
L’antropologia è vedere, la possibilità che rimane quando tutto il resto viene a mancare, dice il professor Marotta. È per questo che l’antropologo Sorrentino vorrebbe essere invisibile?
«Sì, perché così potrei vedere veramente. Anche quello che la gente adesso non mi lascia vedere».
È incuriosito da qualcosa in particolare?
«Mi è sempre piaciuto irrompere nelle case. Se fossi invisibile potrei farlo nel migliore dei modi. Nelle case vivono i segreti».
Che cosa le fa dire che i ragazzi di oggi sono migliori di quelli del suo tempo?
«Un po’ quello che vedo quando li incontro per questo film. Poi ho due figli giovani. Mi sembra ci siano tanti luoghi comuni su di loro. Quando lo ero io, giovane, si diceva che stavamo sempre davanti alla tv, ora si dice che sono sempre davanti al telefonino. Anche se in parte è vero, a me pare che questi ragazzi sappiano ritagliarsi degli spazi per vedere le cose della vita e andarci dentro».
Mostrando così mostruoso il figlio del professor Marotta voleva rappresentare lo scandalo del dolore?
«Non ha molta importanza cosa volevo rappresentare io, lo ha di più cosa ci vede lo spettatore».
Però è una scena cercata, che fa sobbalzare
sulla poltrona.
«Ho un’idea molto ampia di bello. E quell’essere umano lì mi sembra bellissimo e stupefacente, e può essere evocativo per lo spettatore. Nel momento in cui lo devo spiegare perde di senso».
A me ha fatto pensare al
mistero del dolore.
«È qualcosa che appartiene a una generazione che ha avuto figli con dei problemi, facendoli diventare dei tabù. In casa c’era qualcosa di cui non si parlava e che non si poteva mostrare all’esterno. Marotta è un professore universitario degli anni Ottanta. Oggi non è più così».
Perché sembra spesso annoiato?
(Ride) «Lo sono come tutti. Alle volte lo sono, altre no».
La noia è un derivato dello snobismo?
«Non penso».
Convive bene con il successo?
«Sì, è un fatto che ha molti lati positivi e pochissimi negativi».
Che cosa le fa dire che «Dio non ama il mare»?
«Avevamo finito di girare alle 4 di notte e a Lanzetta, stanchissimo, è uscita quella frase, come uno sberleffo. Non le darei troppa importanza, cazzeggiavamo come ragazzi sul muretto».
Fa il paio con «Il mare mi ha deluso»
di un pensoso Renato Carpentieri in È stata la mano di Dio.
(Ride a lungo)
Che cosa appassiona Paolo Sorrentino?
«Gli esseri umani. Per il mio lavoro mi occupo di esseri umani. Quando trovo quelli che mi piacciono ci faccio i film».

 

La Verità, 9 novembre 2024

«Perché la Chiesa non può addolcire l’etica sessuale»

Il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo metropolita di Utrecht, già presidente della Conferenza episcopale dei Paesi bassi, ha da poco pubblicato Sull’amore – Matrimonio ed etica sessuale. Grazie all’editore Cantagalli, che lo distribuisce in Italia, ho realizzato questa intervista via mail. Spiace che il coraggio mostrato sostenendo i Dubia riguardo all’Amoris Laetitia non abbia aiutato Sua Eminenza a rispondere alle domande sull’esortazione apostolica di papa Francesco, sulla Fiducia supplicans e sull’Ultima cena queer dell’inaugurazione delle Olimpiadi.
Eminenza reverendissima, la morale sessuale è il terreno in cui oggi si registra la distanza maggiore fra mondo e Chiesa?
«È certamente così. Nell’annunciare Cristo e la sua risurrezione, la Chiesa incontra anche molti fraintendimenti, ma in genere la gente non si emoziona per questo. Tuttavia, l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla sessualità tocca le persone nella loro vita personale. La sua proclamazione può suscitare le emozioni necessarie».
Quali sono le cause della rottura della connessione tra matrimonio, morale sessuale e procreazione, la triade che ha orientato la vita collettiva fino alla metà del Novecento?
«Una causa diretta, ovviamente, è la secolarizzazione associata all’odierno individualismo. L’individuo autonomo decide da solo ciò che crede; per inciso, spesso segue inconsciamente l’opinione pubblica. Di conseguenza, il matrimonio non è più visto come un’istituzione creata da Dio con determinate intenzioni da cui derivano norme per l’esperienza del matrimonio e della sessualità. Nell’epoca attuale, gli individui scelgono quale interpretazione dare al matrimonio o ad altre relazioni sessuali. Anche il facile accesso al materiale pornografico crea un’immagine distorta della sessualità umana».
Le cause di questa rottura sono esterne o esistono anche responsabilità della Chiesa e della sua predicazione?
«Sono principalmente cause esterne. Gli insegnamenti della Chiesa in generale, e certamente quelli sul matrimonio e sulla sessualità, sono stati accolti con incomprensione, poiché la cultura occidentale è cambiata radicalmente a partire dagli anni Sessanta con l’aumento dell’individualizzazione e della secolarizzazione. Ciò non toglie che anche la Chiesa sia stata inadempiente, poiché nell’ultimo secolo la catechesi è stata trascurata».
La morale sessuale è scomparsa dalla predicazione perché fino agli anni Sessanta del secolo scorso è stata troppo presente?
«No, la morale è scomparsa dalla predicazione perché negli anni Sessanta la cultura occidentale ha subito cambiamenti radicali e di conseguenza è stata poco ricettiva alla proclamazione dell’insegnamento della Chiesa».
In quei decenni essere cristiani coincideva con l’irreprensibilità nel comportamento sessuale dettata da un moralismo fatto di divieti?
«Non è vero. Fino ad allora, gli occidentali vivevano in una cultura profondamente cristiana. Vita e fede erano intrecciate. La Chiesa, con le sue numerose celebrazioni, processioni e pellegrinaggi, era al centro della vita della maggior parte delle persone. Fino agli anni Sessanta, le norme relative al matrimonio e alla sessualità venivano predicate ma non spiegate. Quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae nel 1968, non esisteva un’analisi teologica o filosofica della natura del matrimonio sulla base della quale si potesse chiarire perché l’uso della contraccezione, a prescindere dall’intenzione o dalle circostanze, è sempre un atto moralmente cattivo. La situazione è cambiata solo quando Giovanni Paolo II ha esposto la sua teologia del corpo nella catechesi tenuta durante l’udienza generale. In essa descrive il matrimonio come un dono totale reciproco dell’uomo e della donna, che riflette il dono totale reciproco tra Cristo e la sua Chiesa o quello tra le tre Persone divine nella Trinità. Così, è comprensibile spiegare perché l’uso della contraccezione è moralmente malvagio: il dono reciproco degli sposi non è allora totale, perché a livello fisico il dono reciproco della genitorialità è bloccato».
Nella predicazione è rimasta troppo implicita la proposta di un modello alto del matrimonio come imitazione dell’amore fra Cristo e la Chiesa?
«Nelle omelie manca comunque una chiara spiegazione dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio. Per inciso, è anche deplorevole che relativamente pochi teologi morali si occupino di teologia del corpo».
I coniugi che si accostano al sacramento sono adeguatamente aiutati a comprendere che si tratta di una via privilegiata alla santità, con tutto quello che può comportare?

«Nell’arcidiocesi di Utrecht organizziamo corsi di matrimonio che illustrano la teologia del corpo e l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia. I partecipanti, giovani coppie che intendono sposarsi in Chiesa e di solito scelgono consapevolmente di farlo, sono entusiasti: <Che bello, non l’abbiamo mai sentito prima>, è la loro reazione. Sono anche aperti a ciò che la Chiesa suggerisce riguardo alla contraccezione e al possibile uso di mezzi naturali per il controllo delle nascite».
Come la comunità cristiana può testimoniare la bellezza del matrimonio, unione feconda e «per sempre», a fronte di mode e unioni chiuse in sé stesse e spesso passeggere?
«Le migliori coppie di sposi esperti che vivono il loro matrimonio secondo le intenzioni di Dio possono testimoniare la bellezza del matrimonio come legame indissolubile aperto al trascorrere della vita umana. Nel fare questo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non è così facile ottenere un matrimonio felice. Le persone non sono perfette. Per questo motivo, i nostri corsi di matrimonio prevedono serate tenute da coppie di sposi esperti che mostrano ai giovani le difficoltà che possono aspettarsi nella loro vita matrimoniale e come possono affrontarle».
Perché a proposito della teoria gender papa Francesco dice che «la rimozione della differenza è il problema non la soluzione»?
«Ci sono spesso aspettative irrealistiche riguardo alle applicazioni della teoria del genere. Ciò è particolarmente vero per la teoria del genere di più ampia portata, che sostiene che il genere – i ruoli sociali di uomini e donne – può essere completamente dissociato dal sesso biologico. Ciò significa che un uomo che pensa che il suo genere sia quello di una donna può avere il suo sesso biologico adattato al genere femminile che ha scelto come identità attraverso trattamenti ormonali e procedure chirurgiche che alterano il sesso. Si tratta di un’aspettativa irrealistica. Al massimo si possono cambiare gli organi sessuali e le caratteristiche sessuali secondarie, come la voce e i peli del corpo, ma dal punto di vista del suo genere genetico rimane un uomo. Deve continuare ad assumere ormoni femminili per il resto della sua vita. Inoltre, il trattamento di riassegnazione del sesso comporta la sterilizzazione. Ci sono anche persone che si sono sottoposte a un trattamento di riassegnazione del sesso in giovane età e se ne pentono. Non è possibile annullare il cambiamento di sesso».
Quali sono le cause dell’esplosione della teoria del gender?
«La teoria del genere trae origine dal femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta. Le femministe vedevano nella contraccezione ormonale la liberazione della donna dal ruolo di genere che la società le aveva imposto in passato. Questo ruolo di genere significava che la donna doveva concentrarsi principalmente sul suo compito di procreare e crescere i figli. Dopo essersi liberata da questo ruolo grazie alla contraccezione, sarebbe stata finalmente in grado di scegliere la propria identità di genere. Questa idea è stata presto estesa a tutte le persone: ognuno dovrebbe essere in grado di fare ciò che vuole dal punto di vista sessuale».
I cattolici hanno consapevolezza sufficiente che la condanna della contraccezione da parte della Chiesa è motivata dal fatto che ricorrervi significa impedire a Dio di «di usare l’atto coniugale nell’ambito del suo piano di creazione per far nascere un nuovo essere umano»?
«Temo di no. Fino agli anni Sessanta, i cattolici vedevano generalmente il proprio figlio come un dono di Dio. L’uomo e la donna realizzano il concepimento attraverso il rapporto coniugale. Dio crea un’anima e la riversa nel frutto rendendolo un essere umano vivente. Ora, molti cattolici battezzati non vivono più il bambino come un dono di Dio. Come i non cattolici, parlano di “prendere” o “fare” un bambino».
Assistiamo a un’espansione del diritto dei genitori di avere o non avere figli: mentre si considera l’aborto un diritto da stabilire nelle Costituzioni, allo stesso tempo si ritiene un diritto avere figli con qualsiasi metodo, compresa la maternità surrogata. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Il diritto all’aborto e il diritto ad avere figli attraverso le tecniche di inseminazione artificiale sembrano in contraddizione. Uno sguardo più attento mostra che non è così. Nelle tecniche di fecondazione artificiale, come la fecondazione in vitro, la maggior parte degli embrioni umani creati in laboratorio va persa. Dopo che la coppia ha ottenuto il numero di figli desiderato una volta attraverso le tecniche di fecondazione artificiale, il resto degli embrioni rimane in laboratorio. Questi embrioni vengono distrutti o consumati nella ricerca medica. L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede del 1987 sulle tecniche di fecondazione artificiale, Donum vitae, sottolinea che l’accettazione dell’aborto indotto rende accettabile la grande perdita di embrioni nella fecondazione in vitro».
Confrontando la radicalità del catechismo cattolico con la pervasività dei modelli che promuovono l’individualismo e l’edonismo bisogna accettare che i cristiani siano un’esigua minoranza nel mondo contemporaneo?
«Il fatto che i cristiani siano sempre più una minoranza è una conseguenza dei cambiamenti culturali che fanno sì che Cristo e il suo Vangelo non siano più compresi e accettati dalla maggioranza. È stato suggerito che la Chiesa attirerebbe più persone se fosse disposta a modificare il suo insegnamento sulla moralità del matrimonio e sull’etica sessuale. In primo luogo, la Chiesa non può farlo, perché il suo compito è annunciare le intenzioni di Dio sulla creazione e non può cambiarle. Ma in secondo luogo: il mondo del protestantesimo mostra che soprattutto le chiese liberali, che hanno una visione molto ampia della morale, sono state le prime a svuotarsi».

