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Sarà «Milan nuovo»? Gli errori vengono da lontano

Il Milan è partito per Riad, capitale dell’Arabia Saudita dove si disputa la Supercoppa italiana, con un nuovo allenatore. È Sergio Conceiçao che nella notte post match pareggiato con la Roma ha preso il posto di Paulo Fonseca, giubilato senza troppo rispetto dalla folta dirigenza rossonera, dopo averlo fatto rispondere al fuoco di domande sul suo futuro che, sebbene tutti, lui compreso, sapevano già segnato, lo hanno costretto a recitare la parte del coach ancora in sella. Da un portoghese all’altro, Fonseca ha pagato errori suoi, lacune nella gestione della rosa, difetto di risultati. Ma ha pagato anche errori gravi che non gli appartengono.
Andando con ordine. Al netto di alcuni ruoli non ben coperti, soprattutto in difesa, il Milan ha una classifica che non rispecchia il valore della rosa e questa discrepanza fra potenziale e risultati non si può non imputare all’allenatore. La piazza rumoreggiava e non poteva pazientare oltre perché, sbiadito prestissimo l’obiettivo scudetto, continuava ad allontanarsi anche la zona Champions. Ci sarebbe il confronto con la Juventus di Thiago Motta, protagonista di una stagione simile a quella rossonera, oggetto di un ossequio assai diverso dei media, ma questa è una vecchia faccenda. Fonseca, un gran signore, è sempre stato lucido nelle analisi sul comportamento dei suoi. Nell’ordine, ha denunciato «mancanza di aggressività» quando subivano troppi gol e il Milan era la squadra meno fallosa del campionato (ma curiosamente tra le prime per ammonizioni). Lentamente, fatte salve alcune amnesie, il rendimento della difesa è migliorato. Sui limiti di «atteggiamento» e di «continuità» nelle partite contro le squadre minori, invece, le contromisure non sono state trovate. Fonseca ha accusato la scarsa applicazione con cui si spendevano Rafa Leao e Theo Hernandez. Anziché essere gli elementi trainanti hanno remato contro. I casi sono noti, dal famoso cooling break nel match contro la Lazio all’ammutinamento al momento dei rigori sbagliati contro la Fiorentina. Con il consenso della dirigenza, l’allenatore ha provato la terapia del bastone, relegando in panchina i contestatori negligenti. Qualche progresso c’è stato, ma è innegabile che il clima nello spogliatoio fosse compromesso. Soprattutto, non si è risolto il problema delle «montagne russe» tra una partita e l’altra e all’interno delle stesse partite. Al Milan difettano la malizia e il cinismo di qualche leader che sappia guidare la squadra e gestire le situazioni.
Andando più indietro, rimangono ancora nebulose le ragioni della scelta di Fonseca nella scorsa estate. Scartato Lopetegui per sollevazione popolare, ovvio il rifiuto di Antonio Conte per motivi caratteriali (incompatibilità con Zlatan Ibrahimovic) e tecnici (difesa a tre, allenamenti militari…), con sei mesi di ritardo si va su Conceiçao augurandosi che basti a risollevare le sorti di una società colpevole di molti errori. Nell’ultimo mercato, per esempio, l’acquisto di Emerson Royal, ma soprattutto le cessioni di Kalulu alla Juventus, diretta rivale, Adli e Pobega, per accorgersi ora che a centrocampo la coperta è corta.
Come la farraginosa gestione dell’uscita di Fonseca, per la quale anche Ibrahimovic presentando il nuovo coach si è scusato, anche quella dei giocatori palesa inesperienza e incertezza della dirigenza. Una dirigenza pletorica, in cui non si sa chi comandi. Basta fare il confronto con altre società. Alla Juventus ci sono Thiago Motta e Cristiano Giuntoli, all’Inter Simone Inzaghi e Beppe Marotta. Stop. Al Milan c’è l’allenatore voluto non unanimemente dai dirigenti (perché sono troppi). Ci sono Ibrahimovic (consulente di Gerry Cardinale, il proprietario), Giorgio Furlani (amministratore delegato), Geoffrey Moncada (capo scouting) e Paolo Scaroni (presidente). Il problema è che tutti parlano, fanno interviste, si pronunciano… E, ancor più, il problema è che, nonostante la lunga filiera, manca un dirigente che faccia da collegamento tra la squadra e la società. Doveva esserlo Ibra, questa figura, ma di fatto non lo è: per inesperienza, perché ufficialmente è il consulente della proprietà e forse perché è troppo concentrato su di sé.
Questi errori della proprietà americana, oltre i proclami manifestano poca considerazione della storia e dell’identità del marchio Milan. In un certo senso, somiglia alla vicenda della Roma, con i Friedkin. «Vincere con intelligenza», come ha detto Cardinale, significa che si ritiene prioritario il pareggio di bilancio sul conseguimento di trofei? Nell’incertezza sulla risposta, di sicuro c’è che questa dirigenza si sta mostrando incapace di perseguire entrambi gli obiettivi. Soprattutto, questa proprietà ha un peccato originale difficile da perdonare. La cacciata di Paolo Maldini, simbolo, bandiera e ottimo manager (anche se non perfetto, come dimostrano gli acquisti di Origi e Ballo-Touré e l’estenuante trattativa per Charles De Keteleare che ha caricato di pressioni il giocatore, liberatosi delle quali, è sbocciato). L’agitarsi di troppi protagonismi sembra il modo per far dimenticare il fantasma di Maldini. Che, va detto, condiziona tuttora la narrazione sul mondo rossonero perché molti commentatori sono suoi ex compagni, suoi ex allenatori o giornalisti che si sono affermati durante l’epopea berlusconiana.
Il secondo errore di questa proprietà è stata la cessione di Sandro Tonali, altro mattone di milanismo. Una storia, un sogno, in cui tutta la tifoseria si identificava. In fondo, anche il calcio è fatto di cuore e di anima. Romanticismi? Certo, sentimenti sicuramente non decodificabili con gli algoritmi. Storia e identità: sarà per questo che il Milan è la squadra con meno giocatori italiani?
Può essere un buon programma «vincere con intelligenza»: basta che non sia artificiale.
Buon 2025 a tutti (cominciando dai milanisti)!

 

Dagospia, 3 gennaio 2025

«Inter, Milan e Juve in pole Pochi talenti? La Figc…»

Anche quest’anno Sandro Piccinini sarà il telecronista di Prime Video per la Champions League, rinnovata a 36 squadre. Insieme a Massimo Ambrosini commenterà la miglior partita del mercoledì in un appuntamento che, con la folta squadra di inviati e talent, si propone sempre più di qualità. Per concentrarsi totalmente sull’evento, l’ex conduttore e telecronista Mediaset ha rinunciato anche alla collaborazione con Rds Radio Serie A. Ma visto che oggi, con Genoa-Inter e Milan-Torino, parte il campionato, qui parliamo soprattutto di cose italiane.
Sandro Piccinini, qual è la tua griglia scudetto?
«Al momento, metterei Inter, Milan e Juve in prima fascia. Poi Napoli, Atalanta, Roma e Fiorentina, mentre il Bologna mi sembra un po’ in difficoltà».
L’Inter privilegerà la Champions e il Mondiale per club?
«Non credo. Il primo obiettivo rimane il campionato. La Champions non è un traguardo da fissare adesso. Troppe incognite legate a sorteggi, infortuni e calendari. Se non sei il Real Madrid cominci a pensarci in primavera».
L’Inter ha preso Taremi e Zielinski, ma i titolari sono quelli dell’anno scorso: rischi?
«Sì, non è facile ripetersi. Su Chalanoglu e Lautaro Martinez non ho dubbi, qualcuno ce l’ho sul fatto che si confermi Thuram… L’Inter non è giovanissima; i ricambi ci sono, ma un paio di rinforzi di qualità servirebbero. Scarseggiano i soldi, servono le idee».
A Giuseppe Marotta non mancano.
«Ma non sempre si indovina, l’anno che sbagli due acquisti sei in difficoltà. L’Inter ha confermato le sue colonne e il nuovo proprietario, Oaktree, ha brillantemente risolto il nodo del rinnovo di Lautaro Martinez».
Considerato lo scarto dell’anno scorso, tra le rivali chi si è avvicinata di più?
«Potenzialmente, il Milan. Mi pare che Ibrahimovic cominci a incidere come dirigente. Gli acquisti sono mirati, giocatori utili nelle zone in cui c’era bisogno. Morata è una buona idea. Vedo una squadra equilibrata, con più fisico e più ordine».
La Juventus vuol fare la rivoluzione passando dal gioco speculativo di Massimiliano Allegri a quello liquido di Thiago Motta. Quanto tempo avrà a disposizione, ricordando i precedenti di Maurizio Sarri e Andrea Pirlo?
«È il duo John Elkann Cristiano Giuntoli ad aver voluto la rivoluzione. Sarri era un’idea del solo Andrea Agnelli, ma i giocatori non la condividevano. Stavolta si cambia anche metà della rosa. Le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma Elkann e Giuntoli lo sanno. A essere impazienti saranno i tifosi, soprattutto i nostalgici di Allegri».
Il rischio è notevole, considerando la lista dei giocatori messi fuori rosa?
«Quando si inizia una transizione così impegnativa la pazienza è indispensabile. Non è che da domani la Juventus giocherà come il Bologna».
L’acquisto di Koopmeiners aiuterà?
«È fondamentale, ma parliamo di grosse cifre. Non sarà facile per la Juventus vendere i giocatori che ha messo sul mercato».
Il patron della Fiorentina, Rocco Commisso, contesta spesso l’irregolarità del campionato perché si concede l’iscrizione a club con bilanci discutibili, leggi Juventus, ma poi gli vende puntualmente gli elementi migliori, l’ultimo è Nico Gonzalez.

