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«La femminocrazia è qualcosa d’insopportabile»

Questa è un’intervista maschilista, meglio scoprire subito le carte. Quando l’ho proposta ad Annamaria Bernardini de Pace, titolare dello studio legale specializzato in diritto della persona e della famiglia più importante d’Italia, ha accettato con entusiasmo. E, siccome Abdp è una persona di rara schiettezza, si sconsiglia la lettura agli amanti dei se e dei ma.
Signora Annamaria Bernardini de Pace, devo chiamarla avvocata o avvocato?
Odio avvocata. Voglio essere scelta per il ruolo non per il sesso.
Da dove viene questo lungo nome e cognome che lei abbrevia in Abdp?
L’abbreviazione sta per Amore baci denaro passione.
C’è tutto.
Ci sono le mie predilezioni e tutto quello che gli uomini faticano a dare alle donne.
Pessimista?
Sì. Ma chi lo sa più di me che in 40 anni ho incontrato e assistito più di 10.000 coppie.
E nella vita privata com’è andata?
Ho avuto uomini tirchissimi di passioni, ma generosi d’amore.
Allora non malissimo?
No, ma nella passione ci si scatena di più. Mi piace essere desiderata. Avrei voluto uomini gelosi, appassionati di cucina, di arte.
Di sesso no?
Anche. Ho avuto tanto amore contemplativo. Avrei voluto uomini amanti dei viaggi; ho chiesto che mi portassero a Marrakech, ma nessuno l’ha fatto.
Un bilancio in chiaroscuro?
La verità è che poi sono stata tradita perché ci sono donne capaci di fare la raccolta differenziata dei rifiuti altrui. Alcune in particolare dei miei.
Se si trattava di rifiuti non dovrebbe dispiacersene troppo.
Li ho dovuti rifiutare quando ho capito che queste donne si accontentavano più di me e così gli uomini si sentivano più forti. Con me c’era troppa parità.
Che cosa pensa della femminocrazia italiana?
Che è insopportabile. Non solo per le donne che sono nei luoghi di potere istituzionale – era ora! – ma per la mentalità femminile di oggi, in forza della quale pretendono di avere diritti che non hanno.
Per esempio?
Il diritto all’aborto che non è un diritto per niente. Basta conoscere la legge che offre un’opportunità di scelta da quando l’aborto è stato depenalizzato come reato… Anche in casa le donne sono convinte di avere un diritto di vita e di morte sui figli, mentre la legge parla di diritto dovere alla bigenitorialità.
Vuole scatenare un putiferio?
Lo scateno tutti i giorni, ma la femminocrazia continua a imperare. Le donne ritengono che quando denunciano qualsiasi cosa devono essere credute in quanto donne.
Nelle cause di matrimonio?
E di violenza sessuale. Credono di aver ragione a priori. Sono loro ad avere una mentalità patriarcale.
In che senso?
Dicono che l’uomo mente, che l’uomo è forte e perciò «noi donne dobbiamo essere credute». Partono da una posizione patriarcale. Invece, le donne sono più intelligenti, più scaltre, più manipolatrici, più attente psicologicamente agli altri e quindi più forti.
Concordo dalla seconda in poi.
Sono anche più intelligenti. Solo che hanno un’intelligenza emotiva e non razionale. Comunque sia, non c’è il patriarcato, ma il matriarcato.
Cosa glielo fa dire?
Il fatto che hanno posizioni di potere nella famiglia. Poi, certo, ci sono situazioni di violenza maschile nella famiglia e nella società.
Giorgia Meloni ed Elly Schlein le conosce?
Mai incontrate. Io sono un’antica liberale, radicale, attualmente anarchica, ma stimo molto Giorgia Meloni e penso che sarebbe una vera svolta se desse una sterzata alla sanità e alla giustizia.
Ci sta lavorando.
Ha iniziato la curva, ma serve una sterzata decisa.
A cena con chi fra le due?
Con la Meloni tutta la vita. La Schlein mi sembra che interpreti una parte.
In che senso?
Non mi sembra che creda in ciò che dice, mentre la Meloni è fin troppo autentica.
Si riferisce a quando si è presentata come «stronza» al governatore Vincenzo De Luca?
Avrei fatto la stessa cosa.
C’è chi sostiene che non lavori per il bene delle donne.
Questa è la femminocrazia insopportabile. Siccome c’è la prima premier si pretende che lavori per le donne. Mentre lei lavora per tutti.
Anche in Europa c’è la femminocrazia: Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, Roberta Metsola.
Gliel’ho detto, le donne sono più intelligenti e scaltre. Adesso che hanno lo spazio se lo prendono.
In Francia Marine Le Pen insidia Emmanuel Macron.
Io non approvo le idee di Marine Le Pen, anzi. Però sarebbe ora che quel bambino viziato fosse scalzato da qualcuno.
Paola Cortellesi è la donna italiana dell’anno?
Ha fatto un film furbissimo ed è una bravissima attrice.
Dopo quell’epoca con la protagonista del film che invece di scappare…
Ecco: quello mi ha deluso; sognavo vincesse l’amore, non la politica.
Le vede le bocche storte?
E chissenefrega?
Dicevo: dopo l’epoca raccontata nel film c’è stata la stagione delle lotte femministe. Lei era in prima linea?
Altroché. Con Marco Pannella, per il divorzio, la pari dignità, l’aborto. Eravamo femministe serie che si battevano per problemi reali. Quelle di oggi sanno solo combattere contro gli uomini.
Il femminismo attuale è amico o nemico delle donne?
Nemico assoluto.
Perché?
Abbiamo conquistato quasi tutto: che senso ha combattere l’uomo dopo che abbiamo voluto essere alla pari?
Alcune femministe contrastano l’utero in affitto.
Lo faccio anch’io. Però non è una prerogativa del femminismo, ma di uomini e donne che hanno sensibilità e rispetto dei bambini. Mi fa impressione che una donna faccia un bambino, lo espella e lo venda.
Poi c’è il femminismo che impedisce al ministro Eugenia Roccella di parlare in pubblico.
Ero con lei al Salone di Torino per presentare quel libro bellissimo, ma non ha potuto dire una parola. Glielo ha impedito la violenza delle femministe ignoranti che credono che sia contro l’aborto quando anche lei ha combattuto le battaglie con Pannella.
Perché il suo studio legale difende più uomini che donne?
Perché le donne sono così feroci che sanno difendersi da sole. E le vere vittime, a parte quelli schifosamente violenti, sono gli uomini.
Una causa che avrebbe voluto seguire e le è sfuggita?
Quella di Berlusconi che mi voleva, ma gliel’hanno impedito. Sono stata tre giorni a parlare con lui dei suoi problemi e ho apprezzato un uomo intelligentissimo e affascinante, diverso da quello che ci raccontavano.
Chi gliel’ha impedito?
Non lo so, mi ha detto che c’erano delle resistenze.
Nemmeno lui così potente era totalmente indipendente?
Sono stata felice di non avergli mandato la parcella per quella consulenza perché ho avuto il piacere di parlare con una persona che capiva qualsiasi cosa e la rendeva più interessante, rispiegandola.
Perché ha rinunciato alla difesa di Francesco Totti?
Perché mi piacciono le cause che portano all’affermazione del miglior interesse per i figli. Invece quella rischiava, come poi è successo, di essere una causa mediatica con l’affermazione dell’interesse di tutti tranne che dei figli.
I femminicidi sono espressione di potere o di impotenza maschile?
Secondo me, di impotenza. Gli uomini sentono il bisogno di vendetta. Sono mossi dal narcisismo come affermazione di sé, dall’invidia della donna, dall’incapacità di gestire l’umiliazione. Quindi da una debolezza, non da una forza.
Molti femminicidi avvengono quando la donna li lascia.
Se non sai reggere all’umiliazione, uccidi. È l’inammissibilità di sentirsi inferiori, rifiutati.
Perché sono abituati ad avere tutto?
Non sono abituati a una relazione paritaria.
Questo sarebbe patriarcato.
No, se uno è impotente non è patriarcato, ma coglionaggine, cattiveria che porta a uccidere.
Oltre alla mascolinità tossica esiste anche la femminilità tossica?
Ha voglia!
Come si manifesta?
In quelle donne che, educate male, viziate e prepotenti, sono incapaci di fare qualsiasi cosa di concreto. Pensi come rendono la vita di un uomo, pensi se ce l’avesse lei una donna così. Poi ci sono anche donne violente, che uccidono i figli. Violente non solo psicologicamente, ma anche fisicamente con i mariti che però si vergognano a denunciarle come una volta si vergognavano le donne.
Si può dire qualcosa se certe ragazze si vestono come cubiste o è sessismo?
Trovo vergognoso che non abbiano dei genitori in grado di educarle soprattutto quando in giro ci sono uomini violenti di natura, non educati, uomini di tutte le razze e le religioni. Non sopporto le femministe che dicono: mi posso vestire come voglio senza che venga interpretato come una provocazione. Invece, lo è.
Che idea si è fatta del caso Ferragni?
Non posso parlarne.
La sua avversaria è stata un’altra donna.
Un’altra famiglia distrutta dalla più fervida giustiziera che abbiamo in Italia.
Selvaggia Lucarelli.
L’ha detto lei.
E la sorellanza?