 

La Verità, 3 agosto 2024

«Il Papa vuole essere pop come un influencer»

Atti impuri. Argomento scabroso, teologicamente incandescente e attualissimo. Ha a che fare con la dottrina della sessualità e del matrimonio. Con il ruolo della donna e i rapporti nelle coppie dello stesso sesso. Con gli abusi e le violenze dei preti e la pedofilia: ferite apertissime nella Chiesa. Se ne occupa in Atti impuri, appunto, per Laterza, la storica e femminista Lucetta Scaraffia, con approccio distaccato e chirurgico.

Da che cosa nasce questo saggio?

«Dalla scoperta che l’unico dei Dieci comandamenti che ha cambiato formulazione è il sesto, ed è quello che riguarda il comportamento sessuale. Ha smesso di essere “Non commettere adulterio” ed è diventato “Non commettere atti impuri”. Il cambiamento è avvenuto nel Cinquecento e solo nel 1992 è tornato alla formulazione originale».

Qual è lo scopo del libro?

«Trovare le radici dell’atteggiamento della Chiesa di fronte agli abusi sessuali. La Chiesa ha dimostrato una grande difficoltà a risarcire le vittime. Anzi, ancor prima, ad accettare che esistano. Il suo sguardo è concentrato sul colpevole, che diventa peccatore in quanto ha trasgredito il sesto comandamento».

Perché preferisce la formulazione: «Non commettere adulterio»?

«Perché allude a una rete di rapporti sociali. Allude alla rottura di un legame di fiducia all’interno di una famiglia e di una comunità».

Non rischia di essere ripetitiva del nono comandamento: «Non desiderare la donna d’altri»?

«Certo. Però l’adulterio è un fatto, una realtà che avviene e danneggia i rapporti sociali. Quello trattato nel nono comandamento è un peccato di intenzione e di desiderio».

Che ha una radice nel vangelo di Matteo: «Chi guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio in cuor suo».

«Perché, in realtà, i desideri tendono a realizzarsi».

La formulazione è cambiata quando è insorta la variegata casistica di trasgressioni che riguardano la sessualità e il rispetto del corpo «tempio di Dio»?

«La formulazione diventa “Non commettere atti impuri” quando l’attenzione si sposta solo sull’individuo che compie l’atto e la sessualità trasgressiva comincia a essere concepita come impurità. Quindi, il colpevole peccatore deve tornare puro. Non conta nulla la persona con cui ha commesso l’atto».

Un cambiamento di prospettiva importante.

«Fino all’epoca moderna la Chiesa controllava anche l’ordine pubblico, garantendo che nelle comunità non prevalesse la violenza. In quest’ottica i peccati più gravi erano l’ira, la superbia e l’invidia perché innescavano azioni di sopraffazione. Invece, con la nascita degli Stati nazionali, sono le istituzioni statali ad assumere il compito di garantire l’ordine pubblico. A quel punto la Chiesa si preoccupa di consolidare il suo unico ambito di supremazia, che è quello del comportamento sessuale e delle relazioni private».

«Non commettere atti impuri» equipara l’adulterio, la contraccezione, la masturbazione, l’omosessualità, la pedofilia, la prostituzione. Come si poteva formulare un comandamento per ognuno di questi peccati?

«Il problema è che vengono messi sullo stesso piano peccati che non diventano violenza verso altri, come la masturbazione e la prostituzione, e azioni come l’abuso e lo stupro nelle quali ci sono delle vittime».

L’errore è aver inglobato lo stupro e gli abusi, la violenza sul partner non consenziente?

«La Chiesa non mostra attenzione alla questione del consenso che oggi è diventata centrale nel giudicare le trasgressioni sessuali».

La Chiesa si preoccupa della conversione del cuore. Gli effetti sulla vittima e la riparazione delle conseguenze delle azioni del peccatore sono il terreno della carità e dell’azione pastorale?

«L’unico comandamento che Gesù ha lasciato è “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Questo è l’unico comandamento della tradizione cristiana. La conversione del cuore deve comprendere anche la carità e la responsabilità verso gli altri. È fondamentale per un cristiano. Questa definizione del peccato deriva da una concezione maschile della sessualità».

Perché?

«Perché per gli uomini esiste una forma di piacere anche in un rapporto di abuso e stupro, mentre per le donne no. Il sesto comandamento e il diritto canonico considerano la vittima come complice, anche se non volontaria, della trasgressione. Perché è un piacere impuro al di fuori del legame matrimoniale, l’unico accettato dalla morale cristiana».

Non riesco a vedere in che modo la Chiesa consideri complice nel piacere il non consenziente.

«La vittima non viene considerata tale. È solo una persona coinvolta nella trasgressione del sesto comandamento».

Queste debolezze attraversano parti consistenti del clero e fanno dire ad alcuni teologi e vescovi che la soluzione potrebbe essere l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio femminile. Lei cosa ne pensa?

«Penso che non è una soluzione magica. Sappiamo che gli abusi avvengono anche nelle famiglie e con uomini sposati. Però nel matrimonio c’è una donna che controlla l’uomo e sta attenta a quello che combina».

Quindi è favorevole?

«Forse sì. Sarebbero meno soli, e questo è importante. Ma anche la fine del celibato avrebbe risvolti negativi. Sarebbe una soluzione a doppio taglio».

Per esempio?

«Gli interessi della famiglia potrebbero distoglierlo dalla cura dei fedeli, sia dal punto di vista finanziario che emotivo. Poi il comportamento magari trasgressivo dei famigliari potrebbe nuocere alla sua autorevolezza nei confronti dei fedeli… Lei si immagina un prete con figli drogati o bulli?».

La sessualità è il terreno nel quale i Papi sperimentano maggiore solitudine, come confermò Paolo VI ad Alberto Cavallari il 3 ottobre 1965: «Si studia tanto, sa… Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli…». Perché?

«Perché da quando è iniziata la rivoluzione sessuale nei primi decenni del Novecento la Chiesa si è trovata a vivere dentro una tendenza storica che promuoveva una morale opposta a quella che aveva sempre insegnato, cioè  in una situazione fortemente contraria al nuovo spirito del tempo».

È la stessa solitudine di cui ha parlato papa Francesco intervistato da Fabio Fazio a proposito dell’autorizzazione concessa alla benedizione delle coppie omosessuali contenuta nella Fiducia supplicans?

«Quella è tutta un’altra cosa. In realtà, la decisione di benedire le coppie omosessuali è stata fatta per rispondere alla una tendenza storica in atto di riconoscimento degli omosessuali. Quindi, il Papa non è solo e diverso dalla mentalità comune, ma si adegua al fluire del pensiero corrente. Caso mai è solo rispetto a gran parte della Chiesa che non approva quella decisione. È un tipo di solitudine completamente diversa».

Che cosa pensa della decisione del presidente del Dicastero per la dottrina della fede Víctor Manuel Fernández?

«Penso che non ce n’era alcun bisogno perché, in realtà, le cose sono rimaste come prima. Cioè, è sempre stato possibile per un sacerdote benedire i singoli individui, senza domandare loro se sono buoni o cattivi. Il problema riguarda le coppie, ed è stato specificato che non possono essere benedette in quando coppie omosessuali».

Cosa pensa del fatto che papa Francesco ha detto che chi critica questa dichiarazione non conosce a fondo la materia?

«Penso che l’abbia detto per difendersi dalle polemiche, ma non è vero. È un modo per impedire di criticare una dichiarazione che è nulla perché nella sostanza non fa che ribadire un’azione che già si può compiere».

Nei giorni scorsi Francesco ha detto che «il sesso è un dono di Dio»: è un passo avanti?

«No. L’aveva già detto Giovanni Paolo II nella sua teologia del corpo e nel libro Amore e responsabilità».

Lei si sofferma sulla controversa formulazione del sesto comandamento, ma papa Wojtyla l’ha riportata all’origine. Si tendono un po’ a rimuovere le innovazioni del suo pontificato, ma con lui e Benedetto XVI la Chiesa si è ravveduta, o no?

«Ravveduta non è la parola giusta. È tornata su alcuni punti rifacendosi alle origini della dottrina cristiana. Chi ha riportato alla formulazione originaria il sesto comandamento è stato l’allora cardinale Ratzinger, nel nuovo catechismo. Ed è stato sempre Ratzinger, cioè Benedetto XVI, nella lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda del 2010, a dire che gli abusi erano stati perpetrati “contro” le vittime e non “con” le vittime, come prevedeva la formulazione precedente».

Che cosa rappresenta questo papato dopo quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI?

«A me sembra che ci siano stati cambiamenti importanti come l’attenzione alla terra e all’ecologia che ha aperto una sfera nuova di impegno dei cattolici. Però, per il resto, mi pare che abbia generato molta confusione».

Ambientalismo, teoria gender, migranti: la Chiesa è troppo allineata al pensiero unico?

«Più che altro è silente rispetto ai numerosi punti in cui il  pensiero unico si allontana dalla dottrina cristiana, perché parlare la renderebbe impopolare. E il Papa ha scelto la popolarità».

Qualche giorno fa ha detto che si comporta come un influencer. L’influencer influenza scelte e comportamenti dei seguaci come fa anche un’autorità morale, o no?

