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Boomer torna allo stadio dopo anni, con suo figlio…

Erano anni che non andavo allo stadio e tornarci mi ha regalato una nuova ulteriore consapevolezza del mio inguaribile boomerismo. Del mio essere uomo di un altro tempo. Lo stadio, la partita di calcio, anche vissuta da tifoso, è un’esperienza coinvolgente, in un certo senso totalizzante. Ancora più ricca se interpretata con gli occhi aperti e un minimo spirito critico. Ero in compagnia di mio figlio millennial, più tifoso di me. Poco alla volta, la diversità delle sue reazioni è risaltata come un evidenziatore sul mio straniamento. Com’è noto, allo stadio non c’è solo il fatto agonistico. C’è tutto il contorno, l’arrivo all’impianto sportivo, che per me era quello di San Siro per la partita fra Milan e Lazio. Ci sono il popolo dei tifosi, i colori delle tribune, gli striscioni, i cori.

Bene, prima di entrare nel catino urlante di passione, ecco la prima notazione. Le magliette indossate dai tifosi. Sono espressione di generazioni ed ere calcistiche diverse, quasi sempre superate, archiviate da tempo. Si leggono sulle spalle delle persone, dove compaiono i nomi dei protagonisti. Kakà è uno degli idoli tuttora più gettonato. Ma poi ecco Kessie, Saelemekers, De Keteleare, Tonali. Tutta gente che non è più al Milan. Qualcuno rimpianto, altri meno. Donnarumma non se ne vedono. Molti Ibrahimovic, invece. E persino, Menez. Preistoria. Anche mio figlio ride di gusto. Qualcuno di mezza età si autoproclama, orgoglioso, Nesta. Poi sì, ci sono anche quelli aggiornati: Theo, Calabria, Giroud, Rafa Leao. Idoli che permangono. E qualcuno di nuovo nuovissimo: Pulisic. Così ci si rincuora, pensando che alla fugacità del tempo si oppone il perenne presente. E la speranza di migliorare che sempre anima il cuore del tifoso.

Finalmente si accede alle tribune e il posto assegnato è particolarmente felice. Primo anello rosso. La vista è ottima, il prato brilla lì davanti, i giocatori non sono pedine minuscole com’erano quando le scrutavo, ragazzo del terzo anello. I cori rimbombano, bellissima la coreografia di bandiere e striscioni. Sul corridoio che separa il nostro settore dalla tribuna che sta proprio a ridosso del campo di gioco è un via vai di persone che cercano il loro posto. O di quelle che cercano birre e panini. Scopro che allo stadio il pubblico ha molta sete e molta fame. Nella tribuna riservata ai vip spunta Zlatan Ibrahimovic. Poi arriva il Ct della Nazionale Luciano Spalletti. Osserverà soprattutto la Lazio, rifletto puntiglioso, visto che nel mio Milan di italiano c’è solo il capitano Davide Calabria, da qualche tempo uscito dal giro. Ibra e Spalletti catalizzano le attenzioni dei presenti. Poi finalmente la partita comincia e il traffico sul corridoio davanti si dirada. Ma non del tutto. Ogni tanto, per continuare a seguire un’azione di gioco, tocca allungare il collo per non restare impallati da qualcuno che transita reduce dal bar con boccali di birra, piadine e tranci di pizza come fossero tanti camerieri.

Intervallo. Spalletti esce dal box riservato e si avvicina ad altri spettatori vip. C’è Zlatan, come dicevo. C’è Paolo Scaroni, presidente del Milan. Ci sarà qualcuno che mi sfugge. Gli steward faticano a far scorrere il pubblico che si arresta catalizzato, cellulare alla mano per immortalare le celebrities. Molte donne hanno lineamenti pronunciati e indossano canottiere aderenti. Sta per cominciare il secondo tempo, i giocatori sono già schierati con la palla al centro, ma la muraglia di magliette onomastiche non si sgretola e, spalle al prato, innalza ancora gli smartphone per fotografare i famosi in tribuna. Il pallone ha cominciato a rotolare sul prato. A quel punto, rompo gli indugi. Ragazzi, guardate che la partita è dall’altra parte, non in tribuna. Va bene, va bene… ciondolano la testa e si allontanano. Mio figlio: ma papà, lascia che la gente faccia quello che vuole.

