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Il people show di De Girolamo manca d’identità

Non sarà facile far quadrare Avanti popolo. Che cos’è il programma condotto da Nunzia De Girolamo che ha debuttato martedì sera su Rai 3 con uno share del 3,6% e 574.000 telespettatori? Un talk show, un people show, un rotocalco emotional, un magazine con digressioni private? Un po’ tutto questo e, allo stesso tempo, niente di tutto questo. Per assurdo, si capisce meglio ciò che abbiamo visto dicendo ciò che non è. A riprova, i concorrenti hanno un’identità e un target ben definiti.

Per la puntata d’esordio, arrivando buon ultimo nella serata più presidiata della settimana, tutti d’accordo – la produzione Fremantle, gli undici autori e la conduttrice – avevano puntato sull’intervista al marito, capo dei senatori Pd, Francesco Boccia. Un modo per entrare sgomitando nella lotta. I rischi di sentimentalismo erano in agguato e si sono puntualmente riprodotti. Tolto l’avvio pungente sul maschilismo («io sono sempre la moglie di… tu non sei mai il marito di…»), un passaggio sul salario minimo e qualche rimprovero per la lunghezza delle risposte, con l’aiuto di alcune foto (alla maniera delle interviste di Paolo Bonolis) la conversazione è planata sul privato in un clima da confidenze di seconda serata. Il problema è che molto ravvicinato in studio c’è il pubblico che fa molto magazine pomeridiano.

In contemporanea, sulle altre reti ci sono Emma Bonino (Belve), Mauro Corona (È sempre cartabianca) e il solito Corrado Augias (DiMartedì). I brand sono scolpiti, mentre De Girolamo non è una giornalista e lo si vede quando apre la finestra sulla guerra in Israele collegandosi con l’inviata Lucia Goracci. A seguire, lo conferma anche la qualità del confronto tra Peter Gomez e Antonello Piroso sul reddito di cittadinanza. La scaletta ha forse troppa carne al fuoco: la testimonianza di una donna stuprata, la relazione tra violenza di genere e accesso facile al porno, la storia del rapper Maldestro. Gli ospiti vanno e vengono mentre si gira rapidamente pagina, con poche connessioni. Un po’ lo stesso difetto che aveva Che c’è di nuovo, sempre produzione Fremantle, e che fece floppare Ilaria D’Amico.

Non sarà facile la quadratura di Avanti popolo anche perché quella di De Girolamo è una corsa a handicap. Per superare lo sbarramento della concorrenza già da tempo su piazza servono numeri uno come ospiti e una conduzione forte. Senza, è facile che il pubblico abituale di Rai 3 si trasferisca su La7 (non a caso Giovanni Floris ha valicato l’8%). E martedì prossimo Rai 1 trasmetterà la partita della Nazionale contro l’Inghilterra.

 

La Verità, 12 ottobre 2023

De Girolamo-Boccia, una coppia un format tv

Di martedì, fra iene e belve può succedere che il popolo, anziché avanzare, finisca sbranato. E allora, ecco la trovata: perché non allestire una bella sit-com in famiglia? Un politic family nel vero senso? A volte i colpi di genio sono l’uovo di colombo. E la percezione che di grande trovata promozionale si tratti c’è tutta.

Su Rai 3 debutta stasera Avanti popolo condotto da Nunzia De Girolamo. E, per l’occasione, si è pensato di invitare come primo ospite Francesco Boccia, dal 2011 consorte della conduttrice. Lei, già ministro in un governo Berlusconi e anche con Enrico Letta. Donna di centrodestra. Ri-inventatasi volto tv dopo la mancata rielezione, quando fu sorprendentemente candidata a Bologna dov’era impossibile farcela. E così ecco la nuova gavetta, ospite di Massimo Giletti e Corrado Formigli, poi le conduzioni Rai di Ciao maschio ed Estate in diretta. Lui, capo dei senatori Pd molto vicino a Elly Schlein, dalla quale ha avuto l’incarico di occuparsi delle faccende Rai. Lo ha fatto bene. Anzi, benissimo. Perché, già che si era a buon punto, si è pensato di puntare dritti sull’effetto Sandra e Raimondo della politica, come già li ritrae nel suo sito Roberto D’Agostino. Moralisti come sono, abituati a considerarsi sempre una spanna eticamente sopra gli altri e a vedere conflitti d’interessi solo dalla parte opposta, a sinistra manifestano imbarazzo. Volti seri, mezze frasi di circostanza…