«L’influencer deve cavalcare la mentalità corrente, non può mai schierarsi contro la mentalità corrente. È questo il problema».

Nel frattempo, le chiese si svuotano?

«La ricerca della popolarità di Francesco, le interviste infinite, il suo avvicinarsi al pensiero del mondo: tutto ciò non è servito ad attirare persone al cristianesimo».

È un Papa molto apprezzato da chi non è credente.

«Che rimane tale. Perché i non credenti non vedono la grande differenza tra quello che dice e quello che fa, prestano attenzione solo alle parole».

Qual è questa differenza?

«Ha sempre detto che le donne sono importanti e che bisogna ascoltarle. Ma non ha mai fatto nulla di reale per cambiare il loro ruolo nella Chiesa. Ne ha messa qualcuna qua e là, realizzando una cosmesi superficiale. Non ha mai affrontato seriamente il tema degli abusi contro le suore da parte di sacerdoti e religiosi, che sono numerosi e gravi, e comportano spesso come conseguenza l’aborto».

Da storica quale futuro intravede per questa Chiesa?

«La Chiesa deve ridefinire sé stessa rispetto al mondo contemporaneo. È un’operazione che aveva avviato papa Ratzinger, che era un grande studioso del rapporto fra Chiesa e modernità nella sua accezione più alta. Penso che valga quello che ha profetizzato lui: rimarranno pochi cattolici, ma di grande qualità».

Il piccolo gregge?

«Da cui ricominciare».

 

La Verità, 20 gennaio 2024

«La messa moderna danneggia la fede»

Autore di romanzi, racconti, poesie, libretti per opera e saggi su arte e letteratura, reportage e argomenti religiosi, storici e politici, nato a Francoforte sul Meno dove risiede e da dove parte per i suoi viaggi, molti dei quali diretti nell’amata Italia, Martin Mosebach è uno tra gli scrittori tedeschi più importanti dell’epoca contemporanea. Insignito di numerosi riconoscimenti e premi, tra cui quello della Fondazione Konrad-Adenauer-Stiftung del 2013, oltre al saggio sui 21 martiri copti con prefazione del cardinal Robert Sarah, ha pubblicato per Cantagalli di Siena, sempre nella collana «Speamanniana» diretta da Leonardo Allodi, L’eresia dell’informe – La liturgia romana e il suo nemico, di cui è appena uscita una nuova edizione.

Perché ha deciso di ampliare il suo saggio in difesa della messa antica?
«La battaglia per salvare l’antico rito romano è entrata in una nuova fase. Quando il libro è apparso per la prima volta in Germania (2001), vivevano ancora molti fedeli che dalla loro giovinezza conservavano precisi ricordi del rito tradizionale e che hanno accolto la sua perdita con profondo dolore. Nel frattempo è sorta una nuova generazione che si è impegnata a favore della tradizione come rimedio contro la banalità che si è introdotta nella Chiesa latina a partire dalla riforma della messa. Che più che una riforma è stata una rivoluzione».

In che cosa consiste sinteticamente l’eresia dell’informe?

«Nell’errore che il contenuto della fede possa rimanere invariato quando se ne modifichi la forma dell’espressione. È ormai evidente che la fede della Chiesa attraverso la nuova forma della messa è stata gravemente danneggiata».

Nel cristianesimo la liturgia è rituale perché Cristo è il Dio incarnato?

«La Chiesa non intende la liturgia come opera degli uomini, ma come agire di Dio, che s’incarna sempre di nuovo sugli altari come sacrificio per la salvezza. Questa realtà può essere percepita come credibile soltanto se la soggettività dei partecipanti è per quanto possibile invisibile. La sottomissione al rituale rende chiaro a ciascuno che attraverso di esso non si vogliono realizzare individui, ma renderli strumenti per l’azione di Dio».

Qual è il nemico della liturgia romana?

«L’idolatria della soggettività. Il capovolgimento della fede nel Cristo storico in un mito astorico e non dogmatico. L’indisponibilità alla bellezza, che Platone chiama apeirokalia, e l’amore per la deformità. Il disconoscimento del fatto che la tradizione non è un fardello per la Chiesa, ma la sua natura».

Che differenza c’è tra la «riforma» introdotta alla fine del Concilio vaticano II e i mutamenti che pure ci sono stati nel corso dei secoli nella liturgia?

«Naturalmente nei secoli si sono avute molte modificazioni della liturgia, non può essere altrimenti. Si osservi soltanto la differenza fra una basilica romana, una cattedrale gotica e una chiesa barocca. Tuttavia più importante è ciò che è rimasto sempre uguale: l’orientamento del celebrante insieme alla comunità verso il Signore che ritorna da Oriente, la lingua del culto e la teologia del sacrificio. Le modificazioni avvenute in modo organico non hanno modificato nulla nella loro evoluzione e si sono compiute in modo anonimo senza che vi sia stato distintamente un autore definibile come tale, un riformatore esterno che a un certo punto è intervenuto d’autorità. La celebrazione della messa da papa Gregorio Magno fino al 1968 aveva in comune assai più di quanto non avesse di divergente».

Si può dire che nell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito alla de-sacralizzazione, protestantizzazione e democratizzazione del rito?

«Forse questo non era l’intento dei “riformatori”, tuttavia il risultato è questo. In un paese come la Germania, con tanti protestanti quanti cattolici, sulle questioni di fede non c’è più alcuna differenza fra le confessioni».

Da cardinale, Joseph Ratzinger scriveva che «nella liturgia l’uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo. In essa l’uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la gloria di Dio»: è questo che è andato perduto?

«Per le orecchie del normale cattolico contemporaneo queste parole di Ratzinger sembrano provenire da un tempo assai lontano. Già solo il concetto di “gloria di Dio” può far scrollare la testa dal momento che i teologi hanno abituato i fedeli rimasti a parlare a un “Dio all’altezza degli occhi”».

Negli anni al posto della centralità di Cristo è diventata protagonista la figura del sacerdote e, parallelamente, la partecipazione attiva dei fedeli?

«Con il rovesciamento a-storico dell’orientamento del celebrante è divenuto impossibile l’allineamento alla croce. In molti altari oggi non si trova più nessun crocifisso, ma un microfono che fa rimbombare la voce del sacerdote fino all’ultimo angolo, così nessuno si dimentica di lui. Nelle celebrazioni tradizionali il sacerdote scompare, in quanto persona».

Oggi si giudica la riuscita di una celebrazione in base ai momenti di accoglienza, di commiato e di creatività degli organizzatori?

«Oggi ogni comunità deve avere un proprio comitato liturgico, nel quale i laici possono immaginare nuovi abbellimenti della liturgia, nuovi programmi musicali e nuove preghiere che pretendono un’autorità che non compete a loro».

Chi crede che il lascito principale di Cristo siano il suo insegnamento e la parola dei vangeli tende a privilegiare gli elementi comunitari della liturgia?

«Si è eclissata la coscienza che la liturgia sia actio di Dio. Che in essa non si tratta di insegnamenti, ma della testimonianza dell’azione salvifica di Dio. La catechesi deve avvenire fuori della liturgia, cosa che per altro non si fa più. La Chiesa, almeno in Germania, ha abbandonato l’insegnamento sistematico del catechismo. Gran parte dei fedeli che oggi frequentano la messa conoscono il Credo in modo vago».

Non crede che una certa semplificazione e maggior immediatezza della liturgia abbia favorito l’avvicinarsi di tanti giovani?

«La speranza dei “rivoluzionari della messa” era di favorire l’accesso delle masse alla liturgia. Questa speranza è però naufragata. L’abbandono della pratica religiosa è iniziato con la riforma dopo il Concilio vaticano II perché, in fondo, la messa aveva perso il suo magnetismo».

I nostalgici della messa tridentina peccano di estetismo?

«Questo è un rimprovero particolarmente maligno perché accusa i sostenitori della messa antica di non essere attaccati a questioni di fede, ma a una sorta di esibizione da operetta. Così si cerca di sviare il fatto che, per larghi strati di fedeli, proprio la nuova formula ha danneggiato il depositum fidei».

Che cosa le fa dire che Benedetto XVI avrebbe inaugurato la stagione della «riforma della riforma» introdotta da Paolo VI nel 1969?

«Benedetto XVI aveva compreso, già da cardinale, che la rivoluzione della messa aveva provocato un grave danno alla fede. Per sua natura, tuttavia, rifuggiva dalle rotture violente. Egli voleva sanare il danno con prudenza, sperando che attraverso una reintroduzione della preghiera tradizionale dell’offertorio e anche un ritorno della celebrazione rivolta a Oriente, la rottura fosse meno brutale. Come Papa comprese che la resistenza a tali correzioni sarebbe stata insuperabile e così ha stabilito la coesistenza tra antica e nuova messa, nella speranza che una nuova coscienza liturgica sarebbe sorta. Purtroppo, la sua inattesa abdicazione ha compromesso questo tentativo».

Nel luglio 2021 promulgando il motu proprio Traditionis custodes papa Francesco ha ristretto ulteriormente le possibilità di celebrare la messa con il rito antico esprimendo una preoccupazione pastorale per evitare irrigidimenti di piccole comunità.

«Bisogna riconoscere che queste preoccupazioni c’erano poiché, attraverso il precedente motu proprio di Benedetto XVI, il Summorum pontificum, la pace liturgica era stata stabilita: le comunità legate al rito antico convivevano con quelle che praticano il rito della riforma. La perpetuazione della liturgia tradizionale mostrava che la Chiesa nel suo credo non era cambiata. Tuttavia, il fatto che nuove generazioni stessero riscoprendo il rito antico deve aver alimentato le preoccupazioni che hanno portato al nuovo motu proprio di Bergoglio».

L’eresia dell’informe deriva dal prevalere del conforme, cioè il pericolo da cui metteva in guardia San Paolo al capitolo 12 della lettera ai Romani?

«L’esortazione dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo” tocca nel cuore la nostra situazione. Di fatto l’antico rito con la sua accentuazione della gerarchia, del soprannaturale e del sovratemporale costituisce il più importante ed efficace atto di resistenza contro il “mondo” di cui parla Paolo. È il rifiuto deciso di rassegnarsi alle misure dell’anti-cultura contemporanea».
Cosa pensa della dichiarazione Fiducia supplicans firmata dal prefetto dell’ex Sant’Uffizio Victor Manuel Fernandez e approvata da Francesco, con la quale si consente la benedizione alle coppie omosessuali, che ha fatto esultare gran parte dei vescovi tedeschi, ma ha contemporaneamente alimentato venti di scisma nella Chiesa?
«Fiducia supplicans segue la cattiva prassi già utilizzata nei documenti del Vaticano II, per esempio la Dichiarazione sulla libertà religiosa, di mescolare rottura e tradizione pur dichiarando che la dottrina tramandata della Chiesa rimane intatta. Sono furbizie gesuitiche che Blaise Pascal ha ben descritto in Le provinciali. Certe pseudo sottigliezze, come l’invenzione di differenti classi di benedizioni dietro le quali il prefetto dell’ex Sant’Uffizio si trincera, vengono cancellate dalla prassi e nessuno riuscirà a impedirle. I vescovi tedeschi, in prevalenza vedono il documento come un piegarsi del Vaticano alle loro istanze e si sentono confermati. Il pericolo dello scisma – che, in fondo, per la separazione degli spiriti, sarebbe quasi un bene – con questa soluzione tiepida non è scongiurato. Certi scaltri tatticismi creano danni soprattutto all’autorità della cattedra della Santa Sede».