All’inizio del secondo tempo, il Milan entra in campo più determinato. Per i primi cinque minuti la Lazio non supera la metà campo. I cori si fanno più potenti e incalzanti. È un crescendo sia nella qualità del gioco che nella spinta dagli spalti. Quando, con una formula abusata, si dice che i tifosi sono il dodicesimo giocatore in campo… Infatti, la pressione raggiunge l’apice. E, al quarto d’ora, con una bellissima azione sulla sinistra che coinvolge quattro giocatori, il Milan passa. Più tardi, procurato da uno slalom vertiginoso di Leao, arriva anche il raddoppio. La festa è piena. I colori si accendono ancora di più. Sulla fila davanti a noi una famiglia, marito, moglie, bambino e figlia adolescente cantano. La più scatenata è la signora, conosce tutti i cori. Il marito è più compassato. La figlia adolescente si scatta raffiche di selfie, rivolta alla tribuna (non al campo di gioco).

La partita è finita. Per oggi il Milan è ancora primo in classifica (in condominio con l’Inter). Il popolo sciama euforico sul piazzale dello stadio con vincolo storico che i club presto abbandoneranno (scegliendo impianti fuori dal Comune a causa dell’insipienza della giunta cittadina). Una donna con le gambe storte da calciatrice parla animatamente con il tizio al suo fianco che inalbera la maglietta di Maldini

«Indebolire il padre è un danno grave per i ragazzi»

Kim Rossi Stuart è attore e regista, marito della bellissima Ilaria Spada, anche lei attrice, padre di tre figli e, da qualche tempo, si è incuriosito al cristianesimo. Il 20 ottobre uscirà nei cinema Brado, il terzo film da lui diretto (dopo Anche libero va bene e Tommaso), prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, che vi recita una piccola parte. È «un western esistenziale» imperniato sul rapporto conflittuale tra Renato, un padre misantropo, e Tommaso, un figlio alla ricerca della propria identità, che si ritrovano per domare un cavallo e iscriverlo a una gara di cross country. Una storia insolita per il cinema italiano.

Cominciamo dal titolo: Brado vuol dire tante cose.

«Prima di tutto è il nome del ranch di Renato che è anche una scuola di equitazione, per quanto malandata. Poi è lo stato nel quale vive il padre e, di conseguenza, il modello educativo che infligge al figlio. Infine, brado è anche il cavallo prima di essere domato».

Quella del padre è la vita di un asociale, ma in lui prevale il rifiuto o una scelta positiva, per fare spazio a qualcos’altro?

«Entrambe le cose. Osservandolo da spettatore, Renato mi appare una persona ambivalente. Nel suo stile di vita c’è una reazione rabbiosa rispetto alla società nella quale non si riconosce. Allo stesso tempo lo ammiro perché, in fondo, compie una scelta ecologista che, per certi versi, condivido».

Tuttavia, è una persona scontenta, frustrata.

«Mi sforzo sempre di trovare nei personaggi qualcosa di archetipico, in questo caso l’uomo che vuole domare, o dominare, la vita. Il cavallo da domare, in un certo senso è il simbolo della vita. Non c’è bisogno di scovare un Don Chisciotte o un grande misantropo: la pulsione a dominare è propria dell’uomo metropolitano, dell’umanità contemporanea. Per contro, il figlio è portatore di un’istanza opposta, farsi guidare dalla vita. La sua strada per domare il cavallo è lasciarsi guidare da lui».

Nell’ambizione di dominare il padre incarna l’uomo contemporaneo, ma senza connessioni, social e ricerca di visibilità forse è anche un antimoderno.

«In un certo senso, sì. Anche perché è un uomo che vagheggia il far west, uno stile di vita che moderno non è. È un padre antipatico e brutale, ma nella sua radicalità c’è qualcosa di buono. Credo che nel suo desiderio di rendere autonomo il figlio, di metterlo a contatto anche con le cose spiacevoli, ci sia qualcosa di utile anche ai genitori moderni. Lo dico pensando al mio desiderio di proteggere i miei tre figli da ciò che può risultare scomodo o provocare qualche sofferenza. Questo eccesso di protezione può essere pericoloso perché rischia di allontanarli da una vera autonomia, da una vera maturità».

