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«I crimini dei ragazzi? Sono generati dalla noia»

Pedagogista, fondatore di scuole, conoscitore delle problematiche giovanili, Franco Nembrini ha da poco pubblicato Uscimmo a riveder le stelle (Edizioni Ares), una trilogia sulla Divina commedia per ragazzi (scritta con Gianluca Recalcati, illustrazioni di Samuele Gaudio). Ci siamo rivolti a lui per scandagliare le ragioni profonde della violenza che attraversa tragicamente questi nostri tempi. Una violenza apparentemente immotivata di cui sono autori ragazzi e adolescenti.
Professor Nembrini, c’è mai stata un’epoca di violenza quotidiana come quella che constatiamo negli ultimi mesi?
«Credo di no, in dimensioni così ampie, sia sul piano numerico sia come estensione geografica. Credo che non abbiamo mai vissuto un momento così».
In passato la violenza era ideologica.
«Era un fenomeno motivato dall’individuazione di un nemico, per ragioni sbagliate. Non dalla noia e dalla solitudine. Oggi il nemico è la vita, l’esserci, paradossalmente».
In che senso?
«Ripensando alla strage di Paderno Dugnano (un ragazzo di 17 anni ha ucciso i genitori e il fratello ndr), ho l’impressione che viviamo un cambiamento epocale. Da allora nel nostro Paese molti genitori, professori, responsabili di associazioni hanno iniziato a interrogarsi con un un brivido di terrore. Se un papà che non conosco mi chiama per dirmi: “Professor Nembrini io e mia moglie siamo disperati, da quali segni possiamo accorgerci che nostro figlio di 15 anni sta coltivando nei nostri confronti pensieri di morte come quel ragazzo di Paderno Dugnano?”, vuol dire che qualcosa di grave sta succedendo. Vuol dire che si ha la percezione di un Male che può intaccare le radici del rapporto tra gli esseri umani, tra figli e genitori, tra padri e madri e fratelli e sorelle. La paura è sempre stata nemica dell’educazione, figuriamoci questa paura».
Che cosa può voler dire che questi ragazzi uccidono per futili motivi?
«Una ventina d’anni fa fui chiamato a incontrare un ragazzo che, per una sigaretta, aveva ucciso a calci un passante e, dopo qualche anno di galera, ora viveva agli arresti domiciliari. Ero convinto di trovarmi davanti un mostro. Invece, era un ragazzo bravissimo, che frequentava il liceo classico con ottimi voti, figlio di una famiglia per bene. Ascoltandolo mi venne in mente la noia di cui parlava Giacomo Leopardi. A un certo punto, gli ho chiesto: com’è che uno come te compie una violenza del genere? Dopo avermi fissato per un po’ mi disse: volevamo ammazzare il tempo e abbiamo ammazzato il primo che passava. Quindi, il problema non è la violenza, ma uno diventa violento per la tristezza della vita che fa. Nel XXIV canto del Paradiso Dante parla di “questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda”. Bisogna essere contenti per essere buoni, non si rimane a lungo contenti se si è tristi».
Poi ci sono le violenze contro i professori a scuola: non si accetta più il principio di autorità?
«È un’altra conseguenza di quello che abbiamo detto. Se insegniamo che il mondo è cattivo, se gli adulti non fanno che lamentarsi, se in famiglia si denigra la scuola e viceversa, dove vogliamo andare? Un ragazzo si sente autorizzato a dire la sua anche con i cazzotti o con un coltello. Non trasmettiamo più speranza ai nostri figli. Sulla scuola è meglio che stia zitto, senza una riforma urgente e radicale non solo non è capace di contrastare questi fenomeni, ma inevitabilmente li produce».
Come mai molti ragazzi, pur vivendo in un relativo benessere, compiono azioni come queste?
«Un benessere non guadagnato nella fatica e nel dolore degenera inevitabilmente in malessere. L’educazione passa attraverso la fatica e l’accettazione anche delle cose che non vanno».
Vale ancora l’analisi che attribuiva le cause alla crisi dei valori o alla mancanza di dialogo fra genitori e figli?
«La crisi dei valori è una motivazione che non mi ha mai convinto. Certo che c’è la crisi, ma ripeterlo serve solo a spostare la responsabilità su un’analisi che non cambia le cose. La crisi è degli adulti che valori non ne hanno perché non li cercano, non perché non ci sono. Se un papà e una mamma passano la vita ad adorare e proteggere il pargolo dal male del mondo non se ne viene fuori. Questi genitori allestiscono crociate contro chiunque lo mette alla prova, a cominciare dai professori per proseguire con i voti».
Colpisce anche l’età di questi ragazzi: li accomunano forse le restrizioni provocate dalla pandemia?
«Indubbiamente, la pandemia ha segnato generazioni che non hanno vissuto per tre anni certe forme di socializzazione. Tuttavia, Alessandro Manzoni diceva che la peste non ha reso più cattivo il mondo, ma ha fatto vedere meglio quel che c’era già».
Oppure il potere catalizzante delle esperienze virtuali?
«C’entrano sicuramente anche queste. Alimentano le peggiori fantasie senza possibilità di paragone con la realtà che, invece, correggerebbe gli eccessi dell’istinto e della fantasia. Anche qui il problema coinvolge gli adulti. Personalmente, proporrei il reato di costituzione delle chat delle mamme della scuola».
Condivide il giudizio dello psicologo americano Jonathan Haidt secondo cui «la generazione ansiosa» è tale perché totalmente assorbita dai social, «un universo alternativo, esaltante, instabile, che crea dipendenza»?
«Sono assolutamente d’accordo. L’analisi delle conseguenze devastanti delle nuove tecnologie è giusta: resta da intendersi sulla terapia».
La partecipazione ipnotica a certi videogame e la passione per i film horror possono precipitare in una sorta di dimensione parallela?
«Contribuiscono a creare la solitudine infernale in cui i ragazzi vivono. Cioè contribuiscono a togliere la responsabilità, che è il modo con cui l’uomo risponde alle sollecitazioni del reale. Se si vive nel virtuale, non si risponde più a niente».
Sempre alla ricerca di scosse adrenaliniche, questi ragazzi non sanno convivere con i momenti di noia e frustrazione e devono cercare vertigini sempre più estreme?
«La diffusione della droga ha questa motivazione. Oggi dobbiamo parlare di nuove dipendenze, per esempio anche dal cellulare. O dalla pornografia».
I lockdown, i social, i videogame hanno in comune l’azzeramento della corporalità, del gioco e della condivisione all’aria aperta.
«Quando parlo di mancanza di rapporto con la realtà intendo esattamente questo».
Come possono aver inciso in questa situazione i nuovi genitori di moda, per esempio i papà amici?
«Il padre amico è un ossimoro linguistico. Un non senso. Il padre è il padre e l’amico è l’amico. In un certo senso, questi ragazzi hanno già troppi amici. Il padre sa dove punta la vita; perciò incoraggia, corregge, perdona, garantisce che la vita possa essere buona. I padri all’inseguimento dei propri figli, che prendono a cazzotti l’allenatore che non l’ha messo in campo, sono l’inizio della fine».
E le mamme spazzaneve?
«Altra tragedia. Impediscono la fatica, lo scontro con la contraddizione, tolgono gli ostacoli in anticipo. Così oggi abbiamo trentenni che sono bambini».
Qual è il ruolo degli adulti nel tentativo di formare questi ragazzi?
«Smetterla di occuparsene. Il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione».
Paradosso azzardato?
«Ma che dice una grande verità. I figli imparano da quello che vedono negli adulti. Se vedono la preoccupazione di farne qualcosa di diverso da ciò che sono, si sentono asfissiare. Se invece i genitori vivono una loro certezza del bene della vita e del destino, i figli lo assimilano. Faccio un esempio. Quando ci manca l’aria andiamo in un bosco e stando lì, all’ombra degli alberi, ci ossigeniamo e recuperiamo energie. Il bosco, gli alberi, crescono e fanno il loro, senza imporsi e imporre azioni strane. Noi adulti dobbiamo essere quel bosco, quegli alberi, per i ragazzi. I quali, stando presso di noi, senza che li obblighiamo a essere diversi da quello che sono, crescono e si rigenerano».