«Chiamiamola realpolitik. Comisso fa gli interessi della Fiorentina. Se vuole monetizzare vendendo un giocatore e l’offerta migliore la fa la Juve, cosa dovrebbe fare?».
Il presidente della Figc Gabriele Gravina dice che i club devono rispettare le regole, ma all’estero le norme prevedono dure sanzioni per chi le viola. Perché in Italia non è così?
«È chiaro che se ci fossero stati controlli severi alcune società non sarebbero incorse nei problemi che hanno avuto. È evidente che, con tutto il rispetto della Covisoc (la commissione che verifica l’equilibrio economico e finanziario delle società ndr), qualcosa è sfuggita».
Bisogna correre ai ripari?
«Si deve. Se si guarda al monte ingaggi e ai bilanci degli ultimi due anni, molte società hanno cambiato comportamento. L’epoca dell’ingaggio di Cristiano Ronaldo è finita, lo conferma anche questa campagna acquisti. L’Atalanta e il Bologna hanno fatto da modelli».
Con la nuova Champions League e il nuovo Mondiale per club previsto a giungo, le squadre più titolate giocheranno più di 60 partite: troppe?
«Sia la nuova Champions che il nuovo Mondiale per club servono a portare soldi alle casse delle società. Ma questo non deve indurle ad avere rose di 40 giocatori. Si può vendere l’anima al diavolo, ma fino a un certo punto. Anche perché a rimetterci sono gli stessi giocatori. All’inizio della scorsa stagione c’era un Bellingham strepitoso che nella fase finale della Champions e agli Europei non si è visto. Pensiamoci: il calcio deve rimanere uno spettacolo per il pubblico, ma tutti dovrebbero essere disposti a guadagnare un po’ meno. Se guadagnano 10 milioni l’anno invece di 12, i giocatori possono accontentarsi».
Il campionato a 18 squadre aiuterebbe?
«Sarebbe un primo passo, ma da quanto ne parliamo?».
A Napoli altra rivoluzione con Antonio Conte?
«Aurelio De Laurentiis l’aveva già fatta qualche anno fa quando pensò di risolvere tutto chiamando Carlo Ancelotti. Poi, però, la campagna acquisti fu deludente. Conte si è già lamentato… Ha grande autostima, ma sa che gli servono giocatori adeguati al progetto. Non basta certo Lukaku… Se con i soldi della vendita di Osimhen arrivano quattro giocatori in linea con le sue richieste, il Napoli può cambiare faccia».
L’Atalanta vista con il Real Madrid è pronta per lo scudetto o si accontenterà di qualificarsi alla Champions?
«Oltre alle idee, adesso l’Atalanta ha i soldi arrivati dai successi nelle coppe. Lo si è visto dalla rapidità con cui ha preso Retegui dal Genoa e Brescianini dal Frosinone. Credo debba convincersi di essere pronta per il vertice, senza disperdere troppe energie nelle varie competizioni».
Quante chance dai alla Roma di Daniele De Rossi, Soulé e Dybala?
«Difficile che Dybala rimanga, troppo alto quell’ingaggio per 20 partite l’anno. Con Tiago Pinto, la Roma si era affidata al carisma di José Mourinho, salvo poi allontanarlo dicendo che la squadra era da Champions. Ora, però, la stanno smantellando… Il nuovo direttore sportivo, Florent Ghisolfi, dimostra di avere buone idee. Ha preso Dobvik, il capocannoniere del campionato spagnolo, Soulé dalla Juventus e Le Fèe dal Rennes. Sono contento per De Rossi perché si sta attrezzando una squadra all’altezza delle ambizioni che merita».
Perché nella formazione titolare del Milan rischiano di non esserci italiani?
«Non ci vedo una filosofia, ma affari più convenienti. Quando i giovani italiani di Milan Futuro saranno pronti giocheranno».
La prestazione della Nazionale agli Europei ha evidenziato una grave carenza di talenti, per esempio a confronto con la Spagna: cosa deve cambiare nel nostro calcio?

«Dobbiamo fare due ragionamenti. Il primo riguarda la Federazione e la gestione delle scuole calcio sul territorio nazionale. In Germania ci sono 400 centri federali che vanno alla ricerca capillare dei ragazzini migliori. Da noi il reclutamento è approssimativo e l’accesso al calcio selettivo. Non tutte le famiglie possono permettersi 500 600 euro l’anno per iscrizione, scarpe, divise e allenamenti tre volte la settimana… Né si può accollare tutto alle società, che sono soggetti privati. La Federazione come spende i suoi fondi? Se non interviene a questo livello, molti talenti, magari figli di immigrati, resteranno a giocare nel cortiletto».
Il secondo ragionamento?
«Riguarda la Nazionale. Spagna a parte, nettamente più forte, abbiamo giocato male con tutti e siamo stati dominati dalla Svizzera che, certamente, non ha un calcio migliore del nostro. Premettendo che Luciano Spalletti è un grande allenatore, qualcosa non ha funzionato tra lui e la squadra, o sul piano umano o sul piano delle indicazioni tattiche. Non è che ci ha eliminato il Brasile».
Un anno fa la spesa degli emiri aveva spaventato molti addetti ai lavori, oggi ci sono meno timori?

«Era spaventato chi non capiva che quel mercato portava incassi e risolveva parecchi problemi. Purtroppo, è una risorsa che durerà poco perché gli emiri cominciano a capire che da loro il calcio non crescerà più di tanto; per motivi storici, di territorio e climatici. E anche per una certa influenza delle donne: considerate le condizioni di vita locali, mogli e fidanzate non vogliono sentir parlare di Arabia».
Invece l’ex Ct Roberto Mancini giusto un anno fa seguì il richiamo dei petrodollari.
«Come nel caso di Dybala, parliamo di giocatori e allenatori che hanno avuto tutto dal calcio europeo e vanno monetizzare a fine carriera. Sarebbe diverso se parlassimo di Bellingham o Thiago Motta. Mancini ha approfittato del nome che si è fatto e dei privilegi concessi dalla Federazione, compreso l’ampio staff di collaboratori. Pur riconoscendo la priorità del mercato, quella scelta non mi piacque, penso che Mancini avrebbe dovuto avvertire Gravina».
Poteva essere il momento giusto anche per le dimissioni del presidente della Figc? Come prevedi andranno le elezioni del 4 novembre?
«Se si fosse dimesso subito dopo Mancini sarebbe sembrata una fuga di massa. Mi pare che, in quel contesto, Gravina si sia mosso bene, sorpreso dalla scelta egoistica dell’ex Ct. Però, dopo il fallimento di questi Europei, che segue le due mancate qualificazioni mondiali, sì: dovrebbe trarne le conseguenze. Credo sia questione di tempo. Non sarà facile trovare l’alternativa».
La stampa sportiva è troppo militante?
«Spesso si sa prima cosa scriveranno i giornali perché seguono le inclinazioni dei tifosi. Poi c’è anche un motivo economico. Siccome le vendite calano, si taglia la qualità e, per far quadrare i conti, si inseguono i social e i siti schierati per agganciare i tifosi più accesi. Con il risultato che, a volte, la testata storica scrive più o meno la stessa cosa del blog più becero».
Che cosa vuol dire che Massimiliano Allegri, Stefano Pioli e Maurizio Sarri sono ai box?
«È un discorso generazionale ed economico. Molti presidenti cercano allenatori giovani e meno costosi. Una volta il vecchio guru era più ricercato. Ma non si può mai dire, magari domani Allegri trova un grosso club all’estero… Poi c’è un rinnovamento in atto, portato da tecnici inclini a sperimentare. Spesso si dimentica che il calcio dovrebbe essere uno spettacolo, altrimenti il telespettatore guarda gli highlights perché l’intera partita annoia».
Un nome rivelazione di questa stagione?
«Per ora direi Soulé: in una grande può fare il salto di qualità definitivo».