 

La Verità, 23 dicembre 2023

«Papa Francesco riduce la Chiesa all’irrilevanza»

Il suo blog Duc in altum è una delle voci più seguite nel mondo cattolico conservatore. A lungo vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli è autore di saggi e interventi sulla Chiesa italiana e mondiale. La quale, ha scritto di recente, non vive solo una crisi, ma una vera rivoluzione che può portarla all’estinzione. Secondo lui, per scongiurare simile apocalisse, i cattolici devono diventare controrivoluzionari.

Aldo Maria Valli, che cosa pensa della Nota con cui l’ex Sant’Uffizio, retto dal cardinal Victor Manuel Fernández, e controfirmata da papa Francesco, stabilisce che chi cambia sesso può accedere al battesimo come pure i figli di genitori gay concepiti con l’utero in affitto?

«Penso che il documento costituisce una nuova tappa nel percorso di allontanamento dalla dottrina cattolica. E ciò avviene nel modo abituale, con ben scarsa chiarezza, forte ambiguità e strizzando l’occhio alla mentalità dominante. Ciò che interessa è unicamente dare l’idea di un’apertura. Infatti, tutti i media hanno titolato: “Il Vaticano apre a trans e gay”. Il peccato è nascosto sotto una coltre di parole. Nessuna preoccupazione pastorale: si vuole normalizzare un comportamento che la Chiesa in realtà non può accettare. È una strategia che Bergoglio persegue con determinazione».

Tuttavia il battesimo è il più democratico dei sacramenti e la Nota stabilisce le condizioni per accedervi.

«Il battesimo non è un diritto, ma un sacramento. Chi lo chiede per un piccolo s’impegna a far conoscere Dio e a seguire i suoi insegnamenti».

Qualche giorno fa è stato annunciato un nuovo libro intervista di papa Francesco a Fabio Marchese Ragona, vaticanista di Mediaset.

«Dicono che sarà un’autobiografia e che il Papa si toglierà sassolini e sassoloni dalle sue umili scarpe nere. Un altro passo verso la “normalizzazione” della figura papale».

In che senso?

«Penso che questa autobiografia sarà utilizzata per accreditare ancora di più la figura di Bergoglio come quella del Papa della gente e della misericordia. E per regolare qualche conto con tutti quelli che in un modo o nell’altro sono entrati in rotta di collisione con lui».

Perché le interviste e i dialoghi di Bergoglio con i media sono così frequenti?

«Per protagonismo, perché Bergoglio è consumato dall’ansia di piacere alla gente che piace: vuole mostrarsi come uomo fra gli uomini, come colui che non giudica ma accompagna. Gli interessa eliminare dalla figura papale ogni residuo elemento divino per appiattirla sul mondo».

Non è il suo modo di evangelizzare, di essere missionario?

«No, è un modo di esaltare il personaggio. Con questi interventi non conferma i fratelli nella fede, ma i lontani nella loro lontananza. Non a caso, applausi e complimenti arrivano proprio dai lontani, da quelli che sono sempre pronti a puntare il dito contro la Chiesa».

Cosa pensa dei pronunciamenti del Pontefice sulle guerre in Ucraina e in Israele, la «Terza guerra mondiale a pezzi»?

«A proposito della guerra in Medio Oriente Francesco ha chiesto di cessare il fuoco, di percorrere ogni via per evitare l’allargamento del conflitto, di liberare gli ostaggi, di garantire spazi per gli aiuti umanitari. Ha detto e ripetuto che la guerra, ogni guerra, è una sconfitta. Ha anche detto che è diritto di chi è attaccato difendersi. Riguardo all’Ucraina, ha mandato in missione il presidente della Cei, Matteo Zuppi, a Kiev, Mosca e Washington per tentare una mediazione».

Con quali risultati?

«Praticamente nulli. Sia Kiev sia Mosca hanno detto no. E Putin si è ben guardato dall’incontrare l’inviato papale».

Perché le frequenti richieste di cessare il fuoco sono poco considerate?

«La voce del Papa ormai non spicca sulle altre. Ha perso autorevolezza e prestigio. Nel 1962 l’intervento di Giovanni XXIII fermò la minaccia della guerra nucleare fra Usa e Urss per i missili installati a Cuba. Dopo l’apertura degli archivi sovietici abbiamo potuto conoscere l’importanza di quell’appello del Papa. Sappiamo anche che, sebbene sopravvalutata da certa storiografia, l’azione di Giovanni Paolo II ebbe certamente un ruolo nell’indebolimento dell’orso sovietico e nella caduta del muro di Berlino. Ma era un altro Vaticano, con un’altra diplomazia. È significativo che per l’Ucraina il Papa si sia affidato a Zuppi. Zuppi vuol dire la Comunità di Sant’Egidio. La Segreteria di Stato è stata saltata».

Dopo l’ingiustificato atto terroristico di Hamas la Santa Sede avrebbe potuto esprimersi in modo più nitido?

«Avrebbe potuto fare e dire tante cose. Resta il fatto che la voce del Papa ha perso rilevanza, così come la diplomazia della Santa Sede».

La Chiesa potrebbe esprimere una posizione più chiara sulla nuova ondata di antisemitismo?

«Idem come sopra. Prendiamo atto che la voce del Papa è ormai una fra le tante».

Che cosa pensa del fatto che qualche giorno fa, a causa del cattivo stato di salute, Francesco ha preferito far distribuire il discorso anziché leggerlo ai rabbini europei durante l’udienza a loro riservata?

«Una volta in questi casi si parlava di raffreddore diplomatico. Bergoglio al mattino non ha parlato ai rabbini perché “malato”, ma nel pomeriggio è miracolosamente guarito e si è intrattenuto con migliaia di bimbi, rispondendo a una raffica di domande».

Qual è la sua valutazione sul Sinodo sulla sinodalità?

«Aria fritta in dosi esorbitanti. A nessuno interessa un fico secco. Il Papa ripete che la Chiesa non deve essere autoreferenziale e poi escogita un Sinodo che è il massimo del clericalismo. Ciò che gli interessa è disarticolare la Chiesa dall’interno e introdurre un falso metodo “democratico” funzionale a questo progetto. Al grido di “È il popolo che lo chiede” può innescare i processi da lui desiderati. Anche il ridimensionamento del ruolo dei vescovi serve a questo. Ma ovviamente è tutto fumo, perché le decisioni sono già state prese in anticipo».

Una visione molto negativa. Un Sinodo così è un segnale di ripiegamento?

«Manifesta quello che dicevo prima: fumo negli occhi per nascondere il vero fine, che è disarticolare la Chiesa. Non sono d’accordo con chi dice che siamo di fronte a una profonda crisi della Chiesa. Non è una crisi, è una rivoluzione. Bergoglio vuole una nuova Chiesa, funzionale a una nuova religione ecologista e mondialista. E il Sinodo è uno degli strumenti di cui si serve».

Che esiti potrà produrre nel tempo?

«L’obiettivo di questo Sinodo, che definisco “il Sinodo truffa”, è far penetrare nella Chiesa alcune idee. Circa, per esempio, il sacerdozio femminile e la benedizione delle coppie omosessuali, al Papa non interessa tanto il risultato concreto e immediato, quanto innescare un processo. L’obiettivo è quello di tutti i modernisti: mettere la Chiesa al passo con il mondo. Il relatore del Sinodo, il cardinale Jean-Claude Hollerich, ha più volte affermato che l’assemblea non ha l’autorità di prendere decisioni: quello che può fare è solo “discernere”. Ma questa è una furbata, perché già il modo in cui si discute serve ad allineare la Chiesa a certe tendenze. Il metodo è il messaggio. Ciò che più mi disgusta è che per giustificare tutto questo i modernisti tirano in ballo lo Spirito Santo».

Che segno sta lasciando l’esortazione apostolica Laudate Deum?

«Zero, nulla. A otto anni dalla Laudato si’, l’enciclica dedicata alla “cura della casa comune”, il Papa ha voluto tornare in campo per rinnovare le sue “accorate preoccupazioni”, ma lo ha fatto in modo totalmente ideologico e con una superficialità e una partigianeria che lasciano stupefatti. Qualcuno ha detto che se un testo simile fosse stato presentato da uno studente universitario avrebbe meritato una sonora bocciatura per quanto è inconsistente. Intendiamoci: nessuno discute il diritto-dovere di Francesco, in quanto vicario di Cristo sulla terra, di occuparsi di questi problemi. Il problema è che Bergoglio parla come una Greta Thunberg qualsiasi. In questo modo, paradossalmente, il Papa che non vuole essere dogmatico “dogmatizza” l’ideologia ecologista, e il Papa dell’ascolto rivela una totale intolleranza verso chi la pensa diversamente, definendo “irragionevoli” le opinioni di chi, anche nella Chiesa, non concorda con la sua valutazione. Inquietante è il fatto che ancora una volta dipinga l’uomo bianco e occidentale come nemico della natura, che si schieri apertamente dalla parte dei gruppi ambientalisti radicali e che chieda “di stabilire regole universali ed efficienti”, così da imporre “norme vincolanti di transizione energetica”. Vuole un governo mondiale, qualcosa che appartiene al repertorio massonico, non alla linea della Chiesa cattolica».

Perché la rilevanza del magistero sembra inversamente proporzionale alla quantità dei pronunciamenti?

«Troppi interventi, troppe interviste, troppe parole superficiali e ambigue, troppa chiacchiera da bar. Ma tutto ciò è voluto: l’obiettivo è ridurre la Chiesa all’irrilevanza. Bergoglio è stato scelto per questo e sta portando a termine la missione».

Addirittura. Che cosa pensa della pastorale in atto sui movimenti?

«Non ne penso nulla. Bergoglio è totalmente indifferente ai movimenti, se non nella misura in cui possono intralciare i suoi progetti».

È sufficientemente nei pensieri dei vertici ecclesiali la realtà fotografata da Euromedia Research per Il Timone da cui risulta che solo il 13% degli italiani frequenta la messa domenicale?

«I vertici ecclesiali sono stati impegnati per un mese in un Sinodo inutile. C’è da aggiungere altro? Sembrano l’orchestra che suona sulla tolda del Titanic».

La crisi delle vocazioni preoccupa quanto dovrebbe?

«Vuole scherzare? Con l’eccezione di qualche vescovo e qualche bravo sacerdote, la Chiesa non se ne cura minimamente. Il Sinodo ne è la prova».

