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«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Avendo visto tutti gli 8 episodi, ripubblico l’articolo, scritto in occasione dell’anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, su M – Il figlio del secolo, la serie di cui da venerdì 10 gennaio sono visibili su Sky i primi due capitoli. 

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.

Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.
Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

«Costruiamo il futuro, no alla società del controllo»

Caro Giordano Bruno Guerri, per cominciare le chiedo un piccolo sforzo di fantasia: oggi che consiglio darebbe Gabriele d’Annunzio a Giorgia Meloni?

«Se parlasse ai suoi tempi direbbe di rifare grande l’Italia. Ma non credo che oggi D’Annunzio spingerebbe il nazionalismo, semmai l’innovazione: perché è questo il modo per difendere la nazione».

Invece lei, uomo contemporaneo, come valuta i primi due mesi del nuovo governo?

«Due mesi sono pochi, eppure leggo già molti giudizi taglienti. All’inizio un governo, per di più nato nelle condizioni che sappiamo, si deve organizzare com’è capitato a tutti gli esecutivi. La mia prima sensazione è positiva, Giorgia Meloni mi sembra solida ed essenziale. D’altra parte ravviso la tendenza a un conservatorismo che non mi piace».

Dove lo vede?

«Per esempio, sulla scuola. Il merito è certamente un criterio da valorizzare, ma non vedo ancora gli strumenti per farlo. Oppure la legge sui rave party, intendiamoci, una legge necessaria, ma all’inizio stesa molto male. Gli esempi non mancano».

Se non ho capito male, è contento di non essere diventato ministro.

«Ha capito bene. L’avrei fatto per senso del dovere e gusto della sfida. Sarei entrato in un mondo che non ho mai frequentato se non marginalmente. Ma la mia vita ne sarebbe stata devastata, soprattutto perché avrei dovuto lasciare il Vittoriale».

Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani dal 2008, Giordano Bruno Guerri, scrittore, storico eminente e già direttore editoriale di marchi prestigiosi, è impegnato a rendere sempre più attraente e moderna la casa museo più visitata al mondo. Nell’anno che si sta chiudendo il Vittoriale ha superato i 260.000 visitatori, 19.000 in meno del 2019, anno record, ma 100.000 in più del 2021. Perciò si può dire che «si è messo alle spalle la crisi del Covid e la guerra e ora prepara nuove iniziative in occasione delle manifestazioni per Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura per il 2023 come GardaLo!, il primo festival culturale della sponda lombarda del lago di Garda».å

Oltre alla cura del Vittoriale, qual è la vita che da ministro sarebbe stata compromessa?

«Adesso, per fare un esempio concreto, sono all’estero con la mia famiglia…».

Come trascorrerà il Natale?

«Visiterò il Marocco. Ritengo sia un bene che i miei figli conoscano il mondo arabo. E poi mi depurerò dall’assalto di luci, presepi e babbi natale».

È una presa di distanza dal cristianesimo o dal consumismo?

«È un allontanamento dai riti e dalle abitudini di questo periodo, dalla finzione di armonia e dai pranzi eccessivi».

Tornando al governo, trova conferma l’idea che Meloni e il suo partito non dispongano di una valida classe dirigente?

«Credo che la classe dirigente la stiano preparando, ma non si forma né in un anno né in dieci. È un lavoro lungo e complesso, nel frattempo si opera con quello che c’è».

L’esecutivo ha perso compattezza sulla legge contro i rave party e sui temi economici?

«Credo ci sia una visione diversa fra i partiti della maggioranza che crea conflitti che si spera restino piccoli. Non vedo un difetto nel correggere alcune decisioni, ma la capacità di riconoscere gli errori e di porvi rimedio».

Un’altra obiezione della campagna elettorale riguardava il ritorno al potere del fascismo in caso di vittoria di Giorgia Meloni.

«Il fascismo è un fenomeno storico morto e sepolto. Credo che nessuno ai vertici di Fratelli d’Italia lo rimpianga. Piuttosto, ci potrebbe essere un ritorno al conservatorismo di Dio, patria e famiglia che non è una formula propria del fascismo, ma tipica anche dei governi democristiani. Personalmente penso che converrebbe puntare energie e risorse in altre direzioni».

Quali?

«Vigilerei sul dominio degli algoritmi e dell’economia digitale sulle persone. A questo proposito apprezzo il comportamento di Giorgia Meloni nei confronti dell’Europa. Che non è una chiusura pregiudiziale, ma la difesa del controllo nazionale di fronte alla pressione economica europea che spesso si configura come un secondo governo, potenzialmente schiacciante».

Con il movimento «Italiani liberi» fondato con l’antropologa Ida Magli avevate messo in guardia da questi pericoli.

«A metà anni Novanta denunciavamo la possibilità di una sopraffazione dei popoli in favore di un’omogeneità non realizzabile in tempi così brevi. Mi sembra che il governo Meloni stia muovendosi nella direzione giusta, collaborando con l’Unione europea ma, quando occorre, mantenendo una politica distinta come sulla gestione degli sbarchi e l’arrivo degli extracomunitari».

O come sull’adesione al Mes: si è detta pronta a firmare con il sangue la decisione di non prenderlo.

«Concordo nel merito della decisione, ma forse certe battute a effetto andrebbero evitate perché l’Europa non è spiritosa».

La cultura del politicamente corretto e l’avvento della pandemia hanno rafforzato la tendenza all’omologazione?