 

Il Timone, gennaio 2025

«Il patriarcato? Resiste nelle comunità islamiche»

Ex maestra di tennis, ex deputata Pd, femminista, in prima linea sui diritti civili e sui temi dell’educazione con Didacta Italia, pochi giorni fa Anna Paola Concia ha firmato con Simone Lenzi e Ivano Scalfarotto un decalogo su «Destra, sinistra e l’alternativa che vorremmo». Dal 5 agosto 2011 è unita civilmente con la psicologa Ricarda Trautmann che ha assunto il suo  cognome. Vive a Francoforte.
In occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne ha postato su X: «Mi scuserete se non partecipo alla saga delle banalità che oggi si ripetono urbi et orbi». Reazioni?
«Alcune donne si sono offese, molte hanno capito e concordato, gli odiatori che insultano non li considero. Alle donne che si sono offese ho spiegato che, siccome per me la violenza di genere è una cosa seria, rifuggo gli appuntamenti di circostanza perché, sempre secondo me, servono atti legislativi e processi culturali graduali e profondi».
Ci si aspettava che partecipasse alla manifestazione del 25 novembre che avveniva a ridosso dell’anniversario dell’uccisione di Giulia Cecchettin e dell’intervento del ministro Giuseppe Valditara?
«A parte il fatto che vivo in Germania, penso che bruciare la fotografia di un ministro com’è stato fatto non sia il modo migliore per rispondere alla violenza che si voleva condannare con quella manifestazione».
Il cui slogan era «Disarmiamo il patriarcato»: bersaglio corretto?
«Su questa parola c’è la solita polarizzazione. Chi lo nomina è di sinistra, chi non lo nomina è di destra. Trovo che il manicheismo non aiuti a capire. In 40 anni di lotte, noi femministe al patriarcato abbiamo dato una bella botta. Ora è tramortito, rimangono gli strascichi di una cultura che ancora non si rassegna. Femminicidi e violenza di genere sono azioni di uomini che non accettano la libertà femminile».
Come definisce il patriarcato?
«Le società patriarcali erano quelle in cui l’uomo era padre padrone».
Ovvero il patriarca: in quali ambienti c’è ancora?
«Nelle società occidentali grazie alle battaglie femministe è tramortito. Ma la cultura patriarcale si esprime soprattutto nelle relazioni affettive. Sono state fatte delle leggi, si son fatti passi avanti sul piano culturale. Oggi noi donne oggettivamente non viviamo più con il patriarca sopra la testa, sebbene resistano disuguaglianze tra uomini e donne, come il gender gap. Il patriarca sopravvive nei Paesi dell’integralismo islamico. E in quelle comunità insediate nei Paesi occidentali che non si sono integrate».
L’integrazione è una sfida possibile?
«Io vivo in un Paese dove gli immigrati sono il 20%. Sebbene la Germania investa molto sull’integrazione, in alcune aree non è compiuta. Non volerlo vedere è un errore madornale».
Qualche giorno fa sul sito FeministPost Marina Terragni ci ha ricordato il Capodanno 2016 a Colonia quando decine di donne furono violentate da arabi e nordafricani.
«Fu una pagina molto buia che aprì gli occhi sulla necessità di maggior integrazione di uomini e ragazzi provenienti dai Paesi musulmani. Ci furono denunce e accuse di razzismo, ma i fatti erano inequivocabili».
Che cosa disapprova del neofemminismo?
«Il suo integralismo e la sua matrice profondamente anti occidentale. È una frangia coccolata dai media che tende a cancellare la differenza sessuale».
È anche incline al vittimismo?
«Purtroppo sì. L’identificazione tra l’essere donna e l’essere vittima è una trappola mortale che rischia di consolidare il patriarcato».
Appurato che giuristi e sociologi affermano che non c’è più, che cosa sopravvive del patriarcato?
«Il machismo e il maschilismo. Per sconfiggerli non bastano le leggi, serve un processo culturale che ci impegni tutti».
Intervistata dalla Verità Giorgia Meloni ha detto che le violenze e gli stupri sono favoriti dall’immigrazione irregolare: è razzista o fattuale?
«Nella marginalità c’è prevaricazione e quindi anche violenza sessuale. È un elemento di disagio sociale che vale sia per gli immigrati irregolari sia per i cittadini italiani».
Intanto i dati dicono che l’incidenza sui reati di violenza e stupro è superiore alla percentuale di immigrati nel nostro Paese.
«Questo problema non può essere affrontato dicendo se sono peggio gli immigrati o gli italiani. Sappiamo tutti che se la violenza è esercitata da un amico le donne tendono a denunciare meno. L’Istat ci dice che esiste una violenza sommersa che deve essere indagata e contrastata».
I femminicidi perpetrati sono espressione di mascolinità tossica o sintomo di debolezza?
«Un uomo che risponde con l’assassinio di una donna che gli ha detto no è sicuramente espressione di mascolinità tossica».
L’incapacità di accettare un abbandono è sintomo di debolezza?
«Certo che lo è. Purtroppo, stiamo educando generazioni incapaci di accettare le sconfitte. Che, invece, nella vita esistono. Siamo cresciuti anche attraverso le sconfitte, accettandole ci siamo rinforzati. Bisogna imparare a farci i conti».
Chi erano i suoi genitori?
«Due dirigenti dell’Azione cattolica. Mio padre è stato formatore di Gianni Letta, erano entrambi di Avezzano».
Era un padre autoritario o amico?
