Tag Archivio per: Macron

«Più combattiamo la Russia, più le somigliamo»

Marco Travaglio, difendi Povia e attacchi Matteo Renzi, cosa ti è successo?
«Sono sempre lo stesso. Renzi, vabbè… Riguardo a Povia, non capisco perché uno non possa cantare se è no-vax. Io ho fatto tutti i vaccini, anche se sono contrario agli obblighi perché il dogma dell’Immacolata Vaccinazione non mi risulta. In ogni caso, esiste anche il diritto di dire fesserie. Se inviti Povia e poi lo cacci perché ha idee diverse dalle tue, è censura bella e buona».
Che cosa non ti convince di Elly Schlein che abbraccia Renzi e del suo ritorno alla Festa dell’Unità?
«Non partecipando alla vita politica, non me ne importa nulla. Da osservatore, constato che chiunque si è fidato di Renzi è rimasto fregato. Calenda si è definito l’ultimo pirla ad averlo fatto. Ma in Italia i pirla sono sempre penultimi».
Pd e Italia viva si sono accordati anche in Liguria, il campo largo è spianato?
«Mai capito cosa sia. Le alleanze si devono fare tra forze politiche che hanno qualcosa in comune. Se uno vuole battere la destra non si allea con uno che vota quasi sempre e governa spesso con la destra. Sennò tanto vale prendersi direttamente la Meloni, che ha più voti».
Il sindaco di Nichelino che ha stracciato il contratto di Povia ha detto che non è per una questione politica.
«Invece, è “la” questione politica. I princìpi e i diritti si difendono anzitutto per chi non la pensa come te».
Cosa pensi dell’arresto dell’ad di Telegram, Pavel Durov?
«Ne so poco. Magari scopriremo che è il nuovo Barbablù e che l’arresto è legittimo. Al momento non vedo perché arrestare il padrone di Telegram e non anche Mark Zuckerberg e gli altri boss dei social, che fanno tutti più o meno le stesse cose».
Rivelando di aver censurato contenuti sgraditi all’amministrazione Biden, l’ad di Meta ha messo le mani avanti o si è riposizionato in vista del 5 novembre?
«Non saprei. Ma eticamente, rispetto a Durov, è molto più grave quel che ha fatto Zuckerberg censurando notizie. Con quale credibilità nominerà i famosi garanti contro le fake news visto che ne è un produttore industriale?».
Sorpreso che i grandi giornali italiani hanno glissato sull’argomento?
«Mi sarei stupito del contrario. Per loro la libertà di stampa e di social è tifare per i salotti buoni e democratici».
Il commissario Ue Thierry Breton ha inviato una lettera di avvertimento a Elon Musk colpevole di intervistare Donald Trump.
«Se avesse intervistato Kamala Harris riservandole un po’ della bava che le riserva la grande stampa internazionale, avrebbe avuto una lettera di encomio. Se non sbaglio, nelle democrazie occidentali l’unico leader escluso dai social è stato Trump».
Il caso Durov, Zuckerberg, la lettera a Musk, l’allarme di Gentiloni e i freni al free speech in Inghilterra evidenziano un problema di democrazia nell’Occidente democratico?
«Più combattiamo la Russia e più le assomigliamo».
Però la democrazia la esportiamo.
«E ora in casa scarseggia. In realtà, spesso esportiamo terrorismo, vedi Iraq, Afghanistan, Libia e Gaza». 
La situazione è seria o grave?
«Molto grave: siamo sull’orlo di una guerra mondiale e facciamo finta di niente».
Altro spin off dalla Francia: dopo aver trafficato con le desistenze per neutralizzare Marine Le Pen ora Macron rifiuta l’incarico a Lucie Castets, candidata del Nfp che ha vinto le elezioni?
«Sembra risorto Giorgio Napolitano».
In che senso?
«L’idea che, se uno vince le elezioni, dev’essere neutralizzato con giochi di palazzo è di Napolitano. Nel 2011, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, escluse le urne per timore che vincessero i 5Stelle e apparecchiò l’inciucione con Mario Monti. Poi, nel 2013, i 5Stelle vinsero lo stesso e fece l’ammucchiata dei perdenti con Enrico Letta: Pd, Forza Italia e montiani. Rimasero fuori M5S, Lega e Fratelli d’Italia: i tre partiti che poi stravinsero le elezioni del 2018, 2019 e 2022. Credo che la stessa cosa succederà a Macron, che sta preparando l’Eliseo per Jean-Luc Mélenchon o per Marine Le Pen. Un altro genio».
Parliamo di cose serie: hai preso una cotta estiva per Giorgia Meloni?
«Ho raccontato mille volte che l’ho conosciuta 15 anni fa in treno quand’era ministro della Gioventù del governo Berlusconi. La trovai simpatica, anche se non condivido quasi nessuna delle sue idee, e rimanemmo in contatto. Non era difficile capire che era l’unico personaggio in ascesa del centrodestra e sarebbe arrivata dov’è ora. Quindi non capisco lo stupore per aver scritto che è una tipa sveglia e dunque mi stupivano le cavolate che diceva su complotti ai suoi danni».
Ha sciolto la riserva sull’invito alla Festa del Fatto quotidiano?
«Sì, non riesce a venire per altri impegni. Ma avremo comunque un rappresentante del governo».
Quanto questo governo è indigesto all’establishment?
«Poco o nulla perché con l’establishment internazionale e nazionale si è messo d’accordo, anche con eccessi di zelo che nascono proprio dal fatto che la Meloni è vista come un’intrusa».
Involuto come ragionamento.
«Per accreditarsi ha dovuto dare prove d’amore esagerate. Infatti, ogni volta che accenna a deragliare dalla retta via – voto sulla Von der Leyen, mancata ratifica del Mes, annuncio della tassa sugli extraprofitti bancari, critiche di Crosetto all’incursione ucraina in Russia – i salotti buoni le ricordano che è lì in prova».
Non votare per la Von der Leyen è stato un segno di discontinuità?
«Certo. Me ne aspettavo ben altri, da una come lei. Oltre al fardello del neo e postfascismo, la destra meloniana aveva tre pregi: era legalitaria, sociale e multilaterale in politica estera. Tutti sacrificati sull’altare del “primum vivere”».
Dall’Europa ci chiedono di allinearci sulla legge del conflitto d’interessi, come se a Bruxelles non ne avessero.
«In Italia conflitti d’interessi li hanno tutti o quasi: ecco perché la legge non l’ha fatta nessuno. Il Consiglio d’Europa ci chiede ancora di provvedere. Dopodiché l’Ue ne è piena. Da quello folcloristico della presidente del Parlamento, Roberta Metsola, che nomina il cognato di gabinetto – un “euro-Lollobrigida” che però non fa scandalo – a quelli ben più seri sui contratti della Von der Leyen per i vaccini, fino alle multinazionali delle armi che pilotano la politica bellicistica dell’Ue».
Il trattamento livoroso che riservano al governo i grandi quotidiani e i talk di La7 dove sei di casa dicono che la vittoria della destra non è ancora stata metabolizzata?
«La stessa cosa accadde quando vinsero i 5Stelle. C’è un establishment politico-mediatico che ritiene valide le elezioni solo se le vince il Pd. I 5Stelle, da Conte alla Raggi, furono trattati anche peggio della Meloni. Io sono contrario al suo governo non perché è di destra, ma per le cose che fa e non fa».
Norme per la natalità, taglio del cuneo fiscale e abolizione del Rdc non vanno bene?
«Ovviamente sono favorevole alle politiche per la natalità, che non è né di destra né di sinistra. Il taglio del cuneo fiscale è un’eredità dei governi precedenti. Mentre sono nettamente contrario all’abolizione del Rdc».
Gli indicatori economici sono positivi.
«Ma uno dei miei primi titoli sul governo fu “Buona la prima”, per il carcere duro ai boss. Non vedo l’ora di titolare “Buona la seconda” e la terza, ma non ne ho avuto l’occasione. I giornalisti non devono avere pregiudizi: solo post-giudizi».
L’ostilità del sistema mediatico è un sogno prodotto dal vittimismo delle Meloni sisters?
«Vedo una buona dose di vittimismo, ma soprattutto una sindrome di accerchiamento».
Ore di trasmissioni, paginate d’inchieste sul fascismo incombente e su TeleMeloni sono giustificate?
«Per me tutte le inchieste, se dicono la verità,  sono giustificate. E in tv tra Rai e Mediaset stravince il partito pro-governo. Altra cosa è quanto sia produttivo per l’opposizione insistere sul ritorno del fascismo. La gente non ci crede e chi vuole un’alternativa farebbe bene a combattere il governo sulle cose che fa, non sul ritorno di Mussolini. Che, malgrado siano riapparsi un sacco di fascisti, fa ridere i polli».
Alessandro Sallusti si è sognato tutto o, viste certe accuse ad Arianna Meloni di tirare le fila di nani e burattini, l’ipotesi di un’indagine della magistratura ha qualche plausibilità?
«Tutte le indagini che non esistono hanno la stessa plausibilità. Se poi verrà fuori qualcosa, valuteremo gli elementi. Sallusti è un ex cronista giudiziario e dovrebbe sapere cos’è il traffico di influenze: non fare le nomine, ma prendere soldi per segnalare qualcuno».
Che cosa pensi della variabile fratelli Berlusconi nella politica italiana?
«Il conflitto d’interessi berlusconiano è sopravvissuto al Cavaliere. Il fatto che la famiglia resti l’azionista di maggioranza di Forza Italia e che Mediaset abbia una bella quota del sistema tv sono due fattori in grado di condizionare il centrodestra e quindi il governo».
Hanno modificato il posizionamento di Forza Italia?
«Vedo che si agitano molto, anche dipingendo il padre come un paladino dei diritti civili. Ma il decreto per lasciare attaccata alle macchine Eluana Englaro, la legge contro la procreazione assistita e i Family day, al netto dei bunga bunga, chi li ha fatti?».
Salvo i bunga bunga, idee condivisibili.
«Eh, ma allora non mi dipingano Berlusconi come un precursore di Marco Cappato».
I grandi quotidiani intervistano a giorni alterni Renzi e Tajani perché tifano per l’ammucchiata progressista?
«Giocano a Risiko con la politica. Adesso vogliono far eleggere Kamala Harris, come se gli italiani votassero in America. E in Italia, sognano che Tajani, spinto dai Berlusconi, molli la Meloni e vada col Pd. E accreditano Renzi per spostare al centro la coalizione, facendo fuori i 5Stelle e la sinistra. Vediamo se gli elettori ci cascano».
Beppe Grillo sta invecchiando male?
«Temo di sì. E mi dispiace perché è un genio che, sia come artista che in politica, ha fatto cose inimmaginabili. Però gli manca la capacità di accompagnare la maturazione della sua creatura con la magnanimità e la generosità del padre nobile. Dovrebbe imparare da Prodi e da Bersani».
Qualche quiz finale da palla di vetro: Pier Silvio scenderà in campo?
«Penso che gli sia più comodo controllare il partito da fuori».
Francesca Pascale si candiderà nel Pd?
«Ne abbiamo viste tante, potremmo vedere anche questa».
Veltroni diventerà direttore del Corriere della Sera?
«Bisognerebbe essere nella testa di Urbano Cairo e nel fegato degli altri pretendenti, per saperlo».
Renzi continuerà a fare politica?
«Ma non si era ritirato nel 2016?».

