«Avere il mondo online ci rende più soli e deboli»
Roberto Marchesini non ha smesso di usare smartphone e tablet sebbene il suo ultimo saggio s’intitoli Smetto quando voglio (Il Timone). Tuttavia, comunicare con lui è un piccolo esercizio di disciplina. Cellulare staccato, si passa dalla posta elettronica. Il libro ha una parte dedicata «ai piccoli», un’altra ai «grandi». Nella prima si evidenziano i danni della dipendenza di bambini e adolescenti dagli smartphone, nella seconda gli esiti della manipolazione degli adulti attraverso l’uso dei big data, il «petrolio del terzo millennio». L’antidoto proposto dallo psicologo, psicoterapeuta e autore di importanti studi sulla sessualità e la teoria gender è non non partecipare alla «grande menzogna» sulla scorta di Aleksandr Solženicyn (Vivere senza menzogna, Mondadori, 1975).
Dottor Roberto Marchesini, vorrei iniziare questa riflessione partendo da lontano: la centralità conquistata dai dispositivi elettronici nelle nostre vite, soprattutto in quelle dei ragazzi, è causata dal venir meno dell’autorità del padre e dell’unità della famiglia?
«Indirettamente, credo di sì. È evidente che questi strumenti si sostituiscono alle relazioni “reali”, comprese quelle familiari. L’indebolirsi dei legami relazionali è insieme causa ed effetto della diffusione degli strumenti tecnologici. La stessa cosa potremmo dirla a proposito dell’autorità paterna: il suo indebolimento è insieme causa ed effetto della ricerca di autorità esterne alla famiglia. Ai miei tempi la generazione precedente veniva squalificata con il termine “matusa”, abbreviazione di Matusalemme, cioè vecchio bacucco; adesso si usa “boomer”, ma il significato è lo stesso. La tradizione familiare è inutile e squalificata; ciò che proviene da autorità esterne alla famiglia che comunicano con i nostri figli tramite il web è buono e giusto».
La reazione istintiva alla lettura del suo libro è buttiamo gli smartphone, vietiamoli ai minori, limitiamoli. È uno scenario un po’ apocalittico?
«Sì, lo è. Credo che siamo nel mezzo di una rivoluzione antropologica e non ce ne rendiamo conto. Tuttavia, sono allergico a divieti e imposizioni: sarebbe meglio se ci liberassimo di televisori e smartphone volontariamente, con una vita ricca e soddisfacente e poco tempo trascorso chini su uno schermo».
Una scelta molto drastica. Sembra di capire che ci siano due tipi di dipendenza: quella emotiva, legata ai like, e quella funzionale, legata all’accesso a un numero crescente di servizi.
«Sì, anche se la prima coinvolge anche gli adulti. Questo è un altro motivo per cui è impensabile “vietare gli smartphone”: sarebbe come vietare la cocaina dopo aver creato la dipendenza. Converrebbe volgere lo sguardo su cosa ci rende così sensibili a luci, colori, like eccetera. Questa è la vera questione, a cui i dispositivi offrono solo una soluzione. La contraddizione della nostra società è che tratta il sintomo non come una soluzione, ma come un problema; così il problema persiste e si espande».
Che cosa risponde a chi sostiene che gli strumenti sono neutri e che tutto dipende da come li si usano?
«Questa è un’idea molto radicata, purtroppo. Capisco che uno dei problemi legati all’uso degli schermi sia quello dei contenuti (pornografia, violenza…); tuttavia, pur essendo importante, è il problema minore. Come diceva Marshall McLuhan, il mezzo è il messaggio. La rivoluzione antropologica è dovuta all’uso di questi strumenti a prescindere dai contenuti. È lo smartphone che sta riducendo la capacità di attenzione e concentrazione dei ragazzi, che li rende sempre più soli e fragili, non i contenuti».
In due parole qual è la filosofia di vita che esprimono gli smartphone?
«Due parole e una terza tra parentesi: edonismo e dipendenza (affettiva)».
Le manifestazioni di questa dipendenza sono l’ansia, l’irritabilità, la depressione dei nostri ragazzi?
«Per quanto riguarda l’ansia, penso che il discorso sia più ampio. Invece, credo che irritabilità e depressione siano strettamente legate all’uso degli schermi. Ci sono vari nomi per definire questo legame, per esempio “nomophobia”, cioè la paura di “non esserci” se si esaurisce il credito, si scarica la batteria o si perde lo smartphone».
È a causa dell’avere subito il mondo a disposizione tramite il cellulare che quella dell’iPhone è diventata «la generazione fiocchi di neve»?
«Anche. A questa fragilità, secondo me, contribuisce anche un distacco dal mondo reale, ossia relazioni, amicizie, contatto fisico con altre persone, la percezione del proprio corpo e dei propri limiti, compresi il dolore e la fatica. Le ultime generazioni non prendono freddo, non sanno cosa significhi avere un calo di zuccheri per lo sforzo, lavorare legno e metalli, fare una battaglia con le palle di neve, sbucciarsi le ginocchia… Vivono sotto una campana di vetro, la quale dà sicurezza alle mamme, ma insicurezza ai figli».
Anche l’isteria apocalittica di certe rivendicazioni per cui la fine del mondo è domani mattina potrebbe essere influenzata da queste dipendenze?