La definizione più fulminante del suo personaggio la dà l’amico imprenditore interpretato da Carlo Degli Esposti: «il Clint Eastwood dei poveri». Le piace il cinema di Eastwood?

«È difficile resistere a Clint Eastwood».

In che senso?

«Nel senso di non lasciarsi sedurre. Poi, certo, non tutti i suoi film mi piacciono, ma la stragrande maggioranza non è che mi son piaciuti, di più. Detto questo, siamo due mondi lontani, noi in Italia e loro lì, con strumenti e possibilità molto diverse. Lo dico senza criticare nulla del nostro cinema».

C’è una scena alla fine di Brado in cui viene in mente Million Dollar Baby, anche perché le due storie che gravitano attorno a un’impresa sportiva corrono parallele.

«Non vorrei fare accostamenti azzardati. Il telaio è quello di due film di genere che, nel sottofinale, tradiscono il genere per entrare nei meandri più profondi di alcune tematiche. La scena di cui lei parla avviene in un ospedale e riguarda il fine vita, argomento sul quale non ho una posizione ideologica. E qui mi fermo per non spoilerare».

A un certo punto sembra che tra padre e figlio il più responsabile e affidabile sia il secondo.

«C’è una lunga teoria di esempi cinematografici che trattano il ribaltamento dei ruoli, primo fra tutti Ladri di bicilette. A bocce ferme, la scelta di Tommaso di lasciarsi guidare dalla vita mi appare più matura. La vita è più brava di noi».

È la sapienza di cui è cosparso tutto il film.

«Questo film ha a che fare con la ricerca di una pacificazione e il bisogno freudiano di distruggere il padre per recuperare la propria identità. Per tre o quattro minuti il pubblico è anche messo di fronte a ciò che fa più paura: l’esperienza della morte. L’amore tra il padre e il figlio può essere la chiave di accesso a questa esperienza, un padre deve insegnare sia a vivere che a morire. Si soffre un po’ in quei minuti, ma penso possano aiutare a guardare in modo diverso la paura del morire».

I due si ritrovano nella preparazione della prova sportiva: la vita è competizione e la competizione può far esprimere il meglio delle persone?

«Approvo la competizione, ma penso che dovremmo circoscriverla all’ambito sportivo. Amo le corsie di nuoto o di atletica: lì la voglia di essere vincenti mi piace. Invece la trovo démodé in tutti gli altri ambiti perché manifesta una ricerca di approvazione che rimanda all’infantilismo dominante nel nostro tempo, soprattutto nelle sfere del potere».

La moglie e madre, invece, ha abbandonato la famiglia ed è il secondo rovesciamento di luoghi comuni.

«Nella confusione dei ruoli che regna nella società odierna anche questo è un ribaltamento dei ruoli abituali. È il fil rouge che collega i miei tre film da regista».

Cosa pensa dell’espressione Genitore 1 e Genitore 2 che negli atti amministrativi anche scolastici ha sostituito Padre e Madre?

«Non seguo molto queste polemiche. Penso che ogni situazione sia a sé, il buon senso non ha colori e sessi. Poi capisco che bisogna legiferare e porre delle regole, ma non voglio esondare dai temi del film. Piuttosto, parlando di scuola, con un figlio che accede alla media inferiore, mi sento di dire che non è giusto schiacciare i ragazzi con la responsabilità, facendo perdere loro il gusto dell’adolescenza. È importante che si relazionino e non passino i pomeriggi al computer. Allo stesso tempo non è giusto che li passino sui libri per i compiti».

Pare anche a lei che nell’universo giovanile i padri siano diventati secondari? Questo avviene perché fanno gli amici e abdicano al loro ruolo?

«Nella tendenza a non voler far soffrire i ragazzi si nasconde il desiderio di ricevere l’approvazione dei figli. Per me è una deriva pericolosa. Non sono nostalgico del padre padrone, per carità. Ma nello stesso tempo vedo che la figura del padre è indebolita, esautorata di alcune prerogative. I ragazzi hanno bisogno di trovare braccia solide che sappiano porre degli argini, altrimenti non ce la fanno a costruirsi un’identità. Anche la donna ha un ruolo in questo processo, mi sembra che ci sia un po’ di confusione».

Si rischia una femminilizzazione della società moderna?