 

La Verit, 31 agosto 2024

«Sinistra progressista? No, difende lo status quo»

Dopo aver scelto di starsene defilato e di calmare l’astinenza dalla politica con qualche video omeopatico inviato ai destinatari della sua newsletter, ora Claudio Velardi è tornato in prima linea per dirigere Il Riformista. Un marchio che è anche il biglietto da visita dell’ex Lothar dalemiano che, da tempo, ha scelto posizioni più moderate.
Che cosa ti ha fatto abbandonare la tranquillità del buen retiro?
«La crisi evidente nella quale si è trovato Il Riformista dopo l’abbandono di Matteo Renzi e quello successivo del direttore Alessandro Barbano. Quando l’editore Alfredo Romeo, che insieme a me lo fondò nel 2002, mi ha chiamato al suo capezzale non potevo che accettare. Come sappiamo, fare un giornale è la cosa più bella del mondo. Ti svegli la mattina e pensi: oggi come e a chi posso rompere le scatole?».
Ottima definizione del giornalismo. Perché ti senti sollevato a non essere francese e non dover votare domani?
«Perché mi sembra un voto pesantemente condizionato da visioni estreme della politica che oggi non condivido. Nell’età matura tendo a vedere le sfumature, non appartengo ad alcuna tifoseria e cerco soluzioni di buon senso».
Per venire al dilemma francese?
«Soluzioni di buon senso in Francia non ne vedo perché Emmanuel Macron ha scelto di radicalizzare lo scontro. Forse non poteva fare diversamente, ma la forzatura di queste elezioni anticipate non giova a far maturare l’opinione pubblica nella maniera giusta. Perciò, mi sentirei in grande difficoltà: trovo che la polarizzazione che si sta producendo in Francia e altrove sia una caricatura infantile del bipolarismo».
In che senso?
«Sono i bambini che non sanno andare al di là del sì o del no perché non conoscono le sfumature e la complessità. Da adulti non possiamo ridurre lo scontro delle idee a “o di qua o di là”».
Domenica scorsa avresti votato per Renaissance di Macron?
«Sì, sebbene veda i limiti di questo centrismo elitario. Il problema di Macron, e di tanti moderati non solo in Francia, è di pensare di essere il sale della terra».
La parola più gettonata da quando c’è lui è «pedagogia».
«Un’altra espressione che si è un po’ persa era “le spinte gentili”. Capisco che, davanti a scelte difficili, bisogna un po’ accompagnare per mano le persone, ma senza fare i maestrini. Perché in quel caso la gente si ribella».
Macron chiede di votare France insoumise di Jean Luc Mélenchon per impedire che vinca il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella. Condivide?
«Non sono Macron, ma capisco che voglia garantirsi una gestione meno conflittuale possibile e quindi lavori perché non ci sia una maggioranza Le Pen, ma una situazione d’incertezza politica».
Questo gioverebbe al Paese?
«Nel sistema francese forse questo è il modo per cercare governabilità. Quanto giovi non lo so. Da un punto di vista più globale, quando scoppiano delle bolle e si manifestano eruttazioni sociali è bene che si misurino con il governo. Era il mio pensiero persino quando sono esplosi i 5 stelle, quanto di più lontano da me. È inutile creare barriere e trincee».
Anche se fermando i «barbari» si salva la democrazia?
«Sono motivazioni sbagliate. Se i “barbari” sono cresciuti, evidentemente la democrazia non ha dato risposte adeguate».
Democrazia è anche scegliere Rn?
«Certo che sì. La democrazia dev’essere in grado di assorbire le spinte antisistema. Altrimenti lo è solo quando i cittadini votano i buoni? Se la democrazia è in grado di assorbire la spinta antisistema deve contemplare la possibilità che governi. Anche perché quando queste forze si cimentano con le compatibilità di governo entrano di più nel gioco del sistema».
Anche la sinistra italiana, come quella radicale francese, coccola l’antisemitismo delle proteste giovanili e dei pride che respingono gli omosessuali ebrei.
«Nella sinistra italiana il fenomeno ha radici meno solide, è legato a mode politiche. Le organizzazioni che coinvolgono militanti Pro-Pal non sono del tutto consapevoli che portano dritti diritti all’antisemitismo».
Come spieghi che, invece, in Gran Bretagna dopo 14 anni di governo dei Tory hanno vinto i laburisti?
«Quando la sinistra riformista parla al centro dell’elettorato moderato, affronta i problemi dello sviluppo, non fa demagogia e non si rifugia nelle ideologie, vince».
Da noi si pensa di riprodurre il Fronte popolare. Cos’hai pensato vedendo la foto di Elly Schlein, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni e Giuseppe Conte sul palco di Bologna?
«Ho pietosamente sorriso. Che cosa vuoi fare, vedendo che tra il radicale Magi e il democristiano Conte, c’era il comunista Maurizio Acerbo che saluta la folla a pugno chiuso, se non sorridere pietosamente?».
Anche pensando ai precedenti?
«Che sono illuminanti. Con le grandi ammucchiate si può vincere alle urne, ma il giorno dopo si straperde al governo. È già successo e succederebbe ancora».
Perché anche in Italia, come in Francia, le classi deboli si spostano a destra?
«Malgrado il racconto che fa di sé stessa, la sinistra è la forza che nell’ultimo secolo ha vinto. Nel senso che ha contribuito a realizzare nei paesi occidentali una serie di conquiste sociali sul fronte del lavoro, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni e dei diritti civili…».
Ahimè.
«Ma l’esito di questa vittoria è che oggi difende la società esistente. Tutti coloro che ne sono esclusi, le sacche di emarginazione sociale, i nuovi poveri, gli immigrati delle periferie, i lavoratori non protetti e i rider, vanno a destra. Mentre i garantiti, dai professionisti ai docenti universitari fino ai pensionati, stanno a sinistra proprio perché difende gli equilibri attuali. C’è stata un’eterogenesi dei fini, un rovesciamento lessicale: oggi la sinistra difende lo status quo».
È un rovesciamento che subisce o capisce?
«Secondo me, fa finta di non capirlo. Concretamente, non potendo tutelare sia il pensionato che il rider, la sinistra sta con il pensionato perché gli interessi di quest’ultimo convergono su grande scala con i suoi».
Per questo alza lo sbarramento alle politiche di governo, tipo il premierato e l’autonomia differenziata?
«Si oppone a qualsiasi cosa mini lo status quo, compresa la riforma delle istituzioni che, in alcuni momenti di apertura e di espansione dopo vittorie elettorali, ha pensato di promuovere».
Vedi il programma di Achille Occhetto del 1994 e la proposta di Matteo Renzi.
«Oppure la bicamerale di Massimo D’Alema. Cioè, i rari momenti in cui la sinistra non si arrocca su posizioni conservatrici dell’esistente».
Adesso ci si prepara al referendum sull’autonomia differenziata. Sembra che i limiti riscontrati finora debbano bloccare qualsiasi iniziativa propulsiva.
«Penso che il referendum sia sbagliato perché non farebbe altro che accrescere la divisione culturale tra Nord e Sud, che è il fatto che più mi preoccupa. Inevitabilmente, la campagna sarebbe tra Nord produttivo e Sud assistito. Non farebbe bene a nessuno, soprattutto al Sud che, invece, secondo me deve far sentire il suo orgoglio, accettando la sfida dell’autonomia, rifiutando di essere etichettato come la parte del Paese che dipende dai fondi pubblici e non sa nemmeno utilizzarli bene. Questa sfida si raccoglie solo se si fa crescere una nuova classe dirigente che prende in mano la bandiera del Mezzogiorno per farlo crescere in autonomia».
Fuori dalle aule parlamentari, la strategia principale della sinistra è la delegittimazione dell’avversario, vedi l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale?
«La delegittimazione è l’involucro valoriale di questa strategia conservatrice. Quando chiami il tuo elettorato su posizioni conservatrici devi vestirle con un apparato simbolico molto forte. E cosa c’è di più forte del richiamo alla resistenza e all’antifascismo, i cosiddetti valori fondanti della Repubblica? Questa è l’operazione. Il conservatorismo strutturale e sociale di sinistra ha questa veste valoriale per far risultare nobile e imprescindibile la campagna intrapresa».
Per questo si susseguono gli
allarmi al fascismo e le abiure di Giorgia Meloni non bastano mai?
«Certo. Nel momento in cui si dicesse che la Meloni ha finalmente chiarito, crollerebbe il castello di carte e la sinistra si ritroverebbe a volto scoperto con il suo conservatorismo sociale e istituzionale».
Una sinistra che si propone come anti destra e boccia premierato, autonomia, persino il ponte sullo stretto, può definirsi progressista?
«È il contrario del progressismo che, per definizione, riguarda il cambiamento. Quando non vuoi nessun cambiamento non hai niente a che fare con il progressismo».
In conclusione, la sinistra sa perdere o, come la nostra Nazionale, anziché ammettere la sconfitta e ripartire da un bagno di umiltà, ripete che non si può lasciare campo libero alle destre come se il governo le spettasse per diritto divino?
«È la presunzione di considerarsi superiori agli altri sul piano dei principi e dei valori. O dici che perdi perché non sai giocare a calcio, oppure devi cercare altre ragioni. Se c’è sempre qualche nemico esterno che attenta alle ragioni del Bene puoi evitare la necessità di un ricalcolo e di fare i conti con i tuoi errori. E, anche se perdi, puoi raccontare al tuo popolo che la ragione è dalla tua parte».
Torniamo a Bertolt Brecht: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Certo, le sindromi sono sempre le stesse».
Per finire, considerando lo stato di salute di Macron in Francia e di Renzi e Calenda in Italia, qual è la diagnosi sul riformismo europeo?
«Non vive tempi buoni perché nello statuto del riformismo c’è il cambiamento. Mentre ora viviamo un momento di “dissonanza evolutiva”, come viene chiamata».
Ovvero?
«La grande trasformazione tecnologica in atto ci sopravanza. Gli esseri umani non stanno al passo del cambiamento che loro stessi hanno prodotto. Questo genera resistenze conservatrici sia a destra che a sinistra. Perciò, il riformismo, che invece è cambiamento, è obiettivamente minoritario. Se, poi, agisce per via tecnocratica o pedagogica, diventa ancor più minoritario. La vera scommessa è far diventare il riformismo popolare ed empatico».
In Italia l’impresa è nelle mani di Luigi Marattin ed Enrico Costa che hanno promosso un’iniziativa per scalzare i vecchi leader del Terzo polo.
«Il problema è enorme e si esprime a livello internazionale. C’è bisogno di personalità che sappiano tracciare un sentiero. Stiamo a vedere se saranno loro due le figure giuste per iniziare a farlo».

 

La Verità, 6 luglio 2024

«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024

«Se si dimentica la famiglia la selezione sarà spietata»

Una militante della moderazione, ma pur sempre una militante. Non più giovanissima, Paola Binetti conserva l’innocenza degli ideali e, sebbene nel settembre 2022, dopo quattro legislature, non sia stata rieletta (nella sua circoscrizione la lista di Noi moderati non superò il 3%), la si trova al lavoro nell’ufficio della Camera dell’Udc: «Continuo a occuparmi dei temi che ho sempre seguito. Per me, la politica è servizio alla ricerca di soluzioni ai bisogni della gente». Neuropsichiatra, saggista, esperta in materia di bioetica, qualche giorno fa nella sala capitolare del Senato, «strapiena», è stato presentato il suo Elogio della moderazione. Nella moderna dialettica politica (Cantagalli), appena uscito.