Avanti popolo, titolo sagacemente attinto da Bandiera rossa, ma le sorprese sono in agguato, è il programma che sostituisce Cartabianca di Bianca Berlinguer, felicemente accasata e in onda da oltre un mese su Mediaset. C’è molta attesa. E anche molta apprensione in Viale Mazzini. Il salotto di De Girolamo è l’unico talk politico di prima serata della Rai. Ed è anche il programma che certifica la virata a destra della Terza rete, già Telekabul. Del resto, di talk sinistri ce ne sono già due nell’affollatissimo palinsesto del martedì sera, la più presidiata della settimana. E dunque, bando agli indugi. Dopo qualche esordio stagionale non proprio esaltante, non è contemplato sbagliare. Ci vogliono ospiti di peso, tematiche forti per garantire buoni ascolti. Così, non si è badato troppo ai risparmi, affidandosi alla produzione esterna di Fremantle, che proprio per poter offrire cachet invitanti, ha fatto lievitare il costo a puntata fino a 200.000 euro.

La povera Nunzia, che si sente «di stare in una casa in territorio sismico», apre buon’ultima la sua boutique sulla via della tv generalista. I target sono già tutti assegnati. Su La7 c’è il circolo della sinistra radicale, con Pierluigi Bersani o Corrado Augias nei panni di oracoli apriserata, al quale Berlinguer replica su Rete4 con i volti pop, Mauro Corona e Iva Zanicchi, e le inchieste sul malessere quotidiano della gente comune. Su Italia 1, nonostante l’avvicendamento di Belen Rodriguez con Veronica Gentili, il format del giornalismo giustiziere e raddrizzatorti mantiene sempre una buona cera. Infine, su Rai 2 c’è l’atelier glamour di Francesca Fagnani, interviste tendenza Vanity Fair con outing incorporato, anche questo prodotto da Fremantle. Ops: non ci sarà mica anche qui sentore di conflitto, o di conflittino, o di scaramuccia d’interessi? Su Rai 2 e Rai 3 vanno in contemporanea due programmi prodotti dalla stessa società esterna. Nemmeno si può dire che Belve evita di sbranare i politici perché, per esempio, stasera l’ospite di punta sarà Emma Bonino. Di sicuro, dei due programmi Rai fraternamente concorrenti si occuperanno gruppi di lavoro blindati e inibiti alla reciproca comunicazione, e quindi si può stare tranquilli…

Insomma, che poteva fare la povera Nunzia? Ci voleva una trovata, qualcosa per farsi largo in un contesto tanto agguerrito. Perciò, ecco l’idea, la lettera rubata che nessuno scovava era proprio lì davanti, in bella vista. Perché non intervistare il marito che milita dall’altra parte? Alla maniera di Aboccaperta di Gianfranco Funari, 100 persone in studio, praticamente un panel, discutono per alzata di mano, Avanti popolo è un people show che mette a confronto su un tema di attualità tesi e personalità contrapposte. La prima contrapposizione, Nunzia ce l’ha in casa. Il suo rapporto coniugale è il simbolo, l’emblema del format. Anzi, è il format stesso. Perciò, per esemplificarlo, niente di meglio che convocare il consorte sulle ali della leggerezza e dell’autoironia. Se sarà un’intervista accomodante avrà prevalso il sentimento. Se pungente, la politica. Più format di così. Si saprà domani se il pubblico avrà gradito e gli ascolti daranno ragione alla coppia mediatica più bipartisan del bigoncio.