 

La Verità, 17 agosto 2024

Boomer torna allo stadio dopo anni, con suo figlio…

Erano anni che non andavo allo stadio e tornarci mi ha regalato una nuova ulteriore consapevolezza del mio inguaribile boomerismo. Del mio essere uomo di un altro tempo. Lo stadio, la partita di calcio, anche vissuta da tifoso, è un’esperienza coinvolgente, in un certo senso totalizzante. Ancora più ricca se interpretata con gli occhi aperti e un minimo spirito critico. Ero in compagnia di mio figlio millennial, più tifoso di me. Poco alla volta, la diversità delle sue reazioni è risaltata come un evidenziatore sul mio straniamento. Com’è noto, allo stadio non c’è solo il fatto agonistico. C’è tutto il contorno, l’arrivo all’impianto sportivo, che per me era quello di San Siro per la partita fra Milan e Lazio. Ci sono il popolo dei tifosi, i colori delle tribune, gli striscioni, i cori.

Bene, prima di entrare nel catino urlante di passione, ecco la prima notazione. Le magliette indossate dai tifosi. Sono espressione di generazioni ed ere calcistiche diverse, quasi sempre superate, archiviate da tempo. Si leggono sulle spalle delle persone, dove compaiono i nomi dei protagonisti. Kakà è uno degli idoli tuttora più gettonato. Ma poi ecco Kessie, Saelemekers, De Keteleare, Tonali. Tutta gente che non è più al Milan. Qualcuno rimpianto, altri meno. Donnarumma non se ne vedono. Molti Ibrahimovic, invece. E persino, Menez. Preistoria. Anche mio figlio ride di gusto. Qualcuno di mezza età si autoproclama, orgoglioso, Nesta. Poi sì, ci sono anche quelli aggiornati: Theo, Calabria, Giroud, Rafa Leao. Idoli che permangono. E qualcuno di nuovo nuovissimo: Pulisic. Così ci si rincuora, pensando che alla fugacità del tempo si oppone il perenne presente. E la speranza di migliorare che sempre anima il cuore del tifoso.

Finalmente si accede alle tribune e il posto assegnato è particolarmente felice. Primo anello rosso. La vista è ottima, il prato brilla lì davanti, i giocatori non sono pedine minuscole com’erano quando le scrutavo, ragazzo del terzo anello. I cori rimbombano, bellissima la coreografia di bandiere e striscioni. Sul corridoio che separa il nostro settore dalla tribuna che sta proprio a ridosso del campo di gioco è un via vai di persone che cercano il loro posto. O di quelle che cercano birre e panini. Scopro che allo stadio il pubblico ha molta sete e molta fame. Nella tribuna riservata ai vip spunta Zlatan Ibrahimovic. Poi arriva il Ct della Nazionale Luciano Spalletti. Osserverà soprattutto la Lazio, rifletto puntiglioso, visto che nel mio Milan di italiano c’è solo il capitano Davide Calabria, da qualche tempo uscito dal giro. Ibra e Spalletti catalizzano le attenzioni dei presenti. Poi finalmente la partita comincia e il traffico sul corridoio davanti si dirada. Ma non del tutto. Ogni tanto, per continuare a seguire un’azione di gioco, tocca allungare il collo per non restare impallati da qualcuno che transita reduce dal bar con boccali di birra, piadine e tranci di pizza come fossero tanti camerieri.

Intervallo. Spalletti esce dal box riservato e si avvicina ad altri spettatori vip. C’è Zlatan, come dicevo. C’è Paolo Scaroni, presidente del Milan. Ci sarà qualcuno che mi sfugge. Gli steward faticano a far scorrere il pubblico che si arresta catalizzato, cellulare alla mano per immortalare le celebrities. Molte donne hanno lineamenti pronunciati e indossano canottiere aderenti. Sta per cominciare il secondo tempo, i giocatori sono già schierati con la palla al centro, ma la muraglia di magliette onomastiche non si sgretola e, spalle al prato, innalza ancora gli smartphone per fotografare i famosi in tribuna. Il pallone ha cominciato a rotolare sul prato. A quel punto, rompo gli indugi. Ragazzi, guardate che la partita è dall’altra parte, non in tribuna. Va bene, va bene… ciondolano la testa e si allontanano. Mio figlio: ma papà, lascia che la gente faccia quello che vuole.

All’inizio del secondo tempo, il Milan entra in campo più determinato. Per i primi cinque minuti la Lazio non supera la metà campo. I cori si fanno più potenti e incalzanti. È un crescendo sia nella qualità del gioco che nella spinta dagli spalti. Quando, con una formula abusata, si dice che i tifosi sono il dodicesimo giocatore in campo… Infatti, la pressione raggiunge l’apice. E, al quarto d’ora, con una bellissima azione sulla sinistra che coinvolge quattro giocatori, il Milan passa. Più tardi, procurato da uno slalom vertiginoso di Leao, arriva anche il raddoppio. La festa è piena. I colori si accendono ancora di più. Sulla fila davanti a noi una famiglia, marito, moglie, bambino e figlia adolescente cantano. La più scatenata è la signora, conosce tutti i cori. Il marito è più compassato. La figlia adolescente si scatta raffiche di selfie, rivolta alla tribuna (non al campo di gioco).

La partita è finita. Per oggi il Milan è ancora primo in classifica (in condominio con l’Inter). Il popolo sciama euforico sul piazzale dello stadio con vincolo storico che i club presto abbandoneranno (scegliendo impianti fuori dal Comune a causa dell’insipienza della giunta cittadina). Una donna con le gambe storte da calciatrice parla animatamente con il tizio al suo fianco che inalbera la maglietta di Maldini

Pistolotti e pipponi del Circolo dei Mondiali

Con l’inizio dei Mondiali del Qatar e la contemporanea sospensione dei campionati nazionali, in tutte le reti è partita la caccia ai telespettatori appassionati del «gioco più bello del mondo». Causa assenza dell’Italia, particolarmente in queste prime giornate in cui l’interesse è modesto, bisogna inventarsi qualcosa per attrarre il pubblico orfano di vere competizioni. Così, su Canale 5 Striscia la notizia ottiene il record stagionale (4,5 milioni di spettatori e il 20,3% di share) schierando dietro il bancone Zlatan Ibrahimovic che, come già visto al Festival di Sanremo di Amadeus e di recente a Che tempo che fa, come testimonial acchiappa ascolti è disinvolto quasi quanto lo è nell’area avversaria. Sky Italia, invece, manda in onda Il grande gioco, una serie di Eliseo Entertainment che narra gli intrighi del calciomercato con Giancarlo Giannini nel ruolo del boss di una società di procuratori. Quanto alla Rai è in affanno a giustificare la spesa di 200 milioni per l’esclusiva di un mondiale contestatissimo sia per i gravi costi umani pagati durante l’organizzazione che per il mancato rispetto dei più basilari diritti civili. Come su molti altri argomenti è stato Fiorello a dare la linea, sottolineando la contraddizione della doppia morale perché tutti iniziassero a prendere le distanze e a obiettare contro l’ipocrisia della Fifa che con una mano sventola la bandiera dei diritti e con l’altra incassa oltre 5 miliardi di dollari dagli sceicchi qatarioti. Il risultato è che la Rai prova a destreggiarsi nella strettoia al punto che Alessandra De Stefano, conduttrice del Circolo dei mondiali (nonché direttrice di Rai Sport), ha introdotto il programma con un pistolotto sgrava coscienze che ne ha giustificato la messa in onda. Purtroppo, per dimostrare che si è eticamente ed energeticamente esemplari, poco dopo è arrivata anche la conduzione a lumi di candela che ha trasformato il desk dello studio in una sorta di altare devozionale. Per il resto, la formula è la stessa del Circolo degli anelli, con qualche nuovo innesto che lo rende un po’ più varietà. Come l’aggiunta di una band e il ruolo di Sara Simeoni, agghindata con abiti coreografici, sempre più adorabile zia stralunata della combriccola. Infine, per allinearsi alla moda dello storytelling, ecco il monologo di Gianfelice Facchetti, regista, attore e figlio dell’indimenticato Giacinto, che, ogni sera racconterà un aneddoto. Fortuna che ci sono anche Bobo Vieri e Lele Adani, due che capiscono di cosa si parla, e che poi ritornano con una pillola della loro Bobotv. Sarà un lungo mondiale.