«Non vorrei addentrarmi in considerazioni sociologiche. Nei gruppi di amici mi capita di vedere uomini un po’ marginalizzati e donne che vogliono contare di più. Uomo e donna sono diversi, ma il bisogno di affermazione e la ricerca dell’approvazione a ogni costo riguarda entrambi i sessi».

Cosa intendeva quando in una recente intervista ha detto che «l’essere umano inginocchiato è un’esperienza straordinaria»?

«Spesso l’uomo si mette in ginocchio davanti al proprio capo, al piacere, al profitto. Proviamo a pensarci: ci troviamo in ginocchio senza neanche accorgerci, davanti a tanti idoli, ai vari vitelli d’oro. Invece, inginocchiarsi di fronte alla creazione, perché siamo creature, davanti al Dio che vuoi tu, non voglio fare differenze, è un’esperienza straordinaria. All’uomo sono concesse solo schegge di verità, nessuno la possiede per intero. L’uomo inginocchiato davanti a qualcosa di più grande di lui è qualcosa di necessario. Non tanto di fronte agli altri, ma guardando a sé stesso. Possiamo riconoscere che siamo fragili, liberandoci dallo sforzo titanico di dimostrare quotidianamente che siamo forti, grandi, vincenti».

Pensa che la consapevolezza che l’uomo non si fa da sé si colleghi all’atteggiamento di fronte alla vita e al fine vita?

«Sul fine vita ho un approccio totalmente laico. Ma è un tale sollievo riconoscersi creatura, è un tale sollievo sconfiggere il terrore della morte e l’obbligo di nascondere la nostra fragilità… Ci aiuta a superare un’idea deteriore di autonomia e indipendenza».

Oggi Brado sarà presentato in anteprima al «Kum! Festival» nell’ambito di una riflessione sull’eutanasia. Come risponderà alla domanda del dibattito: bisogna domare o lasciarsi domare dalla vita?

«Inviterò me stesso e il pubblico a un equilibrio perché la verità non sta mai solo da una parte. Se siamo dotati di capacità critica possiamo usare la nostra intelligenza per domare gli istinti peggiori. Così come possiamo lasciarci domare dalla vita perché possa insegnarci il meglio. Un fiume plasma il suo percorso a seconda degli ostacoli che incontra per arrivare al traguardo».

Il prossimo film graviterà intorno a Medjugorje che è citata anche in Brado?

«Nel 2019 ho scritto un libro composto da cinque racconti (Le guarigioni, La nave di Teseo ndr) di cui due sono già arrivati al cinema. Ne restano tre: uno è dedicato a Medjugorje, un altro è un racconto distopico, l’ultimo è la storia dell’incontro tra un uomo e una donna. Tutti possono diventare film, ma anche no: non vorrei che il mio fosse etichettato come cinema autobiografico. Mi piacerebbe anche raccontare storie che partano dall’esterno, dalla cronaca, e proporre qualcosa di meno introspettivo».

Che rapporto ha con il successo?

«È una brutta bestia. Qualcosa che accarezza l’ego, qualcosa di effimero che porta lontano dalla vita vera. Quando guardo certe personalità della cultura e dello spettacolo le vedo spesso accartocciate in una frustrazione a causa di qualcosa che non è stato loro riconosciuto. Il successo cerco di tenerlo in un angolo se no ti frega. Su questo mi aiuta il cristianesimo perché insegna che il successo vero sta nel decentramento da noi stessi, nel vedere l’altro».

Un film, un libro, una serie che le sono piaciuti ultimamente?

«Con tre figli piccoli, riesco a vedere e leggere meno di quanto vorrei. L’ultimo film che mi ha commosso è Nomadland».

 

La Verità, 15 ottobre 2022

L’onore di Accorsi si adagia sul paternalismo

Era inevitabile che, programmato su Rai 1, il remake di Your honor, la serie di Showtime interpretata da Bryan Cranston e tratta a sua volta dall’israeliana Kvodo, percorresse sentieri più dolci e frequentasse dilemmi meno radicali. Sono le conseguenze della trasposizione da un network americano a pagamento a una rete generalista italiana (Rai 1, lunedì, ore 21,35, share del 17,1%, 3,6 milioni di telespettatori).