L’amore non è bello se non è litigarello, recitava un vecchio adagio. Litigarello d’interessi.

 

La Verità, 10 ottobre 2023

In prima serata le Belve di Fagnani graffiano di meno

L’ambizione, probabilmente. E anche le strategie di palinsesto. Solo che, a volte, le promozioni non si concretizzano e si viene rimandati. E le promozioni, di altro tipo, martellanti e pervasive, non bastano. Le Belve di Francesca Fagnani spostate in prima serata su Rai 2 non graffiano. Hanno le unghie spuntate. Anche perché a quell’ora non si può essere troppo selvatici.

C’era molta attesa per lo sbarco nel palinsesto nobile del programma di interviste condotto dalla giornalista già collaboratrice di Giovanni Minoli e Michele Santoro. Il lancio si era avvalso della massiccia potenza di fuoco delle maggiori testate cartacee e online. Per dire, nel giorno di programmazione Dagospia sfornava tre diverse anticipazioni. Partendo da lontano, il piano ordito da Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento prime time, prevedeva la partecipazione di Fagnani al Festival di Sanremo come trampolino per la nuova collocazione. Invece, tanto rumore ha partorito un esito poco belluino: 4,5% di share e 839.000 telespettatori. Già l’anno scorso la stessa operazione non aveva funzionato per Drusilla Foer, applaudita all’Ariston, ma finita in penombra una volta incasellata nelle rubriche di Rai 2.

Fagnani è solo alla prima puntata e, oltre a innestare Ubaldo Pantani, con le sue esilaranti imitazioni, verosimilmente apporterà delle correzioni. Tuttavia, Belve appare più adatto alla seconda serata, orario di confidenze e confessioni. Anche perché, ormai, le interviste sono un genere inflazionato. Per reggere oltre due ore di programma bisogna farne parecchie. Chi ne guarda quattro di seguito, soprattutto se non particolarmente articolate e per giunta ampiamente anticipate da giornali e siti? Le domande-marchio sono la firma dell’intervistatore, ma all’ennesima richiesta di «una belvata di cui si è pentito» o di «chi vorrebbe riportare in vita per due minuti» lo sbadiglio è in agguato. Strappare rivelazioni per andare sui giornali è bersaglio centrato anche con la compiacenza delle redazioni. La difficile Anna Oxa ha svicolato, Wanda Nara ha ammiccato tra gossip e seduttività, Ignazio La Russa ha deposto i panni istituzionali e indossato l’ironia per evitare – non sempre riuscendoci – le trappole, su Naike Rivelli stendiamo un velo coprente. Per il resto, più per il contrappunto post risposta che per il ritmo dei quesiti, si vede che Fagnani ha studiato Minoli, maestro riconosciuto del Faccia a faccia. Lo spostamento in prima serata, con la necessità di ospiti di maggior impatto e costi più elevati, ha comportato un aumento di budget, ulteriormente incrementato dalla coproduzione esterna di Fremantle.

 

La Verità, 23 febbraio 2023

Una storia che scorre come l’acqua (di Chioggia)

Odio il Natale è una miniserie di Netflix sull’amore in sei episodi di mezz’ora l’uno che si bevono in un sorso. Perché, anche se è in parte prevedibile che l’odio del titolo si tramuti nel suo contrario, tuttavia il racconto è spumeggiante, come direbbe Jim Carrey. Una serie acqua e sapone, con dialoghi rapidi che non disdegnano qualche riflessione, e senza influenze gender, se si eccettua una misuratissima sbandata lesbo che non devia il corso degli eventi. A differenza della Chioggia intravista in We are who we are di Luca Guadagnino, dove fluidità e transessualità erano il centro della storia, qui siamo proprio tra i canali della cittadina lagunare ritratta in una luce sempre solare sebbene sia pieno dicembre. L’altra imprecisione, com’è stato notato, è la parlata dei protagonisti con lievi inflessioni romane, a eccezione del padre della protagonista e del ricco imprenditore del prosecco, suo spasimante. Un difetto tollerabile tra tanti pregi perché, in realtà, i chioggiotti parlano normalmente un dialetto incomprensibile e l’accento locale avrebbe dato alla storia un carattere provinciale che non vuole avere.