Cosa pensa del fatto che il presidente della Cei Matteo Zuppi ha criticato l’accordo tra Italia e Albania sui migranti?

«È una frecciata al governo, non stupisce. Forse sarebbe meglio se si occupasse dello stato comatoso della Chiesa, con la continua perdita di fedeli e vocazioni».

Nei suoi ultimi interventi lei afferma che siamo di fronte a una rivoluzione nella Chiesa più che a una crisi della Chiesa. Che cosa vuol dire essere controrivoluzionari?

«Ristabilire l’ordine che è stato infranto. A tutti i livelli, secondo una visione gerarchica che è propria della Chiesa e non può essere sostituita da nessun meccanismo sinodale. Prima di tutto occorre rimettere Dio al posto che gli spetta, perché i neo-modernisti lo vogliono detronizzare, per lasciare campo libero alle idee del mondo».

 

 La Verità, 11 novembre 2023

«Questa società ha bisogno di uomini Lego»

Allora, Susanna Tamaro, contrariamente alla vulgata secondo la quale è un non luogo geografico, il Molise esiste davvero?

«Ricordo che all’esame di seconda elementare la commissione mi chiese di indicare sulla carta geografica dov’era il Molise. Si diceva sempre Abruzzo e Molise… Così, con una lunga bacchetta, puntai l’Italia centrale. Forse mi è rimasta da allora la passione per questi posti. Anche la protagonista di Va’ dove ti porta il cuore sposa un uomo dell’Aquila».

Quella di Il vento soffia dove vuole invece ne sposa uno di Capracotta (Isernia), esemplare degli uomini Lego. Messa così sembra la trama di un romanzo di fantascienza…

«Sembra».

Invece è un romanzo epistolare come Va’ dove ti porta il cuore, che però è del 1994. Chi scrive lettere nell’èra dei social e dei messaggi vocali?

«Più o meno nessuno. Però, secondo me, sta iniziando una controtendenza. Nella mia libreria a Orvieto c’è un reparto di belle carte da lettera, forse qualcuno le compra… Ci dimentichiamo che l’uomo è memoria e la memoria passa attraverso la scrittura. L’uomo smemorato è un futuro servo obbediente».

Susanna Tamaro è a Padova, ospite della Fiera delle parole, dove ha presentato in anteprima nazionale Il vento soffia dove vuole (Solferino), il nuovo libro che ha per protagonista una madre autrice di tre lettere alle sue due figlie e al marito, nelle quali succedono un sacco di cose che la scrittrice triestina narra con quel suo linguaggio semplice, frutto di una complessità risolta, affrontando temi come l’adozione, l’aborto, l’eredità genetica, la marginalizzazione del maschio.

Possiamo dire che si tratta di un romanzo antimoderno?

«In un certo senso sì, perché usa una forma di comunicazione che si può considerare antiquata ma, secondo me, da rivalutare. Ai tempi di Va’ dove ti porta il cuore ricevevo migliaia di lettere. Avendo risposto quasi a tutte ricordo le storie dei miei lettori… La schematizzazione virtuale delle emozioni e del pensiero non fa bene a nessuno».

La schematizzazione virtuale?

«I like, mi piace, non mi piace. Con i social viviamo in una perenne distrazione di massa, mentre scrivere fa articolare pensieri complessi».

Nel libro ricorre anche a espressioni che derivano dal mondo induista.

«Ho avuto una formazione particolare. Mio padre era un seguace di Krishnamurti, un importante mistico di origine indiana. Anch’io ho letto i suoi libri e sono state letture importanti. Ogni popolo ha una propria forma per esprimere la sete d’infinito. E ognuna di queste forme porta un tassello alla nostra vita e la arricchisce».

Usa anche la poesia, soprattutto Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Come mai Giacomo Leopardi, che nelle scuole insegnano come il campione del pessimismo?

«Leopardi è un grande della letteratura che ho detestato fino ai miei trent’anni. Quando mi sono immersa nello Zibaldone, ho trovato la sua poesia sempre nuova, ricca, mi ha regalato tanto. La poesia è un patrimonio che ci illumina e ci apre nuovi orizzonti. Primo Levi raccontò di essersi salvato nei campi di concentramento imparando alcune poesie a memoria».

Chi sono gli uomini Lego?

«Quelli che hanno la spinta a costruire relazioni che durano nel tempo. Sono quelli che sanno che ci vogliono le mani per potare un melo, per riparare un cancello… Vivo in campagna da 35 anni e vedo che in città queste conoscenze si perdono e si perde la dimensione della costruzione perché è tutto mentale. Abbiamo migliaia di anni alle spalle legati alla terra e all’evoluzione, ma pensiamo che gli ultimi trent’anni di iper-modernità siano tutta la nostra storia».

Le sembra che ci sia bisogno di questi uomini Lego?

«Sì, assolutamente. La mia visione della natura e del mondo materiale è segnata anche dal taosimo, una religione basata sulle polarità. Se uno dei due poli diventa debole, tutto si sbilancia. Oggi viviamo uno squilibrio nel rapporto tra maschile e femminile perché l’uomo ha perso il potere che aveva un tempo e non ne ha ancora costruito un altro. Per questo siamo in una fase di transizione».

La accuseranno di voler ripristinare il patriarcato.

«Ho parlato di transizione, non di ritorno al passato. La maggior parte delle mie amiche è sposata con uomini Lego e anch’io ho amici che sono persone sensibili. Invece nella narrativa prevalente l’uomo e descritto come qualcosa di torbido, portatore di negatività».

Questa mamma, da ragazza, ha abortito e porta nella psiche e nel corpo qualche conseguenza. L’aborto è un diritto conquistato in anni di lotta delle donne, ma si pensa che, una volta praticato, non abbia memoria?

«Appartengo alla generazione che ha vissuto in pieno l’arrivo della legge 194. Avevo e ho molte amiche attiviste e militanti radicali. È stata una battaglia epocale. Ma nonostante abbia vissuto in questo ambiente quegli anni ho sempre provato turbamento davanti a quello che considero un evento non indolore. Mi impressiona il fatto che venga trattato sempre come una questione ideologica e mai come una questione ontologica».

Cosa intende dire?

«Che l’aborto è un’azione che riguarda chi è, cos’è la persona. Come si forma. Di questi tempi mi colpisce il disprezzo generalizzato per la vita. A nessuno capita mai di pensare che se la propria madre avesse deciso di abortire lui non sarebbe nato, non avrebbe fatto parte dell’avventura difficile e complicata della vita».

Invece prevale l’ideologia…

«Che cancella la sofferenza delle donne. Può capitare nella vita di fare come la mia protagonista, si pensa di risolvere un problema… Ma è un’azione importante che non si può archiviare in modo disinvolto perché le sue tracce segnano la fisiologia e restano a lungo nel corpo delle donne. Penso che le donne debbano ascoltare il loro dolore profondo ed essere orgogliose dei loro diritti».

Questa madre poi adotta e mentre sono in corso le procedure per l’adozione rimane incinta e sta per ricredersi: è un eccesso di sincerità raccontarlo alla figlia adottiva?

«So di casi analoghi: la maternità adottiva sblocca anche la fecondità naturale. È molto umano provare uno smarrimento in quella situazione perché aspetti un figlio sconosciuto e ne hai un altro naturale in pancia. Quando si scrive bisogna avere il coraggio di mettere a nudo anche le proprie fragilità. La madre evidentemente pensa che la figlia sia in grado di comprendere il suo travaglio».

Nel parapiglia tra spermatozoi e ovuli che s’incontrano la protagonista intravede il destino.

«Il destino è la grande realtà che abbiamo rimosso perché viviamo in un mondo immolato al caso. Invece, proprio per la fragilità che ci abita e per l’imprevedibilità degli eventi, appartiene alla cultura umana l’idea che le nostre vite siano governate da un destino invisibile».

Lei si sofferma sulla differenza tra la figlia adottata e quella naturale: parlare dell’importanza della genetica nella nascita e nella formazione delle persone vuol dire essere razzisti?

«Vuol dire essere realisti. Oggi, nonostante ci si proclami super scientifici e super razionali, dimentichiamo la complessità dell’ereditarietà e della memoria della discendenza. Il mondo attuale cancella le genealogie, ma gli studi sul Dna ci stanno svelando cose straordinarie sull’ereditarietà genetica. I talenti, per esempio, sono ereditari. Nel karma indiano quando si studia la complessità delle famiglie si vede che in ogni generazione si ripropone un problema relazionale o affettivo non risolto da quelle precedenti».

Come colmare il fossato che la realtà virtuale così invadente oggi ha scavato tra le generazioni adulte e gli adolescenti?

«Con una grande consapevolezza e un grande lavoro. Già negli anni Novanta il grande psichiatra Giovanni Bollea voleva sensibilizzare il mondo della politica sui danni neurologici e psichiatrici della realtà virtuale, allo scopo di insegnare alle famiglie e alla scuola un uso consapevole di questi mezzi, per altro meravigliosi. Io non sono contro la modernità digitale. Dalla medicina all’agricoltura ha permesso passi avanti straordinari, ma forse dovrebbe essere meno invadente nella nostra vita quotidiana perché altrimenti rischiamo di trasformarci da homo sapiens in homo demens. Nella progredita Svezia hanno tolto l’uso delle tecnologie digitali dalle scuole e sono tornati a carta e penna perché si sono accorti del danno cognitivo ingenerato nei bambini».

Ha seguito il dibattito sullo spot di Esselunga?

«Mi è sembrato tanto rumore per nulla. Così come mi sembra umanamente ovvio che un bambino desideri che i propri genitori si vogliano bene. Sono la sua origine, il senso del suo esistere».

Nell’esortazione Laudate Deum promulgata per il Sinodo il Papa invita a cambiare comportamenti per sconfiggere il cambiamento climatico. È il tipo di messaggio che l’umanità si aspetta dalla Chiesa?

«Questo messaggio è già promosso da tutti i media, dai governi e dagli organismi internazionali. Forse sarebbe bello che la Chiesa tornasse a parlare dell’esistenza dell’anima. Forse è questa la cosa di cui abbiamo più bisogno: sapere che non siamo pura materia, sapere che in noi abita la complessità su cui si staglia l’ombra del Mistero».

Qualcuno vede nella cultura woke una sorta di nebbia che allontana l’essere dalle sue radici e una forma di conformismo. Come bucare questa nebbia?

«Questa cultura provoca un grande disordine e quando viene provocato un disordine con tanta caparbietà bisogna chiedersi a chi giova».

Cosa indica la viriditas che alla fine del libro propone di rivalutare?

«È un termine coniato dalla grande mistica benedettina Ildegarda di Bingen vissuta nel XII secolo che Benedetto XVI ha proclamato dottore della Chiesa. Nella sua visione profetica elogiava la presenza di una forza vitale, generativa, legata al verde come il colore delle piante e alla base della natura. Una parola contenente anche il termine vir, che indica la virilità dell’uomo. Non il maschilismo tossico, beninteso. Ma quella dote che appartiene a ogni essere umano, indifferentemente dal sesso, capace di vivere all’altezza delle domande dell’anima».