 

La Verità, 23 novembre 2022

Lo scudetto del Milan vinto col fattore umano

È uno scudetto conquistato all’opposizione quello vinto dal Milan domenica allo stadio Mapei di Reggio Emilia con il 3 a 0 sul Sassuolo. Uno scudetto contro. Vinto risalendo la corrente. Ribaltando lo scetticismo dei media e degli analisti più accreditati. Domando squadre più attrezzate e sponsorizzate. Metabolizzando errori arbitrali clamorosi che hanno tolto punti che avrebbero potuto risultare decisivi. Uno scudetto vinto sul filo di lana dopo una volata di sei vittorie consecutive contro squadre molto insidiose. Ma non è solo per questo che il diciannovesimo trofeo nazionale incamerato dalla società rossonera ha un sapore particolare. Si è letto del capolavoro di Stefano Pioli, gran protagonista, allenatore finora apprezzato per le qualità umane (mai una parola fuori posto anche quando Ralf Rangnick era a un passo da Milanello), ma considerato un non vincente. Si è letto del ruolo di Zlatan Ibrahimovic e del carisma dei «vecchi» come Simon Kjaer e Olivier Giroud. Si è riconosciuta l’esplosione di talenti come Rafael Leao, Mike Maignan e Sandro Tonali. Si sono apprezzati i grandi meriti di Paolo Maldini, passato dalla dimensione di ex bandiera, prima all’ombra di Leonardo e poi di Zvonimir Boban (il cui contributo oggi non va dimenticato), a quella di dirigente autorevole e lungimirante. Se oggi il Milan è una società che attira l’interesse dei maggiori fondi internazionali è perché in poco più di due anni, grazie al lavoro di Elliott e dell’amministratore delegato Ivan Gazidis, ha risanato il bilancio e, da una sconfortante mediocrità, è salito ai vertici della Serie A, diventando un modello di calcio sostenibile. Anche queste sono considerazioni che si sono lette, soprattutto grazie al senno postumo. Perché, prima e durante, gran parte dei commentatori le ritenevano ininfluenti sul risultato del campo. I campionati li vincono i campioni, si ripete. E, dunque, con i soldi. Ci sono società che hanno improntato a questo assioma la loro filosofia. Basta guardare a come si sviluppano certe campagne acquisti.

A volte, invece, ed è questo il caso, si vincono anche con le idee. E con il fattore umano. È per questo, forse, che questo scudetto vale più di altri. Ci sono alcuni fotogrammi che fanno intuire cosa s’intende quando si parla della «forza del gruppo», come ha fatto Davide Calabria nell’euforia di domenica sera rispondendo a chi gli chiedeva il segreto della cavalcata rossonera.

Castillejo, ancora tu

 Il primo flash risale al 16 ottobre, quando alla fine del primo tempo il Milan è sotto 0 a 2 con il Verona. Dopo l’intervallo Pioli sostituisce Alexis Saelemaekers ripescando dal sottoscala dello spogliatoio Samu Castillejo che fino a quel momento aveva giocato due minuti alla seconda di campionato. Sempre dato come partente nelle ultime sessioni di mercato, nel secondo tempo di quella partita lo smilzo Castillejo, che ha sempre continuato ad allenarsi nonostante fosse marchiato come giocatore che «non rientra nei piani dell’allenatore», dà l’anima fino a risultare determinate nella rimonta rossonera. Dopo il gol di Giroud, procura il rigore del pareggio trasformato da Franck Kessie e l’autorete del difensore veronese del 3 a 2 finale. Dopo il triplice fischio si scioglie in lacrime tra gli abbracci dei compagni. Spiegherà alle televisioni che sta attraversando un momento difficile perché gli manca la famiglia rimasta in Spagna alla quale spera di riunirsi quanto prima.

Ingaggio autoridotto

Il secondo fotogramma riguarda Tonali, nato lo stesso giorno di Franco Baresi, tifoso rossonero fin da bambino quando scriveva le letterine a Santa Lucia perché esaudisse il suo sogno di diventare un giocatore del Milan. Una volta arrivato, nell’estate 2020 in prestito dal Brescia, però Sandrino delude le attese. I soliti scettici sentenziano che «non è da Milan» e che non vada riscattato. La società invece gli dà fiducia e mantiene la rotta. Per agevolare l’operazione, lui decide di ridursi l’ingaggio di 400.000 euro. Un gesto che lo rende protagonista, lo sgrava di troppe responsabilità e lo rende più disinvolto e propositivo anche in campo, fino a farlo risultare uno dei migliori della stagione.

Arbitri e alibi

Il 17 gennaio, quando in classifica l’Inter ha 49 punti e il Milan 48, si gioca Milan-Spezia. In pieno recupero, sul punteggio di 1 a 1 l’arbitro fischia un fallo su Ante Rebic senza concedere la regola del vantaggio proprio mentre la palla arriva a Junior Messias che insacca. Successivamente, nell’ultima azione della partita, lo Spezia segna il gol dell’1 a 2 e così, nel giro di un minuto, dalla vittoria quasi certa il Milan passa a una rocambolesca sconfitta. L’arbitro Marco Serra chiede scusa sconfortato per l’errore. Al termine del match Ibrahimovic gli fa visita nello spogliatoio: «Tranquillo, sbagli tu come sbaglio io». Il Codacons chiede di ripetere la partita. Al contrario, Pioli e la società non alzano i toni della polemica contro i direttori di gara e l’Aia (Associazione italiana arbitri), evitando di alimentare alibi nello spogliatoio.

Sono tre flash, se ne potrebbero aggiungere altri. Ma bastano per intuire che il fattore umano, spesso sottovalutato, alla lunga può fare la differenza anche in un gioco complesso, strano e imprevedibile come il calcio.

 

 

La Verità, 24 maggio 2022

 

Se Parigi è la Ville ténèbre di Donnarumma

Meglio soli che gestiti dai procuratori. Chissà, forse la morale della faccenda è tutta qui. In uno di quei vecchi proverbi che anche i nonni di Gigio da Castellammare di Stabia sicuramente conoscevano e che avrebbero potuto rammentargli. Invece no. Si sa com’è andata. O, piuttosto, come non è andata. Per il Paris Saint-Germain, prima. Eliminato agli ottavi di Champions League, con un suo grave impaccio a innescare la remontada del Real Madrid. E per la nostra Nazionale, esclusa dai Mondiali in Qatar da un tiro di Aleksandar Traikovski che ha stanato il suo errato piazzamento. La Macedonia nel 2022 come la Corea nel 1966, entrambi del Nord. L’altra sera, invece, in uno stadio dell’altopiano anatolico, abbiamo dovuto segnare tre gol per ammortizzare le due papere del portierone. Non sembra più lui, Gianluigi Donnarumma, anima lunga e sempre più tormentata. Tuttora capace di balzi istintivi e voli pindarici a sventare altri schiaffi – perché la dotazione naturale è super, superba, superlativa. Poco lucido, impacciato e insicuro, invece, appena ha il tempo di pensare e la palla tra i piedi.

La perturbazione non è ancora passata. Lo si può capire, esposto com’è allo scherno dei social, soprattutto dei tifosi milanisti (tra i quali, confesso, mi annovero). Chissà se e quando si riprenderà da questa stagione incubo, ce lo auguriamo per lui e per le sorti della Nazionale. E chissà tra quanto gli Azzurri potranno tornare a giocare a Milano se non vogliono esporre ai fischi il loro numero 21.

Fa una certa tenerezza la parabola dell’ex candidato miglior portiere del mondo. Le cause del prolungato appannamento che lo avvolge da quando ha lasciato il Milan possono essere svariate. Ingenuità personale manovrata dal machiavellico procuratore. Eccesso di presunzione e ambizione. O, sempre attingendo alla solita saggezza popolare, l’accoppiamento operato da Dio tra esseri affini. Difficile credere che il ragazzo di Castellammare si sia fatto manovrare dal supermegaprocuratore. Però forse conveniva stare accorti. Mino Raiola ha da sempre sotto contratto uno come Zlatan Ibrahimovic. Il quale, pur avendo giocato nell’Ajax, nella Juventus, nell’Inter, nel Barcellona, nel Milan due volte, nel Paris Saint-Germain e nel Manchester United, a forza di cambiare squadra nel momento sbagliato non ha mai vinto la Champions League. Quando si sta bene in un ambiente di lavoro, il buon senso consiglia di non cambiarlo. Di non avventurarsi. Di non farsi prendere dall’ambizione.

Arrivato nella Ville lumière non tutto luccica come si aspetta. Lo spogliatoio è diviso, il rivale Keylor Navas un tipo tosto e Gigio siede in panchina più del previsto. Ma comprimere i rigurgiti di coscienza è difficile anche a colpi d’interviste e di troppe versioni del divorzio rossonero. «Avevo bisogno di cambiare per crescere, per migliorare e diventare il più forte. La vita è fatta di scelte, avevamo ambizioni diverse» (al Corriere dello Sport). «Quando leggo le critiche alla mia scelta mi faccio tante risate» (a Sky). «Il Psg mi seguiva da tempo, non ho esitato a firmare» (a France football). Infine, alla Gazzetta dello Sport: l’ultima telefonata del club «è stata per informarmi che avevano preso un altro portiere». Alla quale aveva replicato il direttore sportivo Frederic Massara: «Chiamarlo ci è sembrato un gesto di cortesia dopo i suoi rifiuti alle nostre proposte. Ci è sembrato corretto prima di ufficializzare l’acquisto di un nuovo portiere informare lui direttamente».