Anche se appare più giovane, Gianna (Pilar Fogliati) è un’infermiera trentenne single molto apprezzata dai colleghi per la disponibilità e il tempismo dei suoi interventi. Il Natale si avvicina e, mentre sorella e fratello sono sposati, lei è il cruccio della madre perché non si spiega come, dopo che il fidanzato storico l’ha lasciata tre anni fa, una ragazza così bella e piena di vita non abbia ancora trovato un nuovo compagno. Che ansia! Vi prometto che alla cena della vigilia verrò con il nuovo fidanzato. Il quale, in realtà, non esiste. Come trovarlo è il tema degli aperitivi con la sorella e le amiche del cuore consumati al bar dove lavora una di loro, anche lei trentenne, carina e ancora illibata. Ma mentre sui canali si allestisce il presepe e il Natale si approssima inesorabile, gli approcci con l’altro sesso sono più che mai insoddisfacenti…

Realizzata da Luca e Matilde Bernabei di Lux Vide, ora società del gruppo Fremantle, Odio il Natale è un adattamento della norvegese Natale con uno sconosciuto. Notevole per la freschezza quasi fiabesca, regala un paio d’intuizioni sottotraccia, ma sostanziali come certi ingredienti nascosti nelle buone ricette. Senza la statuetta del Bambin Gesù, scomparsa nel canale e rinvenuta in extremis dai sommozzatori, non sarebbe un vero Natale. Il quale, a ben vedere, è la festa dell’imperfezione e non è indispensabile essere «a posto» per poterlo celebrare.

 

La Verità, 22 dicembre 2022

Con Veleno la docufiction fa un salto di qualità

Raramente una docu-serie italiana ha applicato tanta cura, tanta perizia, tanta completezza nel rispetto dei diversi e contrapposti punti di vista. È il caso di Veleno, cinque episodi disponibili su Prime video, tratti dall’omonimo libro e successivo podcast realizzati da Pablo Trincia dopo anni di inchieste, colloqui, testimonianze e letture di documenti relativi alla storia dei «Diavoli della bassa modenese», un’indagine che alla fine degli anni Novanta ha tolto 16 bambini alle famiglie di origine, condannando i genitori per pedofilia e abusi ritualistici. Una storia molto controversa, con tanti lati tuttora oscuri, che si basa sul meccanismo del falso ricordo o del ricordo indotto dagli psicologi e assistenti sociali nei minori. Una storia che ha segnato in modo tragico la vita della comunità locale e che è stata il precedente del successivo e ancor più diffuso scandalo di Bibbiano. La regia della docu-serie è di Hugo Berkeley e la produzione di Fremantle.

La difficoltà degli autori era aggiungere i volti e le immagini ai testi del libro e del podcast, considerando la comprensibile riluttanza dei bambini e delle nuove famiglie adottive a collaborare con Trincia per non riaprire ferite difficilmente cicatrizzabili. Dalle prime confessioni sono passati oltre vent’anni e su quei fatti, veri o presunti, quei bambini, ora adulti, hanno costruito una nuova identità. Con una violenza fisica subita si può trovare, con grande sofferenza, il modo di convivere, dice a un certo punto Trincia. Ma con una violenza psicologica e presunta, forse è ancora più difficile trovare un equilibrio perché si ha a che fare con dei fantasmi. «È come quando dentro un bicchiere d’acqua si versano delle gocce d’inchiostro. Prima una poi un’altra, poco alla volta tutta l’acqua si colora e a quel punto è impossibile separarla dall’inchiostro».

