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Il pioniere Berlusconi, uomo del fare prepolitico

Il pioniere Silvio Berlusconi. L’innovatore. Il rivoluzionario che ha cambiato i mondi nei quali ha agito. Il 4 ottobre 1990 si festeggia il decennale di Canale 5. Berlusconi è giovane, ha i capelli e il sorriso flash. Lo smoking è impeccabile. L’occasione è importante e l’intervista a tutto campo di Mike Bongiorno viene trasmessa nella rete ammiraglia. Tu ti occupi di tante cose, gli dice Mike snocciolando l’elenco dalla tv al calcio, dall’edilizia all’editoria. «Non hai mai fatto un pensierino alla politica?». «Io sono un uomo del fare, quindi lasciami fare il mestiere che so fare bene che è quello dell’imprenditore». È l’inizio di Il giovane Berlusconi, la docuserie in tre episodi visibile da ieri su Netflix. Prodotta da B&B Film, in coproduzione con Gebrueder Beetz e la franco tedesca Zdf Arte, scritta da Matteo Billi e Piergiorgio Curzi con la regia di Simone Manetti, è uno dei documenti più completi per capire chi sia stato davvero il fondatore della Fininvest, il grande editore, l’inventore di Milano 2, il patròn più vincente del calcio italiano, il creatore di un partito che in pochi mesi ha vinto le elezioni politiche di un Paese allo sbando.
Il pioniere, recita la Treccani, «è il primo o fra i primi a lanciarsi in una iniziativa o a diffondere un’idea, aprendo nuove possibilità di sviluppo». Ritraendolo così, la docuserie scava e racconta senza pregiudizi, grazie all’intelligenza, la ricchezza e la pertinenza delle tante testimonianze raccolte. «Lui è stato più bravo, più charmant», sintetizza Fedele Confalonieri.
L’epopea berlusconiana comincia da Milano 2, il quartiere che abolisce i semafori e cambia il modo di abitare. Berlusconi è ossessionato dalla perfezione. Ogni venerdì va a controllare i cantieri. «Una volta l’ho visto sradicare un lavandino con le sue mani e buttarlo per terra», racconta Marcello Dell’Utri: «Questo non va qui, va lì». Per far acquistare due palazzi di Milano 2 all’inavvicinabile dirigente di un ente romano sommerge di rose rosse la segretaria, che lo avvertirà del viaggio del dirigente al Nord e gli prenoterà sul treno il posto di fronte a quello del suo capo. Nella cittadina satellite si installa la tv via cavo e quando l’etere viene liberalizzata, l’immobiliarista Berlusconi «vede» un’emittente locale, TeleMilano 58, con ambizioni nazionali. Sintetizza Vittorio Dotti: «La televisione è tutto ciò che c’è intorno alla pubblicità». Ad Adriano Galliani, invitato a cena ad Arcore, chiede a bruciapelo: «Ma lei, con la sua azienda (Elettronica industriale ndr), sarebbe in grado di costruire tre televisioni nazionali?». L’idea rivoluzionaria è il pizzone, cassette da 24 ore pre-registrate con programmi e pubblicità spedite nelle tv locali collegate. Nasce Publitalia 80. Qualche anno dopo, a Carlo Freccero, allora direttore di Canale 5, dice: «Devi fare un palinsesto che imprigioni il pubblico alla televisione». La Rai propone telefilm singoli, Dallas fidelizza. «La cosa interessante», prosegue Freccero, «è che J. R. era la controfigura di Berlusconi». La controprogrammazione sono i Puffi opposti al telegiornale. La Fininvest acquisisce Italia 1 da Rusconi, ma l’osso duro è Rete 4 di Mondadori. Nel weekend che precede l’accordo che abolisce gli sconti, li usa per rastrellare più investitori possibile. Quando Luca Formenton rientra dal fine settimana si arrende.
«Berlusconi vuol essere americano», spiega Freccero. «La differenza dall’Europa è nel verbo ausiliare. In America è to do, in Europa è essere: Berlusconi è l’uomo del fare, vincente». Tuttavia, un privato con tre televisioni spaventa. Il pretore di Pescara decide di oscurarle perché non possono trasmettere in diretta. «Noi non trasmettiamo in diretta, ma in contemporanea», precisa Bongiorno. Pino Corrias: «Berlusconi forza le leggi». Inizia la rivolta dei Puffi. Bettino Craxi fa riaccendere le tv. E prepara la strada per sbarcare a La Cinq convincendo Francois Mitterand («Fu l’unico scontro che ebbi con lui», rivela Jack Lang, ex ministro della Cultura). Berlusconi la inaugura nel febbraio 1986 con Charles Aznavour, Michele Platini e Serge Gainsbourg, qualche giorno dopo aver firmato l’acquisto del Milan. Anche nel calcio punta al traguardo più alto. Il «Berlusconi sei una bella figa» che gli urla un fan in quel periodo  di successi «è la sublimazione della sua vanità» (Gigi Moncalvo). Non tutto però va bene. La Standa che avrebbe dovuto diventare «la casa degli italiani» fallisce. Scoppia Tangentopoli. Due istituti bancari che avevano sostenuto l’espansione del gruppo chiedono il rientro dei crediti. Incalzano le inchieste giudiziarie. Confalonieri è indagato, Dell’Utri a rischio arresto. Si arriva alla sera delle monetine all’Hotel Raphael contro Craxi. Nel crollo generale dei partiti solo il Pci rimane in piedi. Avrebbe sicuramente vinto le elezioni del 1994. Senza il suo referente politico, Berlusconi capisce che ha solo una strada davanti. Creare un partito. Confalonieri azzarda: «Dell’Utri sta a Berlusconi come San Paolo sta a Gesù Cristo. È uno splendido esecutore». Per creare Forza Italia ricicla da Publitalia la struttura, da Canale 5 lo stile, dal calcio l’appartenenza. Poche settimane prima del voto Giovanni Minoli lo intervista per Mixer: «Le piacerebbe fare il presidente del Consiglio?». E Berlusconi corregge la risposta di quattro anni prima a Mike Bongiorno: «Quando ho sentito che una cosa dev’essere fatta non mi sono mai tirato indietro». Al duello in tv con Enrico Mentana, «Berlusconi era luminescente, con la spilla che emanava bagliori. Occhetto era opaco, con il vestito color nocciola» (Corrias). «Noi facevamo ancora la politica dei comizi, invece era già cominciata la politica della percezione», ammette Achille Occhetto.
«Il tema è questo», premette Minoli. «Tu puoi fare il presidente del Consiglio essendo proprietario di tre televisioni private?». Si chiude con il giuramento da presidente del Consiglio. Anche per raccontare il successivo trentennio politico, con le debolezze e le difficoltà note, servirebbero occhi di testimoni e linguaggio da documentario senza pregiudizi.

 

La Verità, 12 aprile 2024

«Ci governa l’antipolitica e i risultati si vedono»

Sopravvissuto a cento battaglie, oggi, 5 dicembre, Paolo Pillitteri festeggia ottant’anni. Sceneggiatore e critico, sindaco di Milano dal 1986 all’inizio del 1992, condirettore del quotidiano L’Opinione, da qualche tempo è tornato a occuparsi di cinema, primo amore non solo di gioventù. Nell’ironia con cui vive questi «strani giorni» e assiste alle peripezie di «un governo inadeguato» s’intravedono le stagioni della Milano da bere e di Tangentopoli, la morte di Bettino Craxi, il superamento di due delicate operazioni al cuore. Una interrotta a un millimetro dal precipizio e una seconda per l’inserimento di un defibrillatore: «Oltre alla bravura dei medici, serve un po’ di fortuna», confida.

Onorevole Pillitteri, come festeggerà il compleanno?

«Leggendo e rispondendo ai messaggini che penso arriveranno. E brinderò con un Sassella della Valtellina, mia patria d’origine. Con il morbo alle porte è consigliato festeggiare con prudenza».

Lei ce l’ha?

«Come si fa a non averne? Tutto il santo giorno ci ripetono che non bisogna abbassare la guardia. È un invito un po’ petulante. Ma qualche volta, a differenza del comunismo, il luogocomunismo ci salva».

L’ultimo libro di Ferdinando Camon s’intitola polemicamente A ottant’anni se non muori ti ammazzano. Lei come vive al tempo del Covid?

«Non sono stupito che i vecchi siano messi in disparte perché siamo immersi in una cultura giovanilistica. Camon, che è uno dei nostri maggiori scrittori, dotato di senso religioso, cita il pio Enea che si carica il padre sulle spalle e fugge da Troia. Spero di avere vicino persone pie come Enea, che mi accompagnino in questo passaggio non facile».