Professoressa Binetti, come definirebbe la moderazione?
«È un atteggiamento che deriva dalla convinzione nei propri valori, dal desiderio di condividerli con gli altri e dalla ricerca dei toni che favoriscano questa condivisione al fine della realizzazione di un progetto. La politica non è solo idee, ma anche concretezza e collaborazione per raggiungere dei risultati».
L’invito alla moderazione è un auspicio, una mozione d’ordine, un programma di governo o un’utopia?
«È una conditio sine qua non se si vogliono davvero realizzare riforme solide».
Che seguito può avere questo invito in una società ad altissimo tasso ideologico come la nostra?
«Può anche cadere nel vuoto. Ma se ciò avvenisse si allargherebbe la distanza già enorme tra il Paese e la classe politica».
È una battaglia donchisciottesca?
«Diciamo che conserva il valore dell’utopia e, in una certa misura, della speranza. Credo ancora che si possano cambiare le cose».
Gran parte della comunicazione, tipo i talk show, inclina dalla parte opposta.
«Questo dimostra le responsabilità del mondo dell’informazione. Alla presentazione del libro al Senato alcuni dei relatori hanno raccontato che quando vengono invitati ai talk show sono esortati a non essere troppo buoni perché l’audience si regge sulla conflittualità».
Un altro avversario della moderazione sono i social media, il posto in cui il conflitto diventa odio.
«L’esercizio dell’odio è un sasso che rotola e diventa valanga. Si basa su un’informazione lacunosa e una cultura fatta di slogan. Bisognerebbe rileggere una volta in più ciò che si è scritto prima di postarlo».
Walter Veltroni ha scritto un pamphlet intitolato Odiare l’odio, come per stabilire una gerarchia dell’odio sano e tollerabile.
«Senza la virtù del perdono è difficile praticare la moderazione e andare per primi incontro all’altro. Guardiamo ciò che accade tra Palestina e Israele: vige un’idea di giustizia rivolta a sé stessi e che sa solo pretendere».
Chi sono i moderati in Italia?
«Non necessariamente il gruppo di Noi moderati di Maurizio Lupi. Più ci si avvicina al centro e più, teoricamente, ci si avvicina alla moderazione. Questo luogo lo individuo, storicamente, nell’Udc. È un modo di fare politica che permette di dialogare con gli altri in base alle proposte e ai valori che si presentano. Coloro che si oppongono per principio, come talvolta fanno le opposizioni, sono per definizione non moderati».
Qualche indicazione in positivo?
«In Forza Italia ci sono tanti moderati. All’interno di Fratelli d’Italia, un tempo identificati come destra-destra, anche. Nel Pd c’è una componente a disagio di fronte a certe scelte attuali. Sostanzialmente, l’Italia è un Paese moderato perché attento a temi fondamentali come il lavoro, la scuola e la salute, che tutti vogliamo migliorare».
Ma con l’introduzione del sistema maggioritario per favorire l’alternanza si penalizza la rappresentanza.
«Alla presentazione del libro, Giancarlo Giorgetti ha detto che è nel governo come ministro perché i voti li prende Salvini. A volte è l’elettore a privilegiare chi buca lo schermo, ma poi, per governare, servono persone moderate».
Il tentativo di ricreare il centro di Matteo Renzi e Carlo Calenda è una delusione dalla quale è difficile riprendersi?
«È stata una grande delusione perché è apparso chiaro che le differenze principali sono legate alla personalità di entrambi: uno stile di vita con poca moderazione e una gran voglia di affermazione personale oltre la proclamazione di alcuni principi condivisi».
Nella lotta alle diseguaglianze si è proclamata l’abolizione della povertà mentre in realtà si è penalizzato il lavoro?
«Innanzitutto, penso che in questo contesto di consumismo esasperato dobbiamo recuperare tutti una certa sobrietà. Per esempio, apprezzo la legge europea che invita a riparare i cellulari, evitando l’obsolescenza programmata e la frenesia di avere quello di ultima generazione. Poi è corretto sanare le situazioni di povertà vera, sapendo che “i poveri li avrete sempre con voi”. La povertà si può lenire, non abolire del tutto».
Un approccio ideologico ci ha illuso che fosse possibile?
«Era il tallone d’Achille del reddito di cittadinanza. Equiparando le politiche del lavoro alle misure di contrasto alla povertà ai giovani conveniva accedere al sussidio invece di andare a lavorare».
Com’è possibile che la politica per la famiglia «nucleo fondativo della nostra società» sia il terreno della collaborazione tra conservatori e progressisti se una certa cultura lavora per smembrarla?
«Ha ragione. Crescono le famiglie cosiddette mononucleari e le coppie che scelgono di non sposarsi. Ma la verità è che la vita si allunga e si allungano le stagioni in cui dipendiamo dagli altri. La composizione della popolazione è illustrata dalla piramide rovesciata, più vecchi e meno giovani. In assenza del welfare famigliare chi si prenderà cura degli anziani? Serviranno eserciti di badanti. Per fortuna è stata approvata la legge 33/2023 che prende atto di questa emergenza. La riscoperta della famiglia sarà obbligatoria, altrimenti i costi sociali ricadranno tutti sullo Stato».
Serve una politica più efficace per incrementare la natalità?
«Assolutamente. E non solo perché non nascono più bambini e si devono tramandare cultura, storia e identità. La scienza ha aggiunto anni alla vita e condizioni migliori per i malati. Disabilità e cronicità saranno le nuove povertà. Ma l’assenza della famiglia produrrà costi insostenibili per lo Stato e creerà una selezione spietata».
Può esserci dialogo se per la sinistra la teoria gender, definita «il pericolo più brutto» da Francesco, è il cardine dei diritti civili?
«Il primo dato intangibile è il rispetto della persona qualsiasi sia il suo orientamento sessuale. Le discriminazioni non vanno tollerate. Ma ciò non significa che si possano negare i valori fondativi della convivenza civile costruita negli anni. La famiglia e la vita sono alla base di tutte le società».
Ma il presidente francese Emmanuel Macron e l’Unione europea operano in direzione opposta.
«L’errore più grave è stato non inserire nella Costituzione europea il richiamo alle nostre radici elleniche e cristiane. Fu la Francia a opporsi maggiormente. Esiste una frontiera che chiamiamo valori non negoziabili. Sono pochi, ma ci sono e ci impegniamo a difenderli, senza colpevolizzare le donne che abortiscono. A loro che, per vari motivi, fanno scelte diverse, vanno tutta la nostra empatia e solidarietà. Ma non possiamo negare che quell’embrione, se lo si lascia in pace, in nove mesi diventa un bambino. Non a caso l’intestazione della legge 194 è “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”».
Quanto può favorire il dialogo per la costruzione del bene comune la continua richiesta di abiura del fascismo a esponenti del governo?
«Si abiura a un giuramento, ma la generazione che governa è tutta post-fascista e non ha mai prestato alcun giuramento».
Perché quando un post-comunista va al governo nessuno gli chiede l’abiura del comunismo?
«Perché avremmo una nuova guerra civile. Non chiedo a nessuno di abiurare un credo di un secolo fa, mi basta la sua vita, quello che è ora».
Il tratto distintivo di questa cultura è essere anti?
«Noi tentiamo di essere proattivi, cercando di capire di cosa hanno bisogno le persone accanto a noi».
Perché i diritti su cui si insiste oggi, eutanasia, suicidio assistito, aborto, sono imperniati sulla morte?
«Ci vuole coraggio a vivere perché la vita è bellissima, ma non è sempre facile. Sono felice che nel 2010 sia stata approvata la legge 38 per l’accesso alle cure palliative delle persone che soffrono fino all’ultimo momento della vita. L’accompagnamento alla vita gli uni degli altri è lo scopo di una società realmente solidale».
Crede anche lei che esista un’élite culturale che si ritiene superiore e pregiudichi il dialogo alla pari?
«Sì, c’è qualcuno che si ritiene più uguale degli altri come ne La fattoria degli animali di George Orwell. La forza che ci spinge a migliorare è il riconoscimento delle nostre fragilità».
Ha ragione Matteo Salvini quando dice che nelle opposizioni prevale la politica dei No: No-Tav, No-Tap, No-Ponte eccetera?
«Assolutamente. È un’opposizione sterile, non animata da proposte positive. Il bambino di tre anni si afferma attraverso il no. I manuali di psicologia evolutiva lo chiamano “l’alba del principio d’identità”».
Come spiega che oggi su questi temi molti vescovi anziché partire dalla dottrina sociale della Chiesa parlano del salario minimo e contrastano gli accordi con Paesi terzi per l’accoglienza ai migranti?
«È difficile anche per i vescovi distinguere tra missione spirituale e scelte personali e politiche. Oltre la dottrina sociale, la carità ci guida a perseguire e difendere ciò che conta davvero. Nell’ultimo capitolo della Dignitas infinita si suggeriscono i comportamenti relativi alle contraddizioni contemporanee, dall’immigrazione al gender, dall’utero in affitto alla violenza digitale. I cattolici, e i loro pastori in primis, dovrebbero tener conto di tutte queste situazioni, non limitarsi ad alcune».
Il centro come aggregazione politica è una chimera?
«Se lo si intende come partito, sì. Se lo si intende come luogo del confronto, può essere il punto di sintesi della democrazia. Non è l’inciucio, non è il governo di larghe intese. Vediamoci in centro a prendere un caffè. È il posto della mediazione, della ricerca e della condivisione del bene comune».

 

La Verità, 4 maggio 2024

«Il suicidio di mio padre mi ha trasformato in filosofo»

Concerti, dischi, whatsapp con il premier Giorgia Meloni, apparizioni tv con vista sul ministero della Cultura… Tra cento cose che fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, è riuscito a scrivere anche un libro di poesie: Parole d’aMorgan (Baldini+Castoldi). Per Vittorio Sgarbi è addirittura «il Carmelo bene di oggi». Intervistarlo vuol dire disporsi a qualche acrobazia. Ma ne vale la pena.

Si sente davvero il nuovo Carmelo Bene?

«Il paragone è oltremodo lusinghiero perché Carmelo Bene è l’ultima vera grande rockstar italiana. L’ultimo grande intellettuale dissidente, non allineato, antisistema. Un tesoro incompreso, se non da una ristretta cerchia. Oggi non è neanche pensabile un nuovo Carmelo Bene. Io sono molto meno controverso e trasgressivo, molto meno fuori di testa. Sgarbi fa questo paragone per scuotere il conformismo di questa Italia pavida. Per far capire che ci vogliono coraggio e audacia».

A lei non mancano. Ha appena pubblicato un altro libro di poesia: i cantautori sono poeti?

«No, assolutamente. La canzone e la poesia sono diverse in tutto. Il cantautore ha per la parola lo stesso interesse che ha per la musica. Oggi la canzone è ovunque, in ogni momento. Questo vuol dire che chi fa canzoni è il panettiere dell’anima perché il nutrimento che dà è come quello che il pane dà al corpo. Il poeta è più puro, non è mondano, non si mescola, si isola. Invece il cantautore è il medium tra generazioni ed epoche diverse. Per lui le folle scendono ancora in piazza: non lo fanno per la politica, ma per i concerti».

Quando ha capito di essere un poeta?

«Non l’ho capito. Non dico di me di essere un poeta perché è una parola troppo bella, devono dirlo gli altri. Sono uno che scrive, un compositore di parole, un verbale. Se lei dice che sono un poeta… lo dice lei».

I versi che leggiamo in Parole d’aMorgan riposavano in qualche cassetto o sono stati scritti apposta?

«Sono versi vivi, attuali, alcuni infilati all’ultimo momento. In quella storia, c’è dentro la mia vita, la vita del mio cuore e della mia mente».

Versi composti per l’occasione?

«No, perché non scrivo su commissione. Questo lo fa chi programma l’uscita di un disco, o di un libro, a priori, non quando ci sono le canzoni pronte, non quando si ha qualcosa da dire. Così escono un sacco di dischi senza che se ne avverta una reale urgenza. L’arte va coniugata con la spontaneità».

E con l’ispirazione?

«Per quanto mi riguarda, sono sempre ispirato. Da Franco Battiato in poi, uno dei miei tanti padri, l’ispirazione è la nostra vita. Se sei così riesci a trasformare l’arte in un lavoro. Ti alzi al mattino e vai allo strumento. Nella quotidianità c’è l’ispirazione. Ovviamente, va allenata…».

Cosa vuol dire, come scrive: «Il mio amore è volontario»?

«Ci sono due tipi di sentimenti che chiamiamo amore: il desiderio e l’edificazione longeva di un rapporto. Il desiderio prima o poi cala, ma si è capaci di amare se si vive di amore volontario. Quello che si ha per i figli, o per noi stessi e per le promesse che abbiamo fatto. L’amore volontario è anche compatibile con la possibilità di innamorarsi di nuovo perché l’innamoramento non è l’amore. “Il mio amore è volontario” significa che può esser vissuto anche come scelta dopo che l’innamoramento ha fatto il suo corso».

Insomma, il «per sempre» è morto.

«Per me, nel tradimento ciò che distrugge davvero è la menzogna, non il rapporto sessuale extraconiugale. Che invece è tollerabile se non è accompagnato dalla menzogna».

Mmmh, non sono convintissimo.

«Una volta esaurito il tempo dell’innamoramento e del desiderio, alcune persone si eccitano nella fantasia immaginando il proprio partner con un’altra persona. Questo fa sublimare anche la gelosia, altro elemento distruttivo. Concordo: l’amore come scelta volontaria è indistruttibile. È questo il per sempre che dice lei. Personalmente, mi sono trovato spesso con donne che non sono state in grado di rinunciare ai loro cambiamenti d’umore: “La donna è mobile qual piuma al vento”».

