«Sinistra progressista? No, difende lo status quo»

Dopo aver scelto di starsene defilato e di calmare l’astinenza dalla politica con qualche video omeopatico inviato ai destinatari della sua newsletter, ora Claudio Velardi è tornato in prima linea per dirigere Il Riformista. Un marchio che è anche il biglietto da visita dell’ex Lothar dalemiano che, da tempo, ha scelto posizioni più moderate.
Che cosa ti ha fatto abbandonare la tranquillità del buen retiro?
«La crisi evidente nella quale si è trovato Il Riformista dopo l’abbandono di Matteo Renzi e quello successivo del direttore Alessandro Barbano. Quando l’editore Alfredo Romeo, che insieme a me lo fondò nel 2002, mi ha chiamato al suo capezzale non potevo che accettare. Come sappiamo, fare un giornale è la cosa più bella del mondo. Ti svegli la mattina e pensi: oggi come e a chi posso rompere le scatole?».
Ottima definizione del giornalismo. Perché ti senti sollevato a non essere francese e non dover votare domani?
«Perché mi sembra un voto pesantemente condizionato da visioni estreme della politica che oggi non condivido. Nell’età matura tendo a vedere le sfumature, non appartengo ad alcuna tifoseria e cerco soluzioni di buon senso».
Per venire al dilemma francese?
«Soluzioni di buon senso in Francia non ne vedo perché Emmanuel Macron ha scelto di radicalizzare lo scontro. Forse non poteva fare diversamente, ma la forzatura di queste elezioni anticipate non giova a far maturare l’opinione pubblica nella maniera giusta. Perciò, mi sentirei in grande difficoltà: trovo che la polarizzazione che si sta producendo in Francia e altrove sia una caricatura infantile del bipolarismo».
In che senso?
«Sono i bambini che non sanno andare al di là del sì o del no perché non conoscono le sfumature e la complessità. Da adulti non possiamo ridurre lo scontro delle idee a “o di qua o di là”».
Domenica scorsa avresti votato per Renaissance di Macron?
«Sì, sebbene veda i limiti di questo centrismo elitario. Il problema di Macron, e di tanti moderati non solo in Francia, è di pensare di essere il sale della terra».
La parola più gettonata da quando c’è lui è «pedagogia».
«Un’altra espressione che si è un po’ persa era “le spinte gentili”. Capisco che, davanti a scelte difficili, bisogna un po’ accompagnare per mano le persone, ma senza fare i maestrini. Perché in quel caso la gente si ribella».
Macron chiede di votare France insoumise di Jean Luc Mélenchon per impedire che vinca il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella. Condivide?
«Non sono Macron, ma capisco che voglia garantirsi una gestione meno conflittuale possibile e quindi lavori perché non ci sia una maggioranza Le Pen, ma una situazione d’incertezza politica».
Questo gioverebbe al Paese?
«Nel sistema francese forse questo è il modo per cercare governabilità. Quanto giovi non lo so. Da un punto di vista più globale, quando scoppiano delle bolle e si manifestano eruttazioni sociali è bene che si misurino con il governo. Era il mio pensiero persino quando sono esplosi i 5 stelle, quanto di più lontano da me. È inutile creare barriere e trincee».
Anche se fermando i «barbari» si salva la democrazia?
«Sono motivazioni sbagliate. Se i “barbari” sono cresciuti, evidentemente la democrazia non ha dato risposte adeguate».
Democrazia è anche scegliere Rn?
«Certo che sì. La democrazia dev’essere in grado di assorbire le spinte antisistema. Altrimenti lo è solo quando i cittadini votano i buoni? Se la democrazia è in grado di assorbire la spinta antisistema deve contemplare la possibilità che governi. Anche perché quando queste forze si cimentano con le compatibilità di governo entrano di più nel gioco del sistema».
Anche la sinistra italiana, come quella radicale francese, coccola l’antisemitismo delle proteste giovanili e dei pride che respingono gli omosessuali ebrei.
«Nella sinistra italiana il fenomeno ha radici meno solide, è legato a mode politiche. Le organizzazioni che coinvolgono militanti Pro-Pal non sono del tutto consapevoli che portano dritti diritti all’antisemitismo».
Come spieghi che, invece, in Gran Bretagna dopo 14 anni di governo dei Tory hanno vinto i laburisti?
«Quando la sinistra riformista parla al centro dell’elettorato moderato, affronta i problemi dello sviluppo, non fa demagogia e non si rifugia nelle ideologie, vince».
Da noi si pensa di riprodurre il Fronte popolare. Cos’hai pensato vedendo la foto di Elly Schlein, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni e Giuseppe Conte sul palco di Bologna?
«Ho pietosamente sorriso. Che cosa vuoi fare, vedendo che tra il radicale Magi e il democristiano Conte, c’era il comunista Maurizio Acerbo che saluta la folla a pugno chiuso, se non sorridere pietosamente?».
Anche pensando ai precedenti?
«Che sono illuminanti. Con le grandi ammucchiate si può vincere alle urne, ma il giorno dopo si straperde al governo. È già successo e succederebbe ancora».
Perché anche in Italia, come in Francia, le classi deboli si spostano a destra?
«Malgrado il racconto che fa di sé stessa, la sinistra è la forza che nell’ultimo secolo ha vinto. Nel senso che ha contribuito a realizzare nei paesi occidentali una serie di conquiste sociali sul fronte del lavoro, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni e dei diritti civili…».