Come trascorre le giornate?

«Mi piace scrivere. L’ho sempre fatto e continuo a farlo: serve per mantenere il contatto con il mondo ed essere vitali».

Che cosa sta scrivendo adesso?

«Ho appena finito una sceneggiatura che vorrei intitolare La madre. Una storia vera. È il racconto di una donna durante la Resistenza in val d’Intelvi basato sui molti aneddoti che questa donna mi fece in diverse occasioni. Per esempio di quando nascose alcuni ebrei ai nazifascisti. Solo alla fine si scopre che è la mamma di Benedetto, come si chiamava Bettino Craxi».

Servono regista e produttore?

«Per diletto, qualche ripresa in Valtellina l’ho già fatta. Quanto al produttore, non sarà facilissimo trovarlo».

Le è piaciuto Hammamet di Gianni Amelio?

«Non mi ha convinto la sceneggiatura perché Bettino vi appare solitario e remissivo, mentre io lo ricordo lottatore fino all’ultimo. Era la sua natura: si dava da fare, scriveva, telefonava… Mi chiamava anche due, tre volte al giorno».

Fino a pochi giorni fa ha condiviso la direzione dell’Opinione con Arturo Diaconale…

«Per vent’anni io e Arturo abbiamo tenuto in piedi questa testata da grandi amici. Solo sul calcio, lui laziale io interista, la complicità s’interrompeva».

Chi sarà il nuovo direttore?

«Quién sabe? s’intitolava un western di Damiano Damiani».

Nella crisi più grave dal Dopoguerra abbiamo il peggior governo della storia repubblicana?

«Sì, uno dei peggiori. E non so fino a quando durerà. Per troppi anni si è inneggiato all’antipolitica e alla fine è andata al potere. I risultati li vediamo».

Che voto dà al governo delle quattro sinistre?

«Intanto sono tre perché i grillini sono di estrema destra».

Addirittura.

«Un’estrema destra peggiorata dall’opportunismo, come dimostrano i continui cambiamenti, e passata dal qualunquismo al giustizialismo combinato con lo statalismo, già condannato dalla storia».

Quanto al governo?

«Voto nettamente negativo».

Arriverà alla sufficienza con il rimpasto o lei consiglia di cambiare scuola?

«Rimpasto, verifica: parole della Prima repubblica. Solo che allora si facevano, oggi si chiacchiera. Meglio di tutto sarebbe andare a votare ma, salvo colpi di scena sul voto al Mes del 9 dicembre, oltre all’assenza della legge elettorale ci sono altri due ostacoli: l’emergenza Covid e il presidente Sergio Mattarella».

Ci vorrà qualche anno.

«Hanno voluto demagogicamente tagliare i parlamentari, promettendo che si sarebbe fatta subito la nuova legge elettorale ora che i collegi devono essere riscritti. Campa cavallo».

L’inadeguatezza di questo governo è un fatto generazionale o di scarsa cultura politica?

«Scarseggiano cultura e conoscenza della storia. Non solo perché non l’hanno vissuta in prima persona, ma perché si fermano alla superficialità dei social. Si illudono che le risposte siano nei tweet o nei post… Questa mancanza di approfondimento emerge ora che la situazione è drammatica».

Avendo avuto vita facile – niente guerre, fame, terrorismo – i quarantenni sono privi di attrezzature anticrisi?

«Temo di sì. In questo periodo un’altra parola magica è resilienza. Lei citava il terrorismo… Quando ancora questa parola non si usava, negli anni di piombo la tanto criticata Milano da bere è stata un’esperienza molto concreta di resilienza».

Le task force e le cabine di regia servono a cementare la poltrona di Conte?

«Conte usa una tecnica che presto mostrerà la sua mancanza di strategia e di weltanschauung, come dicono i tedeschi. È una tecnica basata su slogan vuoti, pensiamo agli Stati generali annunciati come una grande svolta e serviti a niente. I dpcm si susseguono per conquistare visibilità e centralità. Tanto più ora che il consenso cala. Le promesse esagerate diventeranno un boomerang. Quest’estate, invece di programmare con i pieni poteri servizi sanitari adeguati, dai tamponi ai vaccini antinfluenzali, ci si è cullati sull’illusione di essere un modello».

Alcuni protagonisti e sponsor del governo sono sfiorati da inchieste giudiziarie: Matteo Renzi, Beppe Grillo, lo stesso Conte. Meglio tenersi stretto il partito dei magistrati?

«Prendiamo atto che la magistratura ha fatto fuori diversi presidenti del consiglio: Giulio Andreotti, Craxi, Silvio Berlusconi, Renzi e ora tenta anche con Matteo Salvini. Gli esponenti dell’attuale governo dovrebbero riconoscere che cavalcando le istanze anticasta hanno prodotto un’altra casta, quella dei giudici. Si è parlato per anni della riforma della giustizia, dalla separazione delle carriere all’errore giudiziario, senza mai fare nulla. E ora c’è una casta che agisce sopra la politica».

Dopo le fibrillazioni sullo scostamento di bilancio, il centrodestra sembra tornato compatto. Durerà?

«Vivono nella bella confusione. Questo dimostra la necessità di figure come Gianni Letta e Renato Brunetta. Una volta vince il sì al Mes, un’altra il no. È una situazione a elastico».

Parlando di elastico, la ritrovata centralità di Silvio Berlusconi è già finita?

«Berlusconi mi sembra un Co co co, come quei lavoratori che sono assunti per modo di dire. Mettiamola sul piano linguistico: il centrodestra ha bisogno del centro, altrimenti perché si chiama così? Berlusconi è un uomo moderato e liberale, ma se non lo è davvero serve a poco. È anche l’uomo delle sorprese: vediamo cosa c’è nell’uovo, anche se non siamo a Pasqua».

Vuole proteggere le sue aziende o mira al Quirinale?

«Le aziende sono sangue del suo sangue perciò le difenderà fino alla morte. Si è molto arrabbiato quando la Lega non ha partecipato al voto in commissione sull’emendamento anti Vivendi».

Il Quirinale è una pia illusione?

«Una cosa non esclude l’altra. Servono intese molto vaste per le quali è indispensabile Letta, con la sua capacità felpata e un po’ andreottiana di trattare anche con il peggior nemico».

Chi sarà il candidato premier del centrodestra?

«Oggi il favorito sarebbe Salvini, ma dipende da quando si voterà. Anche nella Lega ci sono sfumature e tendenze. Non sottovaluterei Giorgia Meloni, che ha un sogno mica tanto nel cassetto di diventare la Thatcher italiana. Proprio il fatto di essere una donna potrebbe avvantaggiarla».

Che identikit farebbe del futuro candidato premier?

«Basta che sia l’opposto di Conte, cioè essere capace di prendere decisioni e fare i fatti».

Modello Craxi?

«In un certo senso, ma adeguato ai tempi».

Dovrebbe saper tenere a bada l’Unione europea?

«Certo. Noi furbi italiani siamo convinti che l’Europa sia un bancomat. Se alla fine dovesse darci le centinaia di miliardi di cui si parla, chi sarà in grado di gestirli?».

Servirebbe una forte leadership per la rinascita: nomi?

«Per la ricostruzione non basterà un Conte 3, 4 o 5. Serve il leader del nuovo Piano Marshall, ma di De Gasperi in giro non ne vedo. Forse non trascurerei Giorgetti, uno coerente e con idee precise. Anche se non si chiama Alcide».

Da ex sindaco di Milano qual è il suo giudizio su Beppe Sala?

«Gli darei un 6 meno meno. La sanità è di competenza regionale. Certo, ha un po’ la fissa delle piste ciclabili e dei monopattini che, anziché snellire, rischiano di complicare il traffico».

È appena stato varato un nuovo dpcm…

«Ho trovato meraviglioso il titolo del Manifesto: “Indovina chi non viene a cena”».

Lei avrebbe riaperto la scuola o i teatri e i cinema, i ristoranti e le palestre?

«Avrei riaperto i teatri e i cinema, dove il distanziamento è controllato e garantito. Ristoranti, scuole e palestre ancora no».

Qual è il ricordo più grande della sua vita politica?

