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Il manifestival e l’obbligo di vedere i Måneskin

Le pagelle della terza serata del 73° Festival di Sanremo

Morandi Sangiovanni, il vintage che vince. Voto: 8

Sono il manifestival, manifesto + festival. Vedi alla voce intergenerazionalità. Sessant’anni (quasi) di differenza e non sentirli perché parlano la stessa lingua, quella della semplicità e della freschezza, e cantano la stessa musica, quella di Fatti (ri)mandare dalla mamma. Non ci sono blasoni e orgogli da difendere. Da uomo risolto, Morandi ha l’arte di mettersi sempre in gioco, Sangiovanni l’umiltà di riconoscere il maestro. E il momento revival scatena l’Ariston.

Måneskin, il trionfalismo fa autogol. Voto: 5

Salutandoli e promuovendo la loro tournée Amadeus ha scandito, testuale: «È impossibile non vedere i Måneskin». Ecco. L’enfasi. L’isteria collettiva. L’imperativo. L’obbligo sociale. Su Damiano e soci è in atto una guerra di religione. Vietato criticarli. Vietato dire che non sono i Led Zeppelin e che il glam rock l’hanno inventato David Bowie e i Roxy music. E che, al confronto, il loro rock e i loro look risultano plasticosi.

Paola Egonu, il vittimismo ingrato. Voto: 5

«L’Italia è razzista». Una ragazza che da un Paese ha avuto il successo, la Nazionale di volley, il cavalierato dal presidente della Repubblica e il palco di Sanremo (pagato dai soldi del canone) accusa quel Paese di essere razzista. E afferma di non volerci far crescere un figlio… Un sonoro moto di rabbia è il minimo. Misuriamo le parole. Controlliamo i pensieri. Nel monologo della serata modera un po’ i toni: siamo tutti uguali oltre le apparenze. Forse converrebbe contare fino a 10 prima di lanciarsi in battaglie più grandi di sé. Ed evitare di salire sulla giostra dei finti scoop azionata da giornalisti e media interessati a cavalcarli.

Gianluca Grignani, l’autocritica fa strada. Voto: 7

A un certo punto, mentre era ben oltre la metà della sua Quando ti manca il fiato ha alzato la mano, non è ancora chiaro se smadonnando, e fermato orchestra e coriste. Aveva dato indicazione di seguire una tonalità rivelatasi troppo alta. E gli è mancato il fiato, letteralmente. Colpa mia, ha detto. Si ricomincia da capo. Ammettere di aver sbagliato è segno di maturità. Appunti per Blanco.

Lazza, anche i rapper hanno un cuore. Voto: 7

Canta Cenere con voce potente. È primatista di durata al primo posto in classifica, ma non se la tira. Ha tatuaggi ovunque e veste in modo improbabile. Ma alla fine chiede il permesso di fare una cosa. E corre in platea a porgere i fiori a sua madre, «una persona speciale».

Striscia la notizia, disturbatori situazionisti. Voto: 8

Al comune di Sanremo, proprietario del marchio del Festival è arrivata l’offerta di una cordata per organizzare la gara canora il prossimo anno. Non è scritto da nessuna parte che sia un monopolio Rai. Lo rivela Pinuccio, l’inviato di Rai Scoglio 24. Il sindaco conferma che l’offerta sarà valutata. Non male come scossa. Un’altra più piccola la dà Enrico Lucci in conferenza stampa. «Invitate Giorgia Meloni alla serata finale? Ha già il vestito pronto. Verrebbe con Salvini e La Russa. Del resto, avete invitato Mattarella, Zelensky e tutti quanti…».

 

 

«Zelensky a Sanremo? Affronto alla democrazia»

Nella sua casa tra gli ulivi sopra Velletri, Aurelio Picca sta lavorando al nuovo romanzo. «Un libro coraggioso e audace, come sempre», dice. Del resto, coraggio e audacia gli appartengono, come conferma anche in questa intervista.

Ha visto la serie Call my agent?

«Ho visto qualcosa. C’era Pierfrancesco Favino che faceva Che Guevara. È un bravo caratterista…».

Perché secondo lei gli addetti ai lavori sono in estasi?