 

La Verità, 7 ottobre 2023

«Sono anticlericale, ma non un ateo militante»

L’appuntamento con Marco Bellocchio è in un elegante hotel di Milano. Reduce dal Festival di Cannes privo di riconoscimenti, il regista di Rapito è in tour per presentare il film al pubblico. È un’opera che abbina alla seduzione estetica il taglio anticlericale nel narrare la vicenda di Edgardo Mortara, nono dei dodici figli di una famiglia ebraica della Bologna di metà Ottocento, ancora appartenente allo Stato pontificio. Battezzato di nascosto dalla tata cattolica allorché malato e in pericolo di vita, una volta appreso dell’amministrazione del sacramento, papa Pio IX esercitò l’imperativo previsto dal diritto canonico di educare cristianamente il nuovo affiliato alla Chiesa. Immediatamente il caso esplose con grande clamore, fino ad assumere rilevanza internazionale. Attorno alla vicenda del «bambino rapito dal Papa re», si coagularono le comunità ebraiche mondiali, la massoneria, i sovrani europei da Cavour a Napoleone III, le grandi testate giornalistiche. Una coalizione che s’infranse contro la volontà del bambino. Il quale crebbe in un convitto religioso, si fece prete assumendo il nome di Pio Maria Edgardo per gratitudine verso il Papa suo benefattore e morì a 90 anni nell’abbazia di Bohuay, in Belgio. Anche Pio IX, pronunciando il famoso «Non possumus», non indietreggiò. Ma in qualche modo quella vicenda contribuì ad accelerare la «presa di Roma» e la fine del potere temporale vaticano.

Come ha scelto il titolo del film?

«Prima avevamo pensato a La conversione ma, nonostante il mio entusiasmo, la garbata opposizione della comunità ebraica mi ha fatto recedere. Il secondo titolo era Non possumus, ma in questo caso è stata la distribuzione a dissuadermi perché il latino non lo conosce nessuno. Poco prima di fare i manifesti siamo arrivati a Rapito che, mi pare, entri nell’orecchio».

Qual è l’idea di questo film di cui va più fiero?

«Fin dall’inizio mi ha mosso l’amore per il dramma di questo bambino. Solo ora il film sta suscitando un certo tipo di discussioni e polemiche, ma il mio primo interesse non era fare un’opera contro Pio IX. Questi due elementi si sono integrati, un po’ come nei grandi romanzi dell’Ottocento s’intrecciano la piccola storia e la grande storia. Stiamo parlando di un film di 2 ore e 5 minuti, non di un libro di storia. Né è mia intenzione paragonarmi ad autori come Alessandro Manzoni che, pure, dedica un intero capitolo dei Promessi sposi alla peste».

Ha scritto una lettera a papa Francesco invitandolo a vederlo: risposte.

«Finora nessuna. Naturalmente ha cose ben più importanti di cui occuparsi».

Si aspettava qualche riconoscimento a Cannes?

«I riconoscimenti sono legati ai gusti dei giurati, che hanno scelto diversamente. Inoltre, l’anno scorso avevo già avuto la Palma d’oro alla carriera. Si poteva considerare l’interprete del Papa, del padre o della madre…».

Una straordinaria Barbara Ronchi.

«I grandi attori sono molto padroni del proprio volto e dei propri occhi. Lei ha saputo trovare la giusta misura della madre straziata».

Si può dire che c’è una prima parte del film più provocatoria e una seconda più riflessiva, in cui sembra rispettare le scelte del protagonista?

«Man mano che si procede s’impone la grande storia con la fine del Regno pontificio. Avevamo l’esigenza di trovare delle sintesi, rendendo lo strazio del bambino. E l’impresa impossibile alla quale è chiamato, di conciliare le due religioni, quella della famiglia e quella del suo secondo padre, Pio IX. Qui è nata la scena nella quale schioda il crocifisso…».

Quella iniziale con il padre tentato di lanciarlo dalla finestra ai suoi confratelli per sottrarlo al sequestro è un po’ forzata?

«Non è inventata. Nelle cronache si cita il padre che espone il bambino ai suoi correligionari perché lo portino via. È anche vero che poi non se la sente, come si rendesse conto del rischio di perderlo definitivamente».

Dalle ricostruzioni storiche risulta che il Papa propose di farsi carico dell’educazione di Edgardo fino alla maggiore età quando avrebbe scelto a quale confessione aderire.

«È vero. Il bambino mostrò sempre gratitudine verso il Papa per l’educazione ricevuta».

Frequentando una scuola cattolica a Bologna si voleva garantire ai genitori la possibilità di vederlo.

«Questo non lo so. So che il Papa dispose una pensione cospicua affinché il bambino potesse studiare. Poi lui chiese di continuare gli studi come missionario e di chiamarsi Pio. La sorpresa maggiore si ebbe quando, con la liberazione di Roma, il fratello entrò in seminario per riportarlo in famiglia, ma lui si oppose, scegliendo di rimanere lì».

Tornando al battesimo clandestino, la legge vietava che le famiglie ebraiche avessero personale cattolico proprio per evitare queste situazioni.

«Era un divieto blando e poco rispettato. Alle famiglie ebraiche faceva comodo avere personale cattolico nei giorni del shabbat, quand’è proibito lavorare».

Risulta anche che la massoneria favorì l’irrigidimento della famiglia.

«Il padre era massone, tuttavia era anche il più disponibile a un’apertura. La madre lo rimproverava perché lo riteneva troppo morbido. A un certo punto il permesso di visitare il bambino fu sospeso perché lei continuava a opporsi e rifiutava che venisse educato cristianamente».

Un dei meriti del film è mostrare che Edgardo aderì presto ai nuovi insegnamenti impartiti: quindi non fu un’educazione forzata?

«Nella sua autobiografia scrive di essere sempre stato trattato con estrema umanità. Ma se pensiamo a un bambino prelevato dalla sua famiglia non possiamo escludere che cercasse la migliore sopravvivenza. In un luogo sconosciuto, anche un bambino si adatta alla situazione. L’amico gli dice: “Tocca farse furbi”… Penso che non abbia fatto molti ragionamenti, in un ambiente gentile ma ostile trovò la sua strada».

Quando i genitori vanno a Roma il rabbino dice al padre che ha sbagliato a creare troppo clamore e che il bambino sta bene, «una brutta notizia per voi».

«Non cercava di scappare, si era adattato. Ma era un adattamento superficiale come evidenziò la visita della madre che riuscì a spezzarne le difese, provocandone la crisi e la richiesta di tornare dai fratelli».

Nella scena in cui sogna di schiodare Cristo crocifisso compie un atto di riparazione per conto del popolo ebraico?

«Gli dicono che il suo popolo è responsabile dell’uccisione di Dio, un’accusa che ora la Chiesa ha cancellato. E lui vedendo e rivedendo questo crocifisso immagina che, liberandolo dai chiodi, può aiutare una riconciliazione che gli permetta di non rinnegare la nuova religione e di riconciliarsi con la vecchia».

Nel dipingere un Pio IX mellifluo e geloso del proprio potere non si risparmia.

«Senz’altro. All’inizio era un papa liberale, poi diventa quasi reazionario. Tenersi il bambino è il simbolo di una battaglia disperata. Che invece perde e, con essa, perde anche il suo regno e ne mostra il dolore. È una figura più tragica che caricaturale».

Tiene fede al principio del battesimo cristiano e da una posizione di debolezza si scontra con i poteri forti dell’epoca.

«Gli rimane il potere spirituale, ma non vuole perdere quello temporale. In Francia i cattolici si dividono, alcuni suggeriscono la restituzione. Rischia di inimicarsi Napoleone III che lo difendeva in nome del principio del battesimo che fa di chi lo riceve un cristiano per sempre. E in nome del quale perde numerose alleanze. Wojtyla lo beatificò proprio in quanto simbolo della difesa della fede in un mondo che si laicizza».

Perché si è basato sulla ricostruzione di Daniele Scalise piuttosto che sull’autobiografia dello stesso Edgardo Mortara?

«Ho letto anche l’autobiografia, certo. Scalise è la fonte principale, ma ho attinto anche a un libriccino di Gemma Volli dove ho trovato la scena della madre disperata. Poi a quello di David Kertzer e ai documenti del processo all’inquisitore».

Che cos’è per lei l’ateismo?

«Ha in sé qualcosa di militante contro la religione che non è in me. Sono non credente, ma non ho bisogno di affermarlo. Anzi, in questi tempi più che complicati, laddove si trovassero momenti di dialogo senza pretendere che un credente rinunci alla fede o, al contrario, che voglia convertirmi, il mondo troverebbe nuove risorse. Nell’Ottocento esisteva il partito degli atei, io non sento questa forma di revanscismo. Certamente vengo da un’educazione cattolica da cui mi sono progressivamente separato».

È incuriosito dal cristianesimo, ma ostile alla Chiesa?

«Se vedo un credente non è che sia attratto, ma lo ascolto. Capita che mi chieda: lui crede e io no, com’è possibile? A volte, quando vedo rappresentata la fede nell’arte e nel grande cinema, come quello di Dreyer, succede che mi commuovo».

Cos’è l’anticlericalismo?

«Nel mio caso può derivare dall’educazione che ho ricevuto fatta di messaggi violenti: “Devi essere sempre in grazia di Dio, perché se muori vai all’inferno per sempre”. Sono stato educato con questi principi. Oggi un prete aperto non userebbe queste espressioni. Ma a me è andata così, infatti per molti anni ho avuto paura. Poi, con l’adolescenza, mi sono emancipato».

In Italia, nel cinema e nella letteratura, c’è l’egemonia della sinistra?

«Si diceva che così fosse. Però ormai le carte si sono mescolate. In un periodo in cui la sinistra era fortemente egemone, non sono mai stato iscritto al Pci. Anche il liberalismo progressista aveva il suo peso, poi c’erano distinzioni tra socialisti e comunisti. Comunque la sinistra era dominante».

Ha seguito le polemiche del Salone del libro per la presentazione di Una famiglia radicale di Eugenia Roccella?

«Penso che se si invita una persona a presentare il suo libro, ministro o non ministro, non si può impedirle di parlare. Poi, certo, c’è l’esuberanza dei giovani… Ma anche l’avversario ha diritto di parlare: impedirglielo è sbagliato».

Sta già pensando al nuovo film?

«L’idea è lavorare su Enzo Tortora. Non so se un film, una serie o altro. Mi prendo qualche settimana per decidere».

Rapito può voler dire anche rimanere affascinati da un fatto, un avvenimento. È quello che può essere accaduto a Mortara?

«Il significato primario è che è stato rapito, non volente. Un film può raccontare le estasi di Mortara come quelle di Santa Teresa. Ma penso che non lo farò io. Anche se non lo nego».