«Era un padre severo. Un democristiano puro. Si è confrontato con quattro figli impegnativi, io sono l’ultima. Negli anni delle contestazioni a casa mia c’era tutto l’arco parlamentare. Mia sorella era del Pdup, mio fratello radicale, un altro del Msi, io comunista. Facevamo discussioni feroci, ma i miei genitori erano democratici e noi abbiamo vissuto ognuno la propria vita».
Perché oggi tanti cosiddetti maschi bianchi non accettano l’abbandono di una donna?
«Qui ci vorrebbe una psicologa… Se vuole giro la domanda a mia moglie che lo è».
Prego.
Risponde Ricarda Concia, criminologa: «La causa è la mancanza di autostima. Oggi si è creato uno squilibrio, gli uomini non sono cresciuti quanto le donne e hanno perso il privilegio del capo. Inoltre, se le cose vanno bene, l’uomo medio attribuisce il merito a sé stesso, se vanno male dà la colpa agli altri, nel caso specifico alla donna».
Perché secondo lei in questi anni si è parlato di mamme elicottero e mamme spazzaneve e mai di padri?
«Infatti, i padri non esistono e non hanno mai responsabilità… Mi sembra una follia».
Le mamme delle chat di Whatsapp fanno di tutto perché i figli non trovino ostacoli?
«Tutto questo sindacalismo protettivo dei figli non li aiuta a crescere. Quando andavo a scuola l’insegnante aveva sempre ragione. Andavo malissimo in matematica, avevo un professore complicato, ma nonostante questo i miei genitori non mettevano mai in discussione l’autorità dell’insegnante. Lo scardinamento dell’autorevolezza dell’insegnante rende più fragile il percorso educativo. Non si può ricorrere al Tar perché tuo figlio ha preso sette anziché otto. Tu sei un genitore e fai il genitore, l’insegnante fa l’insegnante».
Deriva da questi atteggiamenti l’incapacità di metabolizzare un’opposizione femminile?
«Filippo Turetta è l’esempio eclatante di questo».
Mamme spazzaneve e padri amici educano figli fragili?
«Io non sono una tradizionalista. Con i miei genitori era difficile parlare, oggi si parla di più e questo per me è un fatto positivo. Farsi raccontare, parlare e confrontarsi non vuol dire essere genitori amici».
Può essere la scomparsa del padre la malattia della società contemporanea?
«No. Sono d’accordo che c’è la morte del padre, ma è un fatto storico. Oggi dobbiamo costruire insieme un tempo nuovo, ma non a colpi di machete».
Il gender può essere un’espressione perversa del patriarcato?
«Oggi la fluidità sessuale è un dato di realtà. Penso che tutti debbano avere diritto di cittadinanza. Acquisita questa fluidità, rifiuto la cancellazione delle donne. Sono per riconoscere gli uomini, le donne, le persone fluide, le persone transgender e chi più ne ha più ne metta, ma senza cancellare nessuno».
Il ricorso alla maternità surrogata e alla Gpa è una forma di sfruttamento del corpo della donna?
«Sì. Durante la manifestazione dell’altro giorno un cartello recitava: “Non siamo macchine per la riproduzione, ma donne pronte alla rivoluzione”. Apprendo con piacere che anche le donne di Non una di meno sono contro la Gpa».
L’ammissione di persone trans o iper-androgine alle competizioni femminili come alle ultime Olimpiadi può essere espressione di una cultura patriarcale?
«Sono una donna di sport e sono una che non esclude ma allo stesso tempo non impone: penso che se oggi molte persone trans atlete vogliono gareggiare è arrivato il momento di creare una terza categoria».
Mah…
«Lo sport deve avere condizioni paritarie di partenza: tra una persona trans e una donna non lo sono. È un dato scientifico. Chiediamoci perché le donne trans che diventano uomini non chiedono mai di competere nelle gare maschili. La biologia esiste e ha la sua incidenza».
Lo sfruttamento commerciale del corpo femminile nelle piattaforme, nei social, nella promozione pubblicitaria è un’espressione del maschilismo o del patriarcato?
«Del maschilismo, del racconto maschile sul corpo delle donne».
Le neofemministe vorrebbero legalizzare la prostituzione.
«Sono favorevoli al sex worker, io sono contraria. La prostituzione femminile risponde a una domanda di sesso a pagamento di uomini. Il 90% di questa risposta comporta la tratta delle donne. E sono donne giovani. Poi c’è un 10% di donne che decidono di vendere il proprio corpo. In Italia, grazie alla legge Merlin, se una donna vuole prostituirsi può farlo, ma promuoverlo a emblema della libertà femminile è imbarazzante. Il 90% sono donne sfruttate».
Le piaceva lo spot per la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne che recitava: «Se io non voglio, tu non puoi»?
«Francesca Capelli, una giornalista che vive in Argentina, ha suggerito che era meglio scrivere: “Se io non voglio, tu non devi” anziché tu non puoi. Perché potere, può eccome, purtroppo».
Che cosa pensa del fatto che l’8 marzo scorso Non una di meno ha impedito la partecipazione alle manifestazioni di donne che volevano ricordare le vittime del massacro del 7 ottobre?
«La fobia antioccidentalista di Non una di meno è così forte da negare gli stupri del 7 ottobre. Questo è contro il femminismo. Per quanto mi riguarda, loro possono chiamarsi come vogliono, ma non sono un movimento femminista».
È favorevole alla creazione di un’associazione Saman Abbas come proposto dal professor Ricolfi?
«Totalmente. Anzi, sono disponibile a dare una mano. Bisogna occuparsi anche di queste ragazze che sono più esposte al patriarcato».