«Evidentemente amano questa autofiction, una finzione nella quale i protagonisti sono personaggi reali. Stefano Accorsi fa Accorsi, Paola Cortellesi fa sé stessa e così tutti gli altri. Sembra una duplicazione, una bolla narrativa. Siccome oggi la commedia prende un campo ristretto, come se non si potesse raccontare in modo comico la realtà, ci s’inventa questa escrescenza della commedia. Che, alla fine, è tragica. Il gioco dell’apparire che sostituisce l’incapacità a raccontare la realtà è, a suo modo, tragico».

La gente già va poco al cinema per non vedere i soliti attori, ora si appassiona all’ombelico del cinema, pur raccontato in modo brillante?

«Dovrebbe appassionarsi alle storie di questi grandi attori che fanno sempre più o meno la stessa parte? Qualche tempo fa, vedendo Il bambino nascosto di Roberto Andò, mi sono imbattuto in un Silvio Orlando inedito, un ruolo totalmente inaspettato. Se si esce dalla bolla, anche l’attore diventato seriale può sorprendere. Non così se si resta nella comitiva in gita dei produttori, nel giro dei casinò delle produzioni come mi sembra sia questa serie».

Il cinema sul cinema è l’ombelico del cinema?

«Nessuno rischia più sulle storie psicopatiche e apocalittiche, le storie dell’orrore e della fine del mondo. Che sono le storie della realtà. Nessuno racconta la fine del mondo antico mentre noi contemporanei camminiamo su una strettoia. Vorrei vedere un grande film sulla ricerca di assoluto. Con i teenager che non guardano la tv e puntano al sublime. Perché non alzare il tiro e provare a vedere come si abbracciano i ragazzi, come cercano l’assoluto, l’utopia?».

Il cinema è prigioniero dell’autoreferenzialità come la letteratura?

«Tutto è prigioniero, anche le arti visive, il teatro… Se proponessi al Franco Parenti ogni sera un monologo a canovaccio di 50 minuti come mi accoglierebbero? Si preferisce l’ennesima caricatura di Mussolini… Adesso va molto il rapimento di Emanuela Orlandi, rispolverano anche quello di Mirella Gregori… Su quello che accade oggi fanno la serie tra una settimana, e chi se ne frega del linguaggio cinematografico e della profondità. Vendiamo prodotti da supermercato. Anche nell’arte si privilegia la cronaca bassa».

Agenti, critici, premi, festival, cordate: tutto nello schema dell’amichettismo?

«Sì, ma niente formule però. Gli editori scelgono sempre al ribasso, autori da 500 parole. Finalmente si stanno rivalutando i provinciali, Luciano Bianciardi, Curzio Malaparte… Qualche anno fa se ne parlavi ti beccavi del fascista come successe a me. Il problema è nato con Italo Calvino che per pubblicare Una questione privata ha aspettato che Fenoglio fosse morto. Si è appiattita la letteratura sulla comunicazione…».

Ci si parla addosso, si rincorre la propria coda?

«Si è raschiato il fondo e non c’è più niente. Se anche nelle antologie scolastiche non ci sono gli autori importanti del Novecento ma quelli che hanno scritto due libri, è inevitabile che la scrittura si fermi a 1000 parole, quando va bene. Anche la scuola è motore di un meccanismo bloccato».

Questo ripiegamento è dettato dalla rivoluzione digitale?

«Viene dall’industria culturale degli anni Sessanta e Settanta che, in nome della rivoluzione, ha distrutto il romanzo. Era uno degli obiettivi della neoavanguardia perché alla rivoluzione non servivano i romanzi. L’esempio più pertinente – lo dico con molto rispetto perché sto parlando di un grande storico medievale e di un grande semiologo – è Umberto Eco. Anche lui ha lavorato per la distruzione del romanzo perché era un teorico della neoavanguardia, come il Gruppo ’63. Poi però ha fatto Il nome della rosa, il grande romanzo comunicativo che ha venduto milioni di copie».

L’autofiction e l’appiattimento sulla comunicazione vengono da lontano.

«Negli anni Novanta alcuni nuovi narratori e poeti hanno ricominciato, tentando di recuperare il romanzo come arte che inventa i mondi. Ma l’industria gioca al ribasso per accontentare il lettore dominato dai mass media e infarcito di comunicazione e informazione».

Ora questo processo è aggravato dai social network?