Cosa vuol dire che il senso della vita è «somigliare alla morte»?

«Intendo la compresenza, in vita, della morte nelle sue diverse declinazioni. La morte della passione, di un sogno… La distruzione della mia casa-laboratorio è stata una morte. Anche dall’abbandono si possono trovare energie. In vita si vivono tante morti e si può uscirne rafforzati. Ci sono morti che generano vita. Il letame non piace, però genera vita».

La sua è una poesia nichilista?

«No. È una poesia grafo-linguistica, innanzitutto».

Cosa vuol dire?

«Che è una poesia che si legge e si guarda, anche. E non può essere nichilista perché afferma la vita».

In quello che fa s’intuisce fame di vita.

«Sento di morire di vita».

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi sono dei tutor, degli agenti, degli amici?

«Sono un fortunato accadimento della storia. La famiglia Sgarbi è un seme prolifico, una zona fertile della società, una meravigliosa conoscenza che è diventata amicizia. La prima è stata Elisabetta, presentata da Franco Battiato non certo come donna di potere. Era un’editor di Bompiani per la quale avevo pubblicato Dissoluzione, il primo libro di poesie. Vittorio lo conobbi perché venne a presentarlo, non sapeva chi fossero i Bluvertigo».

È una sorta di nuovo padre come lo è stato Franco Battiato?

«Ho avuto molti padri perché ho perso quello biologico da adolescente, quando se ne ha più bisogno e ti insegna a stare nel mondo. Sì, Sgarbi è una figura paterna, come Battiato. E parecchi altri, da Adriano Celentano che nel 2010, dopo che mi avevano escluso dal Festival di Sanremo, m’invitò a vederlo a casa sua. E qualche anno fa si è commosso quando andai ospite di Adrian su Canale 5 e gli dedicai Conto su di te, un brano che mi cantava mio padre. Poi Mauro Pagani, il primo di tutti, Franco Mussida, Massimo Ranieri, Sergio Staino del premio Tenco, Dominique degli Esposti, grandissimo genio figurativo… Tutta gente di 20 o 30 anni più vecchia di me. Tutti miei padri putativi».

Quello vero?

«Aveva difficoltà economiche che non voleva rivelare alla famiglia per non ammettere che non ce l’aveva fatta. Era pieno di debiti e non ha più retto questa maschera. Che però, con me, aveva già tolto. Io suonavo nei piano bar per guadagnarmi qualche lira e così gli davo del denaro che fingeva di aver guadagnato lui. Avevamo questa complicità segreta. Finché una notte mi ha infilato un centomila in un tubo dei negativi delle foto: “Ti restituisco quello che posso. Così non potrai dire che non ti ho reso quello che mi hai dato”. Il giorno dopo si è tolto la vita».

Cosa fa un ragazzo a 15 anni quando il padre si ammazza?

«Diventa un filosofo, perché nella sua testa cresce la domanda che si fanno i filosofi: perché, che senso ha tutto? I filosofi domandano, i teologi ascoltano. La mia filosofia, le mie domande, nascono nello scontro con il padre, che è l’istituzione, la regola, la giustizia, la patria. Se chi ti segna e ti precede implode attraverso un atto come il suicidio, tutto il sistema entra in discussione».

E quindi?

«Ho iniziato a coltivare la conoscenza insieme al bisogno di mantenere la famiglia. Ho fatto di necessità virtù, ho cercato di guadagnarmi il pane con il mio talento. Già a sei anni avevo iniziato ad abbozzare delle canzoni, quasi prima di imparare a scrivere. Al liceo andavo nei locali e tornavo al mattino per andare a dormire sul banco. Poi ho cominciato a coinvolgere i miei amici e a costruire le band, gli mettevo in mano gli strumenti: tu suoni la chitarra, tu la batteria… siamo una band. Al liceo mi hanno bocciato, ma ho venduto per strada i primi finti album, cassette amatoriali. Una è finita in mano a un produttore e a 16 anni ho avuto il primo contratto con una major discografica».

Che fine ha fatto l’idea di collaborare con il ministero della Cultura?

«A giudicare da quello che succede nella chat creata da Sgarbi, la gente vorrebbe il mio coinvolgimento».

Però il ministro Gennaro Sangiuliano ha nominato come suo personale consigliere per la musica il direttore d’orchestra Beatrice Venezi.

«Il ministro Sangiuliano si sta circondando di persone valide. Appena ho saputo della nomina di Beatrice Venezi le ho mandato un messaggio di congratulazioni e di auguri, offrendo la mia massima disponibilità a collaborare. Abbiamo già lavorato insieme e lo faremo ancora, per esempio a Taormina. Sono a disposizione per offrire la mia competenza al Paese, non chiedo niente. Se il ministro e il premier devono dare degli incarichi, a chiunque, me compreso, lo facciano in base a criteri di merito e non di riconoscenza».

Quindi non si sente fuori gioco?

«Ci sono tanti spazi, tanti ruoli. Il ministero si divide in tre grandi settori con altrettanti sottosegretari. Quello che si occupa di musica è un grande manager e un importante uomo di potere. Spero lo usi bene. Io vorrei dedicarmi alla tutela degli artisti, per rendere più produttivo il lavoro dei cantanti, dei cantautori, dei compositori, degli uomini d’arte. Sgarbi si occupa di tutelare le opere del passato e portarle nel presente. Io vorrei valorizzare le persone e le creazioni del presente per portarle nel futuro. Vorrei aiutare gli artisti vivi».

Il nuovo Carmelo Bene è troppo anarchico per stare dietro una scrivania in via del Collegio romano?

«L’uomo di cultura spende la vita a comprendere e perseguire la libertà. Libertà dell’uomo non libertà in senso astratto. Tutta la cultura, persino la canzone, scaturisce dalla cultura anarchica, dall’impegno politico e intellettuale contro i regimi. Basta pensare a Giuseppe Verdi e al suo Va’ pensiero che è una proto-canzone. O a Ulisse Barbieri che fu incarcerato a 16 anni dal regime austroungarico e quando uscì, quattro anni dopo, iniziò a scrivere canzoni».

Quale sarebbe il suo primo atto?

«Metterei la musica nel Codice delle belle arti che è stato aggiornato l’ultima volta nel 2004. Sarebbe utile per tutelare i teatri, incentivare la produzione, proteggere gli strumenti musicali come beni artistici. Poi bisognerebbe restaurare i nastri originali delle canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta che si stanno deteriorando».

Avrebbe molto da fare…

«Soprattutto non voglio far politica, ma spettacolo. Con un’attenzione particolare a ciò che va in onda nel servizio pubblico. Ma temo che il mio linguaggio divulgativo non sia amato dai dirigenti di questa televisione, a mio avviso troppo concentrata sugli ascolti».

Un incarico al ministero dovrebbe darle un ruolo più ecumenico?

«Sono abituato a misurarmi con ciò che conosco, non amo debordare. Mi basterebbe un ruolo relativo alla musica in televisione».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«A un grande concerto per il 23 dicembre, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Parteciperanno tanti cantautori e amici come Gianna Nannini, Renato Zero, Subsonica, Vibrazioni, Carmen Consoli, Daniele Silvestri, Michele Bravi e molti altri. Spero che un evento così possa interessare anche il direttore dell’Intrattenimento Rai, Stefano Coletta».

Com’è stato tornare a X-Factor, dall’altra parte del palco?

«Mi sono sentito a casa. Sul palco sto meglio che sul banco dei giudici».

Ha fatto pace con Sky?

«Non gli ho mai fatto guerra. Anche perché in questi anni, dopo X-Factor, ho fatto tante cose con Sky Arte».

Che cos’è la contemporaneità?

«Da musicista è creare ordine nel caos, un compito quasi da medico della musica. Riuscire a dare armonia al rumore che è la musica contemporanea».

Dal punto di vista estetico, contemporaneità non sarà cantare bistrati di rossetto?

«Effettivamente a X-Factor ho dato una mano di rosso di troppo. Dico la verità: spesso riguardandomi non mi accetto».

Complimenti per l’autocritica. Pare anche a lei che si esaltino fenomeni musicali più per il look che per i contenuti senza che in giro ci sia David Bowie.

«Non è il mio caso. Cerco di mantenere un certo equilibrio, consapevole che andare in scena è teatro».

Non è il suo caso, ma…

«Vogliamo parlare dei Maneskin? Hanno un sound strepitoso, che giustifica i loro pizzi e merletti».

M’inchino al suo magistero, ma a me sembra sound campionato.

«Se li confronta con la condizione miserrima del sound italiano contemporaneo i Maneskin sembrano i Creedence Clearwater Revival».

Con Giorgia Meloni dialogate ancora su whatsapp?

«Ogni tanto sì, la lascio libera perché immagino la pressione… Abbiamo in comune la passione per la storia politica. Ogni tanto c’è qualche scambio…».

Ce ne rivela uno?

«Siccome Macron usava tre aggettivi come si fa in poesia dicendo che gli italiani sono irresponsabili, cinici e vomitevoli, le ho suggerito di rispondergli in versi. Per dire che Francia e Italia si amarono e ora non si amano più. Ma noi chiediamo rispetto perché da noi i francesi hanno imparato la bellezza. Perciò, offendendo noi, offendono sé stessi e questo non piace a Dio: “Chiare, fresche et dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”…».

Crede che questo governo abbia sbagliato qualche mossa?

«Mi perdona se evito di parlare di politica».

La perdono, ma sui rave party poteva essere più preciso?

«Il provvedimento è così vago che sembra quasi non riguardare i rave. Serve più precisione. Innanzitutto i rave sono ambiti di diffusione musicale, perciò si dovrebbe partire dalla qualità della musica. Che può essere inquinamento acustico o piacere per le orecchie».

A proposito di rumore.

«Spesso fanno musica d’avanguardia. Però non dovrebbero essere clandestini o marginali. Invece quasi sempre la diffondono in modo disturbante, disfunzionale, disarmonico».

Dovrebbero essere razionalizzati?

«Dovrebbero essere considerati e gestiti come dei concerti. Perché la loro musica elettronica non è meno importante della classica».

Al governo c’è bisogno di qualche consigliere per la comunicazione?

«La destra è un po’ naif perché non è abituata a gestire grandi livelli di potere. Questo ha conseguenze positive e negative. Positive perché predispone a un atteggiamento di apertura, negative perché prelude a qualche ingenuità».

Quindi la risposta è sì?

«Credo di sì, che ci sia bisogno di qualche buon comunicatore. Ma si può imparare dal percorso di Giorgia Meloni che, invece, è una grande comunicatrice».

In Italia è più conformista la politica o la musica?

«La musica. In Italia domina la paura, per questo le canzoni sono costruite sempre sui soliti quattro accordi del giro di do. Come tu li metti, si tratta sempre di accordi tonali che già negli anni Quaranta sarebbero stati banali. Il Trio Lescano faceva canzoni più audaci di Ligabue».

Che fine ha fatto la casa gialla?

«È un meraviglioso libro che so stanno studiando al ministero. Lo avevo proposto sia ad Alberto Bonisoli che a Dario Franceschini: invano. Lì dentro ci sono le mie idee sulla tutela degli artisti vivi…».

Parlavo della casa-laboratorio come luogo fisico.

«È ancora disabitata. È stata sventrata e svuotata del suo contenuto che, ricordo, era incastonato nei muri… Pensi alla fretta di sbattere fuori una famiglia con una madre incinta e, a distanza di tre anni, non ci vive ancora nessuno».

Ora dove vive?

«In una casa in affitto dove non ci stanno i miei strumenti per lo studio che sto tentando di ricostruire».

Le manca solo riconciliarsi con Bugo?

«Prima che lo demoliscano potrei fare a San Siro la reunion con Bugo. A ingresso gratuito e al grido di Le brutte intenzioni, la maleducazione, la disobbedienza (titolo della canzone di Sanremo ndr). Così, finalmente, ci si renderà conto che lo stadio non va abbattuto. Ah ah ah».