Mi piacerebbe tanto che ci fosse; da 40 anni il mio studio è basato sulla sorellanza. Ho quasi solo collaboratrici, resistono due uomini, una quota azzurra minima. Insegno a solidarizzare e chi non fa come dico io sparisce dagli studi.
Alla faccia del patriarcato. Marina Berlusconi cavaliere del lavoro?
Giustissimo. Ma non capisco come non sono mai stata nominata io. Certo, lei fattura mooolto più di me.
Lei è anche membro del Giurì di autodisciplina della pubblicità.
Lo sono stata 30 anni, di più non si può. Un’esperienza appassionante.
Che cosa pensa dei mammi e dei massai degli spot?
Certi tiranni del pensiero vogliono promuovere il politicamente corretto.
Le piace Luciana Littizzetto?
Mi diverte.
Maria De Filippi?
Mi impaurisce.
Serena Bortone?
Simpatica. Ci frequentiamo.
Lilli Gruber?
Non la guardo perché mi innervosisce la sua parzialità.
Per chi ha votato alle Europee?
Si figuri se glielo dico. Sono anarchica.
Le hanno mai chiesto di candidarsi?
Tutti gli schieramenti.
E?
Non mi basterebbero gli stipendi proposti.
Mi svela un suo segreto, un libro, una serie tv, una persona che adora?
Vorrei rinascesse Giorgio Gaber.

 

Panorama, 26 giugno 2024

«Gaber uomo libero, la sinistra doveva ascoltarlo»

Per una volta si può dire «il marito di». Riccardo Milani lo è di Paola Cortellesi e, anche se lui, giustamente, recalcitra con un sonoro «no» quando lo provoco, da lunedì competeranno al botteghino. Ha ragione: C’è ancora domani, diretto e interpretato da sua moglie alla prima regia, pluripremiato alla Festa di Roma, è in vetta agli incassi, mentre Io, noi e Gaber, pure passato a Roma, è «solo» un documentario (prodotto da Atomic con Rai Documentari e Luce Cinecittà, distribuito da Lucky Red) che andrà nelle sale come evento speciale il 6, 7 e 8 novembre.