«È un processo inestricabile. La virtualità non ha allontanato o migliorato l’orrore della realtà, è proprio un altro modo di viverla. La virtualità ha decomposto i corpi, ormai incapaci di vera leggerezza e vera pesantezza. È tutto simulazione».

Il lavoro è postare dei selfie dal salotto di casa.

«Penso agli operai comunisti che si alzavano alle 4 del mattino per andare a lavorare e tornavano alla sera, orgogliosi. In pochi anni siamo passati dal lavoro con il corpo alla cancellazione del corpo».

Che però è molto esibito.

«Un corpo che si vede ma che non si incontra e non si tocca, non è un corpo, ma una sua proiezione. È la stessa differenza che passa tra fare l’amore sul serio e vedere pornografia in rete. La virtualità è tutta pornografia perché si vende una finzione di sensualità e di erotismo che non ha la controprova dell’incontro».

Perché Chiara Ferragni è attesa al Festival di Sanremo come una regina?

«Perché siamo stupidi. Sono convinto che la stragrande maggioranza degli italiani guardi queste cose ma ci rida su, come in una commedia. Purtroppo, nella realtà siamo soffocati dall’orrore per il cinismo montante, la disumanità nei rapporti, l’incapacità di parlarci».

Cosa pensa del fatto che Ferragni ha annunciato di devolvere il cachet del Festival a un’associazione per la difesa delle donne?

«È detestabile che si annunci pubblicamente la beneficenza per accrescere la propria immagine».

Sono le regole della comunicazione?

«Ovviamente, i soldi si devolvono alle donne. Ormai, anche la donna fragile è un cliché esibizionista. Siamo nel post-femminismo dell’esibizione. Perché le donne devono combattere da sole e non insieme agli uomini? La donna fragile è un nuovo stadio dell’evoluzione della specie».

La notizia delle griffe scelte da Ferragni per l’Ariston è stata data al Tg1.

«Siamo in una fase di deragliamento che temo incontrollabile. O c’è un’intenzione precisa per non parlare dell’apocalisse che si avvicina, oppure la visibilità è diventata scientificamente il nuovo idolo e quindi è ancora più folle. Come in una commedia dell’assurdo di Ionesco».

Sempre al crocevia tra moda e spettacolo, che adesso si chiamano fashion e show, cosa pensa del fatto che per promuovere il nuovo disco i Måneskin hanno simulato un matrimonio?

«Io credo nel matrimonio assoluto, i giochetti non li apprezzo. Quando facevano i baffi alla Gioconda m’incazzavo. Adesso trovo irritante quella pubblicità con l’Ultima cena nella quale Gesù è una mezza femminuccia. Non accetto che una grande cultura sia spazzata via in un gioco di barzellette».

Ma nel rock si è sempre dissacrato…

«Certo, ma qui l’operazione è sottile. Prendiamo queste parole, glamour, fashion, show… Il problema non è che siano declinate in inglese, che è già grave, ma che il loro scintillio annulla la potenza del corpo, la sua realtà».

Lo scintillio sostituisce la carne?

«Esattamente, anche nella malattia o nella sanità. Sostituisce la corporeità in tutte le sue manifestazioni».

È il trionfo dell’immagine?

«Siamo oltre l’immagine, siamo alle ombre cinesi. L’immagine erano anche quelle degli anni Settanta, c’erano le icone… Questa è la frutta caricata di potassio, la carne chimica…».

La barzelletta compensa i limiti artistici?

«Questo non lo so, anche se non trovo grande musica. Lo dico da appassionato di Peter Gabriel, da uno che a 14 anni amava Jumpin’ Jack Flash, tutta la musica italiana anni Sessanta, e poi il travestitismo che però aveva sotto il corpo, dai Roxy Music a Lou Reed a David Bowie. La nudità di Iggy Pop era funzionale alla musica, il corpo era uno strumento, anzi, lo strumento principale».

Perché i Måneskin non si possono criticare?

«Perché sono il punto più alto della vendibilità, della vendibilità facile».

Quest’anno tornano a Sanremo per la terza volta, invece Achille Lauro sarà presente per il quinto anno di fila. È lui il volto identitario della manifestazione più importante della Rai?

«Alcuni suoi pezzi potevano pure piacermi… Il fatto è che si va per annate, ci sono pure Al Bano, Massimo Ranieri e il solito Gianni Morandi».

Questioni di audience e di target?

