Articoli

«Quell’accento sul mio nome è introvabile»

Piero un po’ mi rovina la carriera. Sa com’è… “Ah, lei è la mamma di Chiambretti…”, e addio poesia. Insomma, la mamma prevale sulla poetessa e la prosa sulla poesia. Devo rassegnarmi». Ci riesce?

«Devo farlo: lui è anche il mio editore», scherza ma non troppo la signora Felicita Chiambretti, alla quinta raccolta di poesie appena approdata in libreria. Si intitolano Farfalle di verso, con la numerazione successiva dei volumi. Libriccini raffinati, poesie brevi, un po’ ermetiche. Elegante poetessa, la mamma di Chiambretti è una signora pronta alla battuta ma fiera della propria indipendenza. Mi riceve nella sua casa di Torino, dove vive in compagnia di una festosa Chihuahua, di nome Minni.

Il suo nome, signora, invece da dove viene?

«Ce l’aveva una mia zia, sorella di mio padre».

Chi erano i suoi genitori?

«Mia mamma si chiamava Natalina e faceva l’infermiera. Mio padre, Giovanni, lavorava nell’industria meccanica».

Sorelle, fratelli?

«Due sorelle, una è ancora viva. Ero la primogenita».

Felicita era un augurio senza l’accento?

«A volte mi chiamavano Feli, però io insistevo per il nome completo, perché annuncia qualcosa che va oltre».

Com’era il rapporto con i suoi genitori?

«Non andavamo d’accordo. M’incolpavano sempre di qualcosa, ero convinta che non mi amassero».

Addirittura.

«Sì, quest’idea si è radicata in me fino a determinare una rottura».

Il rapporto si è ricomposto quando è diventata adulta?

«Non proprio. Fino a quasi 20 anni ho vissuto ad Asmara, poi sono venuta in Italia. Loro sono rimasti lì, con le mie sorelle».

Fino a vent’anni sempre con loro?

«In prima media ho voluto andare in collegio perché non stavo bene. Erano poco affettuosi, non ricordo che mi prendessero in braccio o mi premiassero per qualche buona azione. Dalle suore mi trovavo bene, anche loro erano severe, però il giusto».

Che suore erano?

«Comboniane, la casa madre è a san Pietro in Cariano, vicino a Verona, ogni tanto ci andavo a trovare suor Giandomenica».

Anche da loro ha deciso di staccarsi?

«Sono venuta in Italia da sola, a 19 anni. Ero incinta. Mi hanno mandato qui e io ci sono venuta volentieri. Sono andata ad Aosta, dalla nonna materna che viveva con la zia».

Che lavoro faceva?

«Ero segretaria all’Alleanza assicurazioni a Moncalieri. Prima giravo le filiali, poi mi sono stabilita a Torino».

Com’è cresciuto Piero?

«Viveva con me. Stavamo bene insieme. Quando è morta la zia, la nonna è venuta con noi e si prendeva cura di lui. Per me era tutto, anch’io ero una mamma severa».

Che figlio era?

«Era andato a Londra, poi sulle navi da crociera teneva degli spettacoli. Aveva fatto il Dams a Bologna, non era certo studioso. Diceva che la sua mente anticipava quello che stava per dire il professore. Era indisciplinato, con quell’ironia che ha anche adesso nel suo lavoro».

Quando ha scoperto la poesia?

«Già da giovane leggevo gli scrittori inglesi del Settecento, mi piaceva molto John Keats. Poi mi sono avvicinata agli americani del Novecento».

Tra gli italiani?

«Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo di Ed è subito sera».

Quando ha ha iniziato a scrivere?

«Quando sono andata in pensione non potevo restarmene inattiva. Ho pensato di riprendere la poesia, di studiarla… Scrivo perché mi leggano, ma è soprattutto una catarsi personale, per quello che tiro fuori da me stessa. Adesso ci aiuta anche l’editore Franco Cesati di Firenze. Il guadagno non è per me, ma per gli ospedali e le onlus. Quelli che hanno letto i miei libri, anche i critici, dicono che sono molto belli».