 

La Verità, 19 novembre 2022

«È scandaloso il silenzio dell’Italia sull’Armenia»

Geografo. Da qualche tempo camminatore. Le due cose non sono incompatibili». È il profilo Facebook di Pierpaolo Faggi, docente in pensione di Geografia umana all’università di Padova e autore di numerosi libri sui paesi della Mezzaluna fertile, attraversati camminando. Negli ultimi due anni ha provato ad andare a Istanbul a piedi, accompagnato da un cane. Ma l’anno scorso il cane si è ammalato, mentre quest’anno, giunto a Belgrado, è arrivato il lockdown: «Se la salute regge, ci riproverò». L’Armenia, invece, l’ha visitata tre volte e ne ha scritto ripetutamente (ultimo libro, pubblicato da Cleup: Un odàr a pranzo. Camminando tra le tavole d’Armenia; odàr sta per straniero, foresto). Quando gli propongo l’intervista su ciò che sta accadendo in Armenia, accetta. Ma precisa che su molti argomenti la pensa all’opposto della Verità. Di vederci a San Giorgio in Bosco, dove vive, non se ne parla: il figlio anestesista gli ha raccontato cose spaventose e quindi ha fatto un patto con la moglie di non incontrare nessuno finché l’emergenza sanitaria sarà finita. Infine, alla mia richiesta di una sua bella foto, risponde che non possiede la macchina fotografica: «Ho il telefonino e disegno».

Professore, che cos’è la geografia umana?

«È una disciplina debole rispetto alla storia, alla sociologia e alla scienza pura. Una disciplina che si è evoluta nel tempo».

Mi interessa l’aggettivo…

«Serve a distinguerla dalla geografia fisica che studia le forme della terra, dei fiumi e delle montagne. La geografia umana esamina il rapporto tra società e territorio. Personalmente, ho studiato la questione ambientale nei Paesi in via di sviluppo, dal Senegal all’Asia centrale, le zone aride, la desertificazione. Ora è un tema di attualità, con i miei colleghi ne parlavamo trent’anni fa».

Ha senso insegnare una materia così nell’era della globalizzazione?

«Direi che è fondamentale perché fa capire i legami tra territori e popolazioni. Paradossalmente, la globalizzazione ha rilanciato tematiche locali. Le popolazioni e i luoghi entrano in relazione con la globalizzazione in modo diverso. Ci sono fenomeni sia di omologazione che di diversificazione. È stato così in tutte le epoche: l’impero romano, l’impero ottomano e l’impero cinese sono state forme di globalizzazione. Alla fine del XIX° secolo la globalizzazione è avvenuta con i mezzi di trasporto, treni, navi, aerei. Oggi avviene con i mezzi di comunicazione».

E la geografia?

«Spiega come i vari luoghi entrano in rapporto con il globale. Oggi c’è l’illusione che con Google maps si possa conoscere tutto il mondo. Invece conosciamo le formule, non i processi. Il topografismo, come lo chiamiamo noi, riduce i processi del mondo alle loro forme esteriori».

Che rispetto c’è nei grandi media delle comunità e delle specificità locali?

«Ci sono linguaggi diversi. Nei social media e in rete si trova tutto: quelli che ragionano di geopolitica e chi rappresenta le piccole comunità. Ovviamente c’è un mainstream dominante, la voce del padrone, del vincitore della guerra, e anche le voci che vengono dal basso. Noi diciamo di ascoltare il territorio».

Espressione tremenda.

«Significa andare sul posto, per vedere gli effetti dei processi di sviluppo».

Oggi la parola più abusata è «pianeta» e le istituzioni che contano, come l’Oms, hanno l’aggettivo mondiale.

«Parlare in termini di pianeta ha senso sia dal punto di vista fisico che di collegamento delle reti. In geografia insistiamo sul concetto di multiscalarità. Ovvero, leggere un processo attraverso più scale dimensionali: globale, nazionale, regionale, locale. Ognuna offre una dimensione del fenomeno».

Quella comunitaria è un po’ sacrificata?

«Se una farfalla batte le ali nella pianura Padana ci sarà un uragano in Australia. Tutto è collegato, perciò è sbagliato considerare solo il globale o solo il locale».

La dimensione prevalente è quella globale?

«Perché è la novità. Le dinamiche climatiche, economiche, migratorie e di genere hanno una dimensione globale».

Perché scrive libri sull’Armenia?

«Scrivo libri sul mio camminare. Una decina d’anni fa ho avuto l’idea di ripercorrere a piedi i posti dove da giovane ero andato in auto. Camminando si vedono le cose in modo diverso. Il primo viaggio, con una Fiat 600, era stato in Turchia, poi Siria, Georgia e Armenia. 40 anni fa c’erano ancora l’Urss e la cortina di ferro, per andare in Russia bisognava anticipare l’itinerario all’ambasciata».

E l’Armenia?

«È stata un incontro particolare per due motivi. Il primo è che mi sono fatto degli amici là. Il secondo è che armeni ce ne sono anche in Italia, come in tutto il mondo. Ho anche conosciuto la Antonia Arslan e mi sono affezionato a questo Paese. Al punto che sto studiando la lingua».

Perché ha cominciato a girarla a piedi?

«L’ho attraversata tre volte, dal confine iraniano alla Georgia, dalla Turchia all’Azerbaijan. La conosco bene, senza essere uno specialista. Mi piace fare i collegamenti e le differenze dai territori vicini perché ha elementi propri ma anche comuni. Per esempio, appartiene al mondo del pane, dalla Spagna all’Asia centrale, dove inizia il mondo del riso».

Perché nei suoi libri scrive eppiauar e eppibertdei come si pronunciano in italiano?

«Riproduco una lingua di strada, l’inglese basico e sporco che si usa negli incontri tra persone di etnie diverse. Ognuno lo pronuncia a modo suo, l’ho riprodotto così».

Che cosa la colpisce di questo piccolo popolo?

«Hanno una tenacia di ferro e una storia tormentata. Quando mi trovo di fronte a queste comunità esigue durate nei secoli come gli israeliani, i curdi, i baschi, riconosco che sono popoli con grande spirito di comunità e regole forti. Non credo ai popoli eletti e agli scontri di civiltà, a prevalere sono sempre le motivazioni politiche. Gli armeni hanno rispetto totale per la tradizione e allo stesso tempo grande pragmatismo. Le figure più rappresentative sono il prete e il mercante. Poi l’Armenia affascina con le sue montagne e i suoi altopiani».

Che impressione ha avuto visitando il monastero di Dadivank, passato dopo la guerra in Nagorno Karabakh appena conclusa, sotto il controllo dell’Azerbaijan?

«Quando ci sono arrivato a piedi, di sera, mi si è presentato in modo molto affascinante. È un luogo articolato nelle sue strutture, costruito in epoche diverse, ricco di affreschi restaurati dalla cooperazione italiana. Questi monasteri fanno da cerniera tra le alte quote e il fondovalle. Vedendoli, capisci che i monasteri davano le regole e custodivano la cultura del popolo».

Ora in grave pericolo?

«È una fortuna che siano arrivate le forze di pace russe. Se fossero passati sotto il controllo esclusivo degli Azeri, non si sa che fine avrebbero fatto quelle opere d’arte. La Russia ha intuito il pericolo e ha mandato un gruppo di soldati di pace a presidiarli».

La foto dell’abate Hovhannes che, crocifisso su una mano e fucile sull’altra, ha annunciato che non si muoverà dal monastero ha fatto il giro del mondo.

«Se l’abate dice che non si muove ha un senso. Ma se rimangono anche i soldati russi a custodirlo ha ancora più senso».

La popolazione ha dovuto sloggiare.

«Si parla di 100.000 profughi. Sto dandomi da fare tramite il mio professore di armeno a raccogliere fondi per creare una struttura di sostegno psicopedagogico per i bambini. Questi esodi distruggono generazioni. Era successo in modo speculare agli azeri dopo la prima guerra del 1994. Allora i profughi erano meno».

Come giudica il silenzio attorno a questi fatti?

«È scandaloso, si sa bene che cosa c’è dietro».

Che cosa?

«L’Italia è il primo partner commerciale dell’Azerbaijan. C’è il petrolio, sta arrivando il gas… Non c’è nulla di provato, ma si parla di donazioni a parlamentari e giornalisti provenienti da un fondo di 3 miliardi dell’Azerbaijan che circolano nelle banche europee per orientare l’informazione o la non informazione».

Anche il silenzio dell’Europa colpisce.

«In politica estera non conta niente, ogni Stato va per conto proprio e Recep Tayyip Erdogan fa il suo gioco. Quando si è deboli all’interno si addita un nemico esterno. Istanbul e Ankara sono andate all’opposizione, così Erdogan rispolvera il panturchismo per tacitare la fronda».

Cavalca la rinascita islamica trasformando la basilica di Santa Sofia di Istanbul in moschea e facendone costruire una a Strasburgo?

«Non identificherei l’espansionismo di Erdogan con la presunta avanzata dell’islam. In Turchia hanno sempre convissuto nazionalismo e islamismo. Da furbo politico, Erdogan ha avuto la genialità di fonderli per cementare il suo potere».

Perché in Europa solo Emmanuel Macron lo contrasta?

«Perché tutti ci fanno affari, mentre in Francia c’è una grossa comunità armena. In città come Parigi, Lione, Marsiglia… E ricordiamoci di Charles Aznavour… Macron non fa affari con la Turchia e perciò forse è più libero».

Poi ci sono stati gli attentati di matrice islamica.

«Che però non sono di origine turca. I primi erano di natura magrebina, l’ultimo di provenienza balcanica».

Il governo italiano dà precedenza agli interessi commerciali.

«Come quello tedesco e quello inglese. Poche settimane fa Luigi Di Maio ha incontrato con una certa enfasi il suo collega turco Mevlüt Cavusoglu. Nella politica degli annunci vincono gli alti principi, nella pratica gli interessi di bottega. Lo si è visto con le sanzioni alla Russia o sul caso Regeni quando è stato ritirato l’ambasciatore in Egitto, ma poi si è cominciato a pensare al gas egiziano».

Tacciono anche i vertici della Chiesa.

«Non vedo una questione religiosa tra Turchia e Armenia. I motivi della guerra sono la costruzione di una bella pista verso l’Asia centrale per realizzare il progetto di Erdogan e l’Armenia è un ostacolo».

Che morale trae?

«Ai tempi del Vietnam, ero critico contro l’America. Oggi penso che se non tiene fede al suo ruolo, i cani piccoli cominciano a fare ciò che vogliono. Donald Trump si è ritirato e l’Europa non ha personalità internazionale. Invece Erdogan va bloccato».

 

La Verità, 21 novembre 2020

«La Boldrini va al governo e noi cincischiamo»

Buongiorno Francesco Storace, è contento del governo che sta nascendo?

«Credo sia uno dei peggiori esempi di trasformismo della storia della Repubblica. Non ricordo un Presidente del consiglio di una maggioranza che lo rimane con quella opposta».

È scandalizzato?

«Sono colpito. Secondo me in politica le parole sono importanti. Si chiama Parlamento non Zittamento. Vuol dire che c’è il primato della parola. Invece, da una parte abbiamo Luigi Di Maio che fino a un mese fa parlava del “partito di Bibbiano”, dall’altra è facile rintracciare in rete un video in cui Nicola Zingaretti ribadiva “mai con i 5 stelle”».

Parlando di piroette c’è stata anche quella di Matteo Renzi.

«Renzi è quello che ha scardinato i giochi. Ci sta che chi è in minoranza in un partito scateni il casino. Ma chi li guida dovrebbe mantenere un senso di coerenza e affidabilità. Di Maio e Zingaretti mi hanno ricordato Gianfranco Fini quando disse: “Con Bossi mai più in caffè”. E poi invece tornarono insieme al governo».

Sessant’anni e una lunga militanza nella destra, dall’Msi fino a Fratelli d’Italia passando per An, già Presidente della regione Lazio e ministro della Salute nel terzo governo Berlusconi, Francesco Storace non è uomo da eufemismi. Da Capo d’Orlando, Sicilia, dove sta trascorrendo le ultime ore di riposo prima del rientro a Roma, scrive editoriali per Il Secolo d’Italia, il sito che dirige, vicino a Fratelli d’Italia e posta sui social anche foto un tantino hard. Come un dito medio indirizzato al governo nascente.