«Certo. I Måneskin e Achille Lauro sono la pseudo avanguardia, in realtà sono retroguardia perché la trasgressione c’è già stata negli anni Settanta. Poi ci sono i vecchi dromedari e la terra di mezzo. È una parcellizzazione in tante minoranze, come avviene per i diritti civili, dei gay, dei trans, delle donne… La parcellizzazione dei diritti sembra un’avanzata di civiltà, invece produce frammentazione in tante minoranze».

Che cosa indica il fatto che alle ultime sfilate Giorgio Armani ha scelto di tornare al classico facendo indossare i suoi capi a coppie composte da un uomo e una donna?

«È stato un gran signore. Il portabandiera di una nuova avanguardia che si oppone a questa deriva. Da stilista ha dato prova di stile. Anzi, di eleganza: c’è differenza… L’eleganza è naturale, lo stile si acquisisce con gli abiti e il portamento. I veri eleganti sono i bambini e gli animali, perché si muovono con grazia e libertà. Armani ha smesso i panni dello stilista e ha indossato quelli dell’uomo elegante».

Che cosa pensa del fatto che Volodymyr Zelensky sarà ospite in videocollegamento della serata finale del Festival?

«È un’idea pessima. Un una mossa da croupier del casinò. Una politicizzazione estrema».

La maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina eppure si offre a Zelensky la vetrina di maggior ascolto della televisione italiana.

«Infatti, è un affronto alla democrazia. Un inedito. Qualcosa che sa di dittatura mediatica».

I Giganti cantavano: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», stavolta si mettono i cannoni tra i fiori di Sanremo.

«C’è bisogno della guerra tra le canzonette? La decomposizione dei corpi, l’assenza di incontro tra le persone, la vittoria delle ombre cinesi e la parcellizzazione dei diritti non sono già una guerra?».

 

La Verità, 28 gennaio 2023

 

«Il suicidio di mio padre mi ha trasformato in filosofo»

Concerti, dischi, whatsapp con il premier Giorgia Meloni, apparizioni tv con vista sul ministero della Cultura… Tra cento cose che fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, è riuscito a scrivere anche un libro di poesie: Parole d’aMorgan (Baldini+Castoldi). Per Vittorio Sgarbi è addirittura «il Carmelo bene di oggi». Intervistarlo vuol dire disporsi a qualche acrobazia. Ma ne vale la pena.

Si sente davvero il nuovo Carmelo Bene?

«Il paragone è oltremodo lusinghiero perché Carmelo Bene è l’ultima vera grande rockstar italiana. L’ultimo grande intellettuale dissidente, non allineato, antisistema. Un tesoro incompreso, se non da una ristretta cerchia. Oggi non è neanche pensabile un nuovo Carmelo Bene. Io sono molto meno controverso e trasgressivo, molto meno fuori di testa. Sgarbi fa questo paragone per scuotere il conformismo di questa Italia pavida. Per far capire che ci vogliono coraggio e audacia».

A lei non mancano. Ha appena pubblicato un altro libro di poesia: i cantautori sono poeti?

«No, assolutamente. La canzone e la poesia sono diverse in tutto. Il cantautore ha per la parola lo stesso interesse che ha per la musica. Oggi la canzone è ovunque, in ogni momento. Questo vuol dire che chi fa canzoni è il panettiere dell’anima perché il nutrimento che dà è come quello che il pane dà al corpo. Il poeta è più puro, non è mondano, non si mescola, si isola. Invece il cantautore è il medium tra generazioni ed epoche diverse. Per lui le folle scendono ancora in piazza: non lo fanno per la politica, ma per i concerti».

Quando ha capito di essere un poeta?

«Non l’ho capito. Non dico di me di essere un poeta perché è una parola troppo bella, devono dirlo gli altri. Sono uno che scrive, un compositore di parole, un verbale. Se lei dice che sono un poeta… lo dice lei».

I versi che leggiamo in Parole d’aMorgan riposavano in qualche cassetto o sono stati scritti apposta?

«Sono versi vivi, attuali, alcuni infilati all’ultimo momento. In quella storia, c’è dentro la mia vita, la vita del mio cuore e della mia mente».

Versi composti per l’occasione?

«No, perché non scrivo su commissione. Questo lo fa chi programma l’uscita di un disco, o di un libro, a priori, non quando ci sono le canzoni pronte, non quando si ha qualcosa da dire. Così escono un sacco di dischi senza che se ne avverta una reale urgenza. L’arte va coniugata con la spontaneità».