Vittorio Pagani (Stefano Accorsi) è un apprezzato giudice, candidato alla presidenza del tribunale di Milano. Vedovo dopo il suicidio della moglie e padre del diciottenne Matteo (Matteo Oscar Giuggioli), ha conquistato fama e autorevolezza da pubblico ministero sgominando la pericolosa gang dei Silva. La sua vita cambia repentinamente quando, alla guida della vecchia auto della madre pur non avendo la patente, il figlio investe e uccide un motociclista che si scopre appartenere proprio a quei Silva. Costituirsi alla polizia significherebbe esporsi a sicura vendetta. Di slittamento in slittamento, inizia la discesa agli inferi di Pagani, nel quale il ruolo del padre e quello del giudice prendono a confliggere schizofrenicamente. Al punto che nell’opera di depistaggio delle indagini che si stringono attorno al ragazzo egli non esita a mettere a frutto le tecniche e le conoscenze acquisite come magistrato. «Se è vero che tuo figlio è tutta la tua vita, che cosa sei disposto a fare per salvare la sua?», si chiede Pagani nel monologo che apre la storia. Così, in una progressiva escalation, lo vediamo architettare una serie di manovre che contraddicono leggi e principi sui quali hai costruito l’impeccabile carriera. «A volte la paura può farti fare delle cose terribili», dice parlando di un imputato, ma in realtà di sé, al vecchio presidente del tribunale (Remo Girone). Il quale gli ribatte: «Eppure c’è chi nelle stesse condizioni si comporta diversamente. Oppure dovremmo dire che il bene non esiste?». «Esiste, ma non in assoluto», conclude Pagani.

Materia incandescente, dunque. Trattata in modo avvincente nella versione originale, in Vostro onore la storia si adagia di più sul sentimento. Mentre nei primi dieci minuti della serie americana si ascoltavano una ventina di parole ma la tensione era già a mille e a ogni scena il giudice si giocava, appunto, l’onore, in quella italiana vediamo il personaggio di Accorsi indossare raramente la toga. Era inevitabile che su Rai 1 il legal thriller sfumasse in family drama. Però così, pur restando di vivo interesse, la storia smarrisce un po’ della sua originalità.

La Verità, 9 marzo 2022

«M’attraggono le vite degli altri, diverse dalla mia»

Regista anomalo, cineasta aristocratico, autore rarefatto che non ama riflettori, flash e passerelle. Uberto Pasolini è un italiano che vive a Londra, fa il produttore cinematografico (Full Monty – Disoccupati organizzati tra gli altri) e dirige un film ogni sei anni. Storie semplici, antiretoriche. Raccontate per sottrazione, come dicono quelli colti. Il suo Nowhere special – Una storia d’amore, elogiato alla Mostra di Venezia nel 2020 e ora nelle sale, narra la vicenda di John, un lavavetri di Belfast con ancora pochi mesi di vita, che cerca una famiglia adottiva per suo figlio Michael di 4 anni. Un film di gesti, sguardi e silenzi.

Chi è Uberto Pasolini?

«Sono un italiano nato a Roma, cresciuto a Milano e che ha finito gli studi in Inghilterra. Dopo tre anni in una banca d’affari ho scelto di dedicarmi al cinema. Ho un unico passaporto italiano, anche se vivo a Londra da 40 anni. Londra permette di restare quello che sei pur facendoti sentire parte di una città cosmopolita».

La generalità completa è Uberto Pasolini dall’Onda: ha origini nobili?

«Siamo una vecchia famiglia di Cotignola, nel ravennate. Ancora agricoltori».

Ma nell’albero genealogico compaiono Luchino Visconti e Carlo Ponti: si direbbe che il cinema ce l’ha nel sangue.

«La connessione con la famiglia Ponti deriva da un antenato di mia bisnonna Maria Ponti, ma non sono discendente di Carlo. Da parte di madre invece, uno dei fratelli di mio nonno era Luchino. Il fratello di mia madre, Eriprando Visconti, era anche lui regista teatrale e cinematografico. Non so se ho il cinema nel sangue, ma se qualcuno dicesse a Luchino che uno dei suoi tanti bisnipoti si occupa di cinema, credo guarderebbe ai miei film con scarso interesse. Non è corretto collegare il mio lavoro al suo, però, certo, quando uscivano i suoi film, andavamo a vederli».

Quali erano i suoi interessi da giovane?