 

La Verità, 31 maggio 2023

«Ratzinger parlò della rinuncia già nel 2006»

Anch’egli eminente teologo e liturgista, don Nicola Bux è stato stretto collaboratore di Joseph Ratzinger prima nella Congregazione per la dottrina della fede e poi in altri organismi vaticani. Dopo averlo conosciuto all’inizio degli anni Ottanta, l’ha frequentato fino al 2014, per cui lo si può definire suo amico personale. Ora che si torna a riflettere sulla rinuncia del Papa emerito (Antonio Socci, che il 25 settembre 2011 l’anticipò, ha ricostruito nei giorni scorsi come maturò), don Nicola svela alla Verità una circostanza inedita. Nel febbraio 2006, meno di un anno dopo la sua nomina, Benedetto XVI incaricò alcuni prelati, tra cui anche lui, di verificare l’istituto della rinuncia papale.

Che pensiero le suscita la partecipazione popolare ai riti per la morte di Benedetto XVI?

«La Chiesa è il popolo di Dio, che indica la via della salvezza in Gesù Cristo, come un vessillo elevato tra le nazioni, cioè, anche tra coloro che non credono o professano altra credenza. Benedetto XVI ne è stato fautore per tutta la sua vita: il risultato è davanti ai nostri occhi. L’intellighentia che dirige curie e istituti teologici, un po’ come gli scribi e i farisei che tenevano lontano il popolo da Cristo, non di rado hanno pensato che fosse un papa senza popolo, o a capo di nostalgici: l’afflusso di tanti giovani, specialmente sacerdoti e seminaristi, lo smentisce. Questo popolo che si è manifestato anche nel giorno delle esequie è espressione della sinodalità spesso invocata, ma a volte in senso più astratto che reale. Sinodale vuol dire in movimento. Quella che abbiamo visto in questi giorni è una Chiesa messa in movimento da Benedetto XVI».

Chi è stato per lei Joseph Ratzinger?

«L’esempio del credente in Cristo, che è “sale della terra”, affinché questa non si corrompa ma si conservi e si rigeneri. Per questo, egli ha sempre additato come priorità la fede per affrontare la crisi del mondo, in specie dell’Occidente, che a sua volta oggi, è in crisi di ragione. Per superare la crisi, questa – egli ha ripetuto – deve allargarsi alla fede».

Quando lo conobbe?

«All’inizio degli anni Ottanta, partecipando agli esercizi spirituali da lui tenuti. Cercavo di capire cosa fare, nello scombussolamento postconciliare. E trovai la risposta proprio nel tema che egli stava trattando: “Guardare a Cristo”. Seguì il coinvolgimento nel lavoro della rivista teologica internazionale Communio, da lui promossa insieme ad Hans Urs von Balthasar e altri studiosi».

Un incontro nella redazione di una rivista teologica fa pensare a un rapporto fatto di cose alte.

«Invece, quella rivista mirava ad aiutare il popolo cattolico, smarrito e confuso dal “post-conciliarismo”. In tal senso, un grande apporto a Ratzinger lo diede Luigi Giussani, e noi dietro di lui. Per Ratzinger la teologia non era speculazione fine a sé stessa, ma finalizzata a collaborare alla ricerca della verità, tentativo, in vario modo, proprio ad ogni uomo».

Communio era una rivista diversa da Concilium, considerata più aperta. Negli anni del Concilio Vaticano II e successivi anche Ratzinger era considerato un teologo «aperto».

«Egli era aperto alle mozioni dello Spirito, onde capire come discernere gli avvenimenti nella Chiesa, senza subire il fascino delle mode, cioè del modernismo. Per esempio, da studioso della forma della liturgia, s’accorgeva delle deformazioni intervenute dopo il Concilio, “al limite del sopportabile”, e interveniva con una terapia: riavvicinarla alle fonti della tradizione, da cui tendeva a distaccarsi; lo ha fatto proponendo il contagio virtuoso tra la forma antica e quella nuova, che denominò “straordinaria e ordinaria”. Lo propose, non lo impose. Se lo capissero, nella Chiesa, che le cose proposte si diffondono e si radicano di più! Invece, quelle imposte o peggio le proibizioni, come il Motu proprio Traditionis custodes, sono destinate al fallimento, perché carenti di… pazienza, “la pazienza dell’amore”, come amava ricordare Ratzinger».

Conferma quanto rivelato da George Ganswein, cioè che Ratzinger fu molto rattristato dal Motu proprio Traditionis custodes con il quale nel 2021 Francesco operò una stretta sulla messa in latino, invece ammessa dal Summorum pontificium di Benedetto XVI?

«Non mi sorprende. Ma, è l’atto di papa Francesco che va meditato, e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come Benedetto disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico, che la lex orandi della Chiesa è una. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Mi auguro un ripensamento al Dicastero del culto divino e quindi nel papa».

I vostri rapporti s’intensificarono quando, nominato da Giovanni Paolo II, entrò nella Congregazione per le cause dei santi e nell’ex Sant’uffizio presieduto da Ratzinger?

«Alla Congregazione per la dottrina della fede, soprattutto, collaborai ai vari dossier che erano sottoposti ai consultori, in particolare la Dichiarazione Dominus Iesus, intesa a riaffermare che Gesù è l’unico salvatore del mondo. L’allora prefetto mi annoverò tra i membri della Commissione che doveva studiare le forme di esercizio del primato del papa, secondo l’auspicio dell’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint. In quel frangente, s’intensificarono lo scambio di lettere e gli incontri. Gli avevo chiesto ragione di una sua affermazione, ritenuta in contrasto con altre da lui fatte in seguito; mi rispose il 23.12.2002 con la sua grafia minuta: “Caro professore Bux, evidentemente l’interpretazione delle mie parole di 30 anni fa dev’essere, che la parola ‘successore di Pietro’ implica il diritto divino del Primato Romano con la prerogativa del principe degli apostoli; anche le parole di Sant’Ignazio (d’Antiochia) proestòs tìs agàpis, dal greco: presidente della carità, implicano per me lo stesso contenuto. Ma devo dire, che oggi – per evitare ogni ambiguità – mi esprimerei in modo più preciso. Tanti auguri per Natale e per l’anno nuovo. Suo nel Signore”. Nell’umiltà del suo pensiero cattolico, prima che delle sue azioni, risiedeva la grandezza di Benedetto XVI».

Quando divenne papa come proseguì la vostra collaborazione?

«Già designato da lui nel 2003 a preparare i Lineamenti del sinodo sull’eucaristia, una volta eletto, collaborai al documento base, l’Instrumentum laboris, su cui doveva tenersi il sinodo programmato per il 2005, a cui partecipai come esperto. Lì emerse tutta la visione di Ratzinger sulla liturgia e sulla Messa, ma sempre senza imporre, come si può dedurre dall’Esortazione apostolica che ne seguì: Sacramentum Caritatis. Comunque Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, ha fatto scuola. Coi cardinali Raymond Burke e Carlo Caffarra, abbiamo seguito in certo modo il suo pensiero e il suo metodo, promuovendo la Scuola ecclesia mater, una rete di amicizia di alcune centinaia di sacerdoti e laici».

Le affidò qualche incarico delicato che oggi, dopo la sua scomparsa, può rivelare?

«L’incarico di consultore è di per sé soggetto alla discrezione. Insieme ad altri quattro, fui richiesto di esprimere un parere sulla eventualità della rinuncia del papa, cosa prevista dal Codice di diritto canonico. Tra le motivazioni, rilevai che il Signore non ha mai fatto mancare al papa la forza necessaria per esercitare il suo ministero fino alla fine. Pertanto mi espressi negativamente. Eravamo nel febbraio 2006».

Vuol dire che appena un anno dopo la nomina stava considerando l’ipotesi delle dimissioni?

«Per averla sottoposta al Pontificio consiglio dei testi legislativi, e fatto richiedere un parere ad alcuni esperti, probabilmente sì».

In che modo avvenne questa richiesta? E gli altri quattro consultati come si espressero?

«Avvenne mediante una riunione col cardinale prefetto del Pontificio consiglio, in cui si discusse soffermandosi sull’eventualità della rinuncia del romano pontefice per incapacità permanente. Tranne uno, se ben ricordo, che si mostrò possibilista, ci esprimemmo negativamente».

La propensione alle dimissioni era dovuta alla difficoltà a fronteggiare ostacoli interni o maggiormente a un senso d’inadeguatezza personale?

«È noto che all’atto di cominciare il ministero di supremo pastore, chiese di pregare affinché non dovesse essere costretto a correre davanti ai lupi: un’espressione mi pare, ripresa dal papa san Gregorio Magno».

Il fatto che abbia iniziato a pensare alla rinuncia molto presto è confermato anche da quanto disse a Peter Seewald in Ultime conversazioni: «Il governo pratico non è il mio forte»?

«Una volta, vedendo confabulare il segretario di stato e quello suo personale, osservò, con la sua nota ironia: devono governare la Chiesa…».

Ebbe occasione di parlargli nei giorni che precedettero l’annuncio dell’11 febbraio 2013?

«No, perché, qualche giorno prima, mi era stato comunicato che il mio servizio alla Congregazione per la dottrina della fede era terminato».

Dopo essersi ritirato le ha mai fatto qualche confidenza?

«Sono stato in visita da lui nel luglio 2014, quasi un’ora di conversazione, nel Monastero dove risiedeva in Vaticano. Mi è venuto incontro nel salotto, chiudendo dietro di sé la porta dello studio, senza ausili, esclamando: “Bari, san Nicola!”. Ci siamo seduti ai due angoli delle due poltrone bianche, protendendoci l’uno verso l’altro, “perché, – esordì – non sento bene”. Dovevo sottoporgli, a un anno dalla sua rinuncia, le riflessioni e osservazioni di tanti autorevoli amici circa il suo atto e la situazione conseguente; in particolare chiedergli come egli spiegherebbe la figura del tutto inedita del “Papa emerito”. Gli lasciai uno scritto al quale mi rispose un mese dopo».

Che cosa pensa del modo in cui è stato raccontato dai media in questi giorni?

«Ho notato la difficoltà a sganciare il giudizio sulla sua persona dall’atto della rinuncia, addirittura a ritenerlo grande per questo. L’impressione è che qualcuno di quelli a lui più vicini, sia tra i responsabili della fine del suo pontificato. Ma ci vorrà molto tempo per una visione obbiettiva, come dovrebbe essere per ogni papa. Invece, piuttosto in fretta, ci si è preoccupati di canonizzare i cosiddetti “Papi del Concilio”, forse per blindare quest’ultimo. Ciò è andato a scapito dell’analisi disincantata della loro opera».

Che eredità lascia il papa emerito e cosa perde la Chiesa con la sua scomparsa?

«È troppo presto per dirlo. Con la morte di papa Benedetto, è finita l’“èra dei due Papi”: una situazione a mio avviso intollerabile, e speriamo che non se ne crei un’altra. Comprenderà ora, papa Francesco, che deve caricarsi sulle spalle quella parte cospicua di Chiesa che ha visto rendere omaggio a Benedetto XVI?».