«La pandemia ha aperto un varco terribile all’estensione del controllo degli individui. La possibilità di chiudere tutti in casa, di dire a che ora uscire e a che ora rientrare è un precedente di gestione delle masse molto pericoloso. Se si verificasse una crisi economica di gravi proporzioni, chissà cosa potrebbe fare un governo per limitare l’indipendenza dei cittadini».

È il capitalismo della sorveglianza.

«Possiamo chiamarlo così ed è sempre più pressante. Non solo nella sorveglianza, ma anche nell’indirizzo del pensiero e dei comportamenti. Il politicamente corretto è già una componente e un risultato di questo indirizzo che non si limita al divieto di pronunciare la parola “negro”, ma tende a promuovere una forma di pensiero unico».

Qualcosa si è visto negli annunci di alcuni politici di vertice europei che si sono auto-investiti del compito di vigilare sul comportamento del governo italiano.

«Il pensiero unico avanza e si estende. Mi ha molto confortato sapere che in America alcuni intellettuali come Noam Chomsky stanno fondando nuove università per rompere questo accerchiamento».

L’emergenza sanitaria giustificava la richiesta di maggiore disciplina ai cittadini?

«Io non sono no vax e penso che la salute venga prima di tutto. Ma si è visto che si sono commessi degli errori e che la stretta dei governi italiani, al plurale, è stata inferiore solo a quella del governo cinese. Che ci siano stati eccessi è comunemente riconosciuto. È particolarmente grave che per proteggerci dal Covid si sia danneggiata la salute riguardo ad altre malattie più gravi, per esempio rinviando o cancellando gli esami preventivi per il cancro. Sembra sia stata un’esercitazione generale per un controllo strettissimo. Lo si vede anche oggi… La difesa a oltranza del pos e il rifiuto di alzare il tetto al contante potrebbero preludere a nuove forme di controllo».

Viviamo in una specie di distopia?

«Il timore è che questo sia l’inizio, non un episodio estemporaneo».

Ci vorrebbe un volo sopra Bruxelles come quello di D’Annunzio su Trieste?

«Non credo basterebbe. Probabilmente lo abbatterebbero».

L’accusa di ritorno al potere del fascismo è un’intimidazione preventiva prima che Meloni muova le sue pedine?

«Certamente. Il pericolo fascista viene usato come un manganello dalle sinistre. Che deve fare quella povera donna più che piangere durante la visita al museo ebraico di Roma?».

È stato un pianto un po’ tardivo?

«E quando doveva farlo, appena nata? Non mi sembra che abbia mai manifestato amore per il fascismo. C’è quella sua intervista a 16 anni… Ma lei si riconoscerebbe in ciò che pensava a 16 anni? È politicamente scorrettissimo rinfacciargliela, per altro da parte dei più strenui militanti del politicamente corretto».

È giusto che il nuovo governo estenda la sua influenza nei posti di comando o dovrebbe mostrarsi più liberale?

«A me sembra sia una cosa normale, sempre avvenuta e sia giusto che avvenga. L’esempio americano di spoil system è limpido e nessuno si scandalizza. Piuttosto dev’esserci attenzione affinché vengano scelti uomini di qualità perché se sostituisci un bravo avversario con un amico inetto ti giochi una fetta di credibilità».

Dopo decenni di egemonia culturale della sinistra è giusto puntare a una nuova mappa?

«Ho paura delle egemonie di sinistra come di quelle di destra. La cultura è un unicum in movimento e non ha colore… Non auspico che si passi dal rosso al nero, ma che si realizzi un processo di maturazione attraverso la scuola e nelle istituzioni, senza preoccuparsi di instaurare nuove egemonie».

Qualcuno osserva che Meloni è troppo timida, per esempio sulla Rai.

«Il governo è in carica da due mesi e sta affrontando la legge di bilancio e il Pnrr. Buttarsi sulla Rai sarebbe una mossa goffa e sbagliata. Credo sia una necessità da affrontare in un secondo momento, sempre se ci saranno gli uomini giusti per farlo».

Concorda con la decisione del ministro Giuseppe Valditara di vietare l’uso dei cellulari in classe?

«Certamente, il cellulare è uno strumento privato che permette attività che non c’entrano con il lavoro scolastico. Spero che verrà un momento in cui le classi saranno dotate di computer per favorire una didattica più adeguata e moderna. Una cosa è aiutare la ricerca, un’altra andare su TikTok. Finché non si potrà fornire tutti di i-pad è corretto proibire il cellulare. I miei figli li mando a scuola senza telefono senza che me lo dica il ministro».

Non legge Tolkien né Roger Scruton: che autore consiglierebbe a Meloni?

«Premetto che non detesto Tolkien, ma non ho interesse per Il Signore degli anelli. Personalmente trovo affascinante Yuval Noah Harari, l’autore di Homo Deus. Breve storia del futuro e 21 lezioni per il XXI secolo».

Vorrebbe maggiore attenzione alla contemporaneità?

«Auspico una classe dirigente più vigile e progettuale sul futuro. Per esempio, il problema della denatalità è gravissimo perché si rischia la scomparsa di un popolo e di una cultura. Giustamente ci vantiamo del made in Italy, ma quando non ci saranno più persone in grado di realizzarlo sparirà. Servono misure energiche per favorire la natalità, uno dei problemi principali del nostro Paese».

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo dice che nel 2070 ci saranno 11 milioni d’italiani in meno.

«Il cittadino comune se ne frega del 2070, ma è giusto che gli uomini di Stato si pongano questo problema come priorità assoluta. Progettare il futuro è il massimo compito della politica».

 

La Verità, 24 dicembre 2022