«Il cinema era il più importante, non per ragioni di famiglia ma perché a Milano le ragazze non mi filavano. Perciò trascorrevo i pomeriggi nella Cineteca di San Marco, a un passo dal Parini, il ginnasio che frequentavo».

Com’è arrivato in Gran Bretagna?

«Mi sono iscritto a un collegio internazionale in Galles, dove mi aspettavo che le ragazze di tutto il mondo si interessassero di più a me. Ovviamente non fu così, ma ormai ero lì».

Fu una decisione autonoma e i suoi genitori non obiettarono?

«Una decisione autonoma come lo può essere a 17 anni. Mio padre non era convinto, mia madre avrebbe permesso qualsiasi cosa per favorirmi. Quando il liceo accettò la domanda mi lasciarono andare».

Come mai una persona con un albero genealogico così racconta al cinema storie semplici e marginali?

«Per la curiosità di vite meno privilegiate della mia. La curiosità per l’altro da me, per chi ha difficoltà. Trovo i mondi e le situazioni sociali diverse dalle mie più interessanti della mia».

Cosa non le piace della sua classe sociale?

«Non saprei. La mia classe sociale la conosco, sono spinto dalla curiosità verso ciò che conosco meno».

Dove ha pescato la vicenda del protagonista di Nowhere special – Una storia d’amore?

«Era una notizia di cronaca su un quotidiano inglese».

Com’è diventata un film?

«Ho contattato i servizi sociali competenti del caso. Ma non mi hanno detto niente di più di quello che diceva l’articolo: un padre di 35 anni senza una famiglia propria, un bambino di 4, la madre che li aveva lasciati poche settimane dopo la nascita, condizioni economiche molto limitate perché il padre non aveva un impiego fisso».

Che cosa l’ha colpita di più?

«Il dilemma del padre. Ho tre figli e mi sono chiesto cosa avrei fatto nei suoi panni. Sia a proposito della scelta sul futuro del figlio, sia a riguardo della condivisione con lui della situazione».

Dirgli che sta per morire?

«Forse bisogna dirglielo, forse no. A me piace il viaggio emotivo e psicologico del padre che parte da una certezza per arrivare a un’incertezza, alla difficoltà di prendere una decisione per il futuro del bambino. Qui si concretizza il suo amore».

Nella difficoltà a individuare il posto speciale: è questo il senso del titolo?

«Il senso del titolo è anche più generale. La storia si svolge in un posto che non è necessariamente speciale, con persone non speciali perché potremmo essere tutti noi. E la risposta finale, se c’è, è in un viaggio in un posto neanch’esso speciale».

L’incertezza del padre deriva dalla ricerca della perfezione per il bambino?

«Cerca la perfezione che non c’è e non ci può essere. E finisce per accettare la propria incapacità di scegliere per suo figlio».

Anche se poi sceglie.

«A ben guardare è il bambino a farlo. Le tante famiglie adottive che ho incontrato prima e dopo il film mi hanno dato letture molto diverse tra loro. Non c’è un unico modo di capire la storia, non sono un autore che vuol dare un messaggio. Ho tentato di fare una specie di documentario, raccontando alcune settimane del rapporto d’amore tra un padre e suo figlio. E lasciando allo spettatore cogliere ciò che vuole di questo rapporto, negli eventi in cui si imbatte».

È stato difficile raccontare questa storia senza cadere nel sentimentalismo?

«Quando ho pensato che il fatto di cronaca potesse diventare un film ho avuto chiaro che l’unico modo di raccontarlo era usare un linguaggio il meno drammatico possibile. Evitare forme di sentimentalismo e lacrime facili, scegliendo una recitazione asciutta e un uso della musica e della macchina fotografica sobri. Preferisco lavorare sotto le righe».

È favorevole all’adozione da parte di persone singole?

«Sì. In Inghilterra c’è da tanti anni e da quello che so funziona bene. Ho avuto molti incontri con persone che lavorano nel campo dell’adozione, che stavano adottando o avevano adottato. In tante famiglie con un genitore ho visto risultati simili a quelle con due genitori. Anzi, in alcuni casi c’è più stabilità perché non c’è rischio di separazione. So che la legislazione italiana ancora non lo permette. Ma la grande differenza tra il numero di bambini che hanno bisogno di essere adottati e il numero di famiglie disposte a farlo si ridurrebbe di molto se si permettesse alle famiglie monogenitoriali di adottare».