 

La Verità, 30 novembre 2024

«Perché molti ragazzi sono indifferenti a bene e male»

Neuropsichiatra e psicoterapeuta, esperta dei rapporti tra genitori e figli nell’età evolutiva, autrice di numerosi saggi sull’argomento, a Mariolina Ceriotti Migliaresi ricorrono spesso università e tribunali quando hanno bisogno di illuminazione in materia di devianze ed educazione di bambini e ragazzi.

Dottoressa Ceriotti Migliarese, che diagnosi fa della situazione dei giovani e degli adolescenti di oggi?

«Davanti a comportamenti “fuori norma”, credo sia importante distinguere tra le manifestazioni più o meno gravi di disagio psicologico e la vera patologia psichiatrica. Per esempio, se un ragazzo o una ragazza si tagliano, possiamo trovarci davanti a una vera patologia, oppure a un meno grave atto di emulazione. Non è la stessa cosa: ognuno ha una storia personale che va letta con attenzione. Oggi siamo di fronte a una generazione che appare particolarmente fragile, poco capace di far fronte al dolore psichico: i ragazzi non riescono a tollerare la frustrazione, il brutto voto, il rifiuto da parte di un amico, e non sanno tollerare i toni grigi della vita. Abbiamo abituato i nostri figli alla soddisfazione immediata di ogni loro esigenza, e si trovano perciò spesso impreparati alla fatica della crescita».

Quella di questi ultimi due anni è la situazione di massimo smarrimento dei ragazzi o ci sono stati in passato momenti di disorientamento altrettanto acuto?

«Pensiamo alle violenze e agli omicidi degli anni Settanta e Ottanta. La differenza sta nel fatto che in quel caso la distruttività non era fine a sé stessa, ma era spinta da un’idea: bisognava uccidere “il nemico” per dare spazio a un ideale di cambiamento. La violenza, pur nel suo orrore, era pensata come un male necessario in relazione a un progetto».

Come si spiega il fatto che viviamo un po’ tutti in condizioni di relativo benessere, eppure constatiamo negli adolescenti fenomeni che rivelano forti sofferenze?

«Ogni nuova generazione è fatta per scrivere una pagina nuova e andare oltre quella precedente. Oggi abbiamo chiuso il futuro ai nostri figli, diamo loro un’immagine del vivere lamentosa, triste e insoddisfatta. Vale la pena vivere? Il mondo che mostriamo non appassiona e fa paura. Le loro energie vitali, invece di fiorire ed espandersi, collassano. La risposta a questa mancanza di prospettive è che forse è meglio cercare rifugio in qualcosa di immediato, che può sedare l’ansia e/o dare piacere ed euforia per evitare il vuoto».

Negli ultimi mesi, a partire dalla strage di Paderno Dugnano in cui un diciassettenne ha ucciso a coltellate i genitori e il fratello, si sono intensificati atti di violenza immotivata. Che spiegazione possiamo darci?

«Il terribile caso di Paderno è tuttora misterioso, e non credo si possa escludere una frattura psicotica della personalità. Molti casi di violenza improvvisa e immotivata sono collegati all’uso di sostanze, che alterano la già precaria capacità di controllo dell’adolescente. Ma questo non è sufficiente per dare ragione del fenomeno. Esplosioni così violente fanno pensare anche che manchino in chi le attua presupposti essenziali: l’abitudine consolidata a riconoscere l’altro come persona e il progressivo allenamento al controllo. Sono competenze che vanno insegnate fin dalla prima infanzia, perché da solo il bambino non ne è capace: serve l’accompagnamento paziente dell’adulto perché impari a regolare le emozioni e controllare gli impulsi».