 

La Verità, 6 gennaio 2022

«Il Papa è solo contro gli ultras della guerra»

Filosofo e docente di Filosofia morale all’università di Perugia, Massimo Borghesi è una delle voci più seguite dell’intellighenzia cattolica. L’ultimo suo libro s’intitola Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» (Jaca Book).

Professore, come vive questa Pasqua di guerra?

«Siamo di fronte a un evento drammatico che, al pari dell’11 settembre 2001, cambia la scena del mondo».

Paragone forte.

«La storia è segnata dalla lunga durata, come dicono i francesi, e da avvenimenti spartiacque che hanno un prima e un dopo. Stiamo entrando in una fase nuova e inaspettata, nella quale affonda il mito della globalizzazione che aveva già subito grossi colpi con la caduta delle Torri gemelle».

Finisce il Nuovo ordine mondiale nato nel 1989?

«Dal mondo multipolare si torna a un mondo bipolare. Da un lato, gli Stati Uniti attraverso la Nato, stanno svuotando l’autonomia europea, dall’altro, la Russia, comunque finirà la guerra, si accoderà sempre più alla Cina. Nel nuovo mondo si fronteggeranno America e Cina. La povera Ucraina è il terreno di scontro di questi nuovi equilibri».

Il cardine teorico dell’Occidente è sempre la vecchia ambizione di esportare la democrazia?

«È chiaro che la responsabilità di aver scatenato una guerra ingiustificabile ricade tutta su Vladimir Putin che ha le mani insanguinate per le tante morti provocate. Questo va sottolineato con chiarezza. Detto ciò, ci troviamo di fronte al tipico schema manicheo che rende quasi irrisolvibile il conflitto. Da una parte Putin vuole restaurare la Grande Russia contro l’Occidente, terra della decadenza. Dall’altra si ripropone il modello teocon, aggiornato in chiave democratica, dell’Occidente paladino della libertà in contrasto con le autocrazie».

Abbiamo parlato di Pasqua di guerra, sarebbe più corretto dire in guerra?

«È una Pasqua di guerra, ma non certo “una Pasqua di giusta guerra” come ha affermato Giuliano Ferrara sul Foglio. L’Occidente ha fatto bene a sanzionare Putin e a sostenere sul piano militare la resistenza all’invasore. Non può, però, limitarsi a questo. Deve premere, al contempo, per trovare una possibile intesa che metta fine al conflitto».

Invece?

«Quando sentiamo dire che l’Ucraina potrebbe vincere o quando sentiamo parlare di assalti in territorio russo delle forze ucraine, significa che non siamo più di fronte a una mera guerra di resistenza, ma a un conflitto di lunga durata. Quando sentiamo il presidente americano Joe Biden, sostenuto da un esagitato Boris Johnson, parlare di sanzioni e armi senza accennare a soluzioni di pace non possiamo che preoccuparci. La domanda che dobbiamo porci è: l’Occidente ha una strategia di pace?».

Biden vuole destituire Putin.

«Credo che il suo obiettivo sia mettere all’angolo la Russia, non semplicemente di sostituire Putin».

Fosse semplice…

«Vuole arrivare allo scacco militare in modo che il problema russo venga per un certo tempo accantonato. Perciò mi chiedo: Biden ha intenzione di arrivare alla pace o no? L’Occidente ha una strategia di pace o ha delegato la mediazione alla Turchia e a Israele? Tra Russia e Ucraina medierà la Cina che non ne ha voglia, l’Onu che risulta impotente, l’Europa che balbetta? Se ci si limita a inviare armi e a inasprire le sanzioni la guerra finirà per desertificare l’Ucraina. Qualcuno si preoccupa degli ucraini oltre al Papa?».

La cui richiesta di una tregua durante la Settimana santa è stata ignorata.

«In questo contesto il Papa è il fattore di contraddizione. È l’inascoltato per eccellenza perché rappresenta un giudizio realistico, il pericolo della terza guerra mondiale, che nessuna delle parti vuole sentire. Non Putin che vuole tornare a casa con il suo bottino, non Zelensky che vorrebbe addirittura il coinvolgimento della Nato».

Francesco è solo?

«La solitudine del Papa risalta maggiormente davanti ai silenzi dei leader politici dopo l’invito alla tregua pasquale. Nessuna voce si è levata dall’Onu o dall’Europa o dal presidente cattolico Biden a sostenere quella proposta».

Per farsi ascoltare Francesco ha alzato i toni parlando di «sacrilegio», di «pazzia» del riarmo, di «oltraggio a Dio», di «tradimento blasfemo del Signore della Pasqua» e «idolatria del potere».

«Il Papa è angosciato da questa guerra perché la vede come la fine del progetto di pace per cui ha lavorato in questi anni. È la sconfessione della Fratelli tutti che presupponeva un mondo multipolare e la coesistenza tra le potenze. Il ritorno allo schema bipolare manicheo passa da una guerra senza prigionieri. Il timore di Bergoglio è che la “terza guerra mondiale a pezzetti” diventi reale a tutti gli effetti».

Diventi un pezzo unico?

«Una guerra globale. In questi giorni abbiamo sentito analisti e politici accennare alla possibilità di un conflitto nucleare. Questo dice la follia alla quale siamo arrivati. Sembra di essere tornati alla crisi di Cuba».

John Kennedy si comportò in modo diverso da Biden.

«Concesse la smobilitazione dei missili dislocati in Turchia. Un compromesso che convinse Nikita Krusciov a togliere i missili a Cuba. Oggi la parola compromesso è bandita dal vocabolario».

Come mai Francesco è inascoltato anche da quei media che solitamente lo elogiano?

«Questo non mi sorprende perché il Papa è apprezzato ora da destra ora da sinistra a seconda di come le sue parole possono essere utilizzate».

Ieri si è celebrata la Via crucis al Colosseo: come valuta il fatto che l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede e il vescovo di Kiev hanno deplorato la scelta di Francesco di affiancare una donna russa e una ucraina?

«La reazione ucraina a questa unione fraterna tra le due donne sotto la croce di Gesù, fa capire che non si vuole la pace, ma lo scontro fino all’ultimo sangue. La presa di posizione dell’ambasciatore rappresenta una grave ingerenza. Ancora più grave è l’intervento del vescovo perché animato da nazionalismo politico-religioso, vera piaga dell’Est cattolico e ortodosso».

In Ucraina e in Russia, come mostra la benedizione della guerra del primate ortodosso Kirill, il nazionalismo prevale sull’appartenenza alla Chiesa?

«Questo è ovviamente molto grave e rende ancora più coraggioso l’impegno ecumenico di papa Francesco. Il cesaropapismo rende la Chiesa di Kirill organica al progetto della Grande Russia perseguito da Putin. Usare il nome di Dio per legittimare le guerre sembra un’idea condivisa anche dal vescovo cattolico di Kiev».

Francesco è solo quanto lo fu Giovanni Paolo II ai tempi della guerra in Iraq?

«Forse anche di più. Osannato come il protagonista che aveva permesso la caduta del comunismo, quando nel 2003 prese posizione contro la guerra di George W. Bush, Giovanni Paolo II fu osteggiato dai media e criticato dai teocon cattolici che invitavano a schierarsi con l’America contro il Papa. Allora però la sinistra e il mondo cattolico seppero organizzare un movimento pacifista oggi latitante».

Qual è la causa di questa assenza?

«In Italia e in Germania oggi i partiti sono molto preoccupati di allinearsi alla politica americana. Il fatto che alla Casa Bianca sieda un democratico rende questo allineamento ancora più sensibile. Con Donald Trump la sinistra italiana si sarebbe sentita più libera di articolare una riflessione critica. Detto questo, non è vero che il Papa è completamente solo».

Cosa glielo fa dire?

«Se guardiamo i sondaggi ci accorgiamo che più di metà della popolazione, in Italia e in Europa, è favorevole a un processo di pace e non vuole il coinvolgimento della Nato. La maggior parte dell’opinione pubblica è con il Papa. Invece l’establishment non è con lui».

Il Pd è diventato improvvisamente il partito della guerra?

«Non sono stupito data la leggerezza dei partiti attuali che fiutano il vento proveniente da Washington. Vedo che la Lega è più dubbiosa. Ma mi chiedo se Salvini si sarebbe smarcato o allineato nel caso in cui Trump avesse attuato una politica bellica. Dobbiamo chiederci qual è la vera autonomia dell’Europa».

È significativo che i consensi al Papa arrivino da figure della sinistra-sinistra come Luciana Castellina o Michele Santoro?

«Certo. La sinistra nel 2003 appoggiò Woytjla che pure aveva favorito la fine del comunismo e questo perché aveva la pace nel suo Dna. Negli anni successivi si è compreso che aveva ragione perché la guerra in Iraq si è rivelata un disastro immane. La sinistra-sinistra conserva la memoria dell’Europa uscita da due guerre mondiali, conosce il valore dell’Onu e, dopo aver preso atto della caduta del comunismo, ha sperato nella distensione tra Russia, Europa e Stati Uniti».

Nei media d’ispirazione cattolica si è ritrovata una certa unità su questi temi.

«Avvenire di Marco Tarquinio, Civiltà cattolica con il direttore padre Antonio Spadaro e L’Osservatore romano di Andrea Monda stanno facendo un ottimo lavoro di documentazione e riflessione. Purtroppo in questi momenti emerge il fatto che il mondo cattolico non ha quella forza mediatica necessaria per far sentire una voce fuori dal coro. La voce dei cattolici non ha spazio nelle grandi testate nazionali».

Cosa pensa dei cattolici che militano nel Pd?

«Immagino che vivano qualche disagio. Come la sinistra-sinistra così anche i cattolici nel Pd non sono rappresentati, come voleva il progetto originario di Romano Prodi. Questo disagio, già visto sulla legge Zan, riemerge con l’allineamento eccessivo alle volontà americane».

Il responsabile della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi è uno dei garanti del Pd per le Agorà.

«In alcuni articoli sul Domani uno degli esponenti più significativi di Sant’Egidio, Mario Giro, ha espresso posizioni guidate da grande realismo, in profonda sintonia con il pensiero del Papa».

In conclusione, esiste una terza via sulla guerra in Ucraina?

«La terza via è quella che si muove tra il pacifismo integrale, che però non ha storia, e il bellicismo ad oltranza che non si cura della sorte del popolo e della nazione ucraina. Quest’ultima posizione è quella che oggi prevale, ad Est e ad Ovest. Il Papa è la voce della mediazione. Occorre una potenza della mediazione che lo sostenga. L’Onu e l’Europa devono ritrovare la voce, devono frenare Putin limitando il suo appetito, cinico e sanguinoso, e portare anche l’Ucraina al tavolo delle trattative. Al contrario assistiamo a una resa dei conti planetaria in cui la povera Ucraina è vittima sacrificale».

 

La Verità, 16 aprile 2022