E con l’ispirazione?

«Per quanto mi riguarda, sono sempre ispirato. Da Franco Battiato in poi, uno dei miei tanti padri, l’ispirazione è la nostra vita. Se sei così riesci a trasformare l’arte in un lavoro. Ti alzi al mattino e vai allo strumento. Nella quotidianità c’è l’ispirazione. Ovviamente, va allenata…».

Cosa vuol dire, come scrive: «Il mio amore è volontario»?

«Ci sono due tipi di sentimenti che chiamiamo amore: il desiderio e l’edificazione longeva di un rapporto. Il desiderio prima o poi cala, ma si è capaci di amare se si vive di amore volontario. Quello che si ha per i figli, o per noi stessi e per le promesse che abbiamo fatto. L’amore volontario è anche compatibile con la possibilità di innamorarsi di nuovo perché l’innamoramento non è l’amore. “Il mio amore è volontario” significa che può esser vissuto anche come scelta dopo che l’innamoramento ha fatto il suo corso».

Insomma, il «per sempre» è morto.

«Per me, nel tradimento ciò che distrugge davvero è la menzogna, non il rapporto sessuale extraconiugale. Che invece è tollerabile se non è accompagnato dalla menzogna».

Mmmh, non sono convintissimo.

«Una volta esaurito il tempo dell’innamoramento e del desiderio, alcune persone si eccitano nella fantasia immaginando il proprio partner con un’altra persona. Questo fa sublimare anche la gelosia, altro elemento distruttivo. Concordo: l’amore come scelta volontaria è indistruttibile. È questo il per sempre che dice lei. Personalmente, mi sono trovato spesso con donne che non sono state in grado di rinunciare ai loro cambiamenti d’umore: “La donna è mobile qual piuma al vento”».

Cosa vuol dire che il senso della vita è «somigliare alla morte»?

«Intendo la compresenza, in vita, della morte nelle sue diverse declinazioni. La morte della passione, di un sogno… La distruzione della mia casa-laboratorio è stata una morte. Anche dall’abbandono si possono trovare energie. In vita si vivono tante morti e si può uscirne rafforzati. Ci sono morti che generano vita. Il letame non piace, però genera vita».

La sua è una poesia nichilista?

«No. È una poesia grafo-linguistica, innanzitutto».

Cosa vuol dire?

«Che è una poesia che si legge e si guarda, anche. E non può essere nichilista perché afferma la vita».

In quello che fa s’intuisce fame di vita.

«Sento di morire di vita».

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi sono dei tutor, degli agenti, degli amici?

«Sono un fortunato accadimento della storia. La famiglia Sgarbi è un seme prolifico, una zona fertile della società, una meravigliosa conoscenza che è diventata amicizia. La prima è stata Elisabetta, presentata da Franco Battiato non certo come donna di potere. Era un’editor di Bompiani per la quale avevo pubblicato Dissoluzione, il primo libro di poesie. Vittorio lo conobbi perché venne a presentarlo, non sapeva chi fossero i Bluvertigo».

È una sorta di nuovo padre come lo è stato Franco Battiato?

«Ho avuto molti padri perché ho perso quello biologico da adolescente, quando se ne ha più bisogno e ti insegna a stare nel mondo. Sì, Sgarbi è una figura paterna, come Battiato. E parecchi altri, da Adriano Celentano che nel 2010, dopo che mi avevano escluso dal Festival di Sanremo, m’invitò a vederlo a casa sua. E qualche anno fa si è commosso quando andai ospite di Adrian su Canale 5 e gli dedicai Conto su di te, un brano che mi cantava mio padre. Poi Mauro Pagani, il primo di tutti, Franco Mussida, Massimo Ranieri, Sergio Staino del premio Tenco, Dominique degli Esposti, grandissimo genio figurativo… Tutta gente di 20 o 30 anni più vecchia di me. Tutti miei padri putativi».

Quello vero?

