Il cellulare di Paolo Cirino Pomicino squilla con insistenza. «Sono l’ultimo sopravvissuto che parla e mi cercano in tanti», si giustifica. «Ma devo fare i conti con la mia età e le mie energie». Ottantenne, con il cuore e un rene trapiantati e un lungo avvenire dietro le spalle, l’ex ministro del Bilancio dei governi Andreotti, ha ancora le giornate piene: «Partecipo a convegni, seguo la politica e sono presente in alcuni consigli di amministrazione». Lo incontro nel suo ufficio romano, scrivania affollata di carte e giornali.
Quante vite ha, onorevole Pomicino?
«Diverse. Anche perché sono nato il 3 settembre 1939, alle 7 del mattino. Alle 11 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania di Hitler e alle 17 la Francia fece altrettanto».
Nato sotto le bombe.
«Sì, ma fin da subito c’era il segno della Provvidenza. Perché il mio arrivo consentì a mio padre di non essere chiamato al fronte in quanto padre di cinque figli».
Dalla data di nascita e dall’esenzione militare di suo padre ha preso più lo spirito combattivo o quello pacifico?
«Entrambi. In quegli anni bisognava saper scegliere i nascondigli giusti per ripararsi dalle bombe, ma anche saper combattere per sopravvivere e riacquistare la libertà. La famiglia numerosa è stata una grande scuola di tolleranza».
Invece, la scuola vera?
«Ci andai a 5 anni. Ho fatto tutti gli studi dai Fratelli delle scuole cristiane».
Come mai?
«Mia madre era una donna di grande fede. Quando mio fratello Mariano, secondogenito, morì a 33 anni, e le diedi la notizia, rivolgendosi a un quadro della Madonna di Pompei, disse piangendo: “Non ti capisco, ma te lo affido”. Quella testimonianza ci ha accompagnato in tanti altri momenti tragici».
Lei è medico chirurgo, specializzato in neurologia.
«In malattie nervose e mentali, per l’esattezza. Ho fatto dieci anni d’ospedale, diventando assistente ordinario in neurochirurgia e poi aiuto nella divisione di neurologia».
E invece come diventò ministro del Bilancio e della Funzione pubblica con Andreotti e De Mita?
«Arrivai alla Camera nel 1976, ma dopo la prima legislatura nella commissione Sanità, scelsi quella del Bilancio, dove fui presidente per 5 anni, facendo diventare quella commissione leggendaria grazie anche a tutti i suoi autorevoli componenti».
Come si avvicinò ad Andreotti?
«Alle politiche del 1972 Giulio fu capolista a Napoli. E, da giovane consigliere comunale, m’impegnai per la sua elezione. Ebbi modo di conoscerlo e insieme ad altri amici fondammo la corrente andreottiana».
Perché la chiamavano ’o ministro?
«Il copyright è di una rivista scandalistica che agiva nel sottobosco della politica. E che, non avendomi in simpatia, manifestò così il suo disprezzo. Miserie».
Come nacque Geronimo, altro soprannome, stavolta scelto da lei, con il quale firmava commenti e retroscena sui quotidiani?
«Da una telefonata a Vittorio Feltri quando dirigeva l’Indipendente e titolò in prima pagina <Pomicino inguaia Napolitano>. Telefonai per contestarlo e Feltri prese atto. Quando lo invitai a chiamarmi se avesse avuto bisogno di un articolo, mi disse: “Lo scriva oggi”».
Geronimo?
«Era il grande capo Apache che non si arrese alle truppe nordiste. Ed anch’io continuo a non arrendermi».
Ai magistrati?
«Non solo a loro e alle loro truppe mediatiche».
Non godeva di buona stampa?
«Prima del 1992 sì, tanto che nel 1991 ebbi una visita di Carlo De Benedetti, con il quale c’era un rapporto di stima reciproca, che mi spiegò il disegno politico al quale stava lavorando».
Un governo nel quale lei avrebbe dovuto essere ministro.
«Sì, in un sistema politico diverso da quello vigente. Risposi scherzosamente dicendo che, a nostra volta, io e Andreotti stavamo pensando a un grande disegno industriale e volevamo lui come nostro imprenditore. Fu il primo segnale dello scontro tra finanza e politica».
Dopo quel rifiuto cambiò l’atteggiamento dei giornali del gruppo Espresso?
«Già mi erano contro, ma poi divennero feroci».
Altre vite: il trapianto di cuore nel 2007.