Il pregio della docu-serie, che rappresenta uno scatto di qualità del genere, è la narrazione a spirale, fatta di testimonianze dei protagonisti e delle vittime, la cui vita è stata profondamente e irrimediabilmente segnata. C’è stato un suicidio e chi è morto di crepacuore. Documenti, filmati dai tg, brevi stralci recitati e interviste agli operatori sociali, autori di terapie molto discutibili, realizzano un racconto che avvince lo spettatore come fosse un legal thriller di finzione. Particolarmente efficaci gli ultimi due episodi, imperniati sul making of dell’inchiesta di Trincia che condivide con Alessia Rafanelli il lavoro, i dubbi sul loro operato e la preoccupazione di rispettare le sensibilità già provate dei protagonisti.

 

La Verità, 10 giugno 2021

Se le suore sono meno conformiste delle bad girl

Inutile girarci intorno, la vera sorpresa sono le suore. Pazienti ma ferme. Rigorose ma amorevoli. Non moraliste e non disposte a soccombere con l’alibi dei limiti ampiamente e ripetutamente oltrepassati. Del resto, oggi, sono più anticonformiste delle monache che hanno fatto voto di povertà, castità e obbedienza o delle «cattive ragazze» votate al lusso, alla moda e allo sballo più o meno sfrenato? Il confronto degli opposti avviene in Ti spedisco in convento, quattro episodi di un’ora abbondante girati nel monastero «La Culla» di Sorrento, visibili sulla piattaforma Discovery+ e presto su Real time. Più spinto del Collegio, più estremo della Caserma, questo docu-reality, adattamento Fremantle del format Bad habits, Holy orders, è la frontiera dell’«esperimento sociale».

Truccatissime e scortate da trolley traboccanti di scarpe, minigonne e biancheria sexy, le cinque sgallettate arrivano ignare all’Istituto Bambino Gesù delle suore Oblate, congregazione fondata nel 1672 per dedicarsi a ragazze in difficoltà. È solo il primo della serie di traumi nei quali s’imbatteranno, sicurissime come sono di non essere «in difficoltà». Emy, 22 anni, cubista, chiede un po’ di ritmo alle monache per mostrare cosa fa nella vita e, al battere delle mani, inizia a dimenarsi e a twerkare. «Gli uomini vanno traditi… Sono sbandata e felice così», assicura. Valentina, 19, studentessa snob: «Di ragazze belle come me ne ho viste poche. Cosa non voglio fare? Stare senza trucco». Sofia, 22, è prossima al matrimonio: «Il mio motto è lusso e libertà. L’anello di fidanzamento? Sotto i cinque carati non è amore». Martina, 22, punk addicted dei social: «Tassativamente mi devo alzare all’ora di pranzo». Stefania, 23, regala l’istantanea della situazione: «Io sono l’anti tutto questo», riferito al posto in cui si trova. Avrà pane da mordere. «Non vado in guerra per perdere», confida suor Monica, la badessa che legge il regolamento della casa declinato in 50 norme, obiettivamente tante e destinate a essere infrante. «Sembra di stare in galera», è il benevolo commento. Ma le suore non si scoraggiano: «Dobbiamo interagire nel limite del possibile, senza tanto opprimerle». Appena si parla di felicità o del rapporto con il padre, sempre assente, emergono sofferenze e ferite profonde. Ottimo il lavoro degli autori, soprattutto nel sintetizzare in poche parole la tempra delle svalvolate. Quanto alle monache hanno posto come condizione che «il programma dovesse essere completamente vero, se no non avrei collaborato», ha giurato suor Daniela, madre generale dell’ordine. «A me interessavano le ragazze. Ci siamo rifiutate di fare le attrici».

 

La Verità, 14 marzo 2021