Alla vigilia del match con il Real il buon Gigio aveva svelato la complicità «del destino» nella sua scelta parigina. Poi Karim Benzema gli aveva soffiato il pallone e addio sogni di Champions. «Ha sbagliato a scegliere i soldi, l’ho detto anche ai suoi genitori», ha sentenziato Arrigo Sacchi dopo l’eliminazione. «Colpa sua. Il Real Madrid era morto», ha rincarato Fabio Capello, sottolineando anche la poca riconoscenza verso il club che l’aveva fatto crescere. Concetto nobile, ma forse legato a un calcio del passato. Le bandiere sono state ammainate ovunque. Il professionismo ha da tempo archiviato i romanticismi. I club cambiano proprietà con una certa frequenza, non ci sono più presidenti storici come Massimo Moratti o Silvio Berlusconi, i contratti vengono siglati dai manager e le società guardano solo al conto economico. Ma proprio per valutazioni strettamente professionali Donnarumma «doveva restare al Milan», ha ribadito Sacchi, «era il posto ideale per crescere». «Adesso a Parigi non so come se la passerà», si è preoccupato Capello. Il Psg è in testa alla Ligue 1, con 12 punti di distacco sull’Olimpique Marsiglia. Ma nelle ultime cinque partite ha perso tre volte e il clima di smobilitazione generale è palpabile. A fine stagione l’allenatore Mauricio Pochettino verrà sostituito. Kilian Mbappè andrà al Real e forse qualcun altro dei troppi fuoriclasse cambierà aria. Per superare i turbamenti del giovane Gigio, ex candidato miglior portiere del mondo, forse la Ville ténèbre non è il posto giusto.

 

La Verità, 31 marzo 2022

«Noi donne impariamo dai maschi a fare squadra»

Dove si trova, Diletta Leotta?

«A casa mia, a Catania. Circondata da nipotini, fratelli e sorelle».

Famiglia numerosa.

«Molto. E cresce ogni anno. C’è sempre un nuovo nipotino in arrivo. Siamo a quota sette, i miei fratelli si danno parecchio da fare».

E sono numerosi.

«Tre sorelle e un fratello. Io sono la più piccola, ma tra meno di un mese compirò trent’anni».

Quando sarà?

«Il 16 agosto, sotto il segno del Leone».

Da Capri alla Turchia, da Roma, per Top dieci su Rai 1, a Milano, dalla Sardegna a Catania, quest’estate ha girato come una trottola.

«E prima ho girato tanto per gli stadi, nonostante le restrizioni. Per questo adesso mi fermerò un po’. Anche per prepararmi alla ripresa del campionato».

Ha fatto il vaccino?

«Venerdì farò la prima dose e la seconda subito dopo il compleanno. Appena avrò il green pass mi sentirò più tranquilla negli spostamenti».

Ha seguito e festeggiato le imprese della Nazionale?

«Certo, ho molto festeggiato. Ho girato anche un video durante i rigori, ma non è pubblicabile».

Perché?

«Perché è molto colorito e caldo».

Cosa vuol dire caldo?

«È un video molto sentito, eravamo tutti piuttosto in ansia».

Seguiva un rito per la visione delle partite?

«Con il mio manager Umberto Chiaramonte avevamo allestito un gruppo di ascolto, forse meglio dire una curva di tifosi. Ci trovavamo a casa sua, giropizza e birra, ed è sempre andata bene. Per la finale, però, lui non c’era e ci siamo trasferiti da me. Quando ho acceso la tv aveva appena segnato l’Inghilterra: vuoi vedere che… Invece poi anche casa mia ha portato bene».

Adesso seguirà le Olimpiadi?

«Altroché. Una delle mie migliori amiche è Rossella Fiamingo, argento nella spada a Rio de Janeiro. Gareggerà all’una e mezza di notte ora italiana. Ma anche per lei è pronto un altro gruppo di ascolto».

È sua conterranea, se non sbaglio.

«È catanese ed è anche mia coetanea. Ha compiuto trent’anni prima di partire per Tokio e ci siamo ripromesse di festeggiare insieme i compleanni al suo ritorno. Speriamo anche di gioire per una medaglia, ma questo non gliel’ho detto per scaramanzia».

Oltre alla scherma seguirà qualche altra disciplina?

«Sono appassionata di tutto e tifo Italia a 360 gradi. Cercherò di non perdere le gare di nuoto, avendolo praticato per tanti anni».

Ecco spiegati i suoi tuffi perfetti di quest’estate. È contenta che Paola Egonu sarà portabandiera olimpica?

«Sì certo. Come portabandiera italiana speravo scegliessero Rossella».

Il 21 agosto ripartirà la Serie A, che anno sarà per Dazn?

«Molto impegnativo, ma abbiamo costruito una grande squadra. In tre anni, Dazn si è affermata come una realtà forte e innovativa e ora si è consolidata con i nuovi acquisti. Siamo prontissimi».

Da padrona di casa della piattaforma, qual è la differenza principale rispetto alla proposta di Sky Italia?

«Un po’ la si è vista in questi tre anni: è un modo di raccontare il calcio più veloce e più giovane, con tanti approfondimenti. Il fulcro di tutto è lo stadio. L’arma vincente di Dazn è portare il telespettatore dentro l’evento, senza troppi filtri».

Da quest’anno, con l’esclusiva di tutto il campionato ci sarà un palinsesto più completo?

«Certamente. Non ci sarà solo l’evento live. Saranno potenziati i contenuti on demand, oltre a confermare quelli che già sono andati bene finora, come Linea Diletta che è stato prorogato per tre anni. Altri se ne aggiungeranno nel corso della stagione».

Approfondimenti e talk show in diretta?

«Sia on demand che in diretta. È stato ideato un nuovo spazio, The Square, una sorta di bar spogliatoio nel quale prenderanno vita i nostri programmi, le anticipazioni e gli approfondimenti relativi a tutto ciò che avviene nella Serie A».

Che cosa faranno Marco Cattaneo e Giorgia Rossi che arrivano da Sky e Mediaset?

«Anche loro presenteranno le partite, ne abbiamo tantissime. Marco lo conosco da quando ho lavorato in Sky, è una persona meravigliosa e uno straordinario giornalista, sono felice di averlo riabbracciato. Anche Giorgia è una bravissima giornalista. Sono sicura che ci completeremo e integreremo alla perfezione».

Parlando di squadra, si arricchisce anche il parterre di commentatori e seconde voci con l’innesto di Massimo Ambrosini, Andrea Barzagli, Riccardo Montolivo e altri.

«Andranno ad aggiungersi ai veterani. Come Federico Balzaretti, Roberto Cravero, Simone Tiribocchi e tutti gli altri, che sono stati e saranno le colonne portanti del nostro racconto. È un privilegio avere grandi campioni a commentare il campionato».

Per venire da voi Barzagli ha rinunciato ad affiancare Massimiliano Allegri alla Juventus.

«Certamente ha fatto una scelta non banale. Cito Antonio Conte che in un’intervista ha detto che a un suo amico non consiglierebbe mai di fare l’allenatore, ma piuttosto il commentatore televisivo perché è una professione gratificante. Poi certo, Conte ha fatto una carriera che l’ha gratificato ancora di più. Ma a volte si preferisce qualcosa di più calmo… Anche se l’adrenalina scorre pure quando si commenta una partita».

Cosa mi può dire di Lele Adani, al quale Sky non ha rinnovato il contratto, che si dà in arrivo a Dazn?

«Non ne so nulla, in Sicilia le notizie arrivano più lente. Comunque, anche a Lele con cui avevo un ottimo rapporto a Sky, auguro tutto il meglio».

Cambieranno molto le abitudini dei telespettatori da Sky a Dazn?

«Credo che negli ultimi tempi siano già iniziate a cambiare. Dazn ha già portato diversi elementi di innovazione. All’inizio i cambiamenti fanno sempre un po’ paura. Ma ora ci siamo abituati a Netflix o a Spotify nella musica e alle altre piattaforme digitali. Sarà facile abituarsi anche nel calcio».

Se dovesse sintetizzare il principale punto di forza di Dazn cosa direbbe?

«Sottolinerei la facilità e la velocità. Cioè la possibilità di sintonizzarsi con un click e un’app. Questo spirito smart favorisce un linguaggio più immediato, in grado di rompere certe barriere. Come si è potuto vedere per esempio nelle interviste a Cristiano Ronaldo o a Francesco Totti, chiacchierate tra amici».

Ha imparato qualcosa da giornaliste sportive come Alba Parietti, Simona Ventura, Ilaria D’Amico?

«Sì, molto. Anche da altre donne di televisione. Chi fa il mio lavoro è sempre influenzato da chi lo precede. Ilaria è stata la prima a raccontare il calcio in modo diverso. Prima ancora Alba Parietti. Alcune di loro sono delle icone. Un’altra che ha influenzato il nostro lavoro è certamente Raffaella Carrà. Provo a imparare da tutte, ma poi tocca a me fare una sintesi».

C’è qualcuna in particolare cui le piacerebbe somigliare nel modo di raccontare il calcio?

«No, credo che si debba far emergere la propria personalità. Con eleganza, il sorriso e molto studio».

Quanto è importante lo studio?

«Molto, lo metto al primo posto. Senza non potrei andare in onda».