Ahimè.
«Ma l’esito di questa vittoria è che oggi difende la società esistente. Tutti coloro che ne sono esclusi, le sacche di emarginazione sociale, i nuovi poveri, gli immigrati delle periferie, i lavoratori non protetti e i rider, vanno a destra. Mentre i garantiti, dai professionisti ai docenti universitari fino ai pensionati, stanno a sinistra proprio perché difende gli equilibri attuali. C’è stata un’eterogenesi dei fini, un rovesciamento lessicale: oggi la sinistra difende lo status quo».
È un rovesciamento che subisce o capisce?
«Secondo me, fa finta di non capirlo. Concretamente, non potendo tutelare sia il pensionato che il rider, la sinistra sta con il pensionato perché gli interessi di quest’ultimo convergono su grande scala con i suoi».
Per questo alza lo sbarramento alle politiche di governo, tipo il premierato e l’autonomia differenziata?
«Si oppone a qualsiasi cosa mini lo status quo, compresa la riforma delle istituzioni che, in alcuni momenti di apertura e di espansione dopo vittorie elettorali, ha pensato di promuovere».
Vedi il programma di Achille Occhetto del 1994 e la proposta di Matteo Renzi.
«Oppure la bicamerale di Massimo D’Alema. Cioè, i rari momenti in cui la sinistra non si arrocca su posizioni conservatrici dell’esistente».
Adesso ci si prepara al referendum sull’autonomia differenziata. Sembra che i limiti riscontrati finora debbano bloccare qualsiasi iniziativa propulsiva.
«Penso che il referendum sia sbagliato perché non farebbe altro che accrescere la divisione culturale tra Nord e Sud, che è il fatto che più mi preoccupa. Inevitabilmente, la campagna sarebbe tra Nord produttivo e Sud assistito. Non farebbe bene a nessuno, soprattutto al Sud che, invece, secondo me deve far sentire il suo orgoglio, accettando la sfida dell’autonomia, rifiutando di essere etichettato come la parte del Paese che dipende dai fondi pubblici e non sa nemmeno utilizzarli bene. Questa sfida si raccoglie solo se si fa crescere una nuova classe dirigente che prende in mano la bandiera del Mezzogiorno per farlo crescere in autonomia».
Fuori dalle aule parlamentari, la strategia principale della sinistra è la delegittimazione dell’avversario, vedi l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale?
«La delegittimazione è l’involucro valoriale di questa strategia conservatrice. Quando chiami il tuo elettorato su posizioni conservatrici devi vestirle con un apparato simbolico molto forte. E cosa c’è di più forte del richiamo alla resistenza e all’antifascismo, i cosiddetti valori fondanti della Repubblica? Questa è l’operazione. Il conservatorismo strutturale e sociale di sinistra ha questa veste valoriale per far risultare nobile e imprescindibile la campagna intrapresa».
Per questo si susseguono gli
allarmi al fascismo e le abiure di Giorgia Meloni non bastano mai?
«Certo. Nel momento in cui si dicesse che la Meloni ha finalmente chiarito, crollerebbe il castello di carte e la sinistra si ritroverebbe a volto scoperto con il suo conservatorismo sociale e istituzionale».
Una sinistra che si propone come anti destra e boccia premierato, autonomia, persino il ponte sullo stretto, può definirsi progressista?
«È il contrario del progressismo che, per definizione, riguarda il cambiamento. Quando non vuoi nessun cambiamento non hai niente a che fare con il progressismo».
In conclusione, la sinistra sa perdere o, come la nostra Nazionale, anziché ammettere la sconfitta e ripartire da un bagno di umiltà, ripete che non si può lasciare campo libero alle destre come se il governo le spettasse per diritto divino?
«È la presunzione di considerarsi superiori agli altri sul piano dei principi e dei valori. O dici che perdi perché non sai giocare a calcio, oppure devi cercare altre ragioni. Se c’è sempre qualche nemico esterno che attenta alle ragioni del Bene puoi evitare la necessità di un ricalcolo e di fare i conti con i tuoi errori. E, anche se perdi, puoi raccontare al tuo popolo che la ragione è dalla tua parte».
Torniamo a Bertolt Brecht: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Certo, le sindromi sono sempre le stesse».
Per finire, considerando lo stato di salute di Macron in Francia e di Renzi e Calenda in Italia, qual è la diagnosi sul riformismo europeo?
«Non vive tempi buoni perché nello statuto del riformismo c’è il cambiamento. Mentre ora viviamo un momento di “dissonanza evolutiva”, come viene chiamata».
Ovvero?
«La grande trasformazione tecnologica in atto ci sopravanza. Gli esseri umani non stanno al passo del cambiamento che loro stessi hanno prodotto. Questo genera resistenze conservatrici sia a destra che a sinistra. Perciò, il riformismo, che invece è cambiamento, è obiettivamente minoritario. Se, poi, agisce per via tecnocratica o pedagogica, diventa ancor più minoritario. La vera scommessa è far diventare il riformismo popolare ed empatico».
In Italia l’impresa è nelle mani di Luigi Marattin ed Enrico Costa che hanno promosso un’iniziativa per scalzare i vecchi leader del Terzo polo.
«Il problema è enorme e si esprime a livello internazionale. C’è bisogno di personalità che sappiano tracciare un sentiero. Stiamo a vedere se saranno loro due le figure giuste per iniziare a farlo».

 

La Verità, 6 luglio 2024