«Ne ho due. La prima volta che incontrai Bettino, su invito di Carlo Tognoli. Ero uno studente universitario e non sapevo chi fosse Craxi, assessore all’Economato a Milano. Si alzò dalla scrivania e si avvicinò in tutta la sua statura: “Che cosa sai fare?”, mi chiese. “Il cinema. Per me il cinema è tutto”. Mi fulminò: “La politica è tutto”. Avevo vent’anni e fu un incontro indimenticabile. Così come non dimenticherò che il giorno in cui morì le prime due telefonate furono di Cristiana Muscardini, allora europarlamentare di An, e di Luigi Corbani, ex vicesindaco migliorista di Milano. Entrambi piangevano».

Che cosa le manca durante il lockdown?

«Andare nella mia Valtellina il fine settimana. Stare in casa nel weekend mi punge, ma rispetto le regole».

Si faccia un augurio per gli 80 anni.

«Di rivedere le due nipotine gemelle di quattro anni. Ora le vedo su Skype, ma aspetto di godermi presto la loro allegria, sana forma di ribellione al virus».

 

La Verità, 5 dicembre 2020

«I Pm hanno tanto potere Serve ancora Geronimo»

Il cellulare di Paolo Cirino Pomicino squilla con insistenza. «Sono l’ultimo sopravvissuto che parla e mi cercano in tanti», si giustifica. «Ma devo fare i conti con la mia età e le mie energie». Ottantenne, con il cuore e un rene trapiantati e un lungo avvenire dietro le spalle, l’ex ministro del Bilancio dei governi Andreotti, ha ancora le giornate piene: «Partecipo a convegni, seguo la politica e sono presente in alcuni consigli di amministrazione». Lo incontro nel suo ufficio romano, scrivania affollata di carte e giornali.

Quante vite ha, onorevole Pomicino?

«Diverse. Anche perché sono nato il 3 settembre 1939, alle 7 del mattino. Alle 11 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania di Hitler e alle 17 la Francia fece altrettanto».

Nato sotto le bombe.

«Sì, ma fin da subito c’era il segno della Provvidenza. Perché il mio arrivo consentì a mio padre di non essere chiamato al fronte in quanto padre di cinque figli».

Dalla data di nascita e dall’esenzione militare di suo padre ha preso più lo spirito combattivo o quello pacifico?

«Entrambi. In quegli anni bisognava saper scegliere i nascondigli giusti per ripararsi dalle bombe, ma anche saper combattere per sopravvivere e riacquistare la libertà. La famiglia numerosa è stata una grande scuola di tolleranza».

Invece, la scuola vera?

«Ci andai a 5 anni. Ho fatto tutti gli studi dai Fratelli delle scuole cristiane».

Come mai?

«Mia madre era una donna di grande fede. Quando mio fratello Mariano, secondogenito, morì a 33 anni, e le diedi la notizia, rivolgendosi a un quadro della Madonna di Pompei, disse piangendo: “Non ti capisco, ma te lo affido”. Quella testimonianza ci ha accompagnato in tanti altri momenti tragici».

Lei è medico chirurgo, specializzato in neurologia.

«In malattie nervose e mentali, per l’esattezza. Ho fatto dieci anni d’ospedale, diventando assistente ordinario in neurochirurgia e poi aiuto nella divisione di neurologia».

E invece come diventò ministro del Bilancio e della Funzione pubblica con Andreotti e De Mita?

«Arrivai alla Camera nel 1976, ma dopo la prima legislatura nella commissione Sanità, scelsi quella del Bilancio, dove fui presidente per 5 anni, facendo diventare quella commissione leggendaria grazie anche a tutti i suoi autorevoli componenti».

Come si avvicinò ad Andreotti?

«Alle politiche del 1972 Giulio fu capolista a Napoli. E, da giovane consigliere comunale, m’impegnai per la sua elezione. Ebbi modo di conoscerlo e insieme ad altri amici fondammo la corrente andreottiana».

Perché la chiamavano ’o ministro?

«Il copyright è di una rivista scandalistica che agiva nel sottobosco della politica. E che, non avendomi in simpatia, manifestò così il suo disprezzo. Miserie».

Come nacque Geronimo, altro soprannome, stavolta scelto da lei, con il quale firmava commenti e retroscena sui quotidiani?

«Da una telefonata a Vittorio Feltri quando dirigeva l’Indipendente e titolò in prima pagina <Pomicino inguaia Napolitano>. Telefonai per contestarlo e Feltri prese atto. Quando lo invitai a chiamarmi se avesse avuto bisogno di un articolo, mi disse: “Lo scriva oggi”».

Geronimo?

«Era il grande capo Apache che non si arrese alle truppe nordiste. Ed anch’io continuo a non arrendermi».

Ai magistrati?

«Non solo a loro e alle loro truppe mediatiche».

Non godeva di buona stampa?

«Prima del 1992 sì, tanto che nel 1991 ebbi una visita di Carlo De Benedetti, con il quale c’era un rapporto di stima reciproca, che mi spiegò il disegno politico al quale stava lavorando».

Un governo nel quale lei avrebbe dovuto essere ministro.

«Sì, in un sistema politico diverso da quello vigente. Risposi scherzosamente dicendo che, a nostra volta, io e Andreotti stavamo pensando a un grande disegno industriale e volevamo lui come nostro imprenditore. Fu il primo segnale dello scontro tra finanza e politica».

Dopo quel rifiuto cambiò l’atteggiamento dei giornali del gruppo Espresso?

«Già mi erano contro, ma poi divennero feroci».

Altre vite: il trapianto di cuore nel 2007.

«E quello di rene nel 2019… Il trapianto di cuore fu preceduto da due interventi di by pass, a Houston nel 1985 e a Londra nel 1997. Nel 2006, l’anno prima del trapianto ero stato rieletto deputato con la nuova Dc di Gianfranco Rotondi ma, contro il mio parere, eravamo confluiti nel Pdl. Parte di quella breve legislatura la feci in ospedale. Poi Silvio Berlusconi decise di non candidarmi, facendomi un piacere».

Perché?

«Potei iniziare una nuova vita».

Infatti nel 2014 si è sposato con Lucia Marotta, di 27 anni più giovane.

«Dal 2000 ero separato. Ho incontrato una donna intelligente e generosa con la quale dopo diversi anni mi sono sposato civilmente».

Perché ha intitolato il suo libro sulla seconda repubblica La Repubblica delle giovani marmotte?

«È un’immagine per descrivere la nuova situazione politica dopo Mani pulite. Diventammo improvvisamente un Paese privo di ogni cultura politica. Siamo l’unico Paese europeo, infatti, a non avere un partito liberale, socialista, verde o democratico cristiano. La responsabilità fu del vecchio Pci che, alimentando l’opzione giudiziaria per sconfiggere i partiti del vero centrosinistra, lavorò per cancellare la cultura politica di tutti avendo perduto la propria».

Mani pulite è una conseguenza del crollo del Muro di Berlino.

«Sotto le sue macerie non è rimasto solo il partito comunista ma, grazie ai ragazzi della via Pal della procura di Milano, anche i partiti che avevano vinto la battaglia della storia. Mani pulite fu voluta dalla borghesia azionista guidata da De Benedetti. Il quale pensava di essere la nuova testa del futuro governo del Paese, che avrebbe sommato l’élite finanziaria e industriale del salotto buono del capitalismo italiano al Pci di Achille Occhetto e Luciano Violante, ancora in possesso di una forte organizzazione territoriale».

Sui giornali e nelle ricostruzioni storiche si è parlato poco di questo disegno.

«Nel 1992, quando il centrosinistra raccolse il 55% dei consensi, doveva iniziare una legislatura a guida socialista con un presidente della Repubblica democristiano. Un assetto politico non gradito all’intelligence americana e a quell’area composta dal Pci e dalla borghesia azionista che sognava di fare grandi affari con la vendita, o meglio la svendita, del 25% dell’economia italiana in mano pubblica a finanziarie internazionali. Basta leggere le memorie di Giuseppe Guarino per rendersene conto».

Una svendita che poi è realmente avvenuta.

«Oggi si è completata. Ma invece di risanare i conti pubblici, il debito si è triplicato, passando, a moneta corrente, da 839 miliardi di euro del 1991 a 2400 miliardi attuali, con un pesante impoverimento del ceto medio. I famosi esponenti del salotto buono del capitalismo italiano sono andati all’estero o hanno venduto agli stranieri, o sono falliti. E il Paese è rimasto senza politica, senza economia e con una ricchezza elitaria».

La nascita dei populismi è la reazione a questa situazione?