La destinazione dei fondi la decide prima o dopo aver composto le sue liriche?

«La decido alla fine. Mi faccio consigliare da persone di cui mi fido. Ho aiutato la ricerca sul cancro e dei centri ospedalieri».

Chi è Antonello cui dedica questo quinto volume?

«Un carissimo amico, un filosofo, figlio di Tony De Vita. Ci siamo conosciuti a dei corsi di buddismo, ha scritto tutte le prefazioni».

Dell’ultima ho capito quasi niente.

«È un professore di lettere molto bravo».

Un filo astratto?

«Ha una mente libera. Quest’ultimo libro è più difficile e più introspettivo degli altri. Riflette il periodo complicato dal quale sono uscita, un anno di malattia, a letto, quasi senza mangiare».

Ha sofferto di depressione?

«No, è cominciato tutto una sera che sono andata alla trasmissione di Piero. Ricordo che c’era ospite Fabrizio Corona. Mi sono sentita male, forse è stata un’ischemia… un embolo mi ha fatto perdere anche l’udito da un orecchio».

Perché non mangiava più?

«Non avevo fame, soffrivo allo stomaco. Mangiavo un po’ di mandorle, anche bere bevevo poco. Mi sono fatta visitare da un oncologo… Invece, il cardiologo mi ha rimproverato perché non l’ho consultato, ha detto che mi avrebbe fatto delle flebo, ma io non volevo che mi portassero in ospedale. Stavo sempre a letto».

Poi che cos’è successo?

«Non so. Abbiamo seguito una terapia omeopatica a base di erbe, niente di chimico. Poco alla volta ho ripreso a mangiare e ho cominciato a stare meglio».

Le poesie risentono di questa esperienza? Nella dedica a De Vita scrive che è giunta con lui «ad amar l’oscurità».

«Lui è più saturnino io sono più solare. Queste poesie sono difficili anche a livello filosofico e religioso. È stata un’esperienza drammatica, non amavo più nessuno, sentivo la morte vicina. Ancora adesso non sto bene del tutto, porto un pacemaker, ho problemi alla spina dorsale. Ma mi sento protetta dall’alto…».

In che modo?

«Credo in qualcosa che è oltre noi. Una realtà trascendente, non mi chieda se è il Dio cristiano, musulmano o ebraico. Ho avuto una vita strana, in questi mesi ho pensato tanto alla morte. Volevo andare sottoterra, ma ora ho deciso che mi farò cremare».

In «Misteriosamente me stessa» scrive di non avere certezze di chi sia veramente e accenna a «fiocchi di neve» intravisti nella camera oscura.

«Sono risonanze interiori, sentimenti ancestrali. Dopo una malattia così, tante convinzioni si sono smarrite. È come se l’anima si fosse svuotata. Incombe la paura».

In un’altra poesia parla di un passato incompatibile rispetto al presente segnato da «abiure di amici dal cuore ingannevole». Ha avuto delusioni da persone care?

«Ho allontanato tante persone che trovavo ingannevoli. Mi parlavano in un modo e si comportavano in un altro. Non sono una che si autocommisera. Anche quando io e il padre di Piero ci siamo lasciati non ho pianto. È che non accetto le ipocrisie. Vedevo persone non trasparenti, così mi sono tolta il sovrappeso».

Un’altra citazione: «Non riesco a spiegarmi per quale motivo il fuoco sia più potente dello spirito che si è dichiarato onnipotente».

«Il fuoco è l’inferno che è più potente dello spirito».

Vince l’inferno?

«Magari in me. C’è un senso di disperazione, la paura della fine. Lo scrive anche De Vita nella prefazione: “Come ogni realtà terminale acquista coscienza quando un decorso arriva alla fine”».