Giorgio Gaber ci manca da vent’anni e ritrovarlo ora nei monologhi in tv e a teatro («Fisicamente non ce la faccio a essere di destra. Ma come mi fanno incazzare quelli di sinistra…», ai tempi della candidatura di Ombretta Colli in Forza Italia), al fianco di Enzo Jannacci, Mina e Celentano e nei ricordi di chi l’ha frequentato, è un regalo oltre che per i suoi cultori anche per il grande pubblico. Il cinema di Milani, da Buongiorno Presidente! a Come un gatto in tangenziale, ha l’ambizione di coniugare contenuti e linguaggio pop e dunque non c’era regista migliore per raccontare un artista che è stato coscienza critica e grande uomo di spettacolo.

Questo documentario è un’idea sua, della Fondazione Giorgio Gaber o di qualcun altro?

«Con la figlia, Dalia Gaberscik, ci eravamo già sfiorati in passato, poi due anni fa mi ha chiamato: “Nel 2023 saranno vent’anni dalla morte di mio padre e vogliamo fare qualcosa. Sappiamo quanto gli vuoi bene, facci una proposta”. Da lì è partito tutto».

Lei è romano, Gaber milanese: come lo ha intercettato?

«Già da piccolo ascoltavo Goganga, Torpedo blu, La ballata del Cerutti, Il Riccardo. Poi il suo corpo con quel modo di muoversi si è abbinato a quelle canzoni orecchiabili. Più tardi, diciottenne, ascoltavo i testi del Teatro-canzone. Con quelle riflessioni e le loro durezze arrivavano tanti segnali che riguardavano la nostra vita, il movimento, la politica. Era un punto di riferimento. Provavo a far mia una sua costante: il coraggio, la capacità di seguire la propria strada, anche con una certa rabbia, se necessaria».

Era solo ascolto o anche rapporto personale?

«Era il rapporto di chi andava sempre ai suoi spettacoli quando veniva a Roma. Aspettavamo i suoi concerti e i suoi pezzi come si aspetta una parola importante. Su Gaber ci si divideva molto. Aveva amici, estimatori ma anche detrattori sia a destra che a sinistra. Io apprezzavo la sua semplicità di dire le cose senza filtri o strategie di comunicazione».

A sinistra c’erano anche altri cantautori di riferimento.

«Stimavo molto Francesco De Gregori, Fabrizio De André, Franco Battiato. Ma la parola di Gaber aveva un’autenticità diversa perché era diretto, mescolava ironia e rabbia. Polli di allevamento fu una mazzata sui denti: ci aveva detto che eravamo passati da movimento a moda».

L’omologazione di Quando è moda è moda.

«Fu quasi un’offesa personale, la denuncia che tutto aveva preso un’altra piega. Come sarebbero andate le cose se avessimo ascoltato di più Gaber? Avremmo imparato a giudicare un’idea per quello che era a prescindere dalla sua provenienza di destra o di sinistra, senza essere ideologici».

In quella canzone denunciava i vezzi delle élite, «le parole nuove sempre più acculturate… che per uno di onesti sentimenti quando ve le sente in bocca avrebbe una gran voglia che vi saltassero i denti».

«Un testo attualissimo».

Facciamo che l’io del titolo del documentario sia lei: chi è Gaber per Riccardo Milani?

«Un uomo libero. Credo sia la definizione più giusta».

Gliene sottopongo altre: un grande anticonformista, un benefico scocciatore dell’anima, la coscienza critica della sinistra.

«Tutte hanno qualcosa di giusto. Gaber è stato anche un musicista, un cantante, un conduttore tv, un uomo di teatro che ha inventato un genere. Un grande intellettuale. Che sapeva essere al tempo stesso colto e pop, un passo avanti e un passo indietro».

Il noi del titolo chi rappresenta?

«Tutti noi che dobbiamo fare i conti con lui. Le persone che poi ho incontrato nel mondo della tv, del cinema, del teatro e della politica. È un resoconto che possiamo fare adesso, per capire come il nostro Paese si è trasformato e si sono avverate certe sue previsioni».

Tipo il rimescolamento di destra e sinistra?

«Alcune abitudini che nella sua famosa canzone erano prettamente di destra sono diventate di sinistra e viceversa. Oggi il culatello è consumato anche a sinistra».

Il documentario rischia di mettergli il timbrarlo come uomo della sinistra?

«Non direi. È un lavoro attraverso il quale la sinistra può confrontarsi con lui e rivedere la propria evoluzione».

Ci sono Michele Serra, Fabio Fazio, Ivano Fossati, Claudio Bisio, Pierluigi Bersani, Mario Capanna, naturalmente Sandro Luporini…

«Tutte persone che si misurano con loro stesse e gli errori del passato».

Non ho notato grandi autocritiche.

«Già allora Gaber poteva farci aprire gli occhi. Adesso Fazio ammette che era ridicolo dividere il mondo in due e forse all’epoca non lo pensava. Poi ci sono lo sguardo di un cattolico come Massimo Bernardini, il pensiero di Paolo Dal Bon, Mogol che ricorda che quei militanti fecero piangere De Gregori…».

Mogol non fa autocritica da sinistra.

«Lui e Battisti erano etichettati come fascisti solo perché non facevano canzoni impegnate. Erano anni di follia generale. Io l’ho voluto dire nel cinema, ma vale per la musica, il teatro: la qualità di un prodotto si valuta senza affibbiare etichette».

Qual è il lascito di Gaber?

«Forse la critica al consumismo non legato all’essenziale. La difficoltà della generazione dei padri di trasmettere a quella successiva questa autenticità. E poi l’invito a non delegare, la famosa partecipazione, e ad avere un’identità forte».

Ma la sua generazione ha perso o no?

«Penso che da allora alcune istanze giuste siano arrivate. Se guardiamo alla società di oggi non possiamo non vedere una forte deriva consumistica».

