«I crimini dei ragazzi? Sono generati dalla noia»

Pedagogista, fondatore di scuole, conoscitore delle problematiche giovanili, Franco Nembrini ha da poco pubblicato Uscimmo a riveder le stelle (Edizioni Ares), una trilogia sulla Divina commedia per ragazzi (scritta con Gianluca Recalcati, illustrazioni di Samuele Gaudio). Ci siamo rivolti a lui per scandagliare le ragioni profonde della violenza che attraversa tragicamente questi nostri tempi. Una violenza apparentemente immotivata di cui sono autori ragazzi e adolescenti.
Professor Nembrini, c’è mai stata un’epoca di violenza quotidiana come quella che constatiamo negli ultimi mesi?
«Credo di no, in dimensioni così ampie, sia sul piano numerico sia come estensione geografica. Credo che non abbiamo mai vissuto un momento così».
In passato la violenza era ideologica.
«Era un fenomeno motivato dall’individuazione di un nemico, per ragioni sbagliate. Non dalla noia e dalla solitudine. Oggi il nemico è la vita, l’esserci, paradossalmente».
In che senso?
«Ripensando alla strage di Paderno Dugnano (un ragazzo di 17 anni ha ucciso i genitori e il fratello ndr), ho l’impressione che viviamo un cambiamento epocale. Da allora nel nostro Paese molti genitori, professori, responsabili di associazioni hanno iniziato a interrogarsi con un un brivido di terrore. Se un papà che non conosco mi chiama per dirmi: “Professor Nembrini io e mia moglie siamo disperati, da quali segni possiamo accorgerci che nostro figlio di 15 anni sta coltivando nei nostri confronti pensieri di morte come quel ragazzo di Paderno Dugnano?”, vuol dire che qualcosa di grave sta succedendo. Vuol dire che si ha la percezione di un Male che può intaccare le radici del rapporto tra gli esseri umani, tra figli e genitori, tra padri e madri e fratelli e sorelle. La paura è sempre stata nemica dell’educazione, figuriamoci questa paura».
Che cosa può voler dire che questi ragazzi uccidono per futili motivi?
«Una ventina d’anni fa fui chiamato a incontrare un ragazzo che, per una sigaretta, aveva ucciso a calci un passante e, dopo qualche anno di galera, ora viveva agli arresti domiciliari. Ero convinto di trovarmi davanti un mostro. Invece, era un ragazzo bravissimo, che frequentava il liceo classico con ottimi voti, figlio di una famiglia per bene. Ascoltandolo mi venne in mente la noia di cui parlava Giacomo Leopardi. A un certo punto, gli ho chiesto: com’è che uno come te compie una violenza del genere? Dopo avermi fissato per un po’ mi disse: volevamo ammazzare il tempo e abbiamo ammazzato il primo che passava. Quindi, il problema non è la violenza, ma uno diventa violento per la tristezza della vita che fa. Nel XXIV canto del Paradiso Dante parla di “questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda”. Bisogna essere contenti per essere buoni, non si rimane a lungo contenti se si è tristi».
Poi ci sono le violenze contro i professori a scuola: non si accetta più il principio di autorità?
«È un’altra conseguenza di quello che abbiamo detto. Se insegniamo che il mondo è cattivo, se gli adulti non fanno che lamentarsi, se in famiglia si denigra la scuola e viceversa, dove vogliamo andare? Un ragazzo si sente autorizzato a dire la sua anche con i cazzotti o con un coltello. Non trasmettiamo più speranza ai nostri figli. Sulla scuola è meglio che stia zitto, senza una riforma urgente e radicale non solo non è capace di contrastare questi fenomeni, ma inevitabilmente li produce».
Come mai molti ragazzi, pur vivendo in un relativo benessere, compiono azioni come queste?
«Un benessere non guadagnato nella fatica e nel dolore degenera inevitabilmente in malessere. L’educazione passa attraverso la fatica e l’accettazione anche delle cose che non vanno».
Vale ancora l’analisi che attribuiva le cause alla crisi dei valori o alla mancanza di dialogo fra genitori e figli?