Sono poesie percorse dalla disillusione?

«È un libro che rispecchia un momento triste. Non sono tutte pessimiste anche se c’è sempre una vena di malinconia».

Quando scrive?

«Di notte, anche fino alle 5. Poi vado a dormire».

Che cosa le dà il buddismo?

«Dice che la sofferenza dev’essere eliminata. Mi aiuta a non attaccarmi ai desideri e ai beni materiali, al denaro. Perché si può perdere tutto».

Quando Piero iniziò ad aver successo e lei lo mise in guardia dicendo che il padre avrebbe potuto farsi vivo, lui come le rispose?

«Disse: “Io non conosco nessuno, ho una madre che mi ha fatto anche da padre”».

Il padre era ad Asmara?

«Sì. Lavorava all’università Cattolica. Non si è più fatto vivo, ma nemmeno io con lui».

Che cosa le piace di più dei programmi di suo figlio?

«Piero è un professionista. So quanto si impegna e quanto ci mette, anche a casa lavora, scrive. Se uno dà uno sguardo ai palinsesti, scappa. Io guardo solo Piero. Mi piace molto lo studio, la scenografia mobile. Oggi è peggiorato tutto, è scaduta anche la lingua italiana, l’informatica uniforma tutto».

E cosa le piace di meno?

«Qualche volta scappa la parolina, ma non è così grave. È l’insieme che conta. Piero è un professionista, potrebbe insegnare tv».

Fra tutti i suoi programmi qual è il suo preferito?

«Il Laureato mi piaceva molto, quando faceva le interviste… E anche Markette».

Da donna indipendente che cosa pensa del femminismo?

«Per alcune battaglie è stato importante. Abbiamo vissuto sempre sotto il potere dell’uomo e ancora adesso non abbiamo ottenuto la piena parità nelle professioni e negli stipendi».

Condivide tutte le azioni delle donne?

«Salvo quando eccedono e diventano maschi. Gli eccessi non vanno mai bene. Oggi non ci sono più le femministe, sostituite da tutte quelle sigle complicate che neanche si capiscono. Le donne devono conquistare ancora degli spazi, ma ci vuole equilibrio, altrimenti si rischia di peggiorare».

Che cosa le suscita il Natale?

«Una certa malinconia. Per me si fa troppa festa, il consumismo rischia di cancellare il senso del sacro dalla nostra vita. Lo dico da credente non praticante».

Perché malinconia?

«Al pensiero che ci sono tante persone anziane come me, sole».

Mentre lei è fortunata e devolve l’incasso dei libri a chi ha più bisogno.

«Certo, ma si vorrebbe fare di più».

Con chi lo trascorre il Natale?

«Con Piero, la nipotina, mia sorella e sua figlia. Poche persone, ci scambiamo i regali. Pranziamo insieme, quasi sempre a casa di Piero».

Prepara lui il pranzo?

«Piero? A malapena sa farsi il caffè, è sempre vissuto in giro. A volte andiamo in uno dei suoi ristoranti…».

Una volta Piero mi ha detto che la felicità è un’idea inventata dalla Chiesa, concorda?

«Io dico che non esiste, non esiste in questo mondo».

È difficile aggiungere l’accento al suo nome?

«Non c’è e non ci può essere. Mi basta Felicita».

 

La Verità, 22 dicembre 2019

«Leonardo oggi non starebbe sui social»

Donnaiolo, omosessuale, poliziotto, pugile, professore, commissario e, dal 2 ottobre, Leonardo Da Vinci. Sono alcuni dei ruoli interpretati da Luca Argentero, 41enne torinese, laureato in economia, assurto a notorietà pop con la partecipazione al Grande Fratello del 2003. Chi l’avrebbe detto che un ragazzo di buona famiglia, padre della borghesia piemontese e madre siciliana di estrazione proletaria, sarebbe diventato uno degli attori più eclettici della scena italiana? E che uno così, sempre misurato e attento alle parole, sarebbe finito nell’occhio di una polemica su femminismo e romanticismo? Questo, in realtà, qualcuno poteva dirlo, considerato il conformismo dilagante che Bret Easton Ellis chiama «totalitarismo dei buoni». Ma tant’è. Nella homepage del sito di Argentero si legge: «Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che tu incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei. Quindi: vivi come credi. Fai cosa ti dice il cuore», parola di sir Charlie Chaplin.