Il lascito può essere anche il primato della sfera esistenziale su quella politica? È la persona nella sua totalità a giudicare anche la politica e non il contrario?

«Ho sempre pensato che nella sfera esistenziale ci dev’essere anche la politica. Viviamo in una comunità. Gaber metteva in guardia dal delegare troppo. Fino a qualche anno fa i votanti erano il 75%, ora siamo al 50%. Cioè, c’è un 25% che non esercita più nemmeno una sana delega».

Quali sono le sue tre canzoni preferite?

«C’è solo la strada, Quando è moda è moda e La libertà».

Ce n’è una o un verso che l’ha ferito di più?

«Mi ripeto “la strada è l’unica salvezza”. Penso che oggi sia fondamentale vivere la società in cui siamo in modo non personalistico, intimistico».

Da lunedì il suo documentario contenderà gli spettatori a C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi in vetta al botteghino.

«Ma nooo».

Certo, non ci può essere gara… Vi aspettavate questo successo o vi ha sorpreso?

«Paola è molto stupita e io sono molto felice per lei. Per il cinema italiano è qualcosa di importante. Il valore di un film è anche l’impatto che ha sul pubblico in un preciso momento. Il fatto che alla fine della proiezione il pubblico applauda in modo spontaneo significa che il film riaccende una scintilla di senso civico, rimasta sopita in molti di noi».

Paola ha recitato in alcuni suoi film: che esperienza è dirigere la propria moglie?

«Non so cosa dire, mi piace molto come attrice perché sa essere tante cose e arrivare al cuore e alla mente delle persone».

Aveva intravisto il suo talento di regista?

«Sì, avevo intuito che è in grado di dirigere un film. E che ha la cifra per parlare a un pubblico trasversale, di bambini e adulti».

Possiamo dire che difficilmente non vi portate il lavoro a casa?

«Invece possiamo dire che molto facilmente non ce lo portiamo. Non frequentiamo feste, terrazze e salotti. Andiamo alle anteprime solo degli amici e a teatro paghiamo il biglietto».

Le avrà chiesto consigli per la regia.

«Zero, non ho voluto sapere nulla. Quando abbiamo fatto film insieme ha visto sul set come lavoravo, stop. Così avrà fatto anche con gli altri registi con cui ha lavorato».

Non le ha chiesto faccio così o colà?

«Non sapevo nemmeno la storia, salvo che era in costume. Ho visto il film finito».

Stento a crederlo. Il successo di questo film dà ragione a Pierfrancesco Favino quando dice che dobbiamo credere di più nelle storie italiane interpretate da italiani?

«Ho sempre pensato che dall’estero arrivano grandi film, ma anche film brutti e sopravvalutati. La scelta degli attori dipende dai produttori e dai registi. Pierfrancesco ha fatto bene a porre un problema d’identità, invitando ad avere maggiore attenzione per la nostra creatività».

Che cosa pensa dei finanziamenti del ministero dei Beni culturali al nostro cinema?

«Penso che sanità, istruzione, ricerca e cultura siano i pilastri portanti di ogni Paese civile. Il cinema appartiene al nostro patrimonio e va trattato come tale. Poi è possibile che negli anni scorsi qualche errore sia stato commesso e qualche finanziamento sia stato sbagliato. Una volta individuate, le distorsioni vanno eliminate».

In un momento come questo converrebbe ridurre le produzioni e concentrare le risorse?

«Dev’esserci spazio anche per chi il cinema deve rinnovarlo. È giusto investire nel futuro. Altra cosa è disperdere le risorse in tanti film che incassano pochissimo. A volte si promuovono prodotti che un pubblico non l’avranno mai».

O hanno 29 spettatori in sala.

«Magari poi si riscattano sulle piattaforme. Bisogna individuare gli sprechi e anche qualche errore consapevole».

Il cinema italiano è autoreferenziale, espressione di un ristretto circolo di registi, registe, attori e attrici?

«Non lo so. Non ho mai fatto parte di nessun circolo. Amo il mio mestiere cercando di raccontare storie che trovino il pubblico. Qualità vuol dire anche essere popolari. L’autorialità a tutti i costi può rivelarsi dannosa».

Ha già in mente il suo prossimo lavoro?

«Sto montando il film con Antonio Albanese e Virginia Raffaele che uscirà a gennaio e s’intitola Un mondo a parte».

Quale sarebbe questo mondo?

«Un minuscolo paesino di montagna».

Gaber cantava: «Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva,
la pittura lo esigeva, la letteratura anche: lo esigevano tutti». Sbagliava?

«Non sbagliava. Penso che la qualità di un film non dipenda dall’appartenenza politica di chi lo realizza. Purtroppo ci sono stati anni in cui il cinema è stato giudicato con questo parametro. Ed è stato un errore».

 

La Verità, 4 novembre 2023

 

 

 

Vogue, il cinema: la sinistra si rifugia nell’immaginario

Ha ragione Carlo Freccero nella sua riflessione su Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti pubblicata da Dagospia: la sinistra ha perso, il cinema ha vinto. O forse pareggiato. Detta in sintesi, tralasciando tutto l’armamentario morettiano di canzoni canticchiate in auto, di tic linguistici, di mini lectio magistralis sul cinema (la lunga citazione di Breve film sull’uccidere di Krzystzof Kieslowski) è questa la tesi dell’ex direttore di Rai 2. Ma è chiaro che si tratta di una vittoria consolatoria, ecco perché, in sostanza, di un pareggio. Cioè, di una fuga, una ribellione, un rifiuto della realtà che solo il cinema può permettere. In qualche modo, lo aveva teorizzato Bernardo Bertolucci riproposto dal suo allievo più fedele, il Luca Guadagnino di Chiamami col tuo nome e la serie We are who we are, capisaldi della gettonatissima cinematografia woke, in un’intervista concessa a Marco Giusti: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Ecco, c’è tutto: il motore, la sorgente dell’arte non è la realtà, ma il cinema stesso. È così anche in quest’ultima prova dell’autore di Caro diario.