A quel fatto ne sono seguiti altri, come quello di una donna di 42 anni uccisa a Viadana da un diciassettenne che ha detto: volevo scoprire cosa si prova. Un altro ragazzo di 16 anni, a Cesano Maderno, ha colpito 19 volte con una mazza da baseball un uomo di 60 anni, dicendo: fosse stato un altro era la stessa cosa, non so perché l’ho fatto. Di questa violenza così efferata colpisce soprattutto la totale gratuità.

«Colpisce e lascia attoniti. Perché mostra che l’altro non è più percepito come persona, ma solo come un oggetto tra i tanti. Sembrano saltati i capisaldi più semplici e condivisi del nostro essere uomini. E sembra scomparsa la distinzione più elementare tra bene e male».

Per queste azioni restano valide le diagnosi che parlano di crisi di valori, di mancanza di comunicazione fra genitori e figli o di eccesso di protezione delle famiglie?

«Gli adolescenti non sono marziani, ma ragazzi che crescono e affrontano l’adolescenza in continuità con la loro esperienza infantile. Il bambino ha bisogno di un adulto che lo “vede”, si prende cura di lui, fissa i confini per la sua sicurezza e gli insegna le regole fondamentali del rispetto di sé e degli altri. Nell’infanzia si allenano le competenze necessarie per vivere con agli altri. Dovrebbe essere un tempo protetto ma non soffocante, che lascia anche lo spazio per mettersi alla prova. Oggi i bambini sono iper-controllati eppure soli, in un mondo che nell’esperienza concreta è molto chiuso – case piccole, pochi parenti e amici, scarsa libertà di movimento – ma nello stesso tempo è senza confini nell’esperienza virtuale, con un mondo esterno che invade senza protezione. Il nostro amore si esprime soprattutto attraverso gli oggetti, ma non diamo loro tempo e pazienza. Tempo per ascoltarli, ma anche pazienza per correggerli quando serve, aiutandoli a mettersi dal punto di vista degli altri».

Manca la minima consapevolezza di che cosa siano la vita e la morte?

«L’adolescente vuole allontanarsi dal passato e dalle relazioni infantili, ma fatica a immaginarsi il futuro. Il tema della morte come evento personale – io posso morire – si presenta proprio con l’adolescenza e introduce il senso di un limite difficile da accettare. La morte e la sua ineluttabilità non sono un tema patologico ma esistenziale, e per integrarlo nella vita serve una elaborazione culturale che gli dia senso. La nostra società fa spettacolo della morte “lontana”, ma nasconde e nega la realtà della morte concreta e vicina. La maggior parte dei ragazzi – e degli adulti – non ha mai assistito un morente, nemmeno una persona cara. La morte è diventata un evento privo di significato esistenziale, e non viene più elaborata sul piano culturale: questo lascia esposti, soprattutto i più giovani, a una immensa solitudine. A questo punto la morte può essere solo negata, sfidata o irrisa. Purtroppo, però, togliere significato alla morte toglie senso e valore anche alla vita».

Rispetto al disagio giovanile di cui si parla da decenni quali possono essere le cause di queste nuove forme di violenza?

«Nella violenza gratuita c’è il vuoto lasciato da una profondissima mancanza di speranza, che si riempie di contenuti distruttivi del sé o dell’altro. La mente umana non tollera il vuoto, e dunque, in mancanza di progettualità e di futuro, si aggrappa a tutto ciò che può saturarla; qualcosa che tiene lontane le domande e il dolore mentale: droghe, pornografia, alcool, atti aggressivi».

Colpisce anche l’età di questi ragazzi assassini, tutti minorenni. Tra le cause può esserci la pandemia, con le restrizioni che hanno impedito agli adolescenti in piena crescita di andare a scuola, avere relazioni, fare sport e hanno insegnato loro a diffidare dei propri simili?

«La pandemia e l’isolamento hanno tolto ai ragazzi uno dei motori fondamentali della crescita, ovvero agire nel mondo attraverso il corpo. Il senso di solitudine, isolamento e noia così comuni in adolescenza non hanno potuto trovare il loro antidoto naturale nell’uscire, aggregarsi, fare esperienza: tutto è diventato virtuale, accentuando così il valore dell’apparenza, dell’immagine, a scapito dell’autenticità dei rapporti reali».

Che ruolo hanno i social network e la vita online in questo scenario?

«Per chi è nato negli ultimi 20 anni una vita senza connessioni virtuali è assolutamente inimmaginabile. I nostri ragazzi sono immersi nel mondo virtuale, un mondo eccitante e pervasivo che sembra poter rispondere a ogni necessità e a ogni curiosità. Una confort zone che dà a ragazzi chiusi nella loro stanza l’illusione di avere molte relazioni, di poter avere scambi affettivi, di conoscere il mondo perché lo vedono da uno schermo. Per crescere, invece, è indispensabile misurarsi con la realtà».

Un’altra novità è la comparsa delle sex roulette, giochi di gruppo in cui i partecipanti hanno rapporti sessuali con volto coperto e senza protezione e perde la ragazza che rimane incinta. Questi ragazzi hanno provato tutto e cercano trasgressioni sempre più adrenaliniche?

«Temo sia così. Ma quello che qui più mi spaventa è il ruolo delle ragazze, che accettano un gioco così rischioso sulla loro pelle. Ragazze che hanno evidentemente del tutto perso il senso del proprio valore personale, e della preziosità del loro corpo, capace di generare la vita».

Il sentirsi annoiati da tutto si sposa con l’assenza del riconoscimento della vita come dono?