Uno studio relativo alle squadre e al calcio, o che riguarda il modo di presentarsi, la dizione?

«Tutto. Sono allenata allo studio accademico, essendomi laureata in giurisprudenza. Preparare la diretta di una partita importante è un po’ come preparare un esame universitario. Questa conoscenza permette una conduzione rilassata perché sai che anche l’imprevisto puoi gestirlo».

Qualche tempo fa si era parlato di un flirt, poi di una collaborazione professionale con Zlatan Ibrahimovic: di cosa si trattava?

«Siamo soci in BuddyFit, un’app di fitness, nata durante il lockdown. Attraverso questa app ci si può tenere sempre in allenamento, ovunque».

In un’intervista a un settimanale Giorgia Rossi ha detto che non le invidia nulla, nemmeno il fidanzato, l’attore turco Can Yaman che, in realtà, tutto l’universo femminile le invidia.

(Ride) «Non l’ho letta, ma dubito che Giorgia si sia espressa così. A volte si riportano certe frasi decontestualizzate per creare rivalità inesistenti».

Perché secondo lei alcune giornaliste sportive asseriscono che la sua carriera sia dovuta alla sua avvenenza?

(Ride ancora) «Non lo so. So invece che nelle mie giornate c’è tanto studio. Poi è chiaro che in questo mestiere anche l’estetica conta. È qualcosa a cui tengo. Ma dietro l’involucro c’è molto studio. Non si può fare un’intervista a José Mourinho senza prepararsi a fondo».

Insisto, perché alcune sue colleghe tengono a ribadire che sia stata la bellezza la molla della sua carriera?

«Bisogna chiederlo a loro. Io sono convinta che con Giorgia Rossi e Federica Zille comporremo una squadra di donne molto forte. E mi auguro che sapremo sovvertire alcune vecchie dinamiche sulla continua competizione tra donne nel mondo del lavoro. Un luogo comune nel quale ci si adagia e per il quale alla fine dovrebbe restare solo una vincitrice. Credo che non debba essere così per forza. Nel calcio e altrove più donne possono coesistere. Le donne devono imparare a fare squadra. In questo, possono imparare dagli uomini, tra i quali non ci sono rivalità così accese».

Come spiega quella fra donne?

«È un vecchio retaggio duro a morire. A me piace lanciare messaggi di squadra e di forza comune».

Le capita mai, mentre intervista uno sportivo, di accorgersi che subisce la sua presenza, il suo fascino? Cosa pensa in quel momento?

(Altra risata) «Questa è una domanda da psicologo».

È una domanda realista.

«Non mi capita, perché faccio di tutto per mettere a loro agio i miei interlocutori. Voglio far sentire tutti in un contesto amico. In un’ora di intervista devi rompere il ghiaccio e creare un’empatia. Perciò mi presento giocosa e sorridente. Credo che questo superi certi cliché».

Cosa vuol dire il titolo del suo libro Scegli di sorridere?

«È la mia filosofia di vita».

Vuol dire non alimentare le polemiche?

«Esatto».

È favorevole al ritorno del pubblico negli stadi con il green pass?

«Non vedo l’ora. È stato faticoso in questi due anni riempire quel silenzio. Aspetto di risentire presto le voci del pubblico».

Che cosa si augura per la nuova stagione di Dazn?

«Di riuscire a raccontare in modo divertente il campionato degli allenatori».

Per il ritorno contemporaneo di Allegri, Sarri e Mourinho?

«Se li immagina i titoli per il derby tra Mourinho e Sarri».

 

La Verità, 24 luglio 2021

Blindato e autoreferenziale il Festival non ce l’ha fatta

È un Festival di Sanremo che non ce l’ha fatta quello che si è appena concluso. Non ce l’ha fatta, nonostante le buone intenzioni, a buttare il cuore oltre i protocolli. Non ce l’ha fatta a parlare al Paese. A regalargli qualche ora di spensieratezza, come si era prefissato (anche nella quarta serata gli ascolti si sono fermati a 8 milioni di telespettatori, 44,7% di share, 1,5 milioni in meno del 2020, 54,3%). Aveva davanti una parete verticale, il Festivalone, ma ha finito per retrocedere nel fortino della musica & gag, mentre là fuori tutto continuava come e peggio di prima, con i colori delle regioni che si scurivano e i segretari di partito che si dimettevano. Forse era troppo chiedere che una kermesse canora, «l’ultima festa patronale di questo gran paesone» (Marcello Veneziani), riuscisse ad alleviare il clima dell’Italia degli anni Venti. Le restrizioni hanno debilitato conduttori e artisti, consegnandoci un Festival convalescente. E tuttavia ci vuole un pizzico di pietà, uno spicchio di cuore, per giudicare sforzi e impegno di Amadeus, di Fiorello e dei tanti, forse troppi autori. Lo stesso pizzico di pietà che ci vorrebbe per accompagnare questa Italia piegata dalla crisi pandemica e, di conseguenza, ripiegata su sé stessa, di cui Sanremo è stato lo specchio fedele. Allora, forse, bisogna superare certi livori moralistici e dare il giusto merito ai conduttori del Festival dell’amicizia, Ama e Fiore.

Fosse stato per Amadeus, capace di pilotare la nave in porto metabolizzando anche gli inconvenienti tecnici (voto: 7), avrebbe fatto accomodare in platea 500 tra medici e infermieri per mantenere il contatto con la realtà prima ancora che con il pubblico. Non potendo avere le grandi star, tutte in ritirata, ha provato a portare sul palco le storie dell’attualità. Come quella di Alex Schwazer, il marciatore altoatesino vincitore di un’Olimpiade, squalificato per doping e ora sulla strada della riabilitazione. Poche parole, zero fronzoli, molta determinazione (7): caratteristiche comuni alle altre storie di rivincita sulle malattie (resilienza è vocabolo in odore di manierismo), raccontate dal giocatore di powerchair football, Donato Grande, e dall’attrice affetta da sclerosi multipla, Antonella Ferrari (8). E poi la storia dell’«incontro fortunatissimo» di Elodie con il pianista Mauro Tre che l’ha aiutata a ripartire, superando l’obbligo di «essere sempre all’altezza», consegnandoci una soubrette con un grande avvenire davanti (9 per tutto l’insieme). O Zlatan Ibrahimovic e l’amico Sinisa Mihajlovic sopravvissuto alla leucemia, pronti a cantare (meglio di qualche concorrente) Io vagabondo dei Nomadi. Proprio Ibrahimovic è stato protagonista del momento verità che per un attimo ha rotto la gabbia autoreferenziale in cui il Festival si è progressivamente infilato: l’ingorgo autostradale superato con il rocambolesco motostop trovato sotto la stella del tifo milanista. Il mio nome è Ibra, Zlatan Ibrahimovic (9 anche per l’autoironia). È sembrata una scena da film, era la realtà che irrompeva nella bolla dell’Ariston.

Se non ci si misura con lei, la realtà ruspante e fatta di imprevisto, restano il ripiegamento ombelicale e il birignao colto duro a morire. E qui di pietà ce n’è meno. Come classificare il cast musicale e i testi delle canzoni (4), intrisi di sentimentalismo e psicologismo, emblema di quell’Italia ripiegata? Nemmeno la serata delle cover è riuscita a rimediare, inaugurata dal narcisismo ridondante dei Negramaro di Giuliano Sangiorgi (5) che hanno farcito di archi, echi e fiati una storia scarna e scabra come quella di 4/3/1943.

Il Festival non ce l’ha fatta per le palate di autocompiacimento diffuso, patologia di troppi modesti showman prestati alla musica, sopravvalutati e mostrificati dal fashion, unghie smaltate, pizzi, tuniche, rossetti e mascara a tonnellate per tutti (viene quasi da rimpiangere Studio uno e Canzonissima: asta, orchestra e fascio di luce). A proposito, tolti Francesco Renga ed Ermal Meta, tutti cantavano in falsetto. Emblema e capofila è Achille Lauro (5 per l’impegno): intruglio granguignolesco di piume, lacrime e baci gay già beatificato a furor di social. Non ho l’età di Gigliola Cinquetti e Io che amo solo te di Sergio Endrigo sono poesia a confronto di tanto ciarpame.