«Non c’è dubbio. Il populismo l’abbiamo conosciuto anche nel 1948 con Guglielmo Giannini, ma allora i grandi partiti lo inglobarono subito. Oggi, invece, quel vuoto della politica e delle sue culture ha reso l’Italia un Paese di consumatori e di produttori per conto terzi. Questo vuoto è stato riempito prima dal populismo rabbioso guidato da Beppe Grillo, poi da quello leghista, più organizzato e dotato di una certa identità politica».

Quali errori ha commesso in questi anni Matteo Salvini?

«Il primo è stato aver fatto un’intesa con i 5 stelle che sono la vera grande anomalia del Paese. Abbiamo affidato ruoli di responsabilità pubblica a personaggi inadeguati di cui Danilo Toninelli è stato il simbolo. L’unico fatto positivo è stato che Salvini ha ridotto alla metà il consenso dei 5 stelle».

Nessun altro errore?

«Un altro è quello di insistere sul cosiddetto sovranismo. Una cosa è riformare l’Unione europea di oggi, un’altra è vagheggiare una autarchia nel pieno della globalizzazione. Anche Trump e Putin vorrebbero sgretolare l’Unione europea per fare sul Vecchio continente una nuova Yalta».

Salvini è uno dei pochi politici che quando commette errori come in questi giorni lo ammette?

«Credo di sì ed è un’ottima scelta di marketing politico».

Di Matteo Renzi scrive che è uno scout scelto da «terribili forze che lo hanno sempre sostenuto». Chi sono queste forze?

«Ambienti finanziari nazionali e internazionali che desiderano stabilità politica. Renzi rappresentava questa speranza, ma è stato purtroppo divorato dal personalismo, ritenendo di poter colloquiare con il popolo eliminando i cosiddetti corpi intermedi. Un errore di gioventù. Ha dimenticato che un grande leader è quello che convince non quello che ordina».

Che cosa significa il fatto che in soli tre anni il Pd di Renzi e il M5s hanno visto drasticamente ridimensionati i loro consensi?

«Che non sanno rispondere alla domanda che qualunque elettore alla fine fa ai partiti: prima di dirci cosa volete spiegateci chi siete».

Un difetto di identità?

«Esatto».

Un rischio che corre anche la Lega di Salvini?

«Non a caso Giancarlo Giorgetti, di formazione democristiana, ha suggerito di mettere la foto di Renzi sulla scrivania. La Dc e il Pci e il Psi sono durati quarant’anni perché avevano un’identità e i loro elettori un senso di appartenenza».

Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio quanto durerà il M5s?

«Sarà sempre più insignificante e prima o poi divorato dal Pd e dalla Lega».

Con la globalizzazione tramontano i partiti e prevalgono i poteri forti?

«Non per la globalizzazione, che è un processo inarrestabile, ma per la finanziarizzazione dell’economia che è la vera peste del terzo millennio. Inoltre, la finanza controlla l’80% dell’informazione dando vita così a un intreccio di potere fortissimo».

Lei nota che per quasi trent’anni il ministro dell’Economia è stato un tecnico. La scelta di Roberto Gualtieri deve rincuorarci?

«Credo proprio di sì, ma deve ancora prendere confidenza con la finanza pubblica e con un’economia stagnante».

Nei giorni scorsi si è tornato a parlare del tesoro di Bettino Craxi, ma non si parla mai del tesoro immobiliare di Antonio Di Pietro.

«Sono i grandi silenzi di quella stampa che applaudiva alla distruzione del sistema politico che aveva fatto dell’Italia la quinta potenza industriale».

Di recente Di Pietro ha detto che non puntava contro Craxi, ma sull’ambiente malavitoso che girava attorno ad Andreotti.

«Le balle di Di Pietro non si contano più. Giovanni Falcone, eroe dell’antimafia, fu direttore degli Affari penali nel governo Andreotti e un giorno, come ho testimoniato al processo di Palermo, mentre ero in attesa nell’ufficio di Andreotti, ne vidi uscire Falcone e Salvo Lima insieme. Se tanto mi dà tanto, allora anche Falcone sarebbe stato amico degli amici».

Con i 5 stelle al governo cresce il potere della magistratura?

«Cresce il potere dei pubblici ministeri, che è una cosa diversa, perché essi sono gli unici italiani non punibili nell’esercizio del proprio ufficio».

Manette agli evasori e abolizione della prescrizione.

«Tutti poteri dei pm che nella maggior parte dei casi soggiogano i giudici delle udienze preliminari, ma per fortuna non i collegi giudicanti. Infatti, circa il 40% dei processi si conclude con l’assoluzione. L’ideologo di queste leggi è Piercamillo Davigo».

Il 40% dei processi si conclude con l’assoluzione, ma spesso non lo si viene a sapere, com’è accaduto nel caso dell’ex ministro Calogero Mannino.

«È una vicenda scandalosa. Mannino è stato assolto dopo vent’anni di sofferenze e oltre due anni di carcere preventivo. Tutto, nel silenzio complice di gran parte del mondo dell’informazione».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Vuole che spari sulla Croce rossa? Certi video spiegano meglio di tante parole. Quello che mostra il tentativo del premier di mettersi in prima fila nella foto opportunity a Berlino suscita tenerezza per Conte e preoccupazione per l’Italia».

Come andranno le elezioni in Emilia Romagna?

«Vincerà Stefano Bonaccini e la Lega sarà il primo partito. A meno di sorprese sempre possibili».

Non trova che le sardine siano piuttosto esangui?

«Le sardine rappresentano il bisogno di avere una politica all’altezza di un Paese moderno e con un linguaggio civile».

Non è l’antisalvinismo la loro prima istanza?

«Sono partite così, ma sottotraccia la richiesta è rivolta anche ai 5 stelle e ad un Pd sempre più smarrito e spesso preda, come a Napoli, di ex magistrati che ritenevano la Dc napoletana collusa con la camorra. I giudici li hanno sbugiardati, ma il Pd li ha premiati».

 

La Verità, 26 gennaio 2020

«Quando Craxi era l’uomo nero e io la sua strega»

Buongiorno signora Alda D’Eusanio, perché non è andata ad Hammamet per il ventennale della morte di Bettino Craxi?

«Per me la tragedia di Hammamet, come la chiamo, è una ferita ancora aperta. Non credo molto nelle visite collettive in occasione degli anniversari. Credo invece che vada fatta un’opera per ristabilire la verità e la giustizia sul caso Craxi, affinché il Paese possa riflettere su ciò che è stato. La fine di Bettino è stata anche la morte di un intero sistema».

«Bettino»: lo chiama spesso così, Alda D’Eusanio, in questa intervista; per sottolineare la prevalenza dell’uomo sullo statista e per esprimere il senso di un’amicizia che ha lasciato un vuoto. Giornalista, moglie del sociologo Gianni Statera, scomparso pochi mesi prima del leader socialista, D’Eusanio è un volto molto noto della televisione italiana. Ha condotto per alcuni anni il Tg2 e poi ideato e condotto diversi programmi di cronaca e attualità, da L’Italia in diretta a Ricomincio da qui, da Al posto tuo a Qualcosa è cambiato. Grazie all’abitudine a evitare troppe circonlocuzioni, da qualche stagione si è ritagliata uno spazio come opinionista di programmi popolari, soprattutto in Mediaset.

Non è andata ad Hammamet pur essendo amica del leader socialista.

«Ci sono sempre andata e ancora ci andrò, in forma privata. Ero un’amica come lo era mio marito, uno studioso, autore di molti libri, tra i quali uno intitolato Il caso Craxi. Immagine di un presidente».

In che cosa consisteva quest’amicizia?

«Mio marito, che era molto stimato da Craxi, me lo fece conoscere. Ogni 15 giorni o più spesso – dipendeva dai loro impegni – c’invitava a cena all’hotel Raphael. Con il mio carattere privo di formalità ero riuscita a superare le sue diffidenze iniziali. Bettino credeva nell’amicizia».

Pochi lo ricordano così.

«M’infastidisce che quando si parla di lui si citino sempre nani e ballerine. La sua casa era frequentata da politici come Giovanni Spadolini, oltre ai tanti amici socialisti. Il fatto di averla aperta anche a persone del mondo dello spettacolo come Ornella Vanoni, Adriana Asti o Caterina Caselli non ha fatto di lui il capo di un circo».

Come s’intende quando si rispolvera quel binomio?

«La politica spettacolo era già arrivata con Marco Pannella che fu il primo a usare la tv in modo moderno. Anche Sandro Pertini era molto attento alla sua immagine. Bettino non lo è mai stato, era schivo, persino timido».

Non dava questa impressione.

«Invece era così. Non amava i riflettori, il palcoscenico, il lusso».

A differenza del suo amico Silvio Berlusconi?