«Oggi parlare di “vita come dono” è qualcosa di molto lontano dalla sensibilità comune. Si pensa alla vita come a qualcosa di cui possiamo disporre a piacimento, e che ha come scopo l’auto-realizzazione. La vita invece è un regalo che ci è stato fatto perché siamo chiamati a un compito personale, che spetta solo e proprio a noi. Eppure, proprio sapersi speciali, chiamati alla vita per un compito personale è ciò che può dare un senso all’esistenza e che permette di non sperimentare mai la noia».

Cosa pensa del caso della ragazza di 22 anni di Traversetolo che dopo aver portato avanti due gravidanze, sembra da sola, ha seppellito i due neonati?

«Non voglio esprimere nessun giudizio su questa terribile situazione, che desta profondo sgomento e incredulità. Vorrei conoscere questa ragazza, ascoltarla, per poter almeno in parte comprendere come può essere arrivata a tanto».

In Cuore nero di Silvia Avallone, un ragazzino trascurato dai genitori appicca un incendio alla scuola e al maestro che gliene chiede conto risponde: «Non sapevo più dove mettere la rabbia». Potrebbe essere questo il motivo di tanta violenza gratuita degli adolescenti di oggi?

«Mi sembra un esempio molto calzante. Ricordiamoci però sempre che la rabbia, dal punto di vista psichico, è l’inverso della depressione… La rabbia permette di non sentire il dolore psichico perché lo allontana da sé e lo espelle attraverso l’atto distruttivo».

 

La Verità, 5 ottobre 2024

«La fine di Indi mostra che il nostro sistema è sano»

Papillon e certezze granitiche, Simone Pillon lo disegnano come un babau dell’ultradestra. In realtà, l’avvocato che ha difeso la famiglia Gregory nella controversia con l’Alta corte inglese che ha sancito la morte della piccola Indi, è persona dai modi gentili. Avvocato cassazionista, ex senatore della Lega, organizzatore dei Family Day, il suo ultimo libro s’intitola Manuale di resistenza al pensiero unico. Dal gender al transumanesimo (Giubilei Regnani).

Avvocato Pillon, qual è il sentimento che ha lasciato in lei la morte di Indi Gregory?

«È un sentimento ambivalente. Da una parte il dispiacere di non essere riusciti a salvarla, dall’altra la certezza di aver fatto tutto il possibile per portarla in Italia. Infine, provo profonda commozione nel vedere il miracolo che questa bimba ha compiuto oltre che nella sua famiglia anche in tutto il mondo, perché la sua vicenda ha appassionato persone dagli Stati Uniti all’Australia».

Invece qual è la riflessione complessiva su tutta la vicenda?

«Abbiamo la prova provata che il sistema italiano è sano perché si fonda su valori condivisi come il rispetto della sacralità della vita. Mentre un sistema sofisticato e progredito come quello inglese ha perso ormai i valori fondamentali e, di conseguenza, va in corto circuito».

Quando si terrà il funerale della piccola?

«Il papà vuole un funerale religioso che probabilmente si terrà nella grande cattedrale medioevale di Derby. Oltre a questo desidera che siano presenti le autorità italiane e che il feretro della bambina sia avvolto nel tricolore».

La data?

«Tra fine novembre e inizio dicembre».

Perché, pur non essendolo loro, i genitori hanno voluto che Indi fosse battezzata?

«È la parte più commovente della storia. Il papà è sempre stato ateo, ma mi ha confidato che nella vicenda di Indi ha visto l’inferno e il male all’opera. Perciò si è detto che se esiste l’inferno deve per forza esistere anche il paradiso. E ha concluso: “Io voglio che la mia bambina vada in paradiso. E poi voglio andarci anch’io”. Quindi ha chiesto il battesimo per Indi e lo chiederà anche per sé».

Che cosa vuol dire precisamente essere un avvocato cassazionista?

«Avere l’abilitazione a patrocinare presso le supreme corti come la Corte costituzionale, la Corte di Cassazione e le corti europee».

Per Indi Gregory avete presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo?

«Avevamo preparato insieme ai colleghi un ricorso per la violazione dei diritti alla vita, alla libertà di movimento e alla libertà di religione. Purtroppo la bambina non è sopravvissuta abbastanza da permetterci di depositarla».

Da uomo di legge cosa pensa di un ordinamento in cui dei giudici e non i suoi genitori decidono quando, come e dove si deve mettere fine alla vita di un bambino gravemente malato?

«I latini dicevano summum ius summa iniuria, il massimo del diritto è il massimo dell’ingiustizia».

Sintesi inquietante.

«È ciò che si è verificato nel caso di Indi e negli altri casi come il suo. Conosco l’ordinamento britannico e ne ho grande rispetto perché è molto più attento, puntiglioso e approfondito del nostro. Però evidentemente si è perso il quadro generale e sia i giudici che gli avvocati non si sono probabilmente resi conto che sostenere che la morte di una bambina sia nel suo interesse smentisce tutto ciò che sta alla base del diritto».

Ci sono altri Paesi in cui questo avviene?

«Anche nel nostro ci sono casi in cui il giudice si sostituisce ai genitori, per esempio quando i testimoni di Geova rifiutano le trasfusioni per i loro figli. Ma si tratta sempre di interventi a difesa della vita, mai contro di essa. Purtroppo anche in Italia qualcuno comincia a spingere perché si intervenga a tutela della cosiddetta qualità della vita, con norme eutanasiche».

Perché è stato rifiutato il secondo parere di un’altra équipe medica previsto a tutela dei pazienti?

«In realtà, il secondo parere era già stato dato da medici di fiducia del curatore di Indi nominato dal giudice».

E diceva?

«Era conforme a quello dell’ospedale di Nottingham. L’inghippo è proprio qui. Il giudice esautora immediatamente i genitori nominando un curatore del minore a sua scelta che, ovviamente, fa ciò che gli dice il giudice. Il parere medico del Bambin Gesù sarebbe stato il terzo ed era in contrasto con gli altri due».

