«Ci governa l’antipolitica e i risultati si vedono»

Sopravvissuto a cento battaglie, oggi, 5 dicembre, Paolo Pillitteri festeggia ottant’anni. Sceneggiatore e critico, sindaco di Milano dal 1986 all’inizio del 1992, condirettore del quotidiano L’Opinione, da qualche tempo è tornato a occuparsi di cinema, primo amore non solo di gioventù. Nell’ironia con cui vive questi «strani giorni» e assiste alle peripezie di «un governo inadeguato» s’intravedono le stagioni della Milano da bere e di Tangentopoli, la morte di Bettino Craxi, il superamento di due delicate operazioni al cuore. Una interrotta a un millimetro dal precipizio e una seconda per l’inserimento di un defibrillatore: «Oltre alla bravura dei medici, serve un po’ di fortuna», confida.

Onorevole Pillitteri, come festeggerà il compleanno?

«Leggendo e rispondendo ai messaggini che penso arriveranno. E brinderò con un Sassella della Valtellina, mia patria d’origine. Con il morbo alle porte è consigliato festeggiare con prudenza».

Lei ce l’ha?

«Come si fa a non averne? Tutto il santo giorno ci ripetono che non bisogna abbassare la guardia. È un invito un po’ petulante. Ma qualche volta, a differenza del comunismo, il luogocomunismo ci salva».

L’ultimo libro di Ferdinando Camon s’intitola polemicamente A ottant’anni se non muori ti ammazzano. Lei come vive al tempo del Covid?

«Non sono stupito che i vecchi siano messi in disparte perché siamo immersi in una cultura giovanilistica. Camon, che è uno dei nostri maggiori scrittori, dotato di senso religioso, cita il pio Enea che si carica il padre sulle spalle e fugge da Troia. Spero di avere vicino persone pie come Enea, che mi accompagnino in questo passaggio non facile».

Come trascorre le giornate?

«Mi piace scrivere. L’ho sempre fatto e continuo a farlo: serve per mantenere il contatto con il mondo ed essere vitali».

Che cosa sta scrivendo adesso?

«Ho appena finito una sceneggiatura che vorrei intitolare La madre. Una storia vera. È il racconto di una donna durante la Resistenza in val d’Intelvi basato sui molti aneddoti che questa donna mi fece in diverse occasioni. Per esempio di quando nascose alcuni ebrei ai nazifascisti. Solo alla fine si scopre che è la mamma di Benedetto, come si chiamava Bettino Craxi».

Servono regista e produttore?

«Per diletto, qualche ripresa in Valtellina l’ho già fatta. Quanto al produttore, non sarà facilissimo trovarlo».

Le è piaciuto Hammamet di Gianni Amelio?

«Non mi ha convinto la sceneggiatura perché Bettino vi appare solitario e remissivo, mentre io lo ricordo lottatore fino all’ultimo. Era la sua natura: si dava da fare, scriveva, telefonava… Mi chiamava anche due, tre volte al giorno».

Fino a pochi giorni fa ha condiviso la direzione dell’Opinione con Arturo Diaconale…

«Per vent’anni io e Arturo abbiamo tenuto in piedi questa testata da grandi amici. Solo sul calcio, lui laziale io interista, la complicità s’interrompeva».

Chi sarà il nuovo direttore?

«Quién sabe? s’intitolava un western di Damiano Damiani».

Nella crisi più grave dal Dopoguerra abbiamo il peggior governo della storia repubblicana?

«Sì, uno dei peggiori. E non so fino a quando durerà. Per troppi anni si è inneggiato all’antipolitica e alla fine è andata al potere. I risultati li vediamo».

Che voto dà al governo delle quattro sinistre?

«Intanto sono tre perché i grillini sono di estrema destra».

Addirittura.

«Un’estrema destra peggiorata dall’opportunismo, come dimostrano i continui cambiamenti, e passata dal qualunquismo al giustizialismo combinato con lo statalismo, già condannato dalla storia».

Quanto al governo?

«Voto nettamente negativo».

Arriverà alla sufficienza con il rimpasto o lei consiglia di cambiare scuola?

«Rimpasto, verifica: parole della Prima repubblica. Solo che allora si facevano, oggi si chiacchiera. Meglio di tutto sarebbe andare a votare ma, salvo colpi di scena sul voto al Mes del 9 dicembre, oltre all’assenza della legge elettorale ci sono altri due ostacoli: l’emergenza Covid e il presidente Sergio Mattarella».

Ci vorrà qualche anno.

«Hanno voluto demagogicamente tagliare i parlamentari, promettendo che si sarebbe fatta subito la nuova legge elettorale ora che i collegi devono essere riscritti. Campa cavallo».

L’inadeguatezza di questo governo è un fatto generazionale o di scarsa cultura politica?

«Scarseggiano cultura e conoscenza della storia. Non solo perché non l’hanno vissuta in prima persona, ma perché si fermano alla superficialità dei social. Si illudono che le risposte siano nei tweet o nei post… Questa mancanza di approfondimento emerge ora che la situazione è drammatica».

Avendo avuto vita facile – niente guerre, fame, terrorismo – i quarantenni sono privi di attrezzature anticrisi?

«Temo di sì. In questo periodo un’altra parola magica è resilienza. Lei citava il terrorismo… Quando ancora questa parola non si usava, negli anni di piombo la tanto criticata Milano da bere è stata un’esperienza molto concreta di resilienza».

Le task force e le cabine di regia servono a cementare la poltrona di Conte?