Conte ha detto che il suo sarà un governo «non contro, ma per»: che significa?

«Sono sciocchezze a uso dell’opinione pubblica e dei giornali. Conte e un concentrato di banalità. Purtroppo sono pochi i giornali che lo notano, l’inondazione di saliva prevale».

Un governo per i porti aperti, nuove tasse, il via libera alla magistratura e alle adozioni ai gay?

«E per gli inchini all’Europa».

Il governo stesso è partito da un inchino all’Europa?

«Potremmo chiamarlo governo Schettino, dal nome dell’ex capitano che fece naufragare la Concordia per fare l’inchino all’Isola del Giglio».

Ha ragione Matteo Salvini quando dice che il Conte bis è nato a Bruxelles?

«È nato fuori d’Italia. Abbiamo saputo che è stato Emmanuel Macron a suggerire il tweet di Trump in favore di “Giuseppi”. Il capo dei sovranisti mondiali sponsorizza un premier che si scopre antisovranista. È evidente che c’è un gioco globale: le fauci dei potenti della terra si aprono sull’Italia. Su questo Salvini ha sbagliato a giocare su due tavoli».

Russia e America. Infatti ora Conte parla di «multilateralismo che non rinneghi l’euroatlantismo».

«L’intervista la sta facendo a me o a Conte? Il suo peccato originale è che è un signore pescato dal nulla e portato a Palazzo Chigi senza aver mai preso un voto. Poi è diventato leader della coalizione opposta, sempre evitando elezioni. Se non è un oltraggio alla democrazia…».

È un premier doubleface?

«Non sappiamo che faccia ha e addirittura gliene diamo due. No, è semplicemente uno spregiudicato amante del potere».

Dirà che è lì per spirito di servizio.

(Silenzio).

Com’è stato possibile che Zingaretti abbia ceduto su tutta la linea, dall’andare al voto alla discontinuità?

«Per una volta nella vita gli avevo dato fiducia. Credevo volesse davvero andare a votare. Poi gli è esplosa la bomba Renzi tra i piedi che è riuscito a recuperare un ruolo nel partito. Il secondo errore che imputo a Zingaretti è non aver avuto il coraggio di entrare personalmente nel governo. Si vede per lui conta di più la guida della regione Lazio. Ma se voleva davvero puntellare il governo, avrebbe dovuto esporsi, magari come vicepremier. Nessuno potrebbe giocare con il segretario in prima linea. La scelta di restare in regione fa sospettare che non creda pienamente in questa avventura».

Forse teme che entrando nel governo gli sfilino del tutto partito?

«Da vicepremier sarebbe più difficile disarcionarlo. Non vorrei che oltre a non far votare gli italiani non si vogliano far votare nemmeno i cittadini del Lazio».

Anche Zingaretti ha subito pressioni per cambiare le sue posizioni?

«Tutti hanno detto dei no che sono diventati dei sì. Voglio vedere come finisce il film per capire quanto ha perso. Per come lo conosco, Zingaretti non è uno che molla facile. Ho la certezza che ci siano state pressioni, sia interne che esterne. La stessa nomina di Ursula von der Leyen è stata chiara in questa direzione. E il sorprendente ritorno in campo di Romano Prodi? In questa crisi se ne sono viste di tutti i colori…».

Sbagliando i tempi Salvini ha fatto un favore a Di Maio e Conte?

«Salvini ha ragione quando dice che tutti gli chiedevano di staccare la spina. Il problema è che se stacchi e non c’è la corrente alternativa si resta al buio. La corrente alternativa c’era la settimana dopo le europee, invece lui ripeteva che avrebbero governato insieme per cinque anni».

Voleva dimostrarsi un socio leale?

«Non mi permetto di giudicare il tasso di lealtà, ma mi pare abbia fatto male i conti. Personalmente non ci parlo da mesi… Dirigo un giornale online che per numero di visualizzazioni ha superato il Blog delle Stelle. In agosto siamo arrivati a 10milioni di pagine visualizzate. Eppure lui si ostina a non rilasciarci un’intervista, non riesco a capire perché».

Doveva darsi un profilo più istituzionale invece di stare al Papeete?

«Questo mi sembra un ritornello infantile. Tutti andiamo al mare, non può andarci un ministro?».

Magari non nei giorni in cui sta per aprire la crisi di governo.

«Lo aveva preannunciato a Conte che gli ha chiesto di aspettare. Comunque, questi sono formalismi che mi interessano poco. M’interessa di più la sostanza che ora la sinistra è al governo».

Anche la richiesta di pieni poteri è stato un errore: dopo le parabole di Berlusconi e di Renzi non s’impara che l’uomo solo al comando non dura?

«Sarebbe bastato dire che voleva usare pienamente le possibilità di potere che la Costituzione attribuisce a chi governa».

La richiesta di pieni poteri può spaventare l’opinione pubblica?

«Se sono quelli garantiti dalla Costituzione ai governanti non vedo che cosa ci sia da temere. C’è anche molto guasconismo in certe espressioni. Siamo figli di Twitter più che di Facebook».

Per l’area di centrodestra la prospettiva è di un lungo periodo di opposizione?

«Dipende da quanto durerà Conte. Ma un governo che nasce sul terrore di andare al voto, a naso non mi pare un modello di stabilità. Con dentro Liberi e uguali manca solo Roberto Saviano ministro».

La stabilità del governo la darà chi l’ha voluto, oltre all’Europa, la Cei, la Cgil, i gesuiti?

«Che la Cei possa accettare un governo con Monica Cirinnà mi pare complicato».

Il direttore di Civiltà cattolica Antonio Spadaro e il presidente della Cei Gualtiero Bassetti si sono pronunciati.

«E la cosa mi dispiace. Lo dico da credente e praticante: trovo indigesto che personalità rilevanti della Chiesa si siano schierate in questo modo».

Il centrodestra andrà in piazza in ordine sparso?

«Purtroppo sì. Fosse stato per me, i tre leader avrebbero dovuto salire insieme al Quirinale. Avrebbero mostrato chi rappresenta la maggioranza del popolo italiano. E sarebbe stato plasticamente visibile il fatto che si vuole far governare quelli che il centrodestra batte ogni giorno».

Berlusconi vuole tornare a essere il perno della coalizione?

«È una gara a chi ce l’ha più lungo, diciamo la verità».

Troveranno una sintesi?

«Metto la clessidra nell’attesa che comincino a riflettere. Ero dubbioso come Giorgia Meloni sull’alleanza con Forza Italia. Ma nel momento in cui Zingaretti e Di Maio prefigurano un’intesa di sistema, il centrodestra non può cincischiare. Loro portano Laura Boldrini al governo e noi ci mettiamo a misurare il tasso di rivoluzione dell’alleato?».

Berlusconi ha detto che il centrodestra dev’essere una coalizione moderata depurata dal sovranismo.

«Berlusconi preferisce il sovrano al sovranismo, a condizione che sia lui. Se si vuole escludere dalla coalizione è un conto, ma se si vuole farne a meno, rischia di essere controproducente. Io sono dell’idea di fare ogni sforzo per tenere unito il centrodestra affinché Zingaretti e Di Maio non vincano anche in futuro».

Per Forza Italia questa crisi dimostra che il sovranismo è perdente.

«Finora mi pare che il centrodestra a trazione sovranista abbia vinto in tutte le competizioni degli ultimi anni».

Se è stata Bruxelles a decidere questo governo come dice Salvini non conveniva una diplomazia diversa? Per esempio sul voto a Ursula von der Leyen?

«Per me hanno fatto bene a non votarla. Anche la discussione su chi dev’essere il nostro commissario europeo è incredibile. Se si dice che è legittima una nuova maggioranza in base agli equilibri usciti dalle elezioni del 2018, come si fa a sostenere il contrario a proposito del commissario europeo? Le elezioni del 26 maggio le hanno vinte la Lega e Fdi. Il commissario non è una casella da spartire tra Pd e M5s, non è un rappresentante del governo, ma di tutta l’Italia che ha votato alle europee».

Che cosa dovrebbe fare ora Salvini?

«Lo rivaluterei se chiamasse la Meloni e le chiedesse di aggregarsi alla manifestazione nel giorno della fiducia a Conte. Giorgia ha indetto una protesta senza simboli di partito, ma solo con il tricolore. La coalizione viene prima dei partiti. Mi pare che da qualche tempo il tricolore abbia cominciato a piacere anche alla Lega».

Come andranno le prossime elezioni regionali?

«Credo e spero che vincerà il centrodestra. Sarebbe un bel segnale dopo lo scandalo sulla sanità che ha colpito l’amministrazione di sinistra in Umbria».

Quanto durerà il Conte bis?

«Credo che a primavera la commedia finirà. A meno che non riescano a stringere alleanze sul territorio. Dobbiamo augurarci che Goffredo Bettini, il gran tessitore del Pd romano, torni in letargo».

 

La Verità, 1 settembre 2019

Il doppio FF e la strategia della provocazione

Ci mancava anche Emmanuel Macron. No, non ce lo potevamo risparmiare. Dopo Enrico Letta, ospite il 27 gennaio scorso di Che tempo che fa e, a quanto sembra, mediatore tra l’Eliseo e Fabio Fazio, dopo Roberto Saviano il 10, Matteo Renzi il 17, di nuovo Saviano e Andrea Camilleri, nell’insolito ruolo di opinionista antigovernativo, il 24 (per tacere dei vari Riccardo Gatti della Ong Open Arms e Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, sempre intervallati dalle lezioni di economia di Carlo Cottarelli), dopo tutti questi ospiti, solo per stare all’ultimo mese, il capo dello Stato francese, fumo nelle pupille dei nostri governanti oltre che di buona parte degli italiani, rappresenta a pieno titolo il vertice della strategia della provocazione di FF. Una strategia pianificata e perseguita lucidamente. Che consiste in questo: spingersi fino al limite estremo dell’opposizione esplicita, frontale, senza se e senza ma. Il supermegacontratto a 2,2 milioni di euro l’anno (più altri 10,6 per la Officina Srl, la società che produce il programma, sua al 50%) blinda il conduttore di Rai 1. Dopo il piccolo segnale di cedimento di qualche settimana fa («sto pensando di espatriare»), nell’ultima puntata FF ha garantito che per altri due anni non si muoverà dalla prima serata della rete ammiraglia. Spontaneamente, s’intende. Il risultato della strategia è binario: o paladino dell’opposizione al governo pentaleghista o martire dello stesso governo: censore, illiberale, antidemocratico. Una strategia da lucido scacchista. L’intervista a Macron, densa ma paludata trattandosi di un dialogo con un capo di Stato, è stata obiettivamente un colpo giornalistico realizzato all’insaputa della direzione di Rai 1. Siccome sarà difficile salire ancora di livello, presumibilmente dobbiamo prepararci ad altri Gino Strada, Michela Murgia, Domenico Lucano, Nicola Zingaretti…

Del resto si sa, come testimoniano il nome e cognome del conduttore più pagato della Rai, Fabio Fazio sono due. Basta cambiare la consonante al centro, dalla morbida b alla tagliente zeta, e il dottor Jekyll vira in Mr Hide. Cioè, come abbiamo avuto modo di constatare negli ultimi tempi, l’anima arboriana e goliardica che intrattiene sul filo dell’ironia e del nonsense con ospiti come Nino Frassica, Orietta Berti e Gigi Marzullo, ha lasciato campo libero all’anima savianesca, stizzosetta e militante che infarcisce le serate di intellò schierati, in rotta di collisione con la maggioranza uscita dalle elezioni di un anno fa.

Ai piani alti di Viale Mazzini abbozzano, per ora.

 

La Verità, 4 marzo 2019

«Il futuro dell’Italia è in un’Europa riformata»

L’appuntamento è in un locale sul lungomare di Gallipoli per la colazione. Sono in ritardo di qualche minuto e al mio sms che lo avverte Rocco Buttiglione risponde con: «Frisch weht der wind, Der heimat zu mein hübsches kind, wo weilest du?». Quando c’incontriamo apprendo che si tratta dell’ouverture del Tristano e Isotta di Richard Wagner riveduta e corretta («Fresco soffia il vento verso la patria; mio caro amico dove te ne stai?»). Insomma, l’approccio mette soggezione. Ma per fortuna Buttiglione, membro dell’Udc e vicepresidente del gruppo misto, è in tenuta estiva e, sebbene voli alto, l’intervista si svolge in italiano.