Un ordinamento monolitico?

«Che si fonda sulla collaborazione ai limiti della complicità tra il sistema sanitario pubblico e il Cafcass (Children and family court advisory and support service ndr), un gigantesco ente pubblico che riunisce assistenti sociali, psicologi, curatori speciali dei minori e avvocati contro cui la famiglia non ha alcuna possibilità di vincere».

Sembra uno spicchio di società distopica.

«Che qualcuno vorrebbe introdurre anche in Italia, istituendo forme di collaborazione diretta tra servizi sociali, giudici e curatori dei minori».

Come a Bibbiano?

«Esatto».

Le aspettative dei genitori coincidono sempre con il bene dei bambini malati?

«I genitori di Indi avevano ben chiaro che la bambina non sarebbe mai guarita e che l’aspettativa di vita data dalla sindrome mitocondriale era molto ridotta. Volevano offrirle tutte le opzioni possibili per una presa in carico che le desse le migliori prospettive».

Qual è il confine tra accanimento terapeutico e scivolamento nell’eutanasia?

«Dobbiamo trovare un equilibrio tra Scilla e Cariddi. Non si possono applicare trattamenti inutili o peggio controproducenti. Ma dall’altra parte non si può cadere nell’abbandono terapeutico. Io credo che il limite sia dato dai cosiddetti sostegni vitali, alimentazione, idratazione e respirazione, che non possono mai essere negati a nessuno».

Perché tra tanti casi finiti come per Indi Gregory, solo per Tafida Reqeeb, la bambina che 4 anni fa è stata trasferita dal Royal Hospital di Londra al Gaslini di Genova dove tuttora vive, la decisione è stata diversa?

«In quel caso decise un giudice illuminato che nel provvedimento parlò proprio di sacralità della vita. Ma qualcuno mi dice che la decisione fu assunta anche perché agli atti era stata depositata la fatwa di un imam che assicurava la maledizione di Allah su chiunque avesse attentato alla vita della piccola di religione musulmana».

Il sistema sanitario che dispone di risorse limitate può ritenere che il prolungarsi delle cure per malati inguaribili penalizzi altri malati?

«L’ospedale non può decidere di rifiutare cure, può rifiutare terapie».

Che differenza c’è?

«La terapia mira alla guarigione, la cura è data da quei supporti vitali e da tutte le attenzioni che circondano il paziente che non possono essere rifiutate».

Michele Serra ha detto che San Francesco parlava di «sorella morte» e i cattolici dovrebbero saperla accettare con maggior disponibilità.

«È vero. Nella prospettiva della fede la morte è un passaggio alla nostra condizione definitiva. Ma non per questo è lecito disprezzare la vita come la conosciamo che è un tempo concesso a ogni uomo ed è per sua natura la cosa più preziosa che abbiamo su questa terra».

Altri opinionisti hanno detto che lo zelo usato nel concedere la cittadinanza a Indi dovrebbe esserci per concederla ai figli di immigrati che già vivono e studiano in Italia.

«La situazione di Indi era di pericolo di vita e questo ha giustificato la procedura di urgenza. Se non ci fosse stato il pericolo di vita come nel caso di Tafida Reqeeb, il cui ingresso in Italia è stato autorizzato senza grossi problemi, non sarebbe stata necessaria la cittadinanza».

Nel 2018 è diventato senatore della Lega, perché alle ultime elezioni non è stato rieletto?

«C’è stata una scelta da parte della segreteria politica di mettere la mia candidatura in una posizione estremamente difficile. Ho accettato questa decisione anche per mostrare che il mio impegno non dipende dal mio ruolo nel palazzo, ma è motivato da ragioni più alte. Ho sempre combattuto la battaglia per la vita e la famiglia e continuerò a farlo dovunque mi trovi».

È sempre convinto che si possa ridiscutere la legge 194 per arrivare a una situazione di aborti zero?

«Sono convinto che le prossime generazioni guarderanno con orrore alla nostra che solo in Italia ha condannato a morte 6 milioni di bambini dal 1978 a oggi. Certamente la legge sull’aborto sarà cancellata. Si tratta solo di continuare la battaglia culturale e politica affinché tutti comprendano che un Paese civile e progredito ha a disposizione altri strumenti per risolvere i problemi senza bisogno di sbarazzarsi dei bambini non ancora nati».

Che cosa pensa dell’attività di Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia del Senato nonché legale della presunta vittima di stupro nel processo che vede imputato Ciro Grillo?

«Giulia Bongiorno è certamente una validissima collega. Non è un mistero che io e lei non abbiamo la stessa visione su temi come l’affido condiviso e l’eutanasia. Io, al suo posto, avrei preferito rifiutare la difesa in questione, ma non vedo ragioni di carattere deontologico per censurare la sua libera scelta».

Che cosa propone il suo Manuale di resistenza al pensiero unico?

«Ho raccontato molte storie di persone massacrate dal pensiero unico Lgbt, esponendo alcune proposte di resistenza. Tra queste le più importanti sono il fare rete, l’appoggiarsi alla politica senza farsene condizionare, il testimoniare nella vita quanto si sostiene con le parole e soprattutto il ricorrere alla forza potente della preghiera. Non dimentichiamoci che l’impero sovietico fu abbattuto da un pugno di operai polacchi che cominciarono la loro battaglia pregando di nascosto il rosario nei cantieri Lenin di Danzica. Come diceva Santa Teresa di Lisieux: “Quando il cristiano si mette in ginocchio il mondo trema”».

Si ritrova nella definizione di rappresentante delle istanze ultra-conservatrici?