«L’antropologo Gustave Le Bon vedeva la società come una massa indistinta, un gregge, non come un insieme di esseri razionali in relazione tra loro. Un gregge non segue la ragione, ma le passioni, in particolare il desiderio e la paura. La paura è sempre stato un potente strumento di controllo della popolazione intesa come gregge. Noi viviamo un’esistenza costantemente guidata dalla paura: paura di guerre, malattie, nemici mostruosi, del collasso del pianeta, della povertà… Ovviamente, il controllo mediante la paura ha come presupposto che le persone acconsentano di considerarsi gregge».
Perché il ricorso agli smartphone riduce il linguaggio, la memoria e la fantasia…?
«Per il fatto che, se abbiamo uno strumento che fa fatica al nostro posto, noi perdiamo la capacità di fare quel lavoro».
I nostri figli nativi digitali rischiano di essere meno intelligenti di noi?
«Non è un rischio: è la realtà. Lo psicologo James Flynn si è accorto che, nel corso dei decenni, il punteggio del QI dei diciottenni sottoposti alla visita di leva cresceva costantemente. Questo fenomeno è stato chiamato “effetto Flynn”. Bene: dagli anni Novanta del secolo scorso assistiamo a un “effetto Flynn inverso”: le nuove generazioni hanno punteggi QI sempre più bassi rispetto alle generazioni precedenti».
Molti replicano che limitare l’uso dello smartphone produce isolamento: mio figlio si sentirebbe tagliato fuori mentre tutti chattano.
«Sono obiezioni sensate. Invito a costruire relazioni con persone che condividano la prudenza nei confronti di questi strumenti, in modo da non sentirsi fuori dal mondo».
In futuro avremo un mondo di single, con livelli di natalità tendenti allo zero?
«Inevitabile. Non sono un esperto, ma mi pare che in tutti i paesi occidentali il punto di non ritorno verso l’estinzione sia già passato da un pezzo. Aggiungiamo che, anche volendo e potendo, la situazione demografica è destinata a calare perché stiamo diventando sterili. Oltre al QI, come se non bastasse, sta calando anche il livello di testosterone».
Citando Il mondo nuovo di Adolf Huxley lei osserva che la popolazione viene controllata e indirizzata attraverso la diffusione di distrazioni e piaceri. Qualcuno potrebbe obiettare: che cosa c’è di male in questo?
«Assolutamente nulla. Ognuno faccia quello che gli pare e piace. Personalmente, a me non va di essere controllato e indirizzato».
Che riflessione ha indotto in lei l’esperienza della tribù amazzonica dei Marubo, divenuti pigri, apatici e dimentichi delle loro tradizioni dopo che, grazie a Starlink e agli smartphone, hanno scoperto il Web?
«Benvenuti nella modernità».
Dire che, con le debite proporzioni, ai giovani occidentali sta succedendo qualcosa di simile a quanto accaduto ai Marubo è troppo apocalittico?
«No, credo sia realistico. Però, attenzione, è stato un fenomeno graduale, non è avvenuto dalla notte alla mattina. Ciò significa che ne siamo coinvolti, anche se in modo diverso e in misura inferiore, anche noi adulti».
I quali si avvedono dei rischi della profilazione cui sono sottoposti tramite Spid, identità digitali, punteggi e crediti sociali?
«Assolutamente no, per questo dico che questo fenomeno coinvolge tutti. La risposta più frequente che danno a questi argomenti è: “Non ho niente da nascondere”. Innanzitutto, tutti abbiamo qualcosa da nascondere; il punto è che, non contando nulla, le nostre informazioni individuali non sono interessanti. Poi: a nessuno, a meno che non si tratti di persone con responsabilità e poteri decisionali, interessano le informazioni personali, ma i “big data”, cioè i miliardi di informazioni che collettivamente riversiamo sul Web e che servono per la profilazione e l’influenza, come il caso Cambridge Analytica insegna. Infine: come mai siamo così ossessionati dalla privacy e mettiamo praticamente tutta la nostra vita interiore ed esteriore in Rete?».
La pandemia è stata la prova generale di questa sorveglianza interessata delle élite sulla popolazione?
«Certo. Ho dovuto giustificare i miei spostamenti sul suolo italiano che è anche mio essendo l’Italia una res publica. È un comportamento richiesto solo nelle cosiddette dittature e nei periodi di legge marziale. Ma ormai è la quotidianità… Google maps, per esempio, tiene la cronologia di tutti i nostri spostamenti; ogni pagina che visitiamo sul Web viene registrata e immagazzinata».
La Chiesa ha capito che cos’è in gioco?
«Diciamo che la Chiesa, a quanto pare, si occupa di altro: migranti, gay, trans, emergenza climatica».
Il cardinal Gianfranco Ravasi ha 122.000 follower su X, postando dai salmi a frasi dei testi delle canzoni di Sanremo. La Chiesa gioca la partita della contemporaneità?
«Purtroppo, sì. Un sacerdote youtuber, in un suo video, ha detto: “Dobbiamo comunicare cose eterne con un linguaggio moderno”. Il problema è che il linguaggio moderno è fatto apposta perché sia impossibile comunicare cose eterne. Insomma, la Chiesa crede di riuscire a cavalcare la tigre, dimenticando che il mezzo è il messaggio».
Come si fa a buttare solo l’acqua sporca e salvare la tecnologia che facilita la vita quotidiana?
«Non si può. Non si può vivere senza sporcarsi, senza ammalarsi, senza invecchiare, senza sbagliare. Non si può uscire dal mondo. Però si può essere nel mondo senza essere del mondo. Giovanni Guareschi ce l’ha insegnato: in fondo, siamo sempre liberi, in qualsiasi situazione».
La Verità, 4 gennaio 2024