Come sottolineato dai critici più accorti, l’ispirazione del Sol dell’avvenire è 8 e ½ di Federico Fellini. Anche qui il protagonista è un regista in crisi che stenta a trovare il bandolo. Ma nel lavoro del più autarchico dei nostri cineasti, l’autoreferenzialità si dispiega in tutta la sua potenza, dalla voce monocorde ed esortativa che abbiamo imparato a conoscere con Michele Apicella, alle ridondanze della propria filmografia (il giro per il quartiere Prati in monopattino, il pallone calciato verso il cielo, le comparsate amichettistiche, l’amore per i dolci, la pallanuoto, i sabot…). Tuttavia, ciò che più conta è la ribellione, l’insurrezione ideologica: «La storia non si fa con i se… e chi l’ha detto?». È il punto di svolta del film. Freccero cita il Giorgio Gaber di «La mia generazione ha perso», ma Moretti non ci vuole stare, e con lui il suo alter ego, il regista che sta girando un film sulla storia della sinistra, quella nella quale per un certo periodo il Moretti militante, il Moretti cittadino, provò a entrare con i girotondi: «Con questi leader non vinceremo mai». La stessa sinistra su cui si era macerato in Palombella rossa e Aprile: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra». A Fabio Fazio che gli chiedeva se pronuncerebbe di nuovo quella frase, il regista ha risposto: «Sudo, sudo». Nel Sol dell’Avvenire c’è questo sudore, questo impaccio. Come sarebbe stata diversa la storia se, nel 1956, al momento dell’invasione di Budapest, i dirigenti del Pci si fossero ribellati all’Orso sovietico. Se avessero tirato su la testa, rifiutato di allinearsi, stracciato l’acquiescenza. Tutto sarebbe andato diversamente e il mondo progressista sarebbe andato incontro al futuro radioso rappresentato dal Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo con tutti i suoi attori sorridenti, inebriati, sognanti, estasiati.

Non è andata così e non è un dettaglio. Un’oligarchia si era già impadronita dei sogni di riscatto del proletariato. E, nonostante il revisionismo cinematografico di Moretti (e del Veltroni di Quando), il Pci obbediva alla nomenklatura del Cremlino. Per definire l’epopea sovietica di quegli anni non va scordato che al sostantivo «socialismo» si abbinava l’aggettivo «reale». I sogni stanno a zero. Non è la sinistra ad avere perso, ma la realtà. Dodici anni dopo l’invasione di Budapest altri carri armati invasero Praga per stroncare la Primavera di Dubcek. E fu in seguito a quella repressione che Jan Palach scelse di immolarsi davanti alla statua di San Venceslao.

Se la realtà fa obiezione non resta che rifugiarsi nel cinema. Anche in Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores c’è un regista in crisi (interpretato da Toni Servillo). Si fa cinema sul cinema. O televisione sul cinema. Come in Call my agent, la serie imperniata su un’agenzia alle prese con i tic e le ossessioni degli attori. Il cinema è la bolla della realtà, nella quale si può dar libero sfogo all’invenzione. «Il cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale», scrive Freccero. E così può diventare il doppione riveduto e corretto della storia. Il luogo dei sogni, dell’utopia, dell’immaginario. La riserva nella quale metabolizzare le sconfitte. Si vive nell’immaginario e dell’immaginario. Lo si scambia, lo si confonde, con il reale. È così che si fa politica. È così che si fa comunicazione. È così che si mantiene l’egemonia. Quando Elly Schlein, che ha debuttato in società in una cena a casa Baglioni tra registi e cantautori, incarnando trent’anni dopo la trama della Terrazza di Ettore Scola, concede la sua prima intervista da segretaria del Pd a Vogue – non al Manifesto o a Repubblica o a Micromega (Rinascita chiuse nel 1991) – afferma ciò che è realmente. Delinea il suo universo di riferimento, le classi sociali a cui si rivolge, il suo modo di fare politica e di parlare a quella che considera la sinistra. Non c’è da scandalizzarsi per la frequentazione del lusso, né da stracciarsi l’eskimo in preda a rigurgiti novecenteschi e pauperistici. C’è solo da prendere atto che il cerchio si è chiuso. E che la simpatica Elly è diventata ciò che è: «un personaggio perfetto di un film di Guadagnino».

 

La Verità, 1 maggio 2023

«Mio padre Gaber, uno di sinistra non della sinistra»

Di sinistra, ma coscienza critica della sinistra. Del conformismo e di quello che poi avremmo chiamato pensiero unico. Senza però mai atteggiarsi, né adagiarsi nel ruolo: l’inventore del Teatro canzone era sempre un passo avanti. E, ora che non c’è più da vent’anni, quanto manca, a tutto campo. Basterebbero i titoli delle canzoni e degli spettacoli – Far finta di essere sani, Libertà obbligatoria, E pensare che c’era il pensiero, citando poco e alla rinfusa – per dire quanto Giorgio Gaber è attuale oggi, e precursore era allora. La figlia Dalia Gaberscik ha creato e dirige l’agenzia di comunicazione Goigest (Gianni Morandi, Jovanotti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti tra i suoi artisti) ed è vicepresidente della Fondazione Gaber. Ma soprattutto è la custode dell’opera del padre. Per la conservazione della quale annuncia una collaborazione con la Rai.

Chi era Giorgio Gaber?

«Mio papà, semplicemente. Ho avuto presto la percezione che era un papà fuori dal comune».

Vent’anni senza di lui che mercoledì prossimo di anni ne compirebbe 84: che cosa le manca di più?