«La definizione di conservatore può avere un senso, ma Gilbert Keith Chesterton già ci metteva in guardia sostenendo che compito dei progressisti è commettere errori, mentre compito dei conservatori è fare in modo che quegli errori non vengano corretti. Purtroppo si sta verificando questa profezia e sui temi valoriali ormai in molti paesi non c’è più differenza tra destra e sinistra. Il mio impegno è per la difesa e la promozione della vita umana sempre, della meravigliosa differenza tra maschile e femminile e per la promozione della famiglia società naturale, così come ci è stata tramandata da millenni di evoluzione, nonché salvaguardare le nostre radici cristiane. Se questo è essere ultra conservatori allora lo sono».

 

La Verità, 18 novembre 2023

Una storia d’amore nella quale ci ritroviamo tutti

Si legge d’un fiato senza perdere una parola perché parla di noi. Una grande storia d’amore di Susanna Tamaro (Solferino) è un romanzo schietto, solido, struggente. Che appiccica alla pagina con una scrittura scorrevole come un sorso d’acqua fresca. O come il sangue nelle nostre vene. Niente di più vitale. Eppure niente di più gratuito e, allo stesso tempo, di considerato ovvio, scontato, dovuto. Se per l’autrice questo libro è un ritorno alle origini di Va’ dove ti porta il cuore, al flusso del racconto che ha per protagoniste due persone che si mettono reciprocamente in gioco di fronte al destino, per il lettore è un ritorno a casa, alle domande fondamentali, il bisogno d’amore, la ricerca della felicità. Un posto dell’anima nel quale ci si riconosce, si ritrova la bussola delle cose che contano, lontano dalle mode, dalla fatuità, dalla superficie. Niente nuove ideologie, niente nuovi diritti, teorie gender o integralismi ambientalisti. Solo una storia d’amore tra un uomo e una donna: sembra poco, ma di questi tempi, a suo modo, è tanto.

Come in tutta la letteratura di Tamaro, anche qui il mistero da sondare sono le persone.

Edith – che significa «Colei che cerca la felicità» – e Andrea – «Fin da bambino sentivo l’esigenza di raggiungere il cuore vero delle cose» – si incontrano un giorno d’estate su un traghetto che da Venezia fa rotta sul Pireo. Lei, trasgressiva e sarcastica, è diretta in Grecia per festeggiare la maturità appena raggiunta. Lui, ligio e disciplinato, di dieci anni più vecchio, è il capitano della nave. Anche se il primo incontro è uno sfregare di spigoli – o forse proprio per questo – è destinato a lasciare nei pensieri di entrambi tracce che riaffioreranno nelle successive coincidenze. Ma in Una grande storia d’amore, nessuno di questi incontri, di questi «imbattimenti», è casuale. Pur nella palese differenza di temperamento e oltre l’attrazione reciproca, la ricerca di un di più, il non accontentarsi dell’effimero li porta a riconoscersi e a intrecciare i loro passi. Ora, molti anni dopo, mentre non sappiamo dove sia Edith e se ci sia ancora, troviamo Andrea nella grande casa su un’isola del Tirreno, «roccaforte di ricordi». Il suo racconto è un’altalena di prendersi e lasciarsi, di partire e tornare, da soli o accompagnati. Perché le inquietudini, il non appagamento, le perdite, i lutti, le resistenze all’amore, i malintesi e l’ambizione di farsi da sé portano strappi, fughe, sbagli. Come una figlia inattesa da una storia che prometteva e che invece era un bluff. O come la deriva nella quale annegare il dolore di un’assenza incolmabile.

Romanzo di pochissime persone come la maggior parte di quelli di Tamaro, appena i genitori e i figli dei due protagonisti, Una grande storia d’amore è ugualmente un libro di ampio respiro, che include la natura, le api di Edith, i cetacei di Andrea, la prospettiva del tempo. Una storia disseminata di perle sapienti, mimetizzate nel flusso di memoria di Andrea. A proposito del rapporto tra genitori e figli, paragonato a quello della metà del Novecento, quando la ribellione alla strada tracciata era una sfida seria e «si doveva essere davvero sicuri della nuova scelta per compiere un gesto di rottura», perché «i genitori avevano ancora il potere di ripudiarti per una decisione di vita non gradita». Oppure riguardo al dogma della natura che si autogestisce e che produce spontaneamente armonia. Bastava guardare il giardino incolto per accorgersi che «l’idea della saggezza autogenerante della terra poteva imporsi soltanto in un tempo in cui la maggior parte delle persone viveva in ambienti artificiali», non certo quando l’uomo doveva lottare per il cibo e la sopravvivenza. Son pagine in cui ricorre il verbo «domare», utile anche di fronte al disordine o agli istinti e alla rabbia distruttiva. Non c’è ideologia in tutto questo, ma quel buon senso che deriva dall’ascolto del cuore profondo, esercizio ben noto all’autrice. Come quando, a causa di una di quelle sviste nelle quali si può cadere per bisogno d’amore, Edith si trova con «un problema in più» nella pancia. E allora può bastare il suggerimento discreto di una madre – «di solito la vita porta con sé altra vita» – a evitare altri traumi e a credere nel futuro. Un romanzo che riflette sul senso del perdono, sulla possibilità di ricominciare dopo che si è subìto un torto, una slealtà, una ferita che ancora sanguina. Su come riabbracciare un figlio che se n’è andato, trafitto dal dolore. Un romanzo che contiene l’idea che la vita non è una passeggiata tra fiori e cristalli, ma una sfida continua, una provocazione quotidiana a chi siamo e a chi vogliamo essere. Senza alibi o pretese da scaricare all’esterno, sulla società, sui diritti da rivendicare, su ideologie vecchie e nuove. Un romanzo che dice semplicemente che è «difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro». Perché, come scriveva il filosofo Romano Guardini, «nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

 

La Verità, 6 ottobre 2020