Ma tant’è. Trionfano manierismo, monologhismo e autofiction da «io sono io». Ci è caduta, ahinoi, anche Barbara Palombelli con un’esortazione da quote rosa con invito alle donne «che tengono il Paese» e alle ragazze «a studiare fino alle lacrime»: perché «non andremo mai bene, non saremo mai perfette» e ci diranno che siamo così e siamo cosà (6 di stima). Almeno lei «l’empowerment femminile» l’ha davvero portato sul palco. A differenza della supermodella Vittoria Ceretti che, non pervenuta, lo ha solo annunciato via intervista (5). Se la costruzione ideologica non buca il video, l’apparato erudito separa dalla realtà, come ha confermato lo stridio dell’arrampicata del direttore di Rai 1 Stefano Coletta per giustificare «il declivio degli ascolti» (3). Infine, un pensiero per Fiorello che, avendo dato l’anima come Amadeus, stramerita quel pizzico di pietà. È il miglior showman del bigoncio, il mattatore alla Walter Chiari che dobbiamo preservare. Ma è anche colui che rappresenta meglio il momento perché ha patito più di tutti le poltroncine vuote e l’assenza di applausi a scena aperta (7,5, frutto della media tra genialità, musical e ripiegamento). Ha citato, imitato e duettato, grazie a Dio sdrammatizzando, con Achille Lauro (e con tutti). Ha cazzeggiato e improvvisato, riproponendo però la formula dell’anno scorso. Solo che nel frattempo là fuori era tutto drammaticamente cambiato. E il copione collaudato – i due amici, le storie, la leggerezza – non poteva bastare per interpretare la nuova Italia che ci è implosa tra le mani.

 

La Verità, 7 marzo 2021

«Ecco chi vince la Serie A e i miei giocatori preferiti»

Mario Sconcerti è il commentatore più autorevole di calcio. Lucido, imparziale, con una scrittura molto personale. Qualche settimana fa ha osservato sul Corriere della Sera: «Sul campionato sta ormai pesando l’esame inganno di Suarez. Il giocatore ha confermato la falsità del test, i professori anche. E allora? Sono passati tre mesi. Si può ancora fare finta di niente?». Di mesi ora ne sono passati cinque. Siamo colleghi, parliamo di sport, ci diamo del tu.

Come definiresti il calcio al tempo del Covid?

«È un calcio che ha perso brillantezza, fondamentalmente più lento. Non solo in Italia, dovunque».

Il motivo è l’assenza del pubblico?

«Certamente. Perché il pubblico partecipa, con il suo rumore, avverte i giocatori di cosa succede alle loro spalle, commenta la bravura del gesto».

Si spiegano così i tanti gol in Serie A?

«L’assenza del pubblico alleggerisce i giocatori e favorisce i maggiori errori delle difese. La crescita del numero dei gol è iniziata quando i punti per la vittoria sono diventati tre. Da otto anni superiamo stabilmente i mille gol a campionato. Per ritrovare più di mille gol bisogna risalire agli anni Cinquanta di Gunnar Nordahl».

Ora si è scalato un altro gradino?

«Il salto maggiore è stato subito dopo il lockdown e a inizio campionato. Adesso la media si è assestata, ma sempre su livelli molto alti».

Come spieghi la bagarre tra Antonio Conte e Andrea Agnelli?

«È chiaro che c’è un vissuto alle spalle».

Cioè?

«Le ruggini risalgono al quarto anno alla Juventus, dopo i tre scudetti vinti. Conte iniziò il ritiro estivo, ma poi disse che non se la sentiva di continuare e Agnelli fu costretto a cambiare allenatore. Una società non dimentica facilmente quando viene mollata in corso d’opera».

I temperamenti non aiutano?

«Né Agnelli né Conte sono personaggi facili. In questo caso penso che Conte sia stato provocato durante tutta la partita da qualcuno che stava alle sue spalle, dietro la panchina».

Conte ha chiesto più educazione, merce rara.

«Parole che si dicono a caldo. Nessuno sui campi di calcio è in grado di dare lezioni di educazione a qualcun altro».

Si è fatto tutto quello che si poteva in termini disciplinari?

«Se si poteva fare sarebbe stato fatto. Al massimo si sarebbe trattato di una squalifica di una giornata».

Da una rissa all’altra, ho letto che ti sei divertito a vedere quella tra Zlatan Ibrahimovic e Romelu Lukaku.

«Mi ha divertito lo scontro tra i due giocatori più grossi del campionato. Ero curioso di vedere come andava a finire, sapendo che non poteva succedere niente perché c’erano trenta persone intorno a fermarli».

C’è un’inchiesta della procura della Figc.

«È un’inchiesta d’ufficio, non si può dare quel tipo di spettacolo. Quando parliamo di calcio, dobbiamo ricordarci che si tratta di un’attività basata sui calci. Se qualcuno subisse per strada un intervento in scivolata sporgerebbe denuncia contro l’aggressore. I giocatori di calcio firmano una clausola compromissoria per la quale non possono fare causa per qualcosa che avviene sul terreno di gioco. Poi, ogni situazione ha i propri limiti. Mettersi rabbiosamente testa contro testa è un atto che deve finire lì».

Che cosa pensi del caso Suarez?

«Mi appare straordinario per due motivi. Il primo è la clamorosa ingenuità di campagna commessa dai professori dell’università di Perugia che hanno agito come tifosi. Un’ingenuità riconosciuta perché sono tutti rei confessi. La seconda stranezza è che siano passati sei mesi e nessuno abbia fatto un passo avanti. Mi sembra una vicenda più grossolana che seria, anche se c’è stato un protocollo forzato per diventare cittadini italiani».

Esistono i poteri forti nel calcio?

«Esistono, come da tutte le parti. Quando si identifica la Juventus con i poteri forti del calcio si scambia la sua abitudine a dettare la strada con una forma di potere».

Il confine è sottile.

«Non dobbiamo dimenticarci che la Juventus ha la stessa proprietà da cento anni. Se guardiamo gli altri poteri forti, Milan e Inter hanno cambiato tre presidenti nell’ultimo quinquennio. Cento anni di continuità nell’assetto societario significano continuità di rapporti, di esperienza, di capacità gestione di situazioni delicate. La Juventus ha un patrimonio che la rende oggettivamente più forte di chi continua a cambiare proprietà».

C’è troppo tifo nelle telecronache, nei talk show, nei commenti?

«Il calcio è cambiato quando le partite sono sbarcate in tv. Prima era praticamente clandestino perché tutti potevano vedere solo la propria squadra allo stadio. Più che il tifo è aumentata la competenza del pubblico. Adesso vedi calcio, lo impari e lo confronti, in più hai dei buoni maestri che te lo spiegano. Ora il tifoso sa quando è giusto che la sua squadra perda perché è competente».

Gianni Brera come racconterebbe le squadre multietniche di oggi?

«Per come l’ho conosciuto io, credo sarebbe in difficoltà. Non tanto perché pensava che fossimo noi i veri neri della situazione, in quanto nazione povera…».

Aveva un approccio geoculturale, se non vogliamo dire razziale, basato sulla superiorità atletica del centro e nord Europa…

«Oggi le sue profezie sono confermate, l’Europa è il centro del calcio nel mondo. Siamo i colonizzatori del calcio, abbiamo costretto i giocatori degli altri paesi a venire a imparare da noi. Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia e Italia hanno scolarizzato i giocatori a livello mondiale. Brera sarebbe in difficoltà per un altro motivo».

Quale?

«Penso alla discussione che c’è adesso: dici una cosa e qualcuno dall’altra parte dell’Italia ti contesta. Brera era abituato a parlare da solo, non c’era la rete, non c’erano i social. Oggi è più complicato rimanere autorevoli».

A volte mi perdo qualche tua metafora filosofica. Parlando di Juventus-Inter: «È stato un lungo lasciarsi senza darsi dolore, saltando i dubbi della partita».

«Era una partita segnata dal risultato dell’andata. Quello è il mio modo di scrivere, una scrittura spontanea che può piacere a volte di più a volte di meno. In quella frase c’è più slancio poetico che filosofico. Cerco parole, concetti, modi di ragionare dovunque, perché fuggo dalla gergalità del calcio. Alla fine sono contento di aver trovato un mio linguaggio».

Perché nel 2016 hai lasciato Sky per la Rai?

«Mi sembrava che alla mia età, dopo 14 anni a Sky, due anni in Rai potessero dare qualcosa alla mia storia. Ed è stato così».

Tornando sui poteri forti. Come valuti il fatto che Marcello Nicchi sia presidente degli arbitri dal 2009?

«Considero gli arbitri la parte migliore del calcio. È impossibile che portino avanti un complotto perché sono una lobby nella quale tutti competono. Lo scopo di ognuno di loro è arbitrare la partita più importante. Tra avversari non si allestisce un complotto per favorire qualcosa o qualcuno».

È già accaduto.

«I disonesti ci sono dovunque, anche tra i giornalisti. O tra i giocatori che vendono le partite».

Undici anni di presidenza dell’Aia sono tanti?

«Sono due mandati e mezzo. Vediamo che cosa succede alle prossime, imminenti, elezioni. Gli arbitri sono la parte migliore perché la più selezionata. Sono 50.000, ma in Serie A ne arrivano una decina all’anno. Dopo di che sono un mondo a parte, come la magistratura».

Bell’esempio.

«Fra gli arbitri però non c’è solidarietà di categoria: se uno sbaglia, gli altri sono contenti perché lo scavalcano».

Ti aspettavi la tenuta del Milan?

«È certamente una sorpresa. Gli innesti di Ibrahimovic e Ante Rebic sono stati fondamentali per trasformare una squadra di ragazzi in una squadra di uomini. C’era un grande valore assoluto, Gigio Donnarumma e Theo Hernandez sono giocatori di livello europeo».