«Aveva difficoltà economiche che non voleva rivelare alla famiglia per non ammettere che non ce l’aveva fatta. Era pieno di debiti e non ha più retto questa maschera. Che però, con me, aveva già tolto. Io suonavo nei piano bar per guadagnarmi qualche lira e così gli davo del denaro che fingeva di aver guadagnato lui. Avevamo questa complicità segreta. Finché una notte mi ha infilato un centomila in un tubo dei negativi delle foto: “Ti restituisco quello che posso. Così non potrai dire che non ti ho reso quello che mi hai dato”. Il giorno dopo si è tolto la vita».

Cosa fa un ragazzo a 15 anni quando il padre si ammazza?

«Diventa un filosofo, perché nella sua testa cresce la domanda che si fanno i filosofi: perché, che senso ha tutto? I filosofi domandano, i teologi ascoltano. La mia filosofia, le mie domande, nascono nello scontro con il padre, che è l’istituzione, la regola, la giustizia, la patria. Se chi ti segna e ti precede implode attraverso un atto come il suicidio, tutto il sistema entra in discussione».

E quindi?

«Ho iniziato a coltivare la conoscenza insieme al bisogno di mantenere la famiglia. Ho fatto di necessità virtù, ho cercato di guadagnarmi il pane con il mio talento. Già a sei anni avevo iniziato ad abbozzare delle canzoni, quasi prima di imparare a scrivere. Al liceo andavo nei locali e tornavo al mattino per andare a dormire sul banco. Poi ho cominciato a coinvolgere i miei amici e a costruire le band, gli mettevo in mano gli strumenti: tu suoni la chitarra, tu la batteria… siamo una band. Al liceo mi hanno bocciato, ma ho venduto per strada i primi finti album, cassette amatoriali. Una è finita in mano a un produttore e a 16 anni ho avuto il primo contratto con una major discografica».

Che fine ha fatto l’idea di collaborare con il ministero della Cultura?

«A giudicare da quello che succede nella chat creata da Sgarbi, la gente vorrebbe il mio coinvolgimento».

Però il ministro Gennaro Sangiuliano ha nominato come suo personale consigliere per la musica il direttore d’orchestra Beatrice Venezi.

«Il ministro Sangiuliano si sta circondando di persone valide. Appena ho saputo della nomina di Beatrice Venezi le ho mandato un messaggio di congratulazioni e di auguri, offrendo la mia massima disponibilità a collaborare. Abbiamo già lavorato insieme e lo faremo ancora, per esempio a Taormina. Sono a disposizione per offrire la mia competenza al Paese, non chiedo niente. Se il ministro e il premier devono dare degli incarichi, a chiunque, me compreso, lo facciano in base a criteri di merito e non di riconoscenza».

Quindi non si sente fuori gioco?

«Ci sono tanti spazi, tanti ruoli. Il ministero si divide in tre grandi settori con altrettanti sottosegretari. Quello che si occupa di musica è un grande manager e un importante uomo di potere. Spero lo usi bene. Io vorrei dedicarmi alla tutela degli artisti, per rendere più produttivo il lavoro dei cantanti, dei cantautori, dei compositori, degli uomini d’arte. Sgarbi si occupa di tutelare le opere del passato e portarle nel presente. Io vorrei valorizzare le persone e le creazioni del presente per portarle nel futuro. Vorrei aiutare gli artisti vivi».

Il nuovo Carmelo Bene è troppo anarchico per stare dietro una scrivania in via del Collegio romano?

«L’uomo di cultura spende la vita a comprendere e perseguire la libertà. Libertà dell’uomo non libertà in senso astratto. Tutta la cultura, persino la canzone, scaturisce dalla cultura anarchica, dall’impegno politico e intellettuale contro i regimi. Basta pensare a Giuseppe Verdi e al suo Va’ pensiero che è una proto-canzone. O a Ulisse Barbieri che fu incarcerato a 16 anni dal regime austroungarico e quando uscì, quattro anni dopo, iniziò a scrivere canzoni».

Quale sarebbe il suo primo atto?

«Metterei la musica nel Codice delle belle arti che è stato aggiornato l’ultima volta nel 2004. Sarebbe utile per tutelare i teatri, incentivare la produzione, proteggere gli strumenti musicali come beni artistici. Poi bisognerebbe restaurare i nastri originali delle canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta che si stanno deteriorando».

Avrebbe molto da fare…

«Soprattutto non voglio far politica, ma spettacolo. Con un’attenzione particolare a ciò che va in onda nel servizio pubblico. Ma temo che il mio linguaggio divulgativo non sia amato dai dirigenti di questa televisione, a mio avviso troppo concentrata sugli ascolti».