Ritiene che l’adozione possa essere un’alternativa alla fecondazione eterologa e alla pratica dell’utero in affitto?

«L’adozione è sempre un’alternativa. Le ragioni che portano all’adozione sono varie e a volte diverse anche all’interno della stessa coppia. Ciò che conta è che si faccia per amore. Ma, come non mi sento di giudicare le ragioni che portano all’adozione non lo faccio per chi arriva alla genitorialità con la fecondazione artificiale, a causa di una situazione medica o, con l’utero in affitto, a causa di una condizione sociale. Essendo fortunato come padre di tre figlie, non sono la persona giusta per giudicare».

Condivide l’espressione di Charles Peguy secondo cui il più grande avventuriero del mondo, il più coraggioso, è il padre di famiglia?

«Non la condivido».

Neanche pensando al lavavetri di Belfast?

«Invece di cercarsi un’altra donna, è stato coraggioso a educare suo figlio da solo. In questa scelta c’è il suo essere speciale. Tantissime madri lo sono. Posso dire che l’essere genitore è il mestiere più difficile tra quelli che ho fatto, banchiere, produttore, regista».

Quali sono i suoi punti di riferimento cinematografici o artistici?

«Il neorealismo italiano e la commedia italiana anni Cinquanta e Sessanta, Mario Monicelli in particolare. Poi i grandi autori internazionali. Più recentemente mi sono avvicinato al cinema di Yasujiro Ozu, che sa essere profondo e universale mantenendo un linguaggio sobrio».

Anche Still life, la vicenda del funzionario comunale che cerca i parenti delle persone morte in solitudine, è tratto una storia vera?

«È derivato dalla lettura di un’intervista a una impiegata del comune londinese di Westminster che raccontava il suo mestiere. Era un film su un mestiere che nasce dalla solitudine di questa nostra società contemporanea».

Come sceglie le sue storie?

«Ho poca immaginazione e mi capita, tre volte in 12 anni, di leggere qualcosa in un quotidiano che poi diventa un film. Sono le storie che trovano me. Non leggo i quotidiani per aggirare la mia carenza d’immaginazione, però succede».

Cosa significa che in entrambi questi film ricorra il confronto con la morte?

«È una situazione sia casuale che marginale. Il primo film è sulla solitudine raccontata da una persona che si occupa di chi muore solo. L’ultimo è la storia di un amore che si prepara a una separazione, non tanto alla morte. Sarebbe stato lo stesso se il padre fosse stato condannato a 30 anni di galera».

Il suo primo lavoro nel cinema è stato nella troupe di Urla del silenzio?

«Esperienza bellissima, ero l’ultimo degli assistenti alla regia. Al mio primo lavoro ho visto il cinema al suo massimo in termini di ambizione, qualità e avventura».

Un grande film, rarissimamente riproposto.

«Io ho continuato a lavorare con il suo produttore, David Puttnam, per altri 10 anni».

Dopo il successo di Full Monty – Disoccupati organizzati ha diretto tre film, uno ogni sei anni. Che rapporto ha con la regia?

«Non sono un regista di professione, ma un artigiano del cinema. Per caso, tre volte, mi sono trovato a fare anche la regia di sceneggiature che avevo scritto. In Inghilterra il lavoro di produttore permette di avere un coinvolgimento e un’influenza sull’opera. Tutti i film che ho realizzato come produttore sono nati con me e non dall’idea di altri registi».

La Brexit la spinge a tornare in Italia?

«Non tanto la Brexit quanto l’età. Le figlie sono grandi e hanno la loro vita. E io più invecchio più mi mancano le radici».

La pandemia ha complicato ulteriormente la situazione?

«Non particolarmente. Spero, come tutti, che questa tristissima pagina si chiuda il più presto possibile. Il governo inglese non si è dimostrato all’altezza della situazione, mentre il governo italiano e soprattutto gli italiani si sono rivelati seri nel confrontarsi con questa crisi».

Ci può anticipare la prossima storia?

«Lavoro in contemporanea su molte idee, non so quale sarà la prima a spiccare il volo. È un’incertezza stimolante anche non sapere se sarà una produzione o una regia. Sarà una sorpresa del 2022».

 

La Verità, 24 dicembre 2021