Nel giro di pochi giorni vedremo Argentero nei panni di Leonardo Da Vinci, in quelli di un commissario di polizia e in quelli di sé stesso, narratore a teatro delle vite di tre grandi sportivi. Il progetto futuro più importante, però, è il matrimonio con Cristina Marino, la ragazza di cui si proclama «follemente innamorato». Auguri.

Cominciamo da Io, Leonardo, produzione SkyArte e distribuzione Lucky Red. Protagonista del docufilm è la mente di uno dei più grandi geni della storia. Che cos’è l’incoscienza?

«Accettare un ruolo del genere, un’incoscienza compensata dalla qualità e dall’esperienza di SkyArte nella produzione di questo genere di film. A pensarci bene, un certo grado di azzardo c’è interpretando qualsiasi personaggio. Questo è un prodotto diverso, con elementi di storia e di arte, trattati con il linguaggio della fiction e del documentario. In passato il pubblico ha mostrato di apprezzare questo tipo di racconto. Sono fiducioso».

Come si entra nella mente di Leonardo?

«Studiando, provando a capire chi erano i suoi genitori, com’è cresciuto, com’è diventato quell’uomo lì. Sono le domande che si pone la sceneggiatura che indaga non solo il genio, la vita e le opere, ma tutta l’umanità del protagonista, con i momenti di fragilità e gli incidenti di una persona normale».

Per esempio?

«Il rapporto con il padre, che non gli ha mai detto “ti voglio bene”, e neanche “bravo” in occasione dei primi successi, perché non riconosceva le doti del figlio. La mancanza di una madre, che non ha mai potuto frequentare. Insomma, una giovinezza non proprio felice, che lo ha condizionato per il resto dell’esistenza».

Per indossare i panni del medico ha frequentato un ospedale, per interpretare Tiberio Mitri ha lavorato duro in palestra… Come ci si prepara a essere Leonardo Da Vinci?

«Oltre ai miei approfondimenti, ci ha pensato il regista a fornirmi la documentazione necessaria. Ho lavorato gomito a gomito con Jesus Garces Lambert, un regista di grande sensibilità teatrale che mi ha aiutato a immedesimarmi nel corpo di Leonardo. Infine, c’è stato il lavoro di gruppo con tutto il cast».

Qual è la contemporaneità di Leonardo?

«Forse un invito a rallentare per andare in profondità, un invito a frenare la velocità di questo mondo digitale. Leonardo s’interrogava su tutto e rifuggiva la superficialità. Oggi siamo abituati al mordi e fuggi dei social, ai 140 caratteri di Twitter che, più o meno, corrispondono al titolo di un articolo. Leonardo ci insegna a leggere l’articolo per intero. A chi lo accusava di essere lento rispondeva che non si può mettere fretta a un lavoro fatto bene».

Al cinema questo film sarà un evento speciale come Caravaggio – l’anima e il sangue e Michelangelo – Infinito prima di andare in onda su SkyArte?

«Stavolta la scommessa è restare in sala finché ne avrà la forza».

Si è affermato con un reality show, poi ha recitato nelle serie e nella commedia al cinema: che cosa aggiunge un film d’arte al suo curriculum?

«Sono abbastanza pragmatico. Se sei un buon professionista il lavoro porta lavoro, magari con lo stesso regista che ti ha già apprezzato. Da un set non mi aspetto mai nulla. Quando un film esce al cinema sei già sbilanciato su altri progetti per il fatto che passa molto tempo da quando cominci a lavorarci. Sono molto curioso di vedere se piace».

