«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.
Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024