Professore, Berlusconi e Prodi sono di nuovo in prima linea. Lei si ricandiderà?

«Vedremo. Voglia di riscaldare la sedia non ne ho. Se c’è l’opportunità di fare qualcosa di buono per il Paese non mi tirerò indietro. Nel frattempo ho ripreso contatto con il mio vecchio mondo che non mi ha dimenticato. Ho tenuto una lezione sul pensiero di Karol Wojtyla all’università di Lublino, parlerò alla Görres-Gesellschaft, la più importante associazione filosofica tedesca, andrò in Messico e in Cile. Non mi annoierò».

Che cosa intende per fare qualcosa di buono per il Paese?

«Ricostruire un partito di democrazia cristiana non in senso stretto, ma come lo intendeva il mio amico Helmut Kohl, con un programma che potrebbe interessare Silvio Berlusconi, il pulviscolo delle formazioni di centro e i loro elettori. Che in quest’area ci sono; mancano i leader».

Tanto che si riaffacciano quelli di dieci o quindici anni fa: come lo spiega?

«Con il fatto che quelli che sono venuti dopo sono peggio di quelli che c’erano prima. Allora si guarda con nostalgia al passato, che però non ritorna. Serve aprire la strada a nuovi giovani non raccattati per strada, ma preparati e con valori forti».

Matteo Renzi ha deluso?

«Ha giocato una partita che ho guardato con simpatia. Però l’ha persa».

Definitivamente?

«Il mercato politico è ingombro di leader che hanno avuto una grande idea, hanno perso, ma rimangono in campo. Troppo deboli per rivincere, ma abbastanza forti per ostruire la scena a chi vuole provarci».

Matteo Renzi: «Ha combattuto una battaglia giusta, ma ha perso»

Matteo Renzi: «Ha combattuto una battaglia giusta, ma ha perso»

Si riferisce ai vari D’Alema, Bersani o a chi altro?

«Lei mi vuole morto? Ognuno che catalizzi un minimo di consenso, invece di collaborare alla nascita di nuovi leader, li ostacola».

Chi potrebbe essere il leader del centro da lei ipotizzato?

«Se Berlusconi riuscisse a gestire una selezione dalla quale far emergere personalità per il futuro com’è avvenuto nel Pd con Renzi quand’era sindaco, avrebbe un merito storico».

Destra e sinistra sono categorie del Novecento: con che cosa vengono sostituite?

«Per il momento dalle teorie del complotto. Quando un soggetto politico non capisce immagina che il cattivo stia complottando contro di lui. È già accaduto nell’Ottocento quando i massoni attribuivano il complotto ai gesuiti e i cattolici lo rinfacciavano ai massoni. Ora la Cina e l’India crescono. I nuovi posti di lavoro vengono dall’economia della conoscenza, dalla forza del cervello e non dei muscoli. Quindi, o iniziamo a pagare i salari come i cinesi, oppure dobbiamo ricostruire una scuola nella quale lo studio sia una virtù e la mentalità della raccomandazione e del sussidio statale sia superata. I giovani non possono delegare lo Stato a costruire il loro futuro. Ma possono sperare in condizioni che li aiutino, famiglie forti e gruppi di amici in grado di affrontare le sfide del presente».

Una preoccupazione che non sfiora i nostri politici.

«Nel 1950 gli Stati Uniti detenevano il 50% del potere economico mondiale, oggi ne hanno poco più del 20%. L’Europa, che ne ha un altro 20%, non è abituata a difendere i suoi interessi nel mondo perché ha sempre delegato gli Usa. Se non impara a farlo, il Mediterraneo diventerà una polveriera. Ma noi abbiamo i sovranisti che dicono che l’Europa non serve».

Vuol dire che i sovranisti sono anacronistici?

«Sono come la Repubblica di Siena. Quando nascevano gli Stati nazionali, a Siena decisero di fare la Repubblica indipendente. Finì ovviamente in un bagno di sangue. Machiavelli che diceva che bisognava fare l’Italia rimase inascoltato».

Berlusconi sembra non sposare le teorie sovraniste.

«Berlusconi è uno dei pochi che ragionano, anche se non sempre bene. Capisce che l’Europa è l’unica via. Poi, però, gli servono i voti di Salvini. Io penso che bisognerebbe puntare sui tanti che non votano. La verità è che l’Europa va bene mentre l’Italia sbaglia perché priva di una vera classe dirigente».

Sull’immigrazione è l’Europa che sbaglia.

«Noi non siamo capaci di fare le espulsioni e i rimpatri. Gli altri Paesi non credono che mandiamo profughi veri. Una parte della nostra magistratura ritiene che tutti abbiano diritto di venire in Italia. Per fare le espulsioni servono gli accordi con i Paesi d’origine. I quali devono riprendersi gli immigrati illegali in cambio dell’aiuto a creare posti di lavoro. Per gestire l’immigrazione bisogna fare gli accordi con i Paesi del Nord Africa e con l’Europa. Gli albanesi oggi non sono un problema per l’Italia perché all’epoca Berlusconi fece un buon accordo con l’Albania».

Come prevede andranno le prossime elezioni?

«Spero servano a dare un buon governo all’Italia. E che si riesca a presentare una formazione di centrodestra orientata al Ppe».

Dopo un periodo di quiete è tornato a scrivere sul Papa per il sito Vatican Insider: che cosa l’ha smosso?

«Ritengo sbagliato opporre Giovanni Paolo II a papa Francesco. Penso che se Wojtyla fosse vivo mi direbbe: “Seguite il Papa”».

Marcello Pera ha criticato duramente il magistero di Bergoglio: che cosa pensa degli atei devoti?

«Li guardo con simpatia. Affermano di non credere in Gesù Cristo e nelle verità dogmatiche del cristianesimo, ma ritenendolo l’asse portante della nostra società temono che se crollasse sarebbe un guaio per tutti. Tuttavia, la Chiesa non esiste per difendere l’Occidente e i valori cristiani».

Prendendo del cristianesimo solo l’architettura civile e culturale la costruzione regge ugualmente?

«Forse all’inizio, ma dopo un po’ quei valori ammuffiscono. Inoltre, la fede genera vita anche nel resto del mondo. Oggi l’Occidente si restringe e la Chiesa cresce. Nei mondi emergenti, la Chiesa c’è. Cresce in Asia, in America latina e nell’Africa sotto il Sahara il cristianesimo ha vinto la lotta con l’islam. È giusto che, pur senza abbandonare l’Europa, il Papa non guardi al mondo con occhiali europei».

C’è chi dice che papa Francesco sia teologicamente debole.

«Lo dicevano anche i teologi greci dei papi latini. I quali guardavano il mondo anche con gli occhi dei germanici che si stavano convertendo».

La teologia può diventare una nuova ideologia, una specie di iteologia?

«Di tutto si può fare ideologia, anche delle cose giuste. L’ideologia è lo strumento del potere e contiene il rifiuto di capire la verità dell’altro. Anche l’altro ha un briciolo di verità e io devo riconoscerla».

Che idea si è fatto del ritiro di papa Ratzinger?

«Voleva riformare la curia, ma non ha trovato collaborazione. Ha tenuto una predica di fuoco denunciando gli errori e i vizi nei comportamenti della gerarchia. Si aspettava che il giorno dopo alcuni dessero le dimissioni e si rimettessero alla volontà del Papa per il bene della Chiesa. Non è accaduto, si è dimesso lui per dare l’esempio».

Il papa emerito Benedetto XVI (Franco Origlia/Getty Images)

Il papa emerito Benedetto XVI (Franco Origlia/Getty Images)

È davvero questo il motivo?

«Ha dato una lezione di libertà dal potere. Se il potere è servizio si deve essere anche liberi di rinunciarvi».

Niente pressioni esterne?

«Ratzinger ha un aspetto fisico fragile, ma un carattere di ferro. Lo conosco da 45 anni: non lo vedo cedere a pressioni».

Augusto Del Noce diceva che la sinistra sarebbe diventata un partito radicale di massa: si sta avverando questa profezia?

«È sotto gli occhi di tutti. La sinistra ha rinunciato alla difesa dei poveri e sposato la causa della distruzione della famiglia tradizionale».

La nuova ideologia dominante è un misto di politicamente corretto e nuovi diritti civili?

«È una società che resta sentimentale. E non compie il passaggio dalla ribellione alla riconciliazione perché vive in uno stato di adolescenza infinita. Si convive fino a quarant’anni e lo status di bamboccioni dura fino alla mezza età. Anche il revival dei gruppi musicali è sintomo di questa adolescenza prolungata».

I cattolici devono fare di questo terreno una priorità della loro azione? La filosofia dei valori non negoziabili non è superata?

«La strategia politica imperniata sui valori non negoziabili ha dato l’impressione che i valori negoziabili non contino. Invece sono importantissimi. Quando vado a votare vorrei farlo per una forza che mi garantisca sulla vita e sul matrimonio. Ma vorrei che mi garantisse anche sul fatto che mio figlio troverà un lavoro, che quando sarò vecchio avrò un’adeguata assistenza, che la mia pensione non andrà in fumo. L’idea per cui i cattolici si occupano dei valori non negoziabili e gli altri di quelli negoziabili è perdente».

Che cosa le dà speranza, oggi?

«Le racconto un fatto. Ai funerali di Kohl c’era un’atmosfera di vera commozione, con Jean Claude Junker, la Merkel e Macron che hanno pronunciato parole pesanti. Per l’Italia c’era solo il ministro Alfano. Spero che dopo le elezioni tedesche di fine settembre l’Italia riesca a essere protagonista nel grande progetto di rilancio dell’Europa dei popoli che verrà promosso dalla cancelliera tedesca e dal presidente francese. Molto dipende da Berlusconi e dal centro di cui anch’io faccio parte».

E sul piano personale cosa le dà speranza?

«I miei nipoti. Ogni volta che nasce un bambino la storia del mondo ricomincia da capo».

 

 

La Verità, 5 agosto 2017

 

Camon: «Io, diseredato per l’altare a mia madre»

Parliamo da un’ora e mezza e adesso, mentre gustiamo il pranzo preparato dalla moglie, Gabriella Imperatori, anche lei giornalista, Ferdinando Camon dice: «Qui, in questa stanza, mio padre mi ha diseredato. Si presentò con mio fratello, due testimoni e il notaio. In Un altare per la madre avevo scritto che eravamo poveri». È il più macerante dei rimpianti con il quale lo scrittore veneto convive. Quel libro è esso stesso un monumento alla madre. E anche al padre, che costruisce quell’altare lottando contro il tempo e la morte. Altro che ripudio, la reazione doveva essere di gratitudine. «Invece io li capisco», riprende Camon. «Ho firmato quell’atto. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro». Parliamo, e il tormento riaffiora: «Potevamo volerci bene. Siamo rimasti a lungo distanti. Poi ho assistito mio padre in ospedale. Mio fratello m’invitò a una serata in un ristorante. Ma fu una cosa un po’ ambigua. C’erano 400 persone e un tenore veronese, mediamente famoso. Appena varcai la soglia, intonò Rondine al nido, come se io stessi tornando sui miei passi».

Camon ha 81 anni e vive in una casa talmente carica di libri che ha dovuto acquistare un nuovo appartamento dove trasferire parte della biblioteca e lo studio. «È costato poco perché aveva un’ombra sinistra. Ci si nascose per qualche tempo Marco Furlan, uno dei due componenti di Ludwig, la banda di killer seriali che tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, commise 16 omicidi, rivendicandoli con deliri neonazisti. Sul campanello ho lasciato il suo cognome, piccolo feticcio di un passato tragico e cupo». Per Camon la provincia non è un limite. Se c’è una periferia centrale la si trova nella sua letteratura di padovano che non frequenta i salotti, neanche quelli della tv. I suoi libri sono tradotti in 25 Paesi. La vita eterna fu pubblicato con prefazione di Pier Paolo Pasolini; Occidente lo costrinse ad abbandonare la città con la famiglia a causa delle minacce di morte; Un altare per la madre, Premio Strega, ha venduto quasi 2 milioni di copie; La malattia chiamata uomo è stato rappresentato per 4 anni in un teatro di Parigi.