«Mi manca il riferimento delle decisioni personali e professionali. Anche sul piano artistico sono orfana, come lo sono tutti quelli che l’hanno stimato. Però abbiamo la fortuna che il suo lavoro è ancora eccezionalmente attuale».

Quanto è stata importante nella sua vita la poliomielite contratta da piccolo?

«Abbastanza, direi. Ha formato il suo temperamento, la serietà nell’affrontare le cose. È stata decisiva nella formazione di musicista, lo ha reso tenace nella costruzione dei suoi spettacoli».

Suo padre gli regalò una chitarra perché esercitandosi sciogliesse la mano colpita dalla malattia. Lui ci prese gusto e una volta disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia».

«È andata così».

Chi era l’uomo di spettacolo Giorgio Gaber?

«Una persona semplice e curiosa. Molto ambiziosa nel voler trovare forme d’innovazione e stimoli intellettuali. Quindi, un grande lavoratore».

Cosa significa, concretamente?

«Che non si fermava mai. La sua ricerca di temi da trattare, di cui scrivere o da mettere al centro delle conversazioni con Sandro Luporini non aveva pause. Se a una cena ricorreva un argomento capivo a cosa si stava interessando».

Un uomo di sinistra mal tollerato dalla sinistra?

«Un uomo di sinistra, non della sinistra».

Cosa vuol dire?

«Che nasce di sinistra e ha un’attitudine artistica e comportamentale che richiama i valori della sinistra, senza una necessaria appartenenza alla partitica della sinistra».

Ebbe una prima stagione artistica, quella di Torpedo blu, Il Riccardo… che cosa lo fece virare verso la canzone impegnata?

«Credo che l’incontro decisivo fu con Paolo Grassi quand’era sovrintendente del Piccolo teatro di Milano. Fino a quel momento mio padre apriva gli spettacoli di Mina, un’esperienza non semplicissima perché il pubblico aspettava Mina. Ma lui ci è stato e, sera dopo sera, ha instaurato una relazione artistica prioritaria e unica con il pubblico. Fino a iniziare a pensare, con l’incoraggiamento di Paolo Grassi, di poter chiudere con la tv. Quel rapporto lo incoraggiò a rinunciare a tutto, a fronte di un mestiere difficile come il teatro. All’inizio, non sempre agli spettacoli del Signor G c’era il pienone».

L’hanno influenzato anche la canzone francese e Jacques Brel?

«Lo affascinavano molto e sicuramente hanno influito, ma la passione per il teatro nasce con Mina».

Però non indossò mai il sussiego esistenzialista.

«No. Il teatro era solo il posto dove avevano maggiore capacità di penetrazione le cose che voleva dire».

Che rapporto aveva con le donne?

«Erano anni abbastanza affollati, per usare un suo paradigma. C’era la rivoluzione femminista e mia mamma era molto impegnata. Ma loro si fidanzarono da piccolini, 19 anni lei 24 lui. L’ho sempre visto follemente innamorato. Il rapporto con il mondo femminile è sempre transitato da una donna molto diversa dall’universo tradizionale, impegnata per il divorzio e l’aborto in anni molto caldi».

In Chiedo scusa se parlo di Maria canta: «La libertà, Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia, Maria, la realtà». Le donne interrompono le astrattezze ideologiche e riportano alla realtà?

«Direi di sì. Mentre il mondo parlava della rivoluzione pensava fosse altrettanto importante parlare del rapporto tra un uomo e una donna».

In un altro brano canta: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».

«Era un invito a essere concreti perché troppa ideologia finiva in chiacchiere da bar. Chiacchieriamo e pontifichiamo pure, ma se non siamo concreti rischiamo di essere dei ciarlatani, nel senso di ciarlare e basta».

In che cosa può essere considerato un precursore?

«Basta rileggere i temi affrontati con Luporini, temi dai quali per tanti anni i cantautori si sono tenuti lontano. Come le riflessioni sul rapporto di coppia, di un’attualità sconvolgente».

«Al bar Casablanca con una gauloise, la nikon, gli occhiali. E sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali»: anno 1974, vide già la nascita dei radical chic?

«Potrebbe essere senz’altro così. Era un bar di Viareggio, frequentato da intellettuali».

In Io come persona, 1995, descrive «un tempo indaffarato e inconcludente», ma evoca la reazione e la responsabilità dell’io.

«La maggior contemporaneità è quando si addentra nell’analisi della persona. Abbiamo molte testimonianze di giovani che ce lo confermano. Mentre quando affronta la politica anche con pezzi ironici a volte cita figure che i miei figli ignorano, nelle questioni che riguardano l’animo umano mi sembra non ci siano rivali. S’inoltrava in un territorio unico».

È qualcosa che andrebbe protetta e tramandata ai giovani?

«Ci stiamo lavorando, raccogliendo tutti i materiali che in questi vent’anni abbiamo trovato. In collaborazione con la Rai stiamo definendo un progetto di organizzazione di tutto questo materiale».

Vedremo dei programmi tv?

«Per ora è un progetto finalizzato al recupero e alla conservazione».

Come lavoravano lui e Luporini?

«Facevano lunghissime chiacchierate. Mio padre andava in tour durante l’inverno, poi all’inizio dell’estate si ritrovavano a Viareggio, prima all’hotel Maestoso, poi al Plaza e negli anni Ottanta a casa nostra. Erano chiacchierate su tutto, che duravano dal primo pomeriggio fino a dopo cena».

Destra-sinistra è un brano del 1994: aveva già capito che erano categorie che non coglievano più l’essenza delle cose?

«Direi proprio di sì».

Non era una riflessione indotta dalla scelta di Ombretta Colli di candidarsi in Forza Italia?