Mancava la mentalità vincente?

«Mancava la completezza del carisma».

Chi gioca il miglior calcio in Italia?

«La squadra che mediamente gioca meglio è il Milan, quella più pronta per vincere è l’Inter».

Perché l’Atalanta ha improvvise cadute?

«Perché pratica un gioco molto dispendioso, sono dappertutto».

Cristiano Ronaldo sta alla Juventus come Lukaku all’Inter e Ibrahimovic al Milan?

«Sì, anche come Immobile alla Lazio».

Ronaldo vince quasi senza la squadra, mentre la squadra senza di lui fatica a vincere?

«Il peso di Ronaldo è aumentato perché è mancato Dybala, non c’è un centravanti come Gonzalo Higuain e Alvaro Morata è buono, ma normale. La differenza balza agli occhi perché parliamo del più grande attaccante del dopoguerra».

C’è molta distanza tra il calcio italiano e quello degli altri campionati europei?

«Ce n’è abbastanza. Abbassando il livello di tutti, il Covid ci ha fatto avvicinare al calcio inglese e tedesco, mentre quello spagnolo è in ristrutturazione. Siamo abituati a pensare che vincano le squadre più brave, invece vincono le più ricche. Nel momento in cui non possono investire, Real Madrid e Barcellona vincono meno, esattamente com’è successo a Milan e Inter. Il campionato inglese è il migliore perché è il più ricco».

A proposito di poteri forti.

«Il calcio è uno spettacolo, non uno sport. C’è un mercato nel quale non tutti sono nelle stesse condizioni. Nei 100 metri si parte tutti dalla stessa linea e il più veloce vince. Nel calcio la bravura si acquista e, di solito, vince chi ha più margine di spesa».

Che europeo prevedi per l’Italia?

«Un buon europeo, se riusciamo a essere, come spesso siamo stati, rapidi nel gioco, cioè diversi. Però finora abbiamo battuto avversari non difficili e ci aspettano verifiche a livelli più alti».

Sei favorevole alla Superlega?

«Per ideologia sportiva, sono per dare più uguaglianza possibile alle squadre. La Superlega è la negazione dell’uguaglianza».

Chi è il miglior giocatore di questo campionato?

«Nicolò Barella».

Chi vincerà lo scudetto? Ti concedo delle percentuali.

«40% il Milan, 30% a testa Inter e Juve».

Chi è stato il miglior giocatore italiano di sempre? Accetto un podio.

«Paolo Maldini, Valentino Mazzola e Roberto Baggio».

Nel mondo, per estetica e fantasia io voto Johan Cruyff, tu?

«Per estetica e fantasia scelgo Maradona. Cruyff lo voto come maestro universale del secolo perché ha giocato ad altissimo livello cambiando il calcio e insegnandolo: Guardiola ha imparato da lui. Mentre Maradona e Pelè si sono fermati a loro stessi».

 

La Verità, 13 febbraio 2021

Favola di Natale: Il fattore umano del Milan

Massì, scriviamolo: quest’anno la favola di Natale è quella del Milan. Scriviamolo, rischiando un po’, perché poi magari la storia non sarà a lieto fine. È molto possibile, se non proprio probabile. Però scriviamolo lo stesso perché, in tempi di sofferenze e tragedie, forse la favola del Milan può alleggerirci un po’ e aiutarci a ritrovare un briciolo di leggerezza.

Qualcuno tra gli osservatori inizia ad accorgersene. Comincia a cogliere che nella parabola della squadra che un anno fa perdeva 5 a 0 in casa dell’Atalanta e ora è in testa al campionato di Serie A, c’è qualcosa di più di un mero fatto tecnico. Rileggiamo l’incipit di Luigi Garlando sulla Gazzetta dello sport dopo il successo all’ultimo respiro contro la Lazio: «Stefano Pioli ha la faccia radiosa di George Bailey quando alla fine abbraccia i suoi ragazzi a un passo dal Natale: La vita è meravigliosa! Neanche Frank Capra avrebbe immaginato un film del genere…». Sempre dopo il fischio finale di Milan-Lazio i giornalisti di Sky Calcio Show hanno chiesto al capitano Alessio Romagnoli che cosa sia scattato nella squadra che, da ingenua e fragile, si è trasformata in un gruppo mai rassegnato e dalle infinite risorse? Quale alchimia si sia instaurata tra i giocatori e l’allenatore? «C’è un’intensità nel Milan che nessun altro ha, qualcosa di antico, di poco descrivibile, che copre i limiti di giornata… Una squadra di amici», ha sintetizzato Mario Sconcerti sul Corriere della sera. Poi, certo, potrà accadere che lo scudetto lo vinceranno l’Inter o la Juventus come quasi tutti gli addetti ai lavori pronosticano. I valori tecnici alla fine non mentiranno e le rose sono di valore diverso. Il Milan, per dire, è la squadra più giovane del campionato, nonostante il trentanovenne Zlatan Ibrahimovic. Eppure è lì, per ora. Eppure ha superato mille avversità, finora. Compreso il Covid dell’allenatore, del vice e del giocatore più determinante.

La chiameremo «fattore umano» la favola di questo Milan. Un fattore nel quale Pioli ha i meriti principali. Insieme a Paolo Maldini. E anche agli altri dirigenti, compreso Zvonimir Boban che si è dimesso. Basta tornare all’inizio di questo disgraziato 2020. Poco dopo quello 0-5 patito a Bergamo, Maldini e Boban convincono l’amministratore delegato del fondo Elliott Ivan Gazidis a richiamare Ibrahimovic dal viale del tramonto dei Los Angeles Galaxy. Sarebbe arrivato da salvatore della causa. Da deus ex machina. E l’investitura avrebbe stuzzicato assai il suo considerevole ego. Nel frattempo il destino di Pioli il traghettatore è segnato. Al suo posto viene allertato Ralf Rangnick, coach teutonico circondato da un alone messianico, depositario di un calcio moderno e dogmatico. È tutto fatto. Motivo per cui il poco diplomatico Boban rilascia un’intervista dopo la quale non può che andarsene. Ma, a sorpresa, dopo il lockdown la squadra inizia a dare segnali di risveglio e il brutto anatroccolo a trasformarsi. L’assenza dei tifosi sulle tribune, la minor pressione e un clima più disteso resettano la scheda madre dell’ambiente. La cura Ibra e il nuovo modulo tattico fanno il resto. 2-0 alla Roma, 3-0 in trasferta alla Lazio, vittoria in rimonta sulla Juventus, pareggio con l’Atalanta mostrando un calcio prolifico. Nel frattempo, interrogato sul suo futuro, Pioli non fa una piega, nessuna smorfia di amarezza o di orgoglio. «Io faccio il mio lavoro fino all’ultimo giorno, giochiamo una partita alla volta. Poi la società prenderà le sue decisioni». Un autocontrollo raro nel mondo del calcio (e non solo) dove, alla prima difficoltà, dirigenti e coach sono abituati a sbottare e a togliersi sassoloni dalle scarpe, magari anche maltrattando giornalisti e commentatori. Pioli vuol far parlare i risultati. E il fattore umano inizia a lasciare il segno. I giocatori sono compatti dalla sua parte. Gli osservatori cominciano a dire che meriterebbe di portare avanti il lavoro iniziato. La sera del 21 luglio (vittoria sul Sassuolo), tornando clamorosamente e meritoriamente sui suoi passi, Gazidis ufficializza la conferma dell’allenatore. Il resto è storia recente. Il Milan non perde in campionato da 26 partite e ha conquistato i sedicesimi dell’Europa League. Chi ha visto i filmati dei tifosi che hanno accompagnato il pullman allo stadio nella luce rossa dei bengala o le facce dei giocatori a fine partita inizia a capire che, dentro tutto questo, c’è qualcosa di speciale. «Giochiamo con il fuoco dentro», ha sintetizzato Pioli.

Andrà come andrà. E non è affatto detto che sarà «tutto bene» come preconizzavano i balconi del primo lockdown o come, appunto, favoleggiano i film natalizi di Capra. I valori tecnici contano e sono dalla parte di squadre che hanno investito e investono di più. E poi, tutta questa storia messa su solo per l’incornata allo scadere di Theo Hernandez. Tutto vero: pura fortuna e puri dettagli. Chissà.

Di Pioli, leader mite, si è sempre detto che con le sue squadre partiva bene ma si spegneva presto. Ora è sotto monitoraggio. La mattina del 4 marzo 2018 allenava la Fiorentina quando nella camera di un albergo di Udine dove, al pomeriggio, avrebbe dovuto sfidare l’Udinese, Davide Astori fu improvvisamente trovato senza vita. Quel giorno la Serie A fu sospesa. Pioli dice spesso che la morte di quel giocatore esemplare lo ha segnato come uomo e come allenatore. Chissà se quella tragedia c’entra qualcosa con la favola di oggi.