Una settimana dopo l’uscita di Io, Leonardo, arriverà anche Brave ragazze: che storia è?

«È un film tratto da una storia vera accaduta in Francia negli anni Ottanta. Quattro ragazze che conducono una vita precaria decidono di svoltare rapinando una banca. Per farlo, si travestono da uomini. La cosa funziona e, una alla volta, le banche diventano una decina. Proprio il travestimento le rende imprendibili, finché… Io interpreto il commissario che indaga su questi furti».

In novembre, invece, ripartirà la tournée a teatro di È questa la vita che sognavo da bambino, tre storie di uomini di sport. Walter Bonatti e Alberto Tomba si possono capire, Luisin Malabrocca, la prima maglia nera al Giro d’Italia invece è una scelta bizzarra.

«Non volevo raccontare tre vincenti tradizionali, ma tre modi di intendere la vita e lo sport, qualcosa che ha contribuito alla mia formazione personale. Luisin Malabrocca aveva capito che si può vincere anche senza arrivare sul gradino più alto. Visibilità, premi… Era uno dei migliori passisti del Giro, ma un perdente consapevole che si era accorto di guadagnare di più arrivando ultimo anziché sesto o settimo. In un certo senso, è stato l’inventore del marketing nello sport».

Che discipline ha praticato?

«Il tennis, non con i risultati cui ambivo. In montagna e nello sci invece sono bravino».

Dopo l’ultimo mondiale vinto si è detto che Federica Pellegrini è la più grande atleta italiana di tutti i tempi: per lei?

«Per me come Tomba non c’è nessuno».

Federer o Nadal?

«Federer».

In Italia, Fognini o Berrettini?

«Fognini. Chissenefrega delle intemperanze, un talento cristallino».

Nel calcio, Pelé o Maradona?

«Pelé. Di Maradona non ho condiviso alcune scelte personali».

Garrone o Sorrentino, anche se non sono sportivi?

«Molto difficile scegliere… Da spettatore direi Garrone».

Che cos’è l’eclettismo per lei?

«Più che cambiare ruoli, affrontare più generi, passare dal dramma alla commedia, dalla farsa del film di Natale ad uno storico o d’autore».

Che cos’è il Caffè onlus?

«Un’iniziativa di solidarietà realizzata con alcuni amici dell’università che riprende la tradizione del caffè sospeso napoletano: chi beve un caffè ne paga uno per il cliente successivo, senza sapere chi sarà. Un piccolo gesto di generosità. Ogni settimana scegliamo una onlus diversa da promuovere attraverso la comunicazione dei nostri canali grazie al dono del valore di un caffè».

Le piace la figura dell’attore impegnato o militante?

«Dipende dal tipo di messaggio. La politica non sempre si sposa con l’arte. Personalmente, scelgo di non parlare di politica per non influenzare i ragazzi attraverso parole che possono essere imprudenti. Preferisco che si facciano un’opinione documentandosi sull’attività di chi politica la fa davvero. Se invece parliamo di solidarietà, credo si possa trovare l’occasione per veicolare un messaggio positivo».

Ha condiviso la dedica di Luca Marinelli alle ong della Coppa Volpi?

«Se lui si sentiva, ha fatto bene a farlo. Era il suo spazio e ha espresso il suo pensiero».

Vorrei farle i complimenti per l’intervista a Gq in cui diceva che ci tiene a essere il maschio della coppia e a difendere una certa galanteria dell’uomo.

«Forse i complimenti sono troppo. Sono stato frainteso e, forse, ero realmente fraintendibile. Mi sono già scusato più volte per aver utilizzato in modo improprio alcuni termini».

Per esempio?