«Che però allora non faceva politica e si occupava, molto bene, di televisione. Berlusconi era il volto seduttivo del potere, l’esatto opposto di Craxi. Che non era né seduttivo né simpatico».

Ha ragione Claudio Martelli che ha intitolato il suo libro L’Antipatico. Bettino Craxi e la grande coalizione?

«Sì. Non faceva nulla per conquistarsi la simpatia di nessuno. Tutta la sua mente era rivolta alla soluzione dei problemi. L’unico momento di svago era la sera a cena, quando incontrava amici, politici, scrittori o persone dello spettacolo, ma sempre parlando di politica. Ha condotto una vita in un certo senso umile, al Raphael non viveva in un attico sfarzoso come si diceva, erano due stanze piene di libri, giornali e polvere».

Si è parlato a lungo del suo tesoro, conti all’estero, ville, donazioni alle amanti.

«Ancora la storia dell’oro di Dongo? A smentirla basta la sobrietà della vita condotta da lui e dalla sua famiglia. Le case in cui ha vissuto, compresa quella di Hammamet, l’unica di proprietà, erano come quelle due stanze al Raphael».

Perché dice che è stato ucciso? E da chi?

«Quando doveva operarsi e si sapeva che la Tunisia non aveva ospedali all’altezza, non gli è stato consentito di tornare in Italia. È stato un modo di ucciderlo. Solo la Tunisia l’ha accolto. François Mitterand disse che non poteva garantirgli la protezione: poteva garantirla ai terroristi assassini di innocenti come Cesare Battisti, ma non a un leader politico. Craxi non voleva sfuggire alla giustizia italiana, ma auspicava l’esercizio di una giustizia giusta, che non agisse come un potere deciso ad azzerare un intero ceto politico».

Martelli sostiene che è stato ucciso da una grande coalizione della finanza internazionale.

«Nessuno credo pensi realmente che il sistema politico e sociale della quinta potenza industriale potesse essere distrutto dal mariuolo Guido Chiesa e dal poliziotto Antonio Di Pietro. Sicuramente c’era un disegno. Martelli è sempre stato lucido nelle sue analisi, era il delfino di Bettino. Che, del resto, a differenza di altri leader, si è sempre circondato di persone di valore, come Rino Formica e Gianni De Michelis».

Non ci sono state anche colpe sue nel compiersi di quella tragedia?

«Eraclito dice che il destino dell’uomo è il suo carattere. Quello di Bettino lo portava a combattere mettendo da parte la prudenza. Non era capace di abbassare la testa per aspettare che passasse l’onda».

Ha visto Hammamet di Gianni Amelio?

«Sì e non mi è piaciuto. Non è né un documento politico né un’operazione verità sui suoi ultimi mesi. Se non ci fosse la bravura di Pierfrancesco Favino… È un film che non aggiunge nulla, solo cose sbagliate».

Per esempio?

«Il modo di raccontare la famiglia. Bettino era amato dalla moglie Anna e da Bobo, Stefania lo adorava. Nel film si vede quasi solo lei. Ma la vera infermiera era Anna, che non lo ha mai lasciato mezzo secondo, tranne quando è stata costretta ad andare a Parigi per curarsi. È morto quando si è allontanata, ma nel film è descritta come una donna che guarda la tv. Anche Bobo si era trasferito lì con la famiglia. Quegli ultimi anni sono stati raccontati meglio in Route El Fawara, Hammamet di Gianni Pennacchi».

L’amicizia con Craxi ha aiutato la sua carriera di giornalista?

«Io ero molto critica nei confronti della gestione della Rai del Psi e del Pci. C’è una mia intervista a Maria Latella del Corriere della Sera intitolata: “Telegarofano, la mia croce”. Commentandola, Giampaolo Pansa scrisse sull’Espresso: “Attenti a quell’Alda di notte”».

Aveva ragione?

«Faccia lei. Prima di diventare giornalista a 40 anni me ne sono fatta undici di precariato. Poi ho condotto il tg della notte che è quello che ti danno quando non vogliono farti far carriera. Ho cominciato ad avere successo nel 1996 con L’Italia in diretta quando Bettino era ad Hammamet da due anni. La prima conduzione in prima serata l’ho avuta nel 2001, con Al posto tuo, quando sia mio marito che Craxi erano morti».

Alla conduzione del tg delle 20.30 quando arrivò?

«Nel 1995. Fu Clemente Mimun a spostarmi, ma durò pochi mesi perché poi passai a L’Italia in diretta. Poco dopo spuntarono le intercettazioni delle nostre telefonate…».

Che cosa venne fuori?

«Lo chiamavo alla sera con mio marito, sapendo benissimo che eravamo intercettati, per chiedergli come stava e riferirgli lo stato di salute di Vincenzo Muccioli, nostro amico. Lui parlava, si sfogava anche. Io manifestai l’intenzione di scrivere un libro sulla sua vicenda».

Disse: «Sarò la tua voce».

«Il senso era questo: se riuscirò a convincere un editore sarò la tua voce. Si parlava di un libro da scrivere. Un’altra volta in cui raccontava del dolore provocato da un’ernia gli mandai affettuosamente “un bacino sulla bua, che ti passa”. Fui messa alla gogna, il mio peccato originale era stato ammettere di essere amica di Bettino Craxi. Lo rivendicai, chiedendo di dimostrarmi dove sbagliavo. Avevo anche rifiutato, come Enrico Mentana, di fare uno spot elettorale».

Gli attacchi non si placarono?

«L’Indipendente di Vittorio Feltri, L’Unità e Norma Rangeri sul Manifesto scrissero le cose più ignominiose. Se Bettino era l’uomo nero io ero una strega. Forse volevano anche colpire mio marito, socialista sopra le parti. Ma avevamo la coscienza a posto, non temevamo l’isolamento di cui fummo oggetto per anni. Quando andavo a mangiare alla mensa della Rai, come mi sedevo tutti si alzavano e restavo sola al tavolo».

Intanto continuava a condurre: come definirebbe la sua televisione?

«Una televisione coraggiosa, che guardava avanti e raccontava le storie delle persone comuni. Non a caso fu copiata da tutti».

Per esempio?

«L’Italia in diretta divenne La vita in diretta, poi Ricomincio da qui, Un pugno o una carezza, Qualcosa è cambiato hanno ispirato tanti programmi di questi anni, le storie e l’infotainment. È stata copiata anche la tecnica dei primissimi piani durante il racconto. Di pomeriggio Al posto tuo batteva Maria De Filippi. Ideavo programmi, ma dopo un anno mi mandavano via».

Perché?

«La libertà e la solitudine si pagano».

Non c’erano anche polemiche per l’uso di attori?

«La tv è fatta dal rapporto tra i telespettatori e il conduttore che tiene il pubblico legato alla storia. Io non recitavo e non facevo recitare, facevo passare i sentimenti, li stimolavo».

Negli ultimi anni è stata opinionista di alcuni reality. Che cosa le piace di questi programmi?

«L’unico reality è stato L’Isola dei Famosi. M’incuriosiva la durezza del format: le situazioni estreme, la sopravvivenza e la convivenza con persone diverse mettono a nudo il carattere delle persone. Poi sono stata opinionista anche per Piero Chiambretti e, a volte, per Barbara D’Urso. È la tv di adesso».

Che cosa guarda da telespettatrice?

«Seguo i programmi d’informazione, da Ballarò a Report a Porta a porta. E poi Maurizio Crozza, che mi diverte molto».

Tra i politici di oggi chi le fa meno rimpiangere quelli della Prima repubblica?

«Tutti me li fanno rimpiangere perché dopo di allora non c’è più stata vera politica. Berlusconi ci ha provato, anche se non era del ramo. Sono politica il Conte 1, il Conte 2 o allearsi prima con un partito e subito dopo con un altro? Lei vede in giro qualcuno che possa lontanamente paragonarsi a Giulio Andreotti, Bettino Craxi o Enrico Berlinguer?».

 

La Verità, 19 gennaio 2020

«Hammamet inneschi la riscossa della politica»

Una storia tragica che ha molto da dire all’Italia di oggi. La caduta del re. Il perdente in disarmo. La grande rimozione della politica repubblicana. È tutto questo, Bettino Craxi, oggi. Tra pochi giorni ricorrerà il ventennale della sua morte avvenuta ad Hammamet il 19 gennaio del 2000. Stanno per uscire libri e saggi. Si torna a parlare di lui e della sua eredità politica. Non del presunto tesoro nascosto chissà dove. Sono maturi, a sinistra, i tempi del perdono o, almeno, dell’assoluzione? Un film intitolato Hammamet, diretto da Gianni Amelio e con un bravissimo Pierfrancesco Favino, racconta gli ultimi sei mesi dell’ingombrante esilio del leader socialista.