«È un pezzo nato ben prima. Penso che in teatro l’avesse proposta già nel 1992-’93. Registrava le canzoni quando gli pareva. Al contrario di quello che succede oggi, lui usava il disco per fermare quello che aveva già avuto una vita a teatro».

Però tornò a votare per lei dopo anni che non lo faceva…

«È vero. Disse che il voto va dato alle brave persone e siccome pensava che sua moglie lo fosse, decise di votarla: “Non mi perdonerei mai se non fosse eletta per un voto”».

Fu criticato?

«Moltissimo. L’hanno messo in croce. Molti dei suoi ex amici della sinistra gli hanno anche chiesto di separarsi; perché qualcuno che ti chiede una cosa del genere non penso sia un tuo vero amico».

C’era qualche intellettuale in cui si riconosceva? Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco…

«Direi di no. La loro ricerca scandagliava tutti, da Borges a Pessoa a Rilke, per rubare anche a mani basse, ma dichiarando sempre il debito dalle fonti. Di italiani non ricordo di aver mai visto citato nessuno».

Il potere dei più buoni, 1998, fu un’altra profezia del buonismo terzomondista ecologista a caccia di visibilità?

«Era un sentimento omologato che faceva nascere dei sospetti sull’originalità del sentimento stesso».

Sembrano profili cuciti da un sarto, come in Si può e Il conformista.

«Non c’era un destinatario singolo. Fotografava una tendenza, un sistema di pensiero».

Per che cosa perdeva la pazienza?

«Detestava la superficialità, il tirar via le cose, il fatto di non esser seri. Diceva che voleva essere ricordato come una persona seria, la poliomielite l’aveva formato. Una cosa che diceva sempre della tv, anche a Celentano: tu provi due ore una cosa che vedranno 13 milioni di persone, io tre mesi una cosa che vedranno 300.000 persone».

Era una provocazione?

«Certo, erano grandi amici. Volle tornare in tv proprio ospite di Celentano con il quale si volevano bene».

Ha mai fatto una litigata furiosa?

«Non era un litigatore, uno che si metteva a urlare. I suoi silenzi erano punitivi e più che sufficienti, lo dico da figlia».

C’è qualcosa o qualcuno che non gli piacerebbe dell’Italia di oggi e qualcosa o qualcuno che apprezzerebbe?

«Domanda difficile. Non so cosa penserebbe degli influencer… L’approccio del successo facile non gli piacerebbe. È morto nel 2003, ma per ciò che è successo nell’intrattenimento e nella comunicazione son passati tre secoli».

Vuole raccontarci qualcosa di poco conosciuto della sua vita?

«Quando, a causa dei problemi di salute, non poteva più esibirsi a teatro, io e Paolo Dal Bon, ora presidente della fondazione, lo convincemmo a incidere un disco. Il successo di La mia generazione ha perso, che fu primo in classifica, lo spiazzò perché si accorse che il lavoro destinato al teatro lo aveva fatto arrivare a un numero limitato di persone».

Ho letto su .Con un articolo di Enzo Manes che racconta la sua partecipazione al Meeting di Rimini e l’inizio di un carteggio con don Luigi Giussani.

«Avvenne a fine anni Novanta. A proposito di persone serie, era incuriosito da gente che aveva voglia di riflettere e pensare. Confrontava quel mondo con la deriva del movimento studentesco che l’aveva affascinato ai suoi tempi».

Fu contestato dalla Pantera?

«Non ricordo. Ricordo uno scontro nel camerino del teatro Lirico con gli autoriduttori che volevano imporre esibizioni di persone qualsiasi».

Era incuriosito dalla gente del Meeting pur da posizioni diverse?

«Più di una semplice curiosità era un interesse sincero verso il mondo dei cattolici, interlocutori che lo soddisfacevano sul piano intellettuale e della passione per il ragionamento. Certo, con posizioni diverse, come sull’aborto e il divorzio».

Chi era suo padre?

«Un grande. Da ragazzina non capivo i contenuti degli spettacoli, ma vedevo la faccia delle persone quando uscivano dai teatri e capivo che era un’artista e una persona speciale. Sulla sua tomba abbiamo scritto “Artista”. Anche se lui forse avrebbe preferito “Una persona per bene”».

 

La Verità, 21 gennaio 2023

Destra-sinistra, mappa culturale con molte rughe

I grandi scrittori saranno anche tutti di destra, ma l’egemonia culturale è ancora di sinistra. La complessa questione tiene banco da decenni su fogli e riviste più o meno specializzate, ma è stata sagacemente rinfocolata da due recenti pubblicazioni di altrettante piccole e vivaci case editrici. De Piante ha appena mandato in libreria (in sole 300 copie) I grandi scrittori? Tutti di destra, volumetto che ripropone e contestualizza il dinamitardo testo scritto da Giovanni Raboni per il Corriere della Sera il 27 marzo 2002. Historica edizioni ha invece ripubblicato nientemeno che L’egemonia culturale di Antonio Gramsci. Due testi a loro modo complementari e illuminanti il paesaggio intellettuale odierno.