«Dicendo che la mia fidanzata è poco femminista non volevo essere irrispettoso nei confronti delle lotte delle donne. Volevo sottolineare che, pur essendo un’ottima imprenditrice, allo stesso tempo le fa piacere prendersi cura di me. Mi spiace se una parte delle donne si è sentita offesa, io non volevo criticare il femminismo, un termine che forse ho usato in modo improprio, ma solo raccontare ciò che amo della donna che è al mio fianco».

Le donne possono non essere femministe?

«Mi astengo da ogni altro commento».

Quanto pensa la stia aiutando avere alle spalle una famiglia tradizionale?

«Moltissimo, non smetto di ringraziare i miei genitori. Anche oggi, se ho un problema, può capitarmi di chiamare mio padre per un suggerimento. Ritengo sia un privilegio poterlo fare».

Parlando dei suoi genitori e del suo lavoro, pensa che la loro diversa estrazione l’abbia aiutata a interpretare ruoli molto differenti tra loro?

«Mi stupisco da solo del paniere di ruoli impersonati. È un viaggio davvero ricco, non so se sia retaggio familiare, del fatto di essere cresciuto in una famiglia nella quale si parlavano dialetti reciprocamente incomprensibili. Questo, forse, mi aiuta negli accenti e nelle parlate. Spero che la varietà interpretativa sia anche merito di una certa affidabilità, della professionalità con la quale rispondo alle opportunità che mi vengono offerte e al rispetto del lavoro degli altri».

È questa la vita che sognava da bambino?

«È molto meglio. Non ricordo esattamente quale vita sognassi, ma quella che faccio mi piace molto».

 

La Verità, 29 settembre 2019

«Racconto donne anarchiche oltre i cliché»

S’intitola femm., scritto senza maiuscole e con il punto abbreviativo, il nuovo libro di Paola Rivolta che si presenta come una grande alternativa. Questa: la possibilità di parlare di donne senza appiattirsi sull’ideologia, senza doversi necessariamente schierare con gli uomini che odiano le donne o viceversa. Un libro rarefatto e profondo, con una copertina minimal, controcorrente anche nella scelta narrativa, diciotto racconti brevi che hanno per protagoniste figure femminili del presente e del passato, donne controverse, malinconiche, prevalentemente sole, tutte figure di fantasia con la sola eccezione di quella del primo ritratto, autobiografico. Paola Rivolta, dunque: nata a Milano 62 anni fa, già autrice di Scarfiotti. Dalla Fiat a Rossfeld (Liberilibri come femm.), madre di due figlie, residente a Potenza Picena.

Come mai è finita sulle colline marchigiane?

«È stata una scelta di vita e d’amore. Qui avevamo una casa di famiglia dove venivo d’estate fin da ragazza. Poi mi sono innamorata di un uomo di queste parti. Non mi sono mai sentita una vera cittadina, anche se ho vissuto pienamente gli anni Settanta milanesi, facendo politica da cane sciolto».

Cioè?

«Alle superiori davo fastidio sia a sinistra che a destra. Ero tendenzialmente anarchica e recalcitrante alle regole. Stavo ormai finendo il liceo, quando qualcuno mi disse che certi studenti di prima e seconda venivano a scuola con la curiosità di vedere cosa m’inventavo fuori dalle lezioni».

Dopo i Settanta?

«Siccome sembravo portata per le materie letterarie e artistiche mi sono laureata in agraria, facendo la pendolare dalle Marche. Niente di più lontano dallo scrivere di oggi. Poi ho avuto la fortuna di trovare lavoro in un grande allevamento di cavalli da corsa, qui, nella valle dell’Asola. Pensavo che avrei fatto l’agronomo, invece il primo giorno, prima di partire per i campionati europei, il capitano Ermanno Mori mi mostrò un grande casolare: “Voglio creare un grande museo del cavallo, ci pensi. Quando torno, tra una settimana, ne parliamo”. C’erano libri, fotografie, stampe, dipinti».

Era cominciato l’avvicinamento alla scrittura?