Incontro la figlia Stefania nella sede della fondazione a lui intitolata dove, tra i suoi ritratti, spunta un busto di Giuseppe Garibaldi. Alle pareti si legge: «La mia libertà equivale alla mia vita», epigrafe posta sulla tomba dello statista italiano.

Signora Craxi, le è piaciuto Hammamet di Gianni Amelio?

Aspettarsi una ricostruzione storico-politica della vicenda di mio padre sarebbe stato sbagliato. Gianni Amelio è un regista dell’anima, non poteva che raccontare il dramma e l’ingiustizia profonda dell’esilio. Ritengo importante che un regista, che non proviene dal mondo socialista e non tratta tematiche politiche, percepisca questa grande ingiustizia della storia repubblicana.

Suo fratello dice che è troppo romanzato.

È un suo giudizio. Ma è un film, ovvio che sia romanzato.

Si riconosce in Anita, la figlia del Presidente come siete chiamati nella pellicola?

Anita è un omaggio a Garibaldi di cui Craxi era un estimatore, ed è anche il nome che ho dato a mia figlia. È una domanda che non mi sono posta. L’attrice è molto intensa. Ma a un certo punto mi sono detta che, forse, un piatto in più di pasta potevo lasciarglielo mangiare!

Si è trovata troppo inflessibile?

Vedendomi ho pensato: «Che rompicoglioni!». Ma poi ho dovuto ammettere che Anita a tratti mi assomiglia, su alcune cose avrei potuto mollare un po’ di più.

Come interpreta la frase «Io mio padre ho cercato di salvarlo, ma non ci sono riuscita», pronunciata dopo che Fausto, personaggio di fantasia, dice di aver ucciso il padre, tesoriere del partito, che «era un criminale ed è diventato un martire»?

Non la interpreto. È vero che ho cercato di salvarlo e non ci sono riuscita. Ho battuto tutte le strade perché fosse curato nel suo Paese o all’estero. Non ci sono riuscita. È esattamente ciò che è successo. Ho anche cercato di metterlo in guardia dai falsi amici. Invano.

Chi erano?

Tante persone a cui ha dato fiducia e ruoli e non lo meritavano. È una riflessione che ha fatto lui stesso e si trova nei suoi scritti.

Nel film Craxi è un uomo solo. In sogno, quando uno sketch tv gioca sull’assonanza milanese tra lader e leader, anche suo padre ride divertito.

Se questo film trasmetterà al pubblico il dramma e la grande solitudine dell’uomo centra il bersaglio. Ci sono straniazione e isolamento. Che cosa può portare in esilio un uomo che ha dato tutta la vita per il suo Paese?

Ha apprezzato l’interpretazione di Favino?

Non ha nulla da invidiare ai migliori attori americani. Ha fatto un grande lavoro sulla gestualità e sulla sofferenza. Mi auguro che vinca l’Oscar.

È un film più psicologico che politico?

Sicuramente non è un film politico, ma intimista. Da quanto ho letto il regista rivede nella storia gli stilemi della grande tragedia classica. Prevale in lui la tematica del capro espiatorio, mentre la lettura politica è assente e a tratti superficiale. Lo scontro di quegli anni tra la grande finanza internazionale e il primato della politica è molto complesso e ramificato. A differenza degli americani, gli autori italiani non sanno raccontarlo, leggono la tragedia ma non leggono la politica.

Anche se c’è un passaggio sulla riflessione di sua padre relativa alla differenza tra il termine rimosso, «popolo», e quello più in voga, «gente comune».

Assolutamente sì. Mio padre era molto attento. Per lui la politica doveva parlare a ciascun individuo, non genericamente alle masse. Doveva dare risposte ai suoi bisogni, alle sue necessità, premiare i meriti e i talenti. Il confronto era per idee e fatti, non per bandiere.

Amelio ha tenuto a specificare che non è un film contro Mani pulite.

Non serve Amelio per dire cos’è stata quella falsa rivoluzione. Con eroi finti e ideali finti. Basta guardare cos’è oggi il nostro Paese, quanto conta la politica, quanto conta nei consessi internazionali, qual è lo stato della nostra economica e del sistema produttivo. Ognuno, ormai, può farsi un’idea in proprio.

Nella scena in cui davanti all’aereo che deve riportarlo in Italia per farsi curare Craxi ha un ripensamento e rifiuta il rimpatrio c’è orgoglio, fierezza, solitudine?

Ovviamente quella scena è frutto di finzione. Non era a tema il suo ritorno da uomo «non libero». La scelta di non curarsi prima, e di non farsi operare in Italia, dà la cifra di un uomo per cui le proprie idee, la propria libertà erano la sua stessa vita. Un gesto ottocentesco.

È un’opera che non affronta la riflessione sul primato della politica, motivo per cui suo padre non ha voluto farsi processare nei tribunali, ma voleva dibattere del finanziamento ai partiti solo in Parlamento?

In Parlamento Craxi non fa una chiamata di correità come banalmente viene detto. Parla il linguaggio della verità e chiede una fine politica della prima Repubblica. A quella richiesta segue un vile silenzio. Tra ipocrisie e opportunismi capitola il primato della politica e inizia la deriva italiana.

Suo padre era un latitante, un esule o un contumace?

Era un esule. Nella storia dell’umanità e nel diritto internazionale l’esilio ha un posto preciso. Non a caso la Tunisia si sarebbe opposta alle richieste di estradizione. Craxi è stato dichiarato illecitamente latitante, perché se n’è andato dall’Italia esibendo il suo passaporto. Per il dizionario Devoto Oli, latitante è chi vuol far perdere le proprie tracce, nascondendosi. Craxi rispondeva personalmente al telefono, il cui numero era su tutti i giornali. Una commissione d’inchiesta parlamentare stava venendo giù per un’audizione…

Che giorni sono per lei questi?

Sono giorni di bilancio di vent’anni di ribellione verso quella che ritengo un’ingiustizia umana prima che politica. Non sapevo come riparare questa ingiustizia, ma sapevo che la mia vita sarebbe cambiata. Di questa battaglia vado orgogliosa, anche se non mi attribuisco molti meriti, questo lo rivendico. Controcorrente, spesso in solitudine e talvolta derisa ho difeso Craxi, la sua storia e la storia di una intera comunità. Di questo vorrei che i socialisti mi fossero grati. Il 19 gennaio vivremo il senso di una grande perdita, fortunatamente mitigato dai tanti amici e compagni che anche quest’anno verranno dall’Italia. Al cimitero di Hammamet ci saranno più di 800 persone.

Molti politici?

Ho invitato tutti i leader, ma al momento non ha risposto nessuno… Incombono le elezioni in Emilia Romagna… Verranno tante personalità di ieri e di oggi. Carlo Tognoli, Giorgio Gori, Annamaria Bernini, Maria Stella Gelmini ma soprattutto tante persone del mondo della cultura e dello spettacolo, come Andrée Ruth Shammah, Marcello Sorgi, Maria Giovanna Maglie, Eugenio Bennato, Costantino Della Gherardesca…

Le anticipazioni del libro L’ultimo Craxi. Diari di Hammamet di Andrea Spiri hanno svelato una lettera inedita nella quale Giuliano Amato gli suggeriva di «tornare in Italia a condizioni legittime e appropriate».

Era chiamato Dottor Sottile non a caso.

Suo padre disse che era «il peggiore di tutti» e si confessava pentito del potere dato a tanti che non lo meritavano.

Era un’amarezza che riguardava tutti quelli che dovevano difenderlo e non l’hanno fatto. Colleghi di partito e avversari che lo stimavano.

Ieri è uscito anche un libro di Craxi da Mondadori.

È una spy story intitolata Parigi-Hammamet, attraverso la quale racconta la contrapposizione di quegli anni tra la grande finanza internazionale e la politica.

Avete messo insieme alcuni suoi scritti?

È uno scritto inedito che abbiamo ritrovato nelle sue carte quando, la Fondazione che nel 2000 ho fondato, ha messo ordine nel suo «archivio».

Craxi giallista?