Chi vincerà in Francia?

«Emmanuel Macron. Sarà una vittoria europea e prevedibile, ma per me deludente. In Francia e ancor più in Italia ci giochiamo la partita della vita».

In che senso?

«Risparmi, lavoro, futuro dei nostri figli, tutto dentro un’idea di Stato. Purtroppo l’Italia non è uno Stato: non ha giustizia, equità, meritocrazia, sicurezza. Si vorrebbe qualcuno che rovesciasse il tavolo. Invece la partita è truccata».

Cioè?

«Ad ogni votazione, non so come giudicare Matteo Renzi. Lo considero onesto, ma limitato. Non cambierà nulla».

Preferirebbe Le Pen e i suoi emuli?

«Preferirei chi rovesciasse il tavolo dell’Europa. Oggi lavoro più di vent’anni fa, ricevo meno, pago più tasse, lo Stato è sempre più indebitato, ogni volta che s’incontrano Pier Carlo Padoan e Angela Merkel veniamo cazziati e ad ogni manovra si spremono soldi non si sa da dove. Qualcosa non quadra».

Non ha fiducia in Renzi. E in Beppe Grillo?

«Grillo è nato come rovesciatore del tavolo. Non so cosa farebbe dopo. Però sul cominciamento di un’altra partita concordo».

Il saluto di papa Francesco all'imam Ahmad al-Tayyib in Egitto

Il saluto di papa Francesco all’imam Ahmad al-Tayyib durante la visita in Egitto

Anche lei crede come Michel Houellebecq che il destino dell’Europa sia la sottomissione?

«L’islam non è integrabile, ma l’immigrazione continuerà. Quelli che vengono qua restano in gran parte islamici. Lentamente cambieranno anche loro e il loro cambiamento partirà dai loro nuclei più deboli. Andando a scuola i figli modificheranno il rapporto con gli adulti. Frequentandone altre, le donne cambieranno il loro rapporto col marito. Ma ci vorranno 3-4 generazioni. Perderanno questo Allah che è la fonte di tutto il loro essere e fare. Ma anche la nostra civiltà s’imbastardirà. Non sarà più una civiltà come vent’anni fa, cristiana, cattolica, costituzionalista. Già in chi accoglie questi migranti funziona l’idea, per me inammissibile, che non è indispensabile la loro adesione alla nostra Costituzione. Uno dei miei figli vive a Los Angeles. Quando ha fatto la pratica di cittadinanza, gli hanno dato il testo della Costituzione americana. Gli hanno lasciato un mese per studiarla e dopo lo hanno chiamato per interrogarlo. Non riesco a capire come a Londra possano esistere otto corti islamiche che emettono sentenze applicando la sharia. Che Stato è quello che ammette il funzionamento di un diritto altro rispetto al suo?».

Lei ritiene che l’islam non sia integrabile perché stabilisce la superiorità dell’uomo sulla donna, del musulmano sull’infedele, dello sceicco sul povero. Non c’è via d’uscita?

«Questi tre cardini impediscono che un islamico possa essere cittadino europeo».

Dove sbagliano i nostri politici?

«Vagheggiano l’islam moderato. L’islam moderato è quello che rinuncia a questi tre cardini. Dunque, non è più islam. Questa condizione ci dev’essere quando uno ottiene la cittadinanza. Non, forse, dopo tre generazioni».

Cosa pensa del magistero di papa Francesco sull’immigrazione?

«Papa Bergoglio mi piace in tutto quello che fa. È un vero cristiano. La sua rivoluzione in tema di accoglienza è forte. Ma il suo Dio non è quello di Pio XII. L’immigrazione dei decenni scorsi dall’Europa dell’Est era conseguenza del fallimento della storia comunista. L’immigrazione attuale dall’Africa e dall’Asia è esito del fallimento della civiltà islamica che, tagliando fuori dalla produzione le donne, non avrà mai lo sviluppo occidentale. Gli Stati europei hanno sempre pensato: voi siete la causa, il vostro fallimento non ci riguarda. Da perfetto cristiano, Bergoglio parla in termini di umanità: il fallimento di popoli appartenenti a un’altra storia ci riguarda. È un messaggio rivoluzionario e carico di futuro di cui sento la grandezza. Ma sono figlio della mia storia».

«Alberto Moravia rideva anche di fronte alla sua morte»

Camon: «Alberto Moravia rideva anche di fronte alla sua morte»

Lei è nato a Urbana, un paesino della bassa padovana: un destino nel nome?

«Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra. Non c’era l’acqua corrente, c’era da mangiare perché i contadini avevano bestie, frutta e verdura. Portavo maglioni che mia madre ritingeva immergendoli in mastelli, da dove uscivano a chiazze. Le ragazze non mi guardavano. Il paese non aveva e non ha un’edicola e un cinema. Campi contadini buoi stalle dialetto. Alla fine della guerra i partigiani furono audaci e cattivi, i tedeschi crudeli. In Lombardia i partigiani dormivano nei fienili pagando ai contadini locali per il rischio di nasconderli. Non ho mai visto mio padre prendere soldi per ospitare i partigiani nei fienili».

Suo padre e i suoi avi lavoravano i campi. Facendo lo scrittore si è inurbato e ha smentito la continuità della stirpe, di cui ha scritto nell’ultimo romanzo.

«Ero disperatamente bravo. I professori ripetevano: “Sarebbe un peccato se non continuasse a studiare”».

Uno dei suoi temi ricorrenti è la scomparsa della civiltà contadina. Perché è così importante?

«Charles Peguy sostiene che è “il più importante avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo”».

La fine della civiltà contadina e l’avanzare della scristianizzazione sono legate?

«No. La morte della civiltà contadina è una conseguenza dell’avvento della tecnologia e dell’industrializzazione. Un tempo i contadini toccavano la pelle degli animali e il legno della vanga. Oggi toccano il metallo del trattore. Quel mondo aveva un’idea di genitori e figli, di vecchiaia, di Dio, di morte e di salvezza. Il massimo cambiamento è avvenuto nella concezione e nella pratica del sesso. La civiltà contadina ne aveva un’idea spaventata e peccaminosa. Ora crescono ragazzi non legati, il matrimonio è solubile. Io preferisco il mondo di prima. Il progresso ha come prezzo la fine di quella civiltà».

Si definisce uno scrittore della crisi.

«Narro il prezzo del progresso».

Ha seguito la storia dell’isola della laguna veneta dove non si celebra messa per mancanza di fedeli?

«Chiesa vuol dire adunata, assemblea. È chiaro che se il popolo si sposta, cambia concezione di sé e forma una nuova adunanza. Per restare a contatto con questa realtà la Chiesa deve spostarsi anche lei. È ciò che sta facendo Bergoglio».

Esponendosi alle critiche di mutamento della dottrina in tema di famiglia.

«Certo. Io sono stato forgiato dall’idea che il mio Dio non è il Dio degli altri. Che tra Cristo e Allah non c’è compatibilità. La nuova chiesa di Bergoglio applica questa compatibilità».

Applica?

«Applica. In sostanza viene finalmente a cadere il principio che diceva: “Extra Ecclesiam nulla salus”, fuori dalla Chiesa non c’è salvezza. Questo principio ha tormentato le intelligenze cattoliche, a cominciare da Dante Alighieri. Nel canto XIX del Paradiso Dante chiede a Dio dove stia la giustizia se l’uomo che, nascendo in riva all’Indo e non sentendo parlare di Cristo, non si salva. Ma l’aquila, che parla in vece di Dio, risponde: “Or chi tu sei che vuoi seder a scanna e giudicar lontano mille miglia con la veduta corta di una spanna”. Ho capito, io non ci vedo, ma tu sei Dio, dammi la risposta. Nella Commedia non la dà. Ai parroci della laguna che una volta m’invitarono per essere consigliati sulla predicazione dissi che dovevano abolire quel principio. Sottovoce uno di loro mormorò: “Extra Ecclesiam sola salus”, solo fuori della Chiesa c’è salvezza. Il che mi è sembrato un po’ audace».

Papa Francesco è stato criticato per aver detto nell’intervista a Eugenio Scalfari che ciascuno ha una propria «visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene».

«Papa Francesco stabilisce che: “Etiam extra Ecclesiam salus”, anche fuori della Chiesa c’è salvezza».

Piero Fassino nel 2006 ignorò Camon come candidato al Senato del Pd

Piero Fassino nel 2006 ignorò Camon come candidato al Senato del Pd

Dopo l’addio a Urbana, è sempre rimasto a Padova. La vita di provincia l’ha penalizzata?

«Ho sempre saputo che non sarei andato a vivere a Roma o a Milano. In provincia hai un rapporto più fragile col potere. Una dozzina d’anni fa si svolgeva a Buenos Aires una fiera del libro dedicata alla letteratura italiana. La Lombardia e il Lazio organizzarono la trasferta dei loro scrittori. Repubblica mandò un inviato al seguito. Un giorno mi arrivò una telefonata dall’ambasciatore italiano in Argentina: “Perché non è qui? Almeno lei ha dei libri tradotti”. Partii e tenni una conferenza davanti a 2000 persone. Andai nelle scuole, piene di figli d’immigrati che volevano sapere delle loro terre, Vicenza, Padova, Rovigo. Quando entravo nelle classi si alzavano in piedi e partiva l’inno di Mameli che tutti cantavano. Lo scrittore era uno di loro».

Cosa vuol dire che il rapporto col potere è più fragile?

«Ho sempre pensato che mi serviva un grande giornale e scrivo per La Stampa. Poi mi serviva un grande editore italiano e ho Garzanti, che ha pubblicato Pasolini, Mario Soldati, Carlo Emilio Gadda, Goffredo Parise. Avevo bisogno anche di un grande editore francese e ho avuto Gallimard, che ti rende uno scrittore di respiro mondiale. Poi ho avuto grandi editori in Unione sovietica e in America latina. Insomma, ho avuto tutto standomene qui. Per completarmi m’interessava l’esperienza politica. Volevo far fruttare la mia conoscenza del mondo della scuola, avendo insegnato a tutti i livelli. Ora abbiamo un ministro non laureato. Invece, è rimasto un desiderio incompiuto».

Questo è il suo secondo rimpianto.

«Per due volte mi candidarono a sinistra, ma il partito mi boicottò. Ci misi una pietra sopra. Nel 2006 tornarono alla carica: “Stavolta t’imponiamo. Vieni alla manifestazione con Flavio Zanonato, allora sindaco, e Piero Fassino”. Andai e fui presentato a Fassino come possibile candidato per il Senato. “Certo, mi venga a trovare a Roma”, incoraggiò. Dopo qualche tempo provai a contattare la sua segreteria, invano. Allora mi rivolsi a Veltroni che conoscevo da quand’era stato ministro dei Beni culturali. Dopo qualche giorno mi chiamò: “Fassino non ricorda di averti mai incontrato”. Seppi dopo che la candidata in Veneto per il Senato era Anna Maria Serafini, sua moglie».

Ha in progetto un nuovo romanzo?

«Non voglio fare l’errore di Alberto Moravia che alla fine scrisse un sacco di cose inutili. Vorrei pubblicare solo ciò che può restare».

Forse per Moravia scrivere era un modo per ingannare l’avvicinarsi della fine?

«Al contrario, è in me il terrore della morte. Perciò evito di fare cose mortali. Moravia era cinico anche di fronte alla propria fine. Mi raccontò che una volta in Sudamerica s’imbarcò su un piccolo aereo che doveva scavalcare una catena montuosa. L’aereo stentava a prender quota e le montagne si avvicinavano: “Pensai che è facile morire”, mi confidò. “E che cosa hai fatto?”, gli chiesi. “Una bella risata”. In quel momento, ho pensato che non sarei mai stato uno che ride davanti alla morte».

La Verità, 30 aprile 2017