«E quello di rene nel 2019… Il trapianto di cuore fu preceduto da due interventi di by pass, a Houston nel 1985 e a Londra nel 1997. Nel 2006, l’anno prima del trapianto ero stato rieletto deputato con la nuova Dc di Gianfranco Rotondi ma, contro il mio parere, eravamo confluiti nel Pdl. Parte di quella breve legislatura la feci in ospedale. Poi Silvio Berlusconi decise di non candidarmi, facendomi un piacere».
Perché?
«Potei iniziare una nuova vita».
Infatti nel 2014 si è sposato con Lucia Marotta, di 27 anni più giovane.
«Dal 2000 ero separato. Ho incontrato una donna intelligente e generosa con la quale dopo diversi anni mi sono sposato civilmente».
Perché ha intitolato il suo libro sulla seconda repubblica La Repubblica delle giovani marmotte?
«È un’immagine per descrivere la nuova situazione politica dopo Mani pulite. Diventammo improvvisamente un Paese privo di ogni cultura politica. Siamo l’unico Paese europeo, infatti, a non avere un partito liberale, socialista, verde o democratico cristiano. La responsabilità fu del vecchio Pci che, alimentando l’opzione giudiziaria per sconfiggere i partiti del vero centrosinistra, lavorò per cancellare la cultura politica di tutti avendo perduto la propria».
Mani pulite è una conseguenza del crollo del Muro di Berlino.
«Sotto le sue macerie non è rimasto solo il partito comunista ma, grazie ai ragazzi della via Pal della procura di Milano, anche i partiti che avevano vinto la battaglia della storia. Mani pulite fu voluta dalla borghesia azionista guidata da De Benedetti. Il quale pensava di essere la nuova testa del futuro governo del Paese, che avrebbe sommato l’élite finanziaria e industriale del salotto buono del capitalismo italiano al Pci di Achille Occhetto e Luciano Violante, ancora in possesso di una forte organizzazione territoriale».
Sui giornali e nelle ricostruzioni storiche si è parlato poco di questo disegno.
«Nel 1992, quando il centrosinistra raccolse il 55% dei consensi, doveva iniziare una legislatura a guida socialista con un presidente della Repubblica democristiano. Un assetto politico non gradito all’intelligence americana e a quell’area composta dal Pci e dalla borghesia azionista che sognava di fare grandi affari con la vendita, o meglio la svendita, del 25% dell’economia italiana in mano pubblica a finanziarie internazionali. Basta leggere le memorie di Giuseppe Guarino per rendersene conto».
Una svendita che poi è realmente avvenuta.
«Oggi si è completata. Ma invece di risanare i conti pubblici, il debito si è triplicato, passando, a moneta corrente, da 839 miliardi di euro del 1991 a 2400 miliardi attuali, con un pesante impoverimento del ceto medio. I famosi esponenti del salotto buono del capitalismo italiano sono andati all’estero o hanno venduto agli stranieri, o sono falliti. E il Paese è rimasto senza politica, senza economia e con una ricchezza elitaria».
La nascita dei populismi è la reazione a questa situazione?
«Non c’è dubbio. Il populismo l’abbiamo conosciuto anche nel 1948 con Guglielmo Giannini, ma allora i grandi partiti lo inglobarono subito. Oggi, invece, quel vuoto della politica e delle sue culture ha reso l’Italia un Paese di consumatori e di produttori per conto terzi. Questo vuoto è stato riempito prima dal populismo rabbioso guidato da Beppe Grillo, poi da quello leghista, più organizzato e dotato di una certa identità politica».
Quali errori ha commesso in questi anni Matteo Salvini?
«Il primo è stato aver fatto un’intesa con i 5 stelle che sono la vera grande anomalia del Paese. Abbiamo affidato ruoli di responsabilità pubblica a personaggi inadeguati di cui Danilo Toninelli è stato il simbolo. L’unico fatto positivo è stato che Salvini ha ridotto alla metà il consenso dei 5 stelle».
Nessun altro errore?
«Un altro è quello di insistere sul cosiddetto sovranismo. Una cosa è riformare l’Unione europea di oggi, un’altra è vagheggiare una autarchia nel pieno della globalizzazione. Anche Trump e Putin vorrebbero sgretolare l’Unione europea per fare sul Vecchio continente una nuova Yalta».
Salvini è uno dei pochi politici che quando commette errori come in questi giorni lo ammette?
«Credo di sì ed è un’ottima scelta di marketing politico».
Di Matteo Renzi scrive che è uno scout scelto da «terribili forze che lo hanno sempre sostenuto». Chi sono queste forze?