Il giallo è solo la forma narrativa. Lui lo presenta così: «Non è un saggio, non ha alcun valore storico politico. Prendetelo come un mio passatempo. Magari scoverete inciampi nella fantapolitica, stilemi abborracciati, intrecci indegni di John Le Carrè o Ian Fleming. Eppure, nelle trame del mio modesto tappeto narrativo, troverete nude e inconfutabili verità. E una miriade di profezie di futuri, inesorabili, disastri nazionali». Vent’anni dopo l’attualità gli dà ragione.

Vent’anni dopo la politica è ancora sotto schiaffo della magistratura, della finanza e degli apparati?

Se le sue parole non fossero rimaste inascoltate come quelle di una Cassandra, la situazione del Paese sarebbe molto diversa. L’attualità di quella visione è riscontrabile nelle sue riflessioni anche da Hammamet, quando dicevano che non era più lucido.

Come vorrebbe fosse ricordato suo padre?

Come un uomo che ha servito con lealtà e passione la sua patria. Che voleva grande tra i grandi e non certo l’Italietta ininfluente sul piano internazionale che vediamo oggi. Tra Craxi e Garibaldi ci sono molti tratti comuni, basti pensare che Garibaldi ha vissuto un anno a Tunisi e che le loro tombe sono entrambe divise dal mare dall’Italia. E basta pensare alle ultime parole di Garibaldi da Caprera: «Non era questa l’Italia che sognavo, miserabile al suo interno e derisa al suo esterno».

Come finirà la vicenda dell’intestazione di una via a Milano?

Se il sindaco di Milano vorrà dare un riconoscimento a un grande italiano e a un grande milanese, senza se e senza ma, farà una cosa giusta. Altrimenti, amen: a dire di Craxi sarà la storia.

In un momento in cui la politica italiana appare molto confusa e priva di personalità di statura, tanti ripensano agli uomini della Prima repubblica. Che cosa avrebbe da dare suo padre all’Italia di oggi?

Mi permetto di dire che Craxi era una personalità eccezionale anche tra le figure della Prima repubblica. Sia per statura politica che per la profondissima carica umana, nascosta da un tratto di ruvidezza caratteriale erroneamente scambiata per arroganza. Ma la cosa che lo rende di grande attualità è la sua capacità di capire il futuro e di cogliere modernità e innovazioni. L’eredita craxiana non è quel tesoro mai esistito, ma quel patrimonio di idee e riformismo ancora validi che può rappresentare una bussola per chi avesse la volontà di raccoglierla.

   

Panorama, 15 gennaio 2020 

 

Josi: «Così è nato lo spot tormentone della Tim»

Incontri Luca Josi e non sai da dove cominciare. Da Bettino Craxi e i nomignogli che gli hanno affibbiato: Hammamet express, l’apostolo, l’aspirante martire del craxismo, l’ultimo repubblichino della Repubblica di Salò di Craxi? Oppure dai cinque Telegatti vinti quando faceva il produttore tv con Einstein Multimedia, prima di chiudere a causa della vicenda riguardante la fiction Rai Agrodolce? Dal matrimonio con Laura Paglieri, famiglia Felce Azzurra, o da quello con Luisa Todini, famiglia di grandi costruttori? O dal nuovo ruolo di capo della comunicazione di Tim (formalmente: direttore della struttura Brand Strategy e Media), ideatore e curatore, tra mille altre cose, dello spot con il ballerino Sven Otten che ci ha stregato prima durante e dopo il Festival di Sanremo? Forse intuendo i miei impacci, parte lui da quand’era bambino, promessa del nuoto a Genova, due allenamenti e una ventina di chilometri al dì, genitori socialisti nella città dove nacque il Psi e si andava al cinema nella Sala Sivori, luogo della fondazione. Il padre Giuseppe insegna Statica delle navi all’università e, per capire il tipo, a un tal Lelekis fa ripetere l’esame 32 volte. La madre è giudice minorile, poi preside di una scuola privata. Il più ignorante del casato ha tre lauree. L’unica a non aver studiato è nonna Margherita, discendente di Marco Antonio Bragadin, ammiraglio della Serenissima che resistette agli Ottomani nell’assedio a Famagosta (Cipro), poi catturato e scorticato vivo perché rifiutò di convertirsi all’islam. La nonna gli ripete questa storia, ma lui alla fine s’iscrive all’università. Ma siccome, nel frattempo, la passione politica ha scalzato il nuoto, studia a Genova e va alle riunioni dei giovani socialisti a Roma, dormendo in treno. Tre volte la settimana per tre anni, questa è la tigna. Più che un grande irregolare, Josi è una presenza che smuove il senso di colpa collettivo nei confronti di Craxi. Si definisce un «salmone orfano»: salmone perché essere craxiano dal 1992 al 2000 è piuttosto controcorrente, orfano perché nel frattempo il Psi è scomparso. A Roma poi esplode la passione per la storia dell’arte. Tuttora viva al punto che, entrato nel Cda della Fondazione di Telecom, chiamato dal presidente Giuseppe Recchi, si butta nel piano di ripristino del Mausoleo di Augusto a Roma («il più grande monumento sepolcrale del mondo dopo le piramidi, che consegneremo alla cittadinanza in meno di due anni»). Una volta in Telecom, complici altri cambiamenti, nell’aprile 2016 l’ad Flavio Cattaneo gli affida la responsabilità della comunicazione. Nel frattempo è tornato anche l’amore per il nuoto e, a 50 anni, Josi fa ancora i 100 stile libero in un tempo inferiore al minuto.

Dunque, cominciamo dalla fine. Com’è nato questo spot così magnetico, contagioso, virale?

«È nato nella mia famiglia allargata; tra figlie, figli e la mia amatissima compagna Allegra: la persona con cui guardo e condivido meglio il mondo. In casa, anche noi, siamo tenaci navigatori della rete, tutti frequentatori di questo straordinario modo di viaggiare da fermi».

Uscendo dalla metafora?

«A settembre ci siamo ricordati di quel ballerino che avevamo visto qualche tempo prima. Per la nostra comunicazione cercavo qualcosa di semplice nella sua ripetitività – una legge, un mantra, per chi viene dall’avere lavorato coi format – e il ballo di Sven era perfetto. Lo era già nel suo video autoprodotto in bianco e nero, con quelle inquadrature pulite e quel continuo volteggiare degli arti che sembravano indicare i quattro angoli dello schermo lasciato vuoto per poterci inserire le nostre parole».

E la musica?

«C’era già. Sven infatti ballava nella sua camera su All Night di Parov Stelar. Abbiamo preso il binomio completo. Loro due nemmeno si conoscevano. Sven è tedesco, ha 29 anni e una storia perfetta da raccontare: era un programmatore di computer, che per la tendenza ad appesantirsi, con conseguenti problemi alla schiena, aveva deciso di dimagrire e gli era venuta l’idea del ballo. Da autodidatta aveva cominciato a scaricarsi dei tutorial dalla rete per imparare i primi passi, poi si era appassionato a questa musica al punto d’inventarsi un ballo per interpretarla».

Adesso quando la senti nelle sigle della Serie A, nella testa vedi Sven che balla…

«È l’elettro-swing. Lo swing è nato negli anni Trenta e ha rappresentato una reazione, fisica, alla depressione economica. Da lì vengono una serie di sonorità e danze nuove, più spensierate e positive. Nel 2012, Stelar, ha creato questo brano, una versione elettro dello swing. E così, ci siamo ritrovati tra le mani questa chicca».

Un brano che sprigiona energia.

«Come tutto ciò che tira fuori il meglio di noi, regala qualche secondo di allegria, un sorriso e un po’ di buon umore. Questa campagna è diventata precocemente virale. Non era ancora partito il concorso per le reinterpretazioni del ballo rivolto sia ai singoli consumatori che possono mandare un video autoprodotto che ai dipendenti delle aziende che possono proporlo con tanto di marchio del gruppo – su www.ballacontim.it online da mercoledì – che lo spot aveva già prodotto più di 200 imitazioni e una ventina di parodie. Tutte nate spontaneamente; il sogno di ogni pubblicitario».

Rischio di sovraesposizione?

«Sono quei rischi che ognuno si augura sempre di dover gestire».

Quindi, spot stupendo: ma il prodotto è stato comunicato in modo efficace?

«Esistono un’infinità di casi di pubblicità famose per qualità delle immagini e dei suoni che si sono rivelate di scarsa efficacia per il prodotto di cui erano ambasciatrici. Noi abbiamo avuto un risultato eccellente in tutte le sue declinazioni. Al di là della piacevolezza, quella musica e quel modo di portare le parole dell’offerta è talmente semplice che lo spettatore ricorda con precisione il contenuto della proposta commerciale».