All’epoca, Raboni si era permesso di replicare a Francesco Merlo dettosi scandalizzato perché sull’Unità, cioè il foglio ufficiale della sinistra, Angelo Guglielmi aveva ardito recensire in modo men che entusiastico, Umberto Eco, secondo Merlo il «grande intellettuale che da quarant’anni incarna la sinistra per gli intellettuali». L’ex direttore di Rai 3 già membro del Gruppo ’63 si era discolpato confessando che la sua ammirazione per Eco era «così piena (anzi trabocchevole) che tende ad andare oltre la mia capacità di esprimerla inducendomi a denunciare la sofferenza che me ne viene». Qualche giorno dopo intervenne Raboni ribellandosi alle discipline di schieramento in campo letterario e rivendicando libertà dall’«insidioso pregiudizio, quello secondo il quale una persona di sinistra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di sinistra e una persona di destra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di destra. Non è così…». Al contrario, Raboni tracciava un filo di collegamento in tanti autori del Novecento fra «progressismo politico e conservatorismo stilistico da una parte e fra passione sperimentale e sfiducia nelle magnifiche sorti e progressive dall’altra». L’intervento si concludeva con un lungo elenco di grandi scrittori (riporto solo gli italiani ndr) appartenenti o «collegabili a una delle diverse culture di destra… Croce, D’Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Landolfi, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa». La lista avrebbe potuto arricchirsi di altri nomi (Eugenio Corti e Giuseppe Berto, per dire) e allargarsi ad autori non ascrivibili all’emisfero opposto (Guido Ceronetti, Ferdinando Camon…). Ciò detto per mostrare che sempre più, avvicinandosi al presente e considerando anche i cinquanta-sessantenni, quella manichea catalogazione rivela oggi tutta la sua fragilità. Come incasellare, citando ancora all’impronta, autori come Susanna Tamaro, Aurelio Picca, Aldo Nove, Luca Doninelli, Pietrangelo Buttafuoco, Daniele Mencarelli, Vitaliano Trevisan… Nel nuovo millennio la liquidità si espande alla letteratura e la vecchia mappa necessita di aggiornamento.

E qui entra in campo la rilettura gramsciana suggerita da Historica. A stemperare ulteriormente possibili facili entusiasmi – «la vera letteratura è di destra» – concorre infatti la persistenza del sistema edificato dagli «intellettuali organici» della sinistra, figure che alla formazione ideologica uniscono caratura di attore sociale e doti organizzative. Ora, è pur vero che sarebbe errato sovrapporre l’architrave dell’egemonia culturale con la categoria più generica di scrittori. Ma in qualche caso torna conto farlo. Se Tamaro, Picca o Nove non accetterebbero mai di considerarsi organici ad alcunché, sul fronte opposto vive una schiera nata nel brodo dell’intellettuale organico alla maniera di Elio Vittorini, almeno fin quando non si distaccò dal Pci. Scrittore e fondatore di riviste, scisse il paesaggio culturale tra antifascisti comunisti e no. Non a caso da potente editor rifiutò Il dottor Zivago e Il Gattopardo. Cose note.

La rilettura del testo gramsciano, con la teoria della formazione del consenso, getta una luce chiarificatrice su ciò che ci circonda. La letteratura sarà di destra, ma la cultura è in mano alla sinistra. L’occupazione delle «casematte dello Stato» – gli apparati della società civile, la scuola, i partiti, i sindacati, la stampa – è perfettamente riuscita. Oggi il Pd è l’unico vero partito rimasto attivo in Italia. La scuola, particolarmente la media superiore, è lastricata dalla presenza di professori e professoresse dem. La carta stampata è in maggioranza appannaggio di giornalisti di sinistra come ha mostrato il rapporto di Worlds of Journalism Study della Columbia University Press (2019, sondaggio demoscopico su 25.700 cronisti di 67 Paesi) che documenta come l’Italia sia il Paese europeo con la stampa più schierata. Parlando dei lettori nel capitolo dedicato al giornalismo, il fondatore del Pci e dell’Unità, scriveva che «devono essere considerati da due punti di vista principali: 1) come elementi ideologici, “trasformabili” filosoficamente, capaci, duttili, malleabili alla trasformazione; 2) come elementi “economici”, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri». Va altresì rilevato che quando Gramsci scriveva i suoi Quaderni del carcere non esisteva la televisione e non era perciò prevedibile quanto sarebbe poi accaduto nel servizio pubblico della Rai. Altrettanto non esistevano i saloni del libro pronti a escludere i marchi non allineati, i festival e i premi letterari engagé, Radio 3 e le sue trasmissioni left oriented come gran parte delle case editrici, tutte nuove e capillari «casematte» occupate da scrittori-manager, artisti-organizzatori, intellettuali sociali di cui forse l’esempio sommo è Walter Veltroni, già direttore dell’Unità e fondatore del Pd. Un intellettuale organico che ha fatto il percorso dalla politica alla cultura, non viceversa. Ben oltre una semplice forma di sentimentalismo buonista, il veltronismo è, in realtà, un metodo scientifico che si compendia nell’attività multidisciplinare di giornalista, scrittore, regista, autore di saggi e conferenze, e influenza seguaci e imitatori.

Ora, se questo è il paesaggio, pian piano cominciano finalmente ad allargarsi macchie di resistenza sia a destra che a sinistra, piccole sacche di pensiero alternativo di cui proprio De Piante editore e Historica, del gruppo Giubilei-Regnani, sono un esempio. Altri se ne potrebbero aggiungere (dalla rivista online Pangea e Gog edizioni al sito La Fionda, dalle edizioni Ares con Studi cattolici al fermento dei centri culturali del mondo cattolico), interpreti di una critica al conformismo prevalente non più in grado d’interpretare la contemporaneità. Insomma, l’egemonia non è inattaccabile e la diade destra-sinistra inizia a evidenziare crepe e friabilità. Mappa e categorie novecentesche mostrano le rughe davanti alla crisi della globalizzazione. Il conformismo del politicamente corretto e della cancel culture è di destra o di sinistra? Una certa, inquietante, tendenza alla censura vista all’opera durante la pandemia e ora per la guerra in Ucraina è fenomeno di destra o di sinistra? Nel secolo scorso il pacifismo era di sinistra: e oggi? E le élite, per definizione di destra, oggi dove si collocano? Le risposte non sono scontate.

Dopo le riletture di Raboni e Gramsci, forse potrebbe darci una mano il Giorgio Gaber che sapeva cogliere tic e imbarazzi di destra e di sinistra oltre le solite, pigre, etichette.

 

La Verità, 23 giugno 2022