«Conte usa una tecnica che presto mostrerà la sua mancanza di strategia e di weltanschauung, come dicono i tedeschi. È una tecnica basata su slogan vuoti, pensiamo agli Stati generali annunciati come una grande svolta e serviti a niente. I dpcm si susseguono per conquistare visibilità e centralità. Tanto più ora che il consenso cala. Le promesse esagerate diventeranno un boomerang. Quest’estate, invece di programmare con i pieni poteri servizi sanitari adeguati, dai tamponi ai vaccini antinfluenzali, ci si è cullati sull’illusione di essere un modello».

Alcuni protagonisti e sponsor del governo sono sfiorati da inchieste giudiziarie: Matteo Renzi, Beppe Grillo, lo stesso Conte. Meglio tenersi stretto il partito dei magistrati?

«Prendiamo atto che la magistratura ha fatto fuori diversi presidenti del consiglio: Giulio Andreotti, Craxi, Silvio Berlusconi, Renzi e ora tenta anche con Matteo Salvini. Gli esponenti dell’attuale governo dovrebbero riconoscere che cavalcando le istanze anticasta hanno prodotto un’altra casta, quella dei giudici. Si è parlato per anni della riforma della giustizia, dalla separazione delle carriere all’errore giudiziario, senza mai fare nulla. E ora c’è una casta che agisce sopra la politica».

Dopo le fibrillazioni sullo scostamento di bilancio, il centrodestra sembra tornato compatto. Durerà?

«Vivono nella bella confusione. Questo dimostra la necessità di figure come Gianni Letta e Renato Brunetta. Una volta vince il sì al Mes, un’altra il no. È una situazione a elastico».

Parlando di elastico, la ritrovata centralità di Silvio Berlusconi è già finita?

«Berlusconi mi sembra un Co co co, come quei lavoratori che sono assunti per modo di dire. Mettiamola sul piano linguistico: il centrodestra ha bisogno del centro, altrimenti perché si chiama così? Berlusconi è un uomo moderato e liberale, ma se non lo è davvero serve a poco. È anche l’uomo delle sorprese: vediamo cosa c’è nell’uovo, anche se non siamo a Pasqua».

Vuole proteggere le sue aziende o mira al Quirinale?

«Le aziende sono sangue del suo sangue perciò le difenderà fino alla morte. Si è molto arrabbiato quando la Lega non ha partecipato al voto in commissione sull’emendamento anti Vivendi».

Il Quirinale è una pia illusione?

«Una cosa non esclude l’altra. Servono intese molto vaste per le quali è indispensabile Letta, con la sua capacità felpata e un po’ andreottiana di trattare anche con il peggior nemico».

Chi sarà il candidato premier del centrodestra?

«Oggi il favorito sarebbe Salvini, ma dipende da quando si voterà. Anche nella Lega ci sono sfumature e tendenze. Non sottovaluterei Giorgia Meloni, che ha un sogno mica tanto nel cassetto di diventare la Thatcher italiana. Proprio il fatto di essere una donna potrebbe avvantaggiarla».

Che identikit farebbe del futuro candidato premier?

«Basta che sia l’opposto di Conte, cioè essere capace di prendere decisioni e fare i fatti».

Modello Craxi?

«In un certo senso, ma adeguato ai tempi».

Dovrebbe saper tenere a bada l’Unione europea?

«Certo. Noi furbi italiani siamo convinti che l’Europa sia un bancomat. Se alla fine dovesse darci le centinaia di miliardi di cui si parla, chi sarà in grado di gestirli?».

Servirebbe una forte leadership per la rinascita: nomi?

«Per la ricostruzione non basterà un Conte 3, 4 o 5. Serve il leader del nuovo Piano Marshall, ma di De Gasperi in giro non ne vedo. Forse non trascurerei Giorgetti, uno coerente e con idee precise. Anche se non si chiama Alcide».

Da ex sindaco di Milano qual è il suo giudizio su Beppe Sala?

«Gli darei un 6 meno meno. La sanità è di competenza regionale. Certo, ha un po’ la fissa delle piste ciclabili e dei monopattini che, anziché snellire, rischiano di complicare il traffico».

È appena stato varato un nuovo dpcm…

«Ho trovato meraviglioso il titolo del Manifesto: “Indovina chi non viene a cena”».

Lei avrebbe riaperto la scuola o i teatri e i cinema, i ristoranti e le palestre?

«Avrei riaperto i teatri e i cinema, dove il distanziamento è controllato e garantito. Ristoranti, scuole e palestre ancora no».

Qual è il ricordo più grande della sua vita politica?

«Ne ho due. La prima volta che incontrai Bettino, su invito di Carlo Tognoli. Ero uno studente universitario e non sapevo chi fosse Craxi, assessore all’Economato a Milano. Si alzò dalla scrivania e si avvicinò in tutta la sua statura: “Che cosa sai fare?”, mi chiese. “Il cinema. Per me il cinema è tutto”. Mi fulminò: “La politica è tutto”. Avevo vent’anni e fu un incontro indimenticabile. Così come non dimenticherò che il giorno in cui morì le prime due telefonate furono di Cristiana Muscardini, allora europarlamentare di An, e di Luigi Corbani, ex vicesindaco migliorista di Milano. Entrambi piangevano».

Che cosa le manca durante il lockdown?

«Andare nella mia Valtellina il fine settimana. Stare in casa nel weekend mi punge, ma rispetto le regole».

Si faccia un augurio per gli 80 anni.

«Di rivedere le due nipotine gemelle di quattro anni. Ora le vedo su Skype, ma aspetto di godermi presto la loro allegria, sana forma di ribellione al virus».

 

La Verità, 5 dicembre 2020