È la prima volta che c’è uno sponsor unico al Festival di Sanremo. Come l’avete deciso?

«Ricordiamo la leadership del gruppo presidiando gli eventi e i fenomeni principali della nostra società come la Serie A del calcio o la scuderia Ducati. Ci siamo chiesti quindi quale fosse il Superbowl italiano e la risposta era senza dubbio il Festival di Sanremo che realizza ascolti irriproducibili».

Avrete stanziato un super budget.

«Se intende sugli investimenti pubblicitari la risposta è no. Abbiamo riscontrato però che la percezione, anche da parte degli addetti ai lavori, è stata quella di un investimento infinitamente superiore a quello reale. Il che significa che abbiamo speso molto molto bene i nostri soldi per la resa che hanno avuto. La tempesta perfetta si è vericata a Sanremo dove si sono incontrati l’evento più evento del panorama italiano e lo spot del momento. Quando il nitro incontra la glicerina scaturisce qualcosa di esplosivo».

A proposito di super budget, com’è arrivata Mina?

«Come una cosa bella. A Sanremo ci siamo chiesti: perché le telepromozioni devono essere percepite come un prodotto minore della comunicazione? Così ci è venuta l’idea di creare uno spettacolo nello spettacolo, provando a immaginare un piccolo musical in stile bollywoodiano derivato dallo spot. Recchi e Cattaneo hanno sposato l’idea e sono stati i primi veri sponsor di questa campagna. Si è innescata una sorta d’isteria produttiva: abbiamo avuto il via libera il 15 gennaio e abbiamo iniziato a girare i filmati a Cinecittà il martedì precedente all’inizio del Festival».

E Mina?

«Ho la fortuna di averla amica. Lei ha avuto fiducia nell’idea che le ho proposto. Ed è successo quello che avete visto e ascoltato. La mia più grande preoccupazione era di realizzare qualcosa che fosse rispettoso del suo mito. Mina, che come tutte le persone di genio vive della sua curiosità imprevedibile, ancora una volta ha trovato il modo di divertirsi, stupire e reinventarsi. L’idea di cantare “Tim Tim Tim” è sua. Un guizzo mozartiano di un personaggio dal talento inesauribile».

Da quanto tempo esiste questo rapporto con Mina?

«Siamo amici, ci conosciamo da anni e, appunto, se devo immaginarmi il genio o spiegarlo, penso a lei e a pochi altri. Sono quelle intelligenze carsiche delle quali non riesci mai a capire come costruiscano i passaggi che le portano a intuizioni, a sintesi, che altri producono, faticosamente, dopo percorsi lunghi, concatenati (sempre che le producano). Il genio, invece, all’improvviso ti dà un’intuizione che con istinto animale ti spiazza. È come se fosse già in possesso di una soluzione che agli altri mancava, quello che si definisce “nascere imparato”. Mina è così, una persona imparata in tutte le situazioni, mai fuori luogo, non s’identifica con una stagione attraversandole tutte da protagonista».

C’è un episodio, una frase, una situazione che l’ha particolarmente colpita in questa amicizia?

«Le amicizie e i sentimenti privati si definiscono tali proprio perché lo restino».

Questa campagna della Tim è il suo ritorno pubblico nel mondo della comunicazione. Una sorta di rinascita dopo anni difficili?

«Per rinascere bisogna morire. Vengo da una famiglia di trattori, gente ligure che, se china il capo, vuol dire che sta prendendo la rincorsa per tirarti una testata. Negli anni della tv ho vinto cinque Telegatti, prodotto migliaia di ore del primetime televisivo, organizzato il Live8 del 2 luglio 2005 (il più grande evento musicale italiano). Ho incontrato poi momenti cattivi concepiti da personaggi peggiori (non sono credente, ma credo che convenga anche a questi tizi che Dio non esista). Mi hanno aiutato oltre alla mia famiglia, meravigliosa, poche persone e devo a loro se sono qui. Non sono stati anni facili, ma sono cresciuto con mia nonna paterna che al posto delle favole mi raccontava la storia dell’avo Marco Antonio Bragadin; qualcosa di diverso da Biancaneve. Da parte di mia madre, nelle mezze parole liguri, ascoltavo invece quella del tenente Piero Borrotzu, che a 22 anni si consegnò ai nazisti per scambiare la sua vita con quella dei cittadini di Chiusola. Non c’è un grammo di retorica in questi ricordi: erano uomini come noi, come me; persone che hanno affrontato prove assolute, con coraggio, forza e senso del dovere che riduce a un pizzicotto ognuno dei miei mostri».

A proposito di quei tizi mi permetto di dire che devono sperare nell’esistenza di Dio, perché Lui perdona… Comunque, l’esperienza di produttore tv è la sua seconda vita, la prima è stata la politica. Quando parlava dell’intelligenza di Mina, mi chiedevo come classificasse quella di Craxi.

«Anche di Craxi non si capiva come arrivasse alla sintesi, all’idea finale. Andreotti raccontava spesso che quando andavano insieme a qualche meeting politico, lui impiegava il tempo del viaggio a studiare i dossier, mentre Craxi si sdraiava e dormiva per poi rinvenire quando l’aereo iniziava la discesa. A quel punto, scartabellava velocemente il plico immergendosi in silenzio in quelle carte; una volta raggiunto il tavolo del consesso era però sempre lui quello che poneva il pallino al centro della conversazione focalizzando l’aspetto strategico della questione. E Andreotti lo ricordava con un filo d’ironica invidia».

Lei come lo ricorda?

«Come il mio miglio amico e il mio leader».

Oggi che rapporto ha con il mondo della politica?

«Protetto. Guardo la tv e vedo che c’è un sacco di gente che ne parla, che ne discute; probabilmente, da qualche parte, ce ne sarà qualcuno anche capace di farla. In generale, mi sembrano tempi eunuchi, pieni di personalità calviniste con il prossimo e cattoliche con sé stesse».

Può esemplificare? C’è qualcuno che l’ha particolarmente delusa e, al contrario, qualcuno che le suscita un briciolo di speranza?

«La politica necessita di un fondo di ottusità: quella di sentirsi indispensabili all’umanità. Alcuni, se non lo sono per davvero, risultano almeno utili; l’altra gran parte, sono rinunciabili o interscambiabili. Però la politica è imprescindibile perché dovrebbe servire a reagire alle ingiustizie e alle prepotenze. Perché si occupa della vita di ognuno di noi e se tu non affronti i problemi loro troveranno te e avrai solo perso tempo. Da noi il coraggio e l’impegno ci si immagina abbiano effetti retroattivi. Sopraggiungono dopo sperando che abbiano effetto sulle codardie e le negligenze del prima».

Piercamillo Davigo, presidente dell'Anm (Franesco Garufi)

Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm (Franesco Garufi)

Di recente Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, ha detto che a 25 anni da Mani pulite la politica è ancora più corrotta. Concorda?

«È probabile. In un certo senso Tangentopoli somiglia a una terapia antibiotica interrotta anzitempo, che ha rafforzato la malattia. Craxi fu l’unico ad autodenunciarsi in Parlamento per il problema del finanziamento illecito ai partiti. Tacquero tutti. Non era il: “Tutti colpevoli, nessun colpevole”, ma il tutti colpevoli e basta. Nel frattempo la mitragliatrice di Tangentopoli aveva esaurito il nastro delle sue munizioni e fu così che resistettero i nani e le ballerine. I primi avvantaggiati dall’altezza e le seconde dalla mobilità».

 

Cosa la fece diventare craxiano proprio mentre prendeva corpo l’azione di Mani pulite?

«Sono stato l’ultimo segretario dei giovani del Psi di Craxi. Ci siamo messi a difendere una storia non nostra perché sapevamo ci sarebbe ricaduta in testa. E soprattutto perché pensavo che se fossimo stati così pessimisti da non voler difendere il nostro futuro non potevamo essere, contemporaneamente, così ottimisti da sperare che qualcuno lo facesse al posto nostro. Perché alla fine appare sempre che sono i buoni a vincere. E non perché lo siano per davvero, ma perché vincendo, e scrivendosi la storia, lo diventano».

Si sente un irregolare?

«Un carattere nazionale è ormai diventato il galleggiamento. Io preferisco nuotare e penso, come scriveva Ignazio Silone, che il destino sia un’invenzione della gente fiacca e rassegnata».

Per tornare al punto dal quale abbiamo iniziato: quali sono i grandi progetti su cui sta lavorando il terzetto Tim, Josi, Mina?

«Molti, ma non le rovinerò la sorpresa».

 

La Verità, 5 marzo 2017