«Ambienti finanziari nazionali e internazionali che desiderano stabilità politica. Renzi rappresentava questa speranza, ma è stato purtroppo divorato dal personalismo, ritenendo di poter colloquiare con il popolo eliminando i cosiddetti corpi intermedi. Un errore di gioventù. Ha dimenticato che un grande leader è quello che convince non quello che ordina».
Che cosa significa il fatto che in soli tre anni il Pd di Renzi e il M5s hanno visto drasticamente ridimensionati i loro consensi?
«Che non sanno rispondere alla domanda che qualunque elettore alla fine fa ai partiti: prima di dirci cosa volete spiegateci chi siete».
Un difetto di identità?
«Esatto».
Un rischio che corre anche la Lega di Salvini?
«Non a caso Giancarlo Giorgetti, di formazione democristiana, ha suggerito di mettere la foto di Renzi sulla scrivania. La Dc e il Pci e il Psi sono durati quarant’anni perché avevano un’identità e i loro elettori un senso di appartenenza».
Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio quanto durerà il M5s?
«Sarà sempre più insignificante e prima o poi divorato dal Pd e dalla Lega».
Con la globalizzazione tramontano i partiti e prevalgono i poteri forti?
«Non per la globalizzazione, che è un processo inarrestabile, ma per la finanziarizzazione dell’economia che è la vera peste del terzo millennio. Inoltre, la finanza controlla l’80% dell’informazione dando vita così a un intreccio di potere fortissimo».
Lei nota che per quasi trent’anni il ministro dell’Economia è stato un tecnico. La scelta di Roberto Gualtieri deve rincuorarci?
«Credo proprio di sì, ma deve ancora prendere confidenza con la finanza pubblica e con un’economia stagnante».
Nei giorni scorsi si è tornato a parlare del tesoro di Bettino Craxi, ma non si parla mai del tesoro immobiliare di Antonio Di Pietro.
«Sono i grandi silenzi di quella stampa che applaudiva alla distruzione del sistema politico che aveva fatto dell’Italia la quinta potenza industriale».
Di recente Di Pietro ha detto che non puntava contro Craxi, ma sull’ambiente malavitoso che girava attorno ad Andreotti.
«Le balle di Di Pietro non si contano più. Giovanni Falcone, eroe dell’antimafia, fu direttore degli Affari penali nel governo Andreotti e un giorno, come ho testimoniato al processo di Palermo, mentre ero in attesa nell’ufficio di Andreotti, ne vidi uscire Falcone e Salvo Lima insieme. Se tanto mi dà tanto, allora anche Falcone sarebbe stato amico degli amici».
Con i 5 stelle al governo cresce il potere della magistratura?
«Cresce il potere dei pubblici ministeri, che è una cosa diversa, perché essi sono gli unici italiani non punibili nell’esercizio del proprio ufficio».
Manette agli evasori e abolizione della prescrizione.
«Tutti poteri dei pm che nella maggior parte dei casi soggiogano i giudici delle udienze preliminari, ma per fortuna non i collegi giudicanti. Infatti, circa il 40% dei processi si conclude con l’assoluzione. L’ideologo di queste leggi è Piercamillo Davigo».
Il 40% dei processi si conclude con l’assoluzione, ma spesso non lo si viene a sapere, com’è accaduto nel caso dell’ex ministro Calogero Mannino.
«È una vicenda scandalosa. Mannino è stato assolto dopo vent’anni di sofferenze e oltre due anni di carcere preventivo. Tutto, nel silenzio complice di gran parte del mondo dell’informazione».
Qual è il suo giudizio sul governo attuale?
«Vuole che spari sulla Croce rossa? Certi video spiegano meglio di tante parole. Quello che mostra il tentativo del premier di mettersi in prima fila nella foto opportunity a Berlino suscita tenerezza per Conte e preoccupazione per l’Italia».
Come andranno le elezioni in Emilia Romagna?
«Vincerà Stefano Bonaccini e la Lega sarà il primo partito. A meno di sorprese sempre possibili».
Non trova che le sardine siano piuttosto esangui?
«Le sardine rappresentano il bisogno di avere una politica all’altezza di un Paese moderno e con un linguaggio civile».
Non è l’antisalvinismo la loro prima istanza?
«Sono partite così, ma sottotraccia la richiesta è rivolta anche ai 5 stelle e ad un Pd sempre più smarrito e spesso preda, come a Napoli, di ex magistrati che ritenevano la Dc napoletana collusa con la camorra. I giudici li hanno sbugiardati, ma il Pd li ha premiati».
La Verità, 26 gennaio 2020