«La crisi dei valori è una motivazione che non mi ha mai convinto. Certo che c’è la crisi, ma ripeterlo serve solo a spostare la responsabilità su un’analisi che non cambia le cose. La crisi è degli adulti che valori non ne hanno perché non li cercano, non perché non ci sono. Se un papà e una mamma passano la vita ad adorare e proteggere il pargolo dal male del mondo non se ne viene fuori. Questi genitori allestiscono crociate contro chiunque lo mette alla prova, a cominciare dai professori per proseguire con i voti».
Colpisce anche l’età di questi ragazzi: li accomunano forse le restrizioni provocate dalla pandemia?
«Indubbiamente, la pandemia ha segnato generazioni che non hanno vissuto per tre anni certe forme di socializzazione. Tuttavia, Alessandro Manzoni diceva che la peste non ha reso più cattivo il mondo, ma ha fatto vedere meglio quel che c’era già».
Oppure il potere catalizzante delle esperienze virtuali?
«C’entrano sicuramente anche queste. Alimentano le peggiori fantasie senza possibilità di paragone con la realtà che, invece, correggerebbe gli eccessi dell’istinto e della fantasia. Anche qui il problema coinvolge gli adulti. Personalmente, proporrei il reato di costituzione delle chat delle mamme della scuola».
Condivide il giudizio dello psicologo americano Jonathan Haidt secondo cui «la generazione ansiosa» è tale perché totalmente assorbita dai social, «un universo alternativo, esaltante, instabile, che crea dipendenza»?
«Sono assolutamente d’accordo. L’analisi delle conseguenze devastanti delle nuove tecnologie è giusta: resta da intendersi sulla terapia».
La partecipazione ipnotica a certi videogame e la passione per i film horror possono precipitare in una sorta di dimensione parallela?
«Contribuiscono a creare la solitudine infernale in cui i ragazzi vivono. Cioè contribuiscono a togliere la responsabilità, che è il modo con cui l’uomo risponde alle sollecitazioni del reale. Se si vive nel virtuale, non si risponde più a niente».
Sempre alla ricerca di scosse adrenaliniche, questi ragazzi non sanno convivere con i momenti di noia e frustrazione e devono cercare vertigini sempre più estreme?
«La diffusione della droga ha questa motivazione. Oggi dobbiamo parlare di nuove dipendenze, per esempio anche dal cellulare. O dalla pornografia».
I lockdown, i social, i videogame hanno in comune l’azzeramento della corporalità, del gioco e della condivisione all’aria aperta.
«Quando parlo di mancanza di rapporto con la realtà intendo esattamente questo».
Come possono aver inciso in questa situazione i nuovi genitori di moda, per esempio i papà amici?
«Il padre amico è un ossimoro linguistico. Un non senso. Il padre è il padre e l’amico è l’amico. In un certo senso, questi ragazzi hanno già troppi amici. Il padre sa dove punta la vita; perciò incoraggia, corregge, perdona, garantisce che la vita possa essere buona. I padri all’inseguimento dei propri figli, che prendono a cazzotti l’allenatore che non l’ha messo in campo, sono l’inizio della fine».
E le mamme spazzaneve?
«Altra tragedia. Impediscono la fatica, lo scontro con la contraddizione, tolgono gli ostacoli in anticipo. Così oggi abbiamo trentenni che sono bambini».
Qual è il ruolo degli adulti nel tentativo di formare questi ragazzi?
«Smetterla di occuparsene. Il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione».
Paradosso azzardato?
«Ma che dice una grande verità. I figli imparano da quello che vedono negli adulti. Se vedono la preoccupazione di farne qualcosa di diverso da ciò che sono, si sentono asfissiare. Se invece i genitori vivono una loro certezza del bene della vita e del destino, i figli lo assimilano. Faccio un esempio. Quando ci manca l’aria andiamo in un bosco e stando lì, all’ombra degli alberi, ci ossigeniamo e recuperiamo energie. Il bosco, gli alberi, crescono e fanno il loro, senza imporsi e imporre azioni strane. Noi adulti dobbiamo essere quel bosco, quegli alberi, per i ragazzi. I quali, stando presso di noi, senza che li obblighiamo a essere diversi da quello che sono, crescono e si rigenerano».

 

Il Timone, gennaio 2025