Un incarico al ministero dovrebbe darle un ruolo più ecumenico?

«Sono abituato a misurarmi con ciò che conosco, non amo debordare. Mi basterebbe un ruolo relativo alla musica in televisione».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«A un grande concerto per il 23 dicembre, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Parteciperanno tanti cantautori e amici come Gianna Nannini, Renato Zero, Subsonica, Vibrazioni, Carmen Consoli, Daniele Silvestri, Michele Bravi e molti altri. Spero che un evento così possa interessare anche il direttore dell’Intrattenimento Rai, Stefano Coletta».

Com’è stato tornare a X-Factor, dall’altra parte del palco?

«Mi sono sentito a casa. Sul palco sto meglio che sul banco dei giudici».

Ha fatto pace con Sky?

«Non gli ho mai fatto guerra. Anche perché in questi anni, dopo X-Factor, ho fatto tante cose con Sky Arte».

Che cos’è la contemporaneità?

«Da musicista è creare ordine nel caos, un compito quasi da medico della musica. Riuscire a dare armonia al rumore che è la musica contemporanea».

Dal punto di vista estetico, contemporaneità non sarà cantare bistrati di rossetto?

«Effettivamente a X-Factor ho dato una mano di rosso di troppo. Dico la verità: spesso riguardandomi non mi accetto».

Complimenti per l’autocritica. Pare anche a lei che si esaltino fenomeni musicali più per il look che per i contenuti senza che in giro ci sia David Bowie.

«Non è il mio caso. Cerco di mantenere un certo equilibrio, consapevole che andare in scena è teatro».

Non è il suo caso, ma…

«Vogliamo parlare dei Maneskin? Hanno un sound strepitoso, che giustifica i loro pizzi e merletti».

M’inchino al suo magistero, ma a me sembra sound campionato.

«Se li confronta con la condizione miserrima del sound italiano contemporaneo i Maneskin sembrano i Creedence Clearwater Revival».

Con Giorgia Meloni dialogate ancora su whatsapp?

«Ogni tanto sì, la lascio libera perché immagino la pressione… Abbiamo in comune la passione per la storia politica. Ogni tanto c’è qualche scambio…».

Ce ne rivela uno?

«Siccome Macron usava tre aggettivi come si fa in poesia dicendo che gli italiani sono irresponsabili, cinici e vomitevoli, le ho suggerito di rispondergli in versi. Per dire che Francia e Italia si amarono e ora non si amano più. Ma noi chiediamo rispetto perché da noi i francesi hanno imparato la bellezza. Perciò, offendendo noi, offendono sé stessi e questo non piace a Dio: “Chiare, fresche et dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”…».

Crede che questo governo abbia sbagliato qualche mossa?

«Mi perdona se evito di parlare di politica».

La perdono, ma sui rave party poteva essere più preciso?

«Il provvedimento è così vago che sembra quasi non riguardare i rave. Serve più precisione. Innanzitutto i rave sono ambiti di diffusione musicale, perciò si dovrebbe partire dalla qualità della musica. Che può essere inquinamento acustico o piacere per le orecchie».

A proposito di rumore.

«Spesso fanno musica d’avanguardia. Però non dovrebbero essere clandestini o marginali. Invece quasi sempre la diffondono in modo disturbante, disfunzionale, disarmonico».

Dovrebbero essere razionalizzati?

«Dovrebbero essere considerati e gestiti come dei concerti. Perché la loro musica elettronica non è meno importante della classica».

Al governo c’è bisogno di qualche consigliere per la comunicazione?

«La destra è un po’ naif perché non è abituata a gestire grandi livelli di potere. Questo ha conseguenze positive e negative. Positive perché predispone a un atteggiamento di apertura, negative perché prelude a qualche ingenuità».

Quindi la risposta è sì?

«Credo di sì, che ci sia bisogno di qualche buon comunicatore. Ma si può imparare dal percorso di Giorgia Meloni che, invece, è una grande comunicatrice».

In Italia è più conformista la politica o la musica?

«La musica. In Italia domina la paura, per questo le canzoni sono costruite sempre sui soliti quattro accordi del giro di do. Come tu li metti, si tratta sempre di accordi tonali che già negli anni Quaranta sarebbero stati banali. Il Trio Lescano faceva