«In un certo senso sì, una scrittura applicata al mondo dell’ippica nel quale m’immersi. Era una scuderia all’avanguardia, ci venivano allevatori dal Nord Europa. C’erano decine di puledri, le competizioni, io aiutavo i cavalli e i padroni problematici… Sa, spesso sono i padroni che complicano la vita agli animali. Sono stati anni splendidi, ma dopo la morte del titolare, tutto si è ridimensionato».

Tornare a Milano?

«Mai pensato, la mia casa si affaccia sulla campagna, ho il mare vicino, amo questi odori. E ora ho più tempo per scrivere».

femm. per cosa sta esattamente? Femmine, femminile, femminista?

«Sta per femmine e io sono una femminista, ma il libro non è portatore di messaggi. Non credo che la letteratura – forse sarebbe meglio dire narrativa o scrittura – serva a diffondere messaggi. È un libro femminista perché dà voce alle donne, ma non lo è nel senso politico del termine».

Non crede che proprio la possibilità di parlare di donne in modo non ideologico sia il pregio maggiore del libro?

«È una scelta. L’ideologia non appartiene alla narrativa. I miei racconti lasciano molto di non detto. Al centro ci sono individui, persone, quasi a prescindere dal fatto che siano donne. Il libro precedente era molto maschile, questo ha per protagoniste figure femminili, ma credo possa interessare molto anche gli uomini. Personalmente, non credo alle differenze tra scrittura maschile e femminile».

Perché in queste donne ritorna un senso di malinconia e solitudine?

«La parola giusta credo sia incompiutezza. La mia esperienza è questa, non vedo tanti cavalieri senza macchia e senza paura, avvolti nella piena e costante felicità. Anche le persone di successo vivono alti e bassi».

Sono storie irregolari, anarchiche come lei da giovane?

«Sono donne normali, persone fragili, attraversate da dubbi e debolezze».

Anche donne che sbagliano, peccatrici: si può dire?

«Si può, non esistono termini vietati, ognuno è responsabile delle parole che usa. Personalmente, non do un giudizio morale. Quando l’editore ha letto i primi racconti e mi ha chiesto di scriverne altri mi ha detto che lo affascinavano proprio per la loro amoralità. Non voglio salire su un piedistallo, credo che la letteratura debba affiancare i suoi personaggi, non giudicarli. Peccatrici, perché c’è una donna killer? Fa il suo mestiere, con le sue titubanze».

Almeno quelle. Peccatrici, in alcuni casi, per mancanza di consapevolezza del potere che esercitano sugli uomini.

«Sicuramente non sono eroine».

Come descriverebbe la differenza tra femminilità e femminismo?

«La femminilità è qualcosa che attiene alle femmine, il femminismo è il tentativo di affermare una visione del mondo ancora lontana dalla società in cui viviamo, nella quale le donne sono spesso penalizzate. È un progetto di cambiamento per il quale combattere. Il mio libro non combatte, ma racconta».

In società si può parlare facilmente di questi temi senza suonare il tasto delle donne vittime e infilarsi in una lista di rivendicazioni?

«Non sono una teorica e non ho scritto un saggio. Inoltre, il femminismo non è uno solo, ma sono tanti. Anche questo è un problema. Una buona parte di ingiustizie, mai denunciate prima, sono emerse in questi ultimi anni. Pensiamoci, in tanti paesi la parità nel diritto di voto o allo studio è stata raggiunta da pochi decenni. Certo, tutti i movimenti di rottura comportano degli eccessi collaterali. Ma c’è ancora molto da fare, per esempio nell’uguaglianza a livello retributivo o nello sport professionistico. E poi nella quotidianità…».

Nella quotidianità?

«Ho due figlie femmine, me ne accorgo quando esco con loro. Davanti allo specchio siamo lì a chiederci se la gonna sia troppo corta o la camicia troppo scollata. Se andiamo al cinema, dove parcheggiare può essere un problema perché all’uscita sarà buio e dovremo fare un pezzo di strada da sole. Banalmente, la quotidianità è fatta di palpatine, di sguardi molesti. Tutto questo rende le donne guerrigliere».

Se si monitorano gli sguardi maschili più o meno lubrici forse si dovrebbe sorvegliare anche l’impatto seduttivo femminile. Ci sono uomini volgari o insinuanti, ma non vede anche lei un sesso maschile intimidito e che sta perdendo il suo grado di virilità?

«Lo vedo, la perdita di virilità è una fuga. Penso che si possa essere virili sapendo rispettare la femminilità delle donne. Quasi tutti i miei amici sono uomini. Io stessa ho una forte componente razionale. Credo che dobbiamo superare gli stereotipi. Per fortuna su Facebook, l’unico social che frequento, comincio a vedere maggiore complicità da parte di uomini che rifiutano la logica della lotta tra generi».

Il movimento #Metoo ha favorito questa consapevolezza o ha esasperato lo scontro tra i sessi?

«Credo abbia favorito una presa di coscienza perché ha aiutato le donne a parlare di ciò che subiscono. Il 95% delle denunce finiscono in condanne. Ci si pensa tante volte prima di denunciare una molestia sessuale perché farlo non è la soluzione del problema, ma l’inizio di un percorso faticosissimo. Se si hanno dei figli… Si può essere costretti a cambiare città…».

È un movimento partito da Hollywood, dove questi problemi non ci sono.

«Se non fosse partito da lì non avrebbe avuto la cassa di risonanza che ha avuto e nessuno si sarebbe mosso. Quelle denunce sono servite anche a chi subisce molestie dal datore di lavoro, in ufficio o al supermercato. Banalmente, prima, quando una ragazza lo raccontava in casa alla fine la risposta era: un altro lavoro dove lo trovi?»

Invece adesso?

«C’è un po’ più di controllo perché la denuncia incombe».

Parlando di complicità fra i sessi, sicuramente il movimento #Metoo non l’ha favorita.

«Probabilmente no. Ma dobbiamo chiederci su cosa la creiamo. Non certo sulle vecchie regole e sui vecchi comportamenti. Un certo modo di ragionare è così pervasivo che ha contagiato anche le donne. A volte mi accorgo io stessa di usare formule maschiliste. Ci sono degli eccessi? D’accordo. L’importante è che qualcosa cambi. Poi le esasperazioni si correggono».

Cosa pensa della polemica che ha coinvolto Luca Argentero perché ha detto che vuole continuare a sentirsi il maschio della coppia e non gli va di avere davanti una donna che si offende se le apre la portiera o le versa l’acqua a tavola? Gli uomini sono inibiti dall’essere galanti?

«Sono gli eccessi di cui parlavo prima. Sono l’acqua sporca che sta insieme al bambino. Anche negli anni Settanta è stato così. Il romanticismo va difeso, ma io credo che una donna più libera, meno sottomessa, si possa tramutare in una maggiore libertà per l’uomo. Bisogna uscire dalle logiche di potere anche tra i sessi».

Il politicamente corretto, il femminismo esasperato, il potere crescente delle minoranze Lgbt per il quale oggi si arriva a sostenere che il sesso è una scelta e non una dotazione rischiano di eliminare il romanticismo e le differenze? Intervistato da Mattia Ferraresi sul Foglio Breat Easton Ellis, l’autore di American Psycho, ha parlato di «totalitarismo dei buoni».

«Questo rischio c’è. Sono quei famosi eccessi… Come il razzismo dei neri nei confronti dei bianchi: esiste. Oggi è tutto molto manipolato ed è difficile valutare le concatenazioni dei fenomeni sociali e di costume. L’unico criterio per provare a farlo che io conosco è mettere sempre al centro la persona».

 

La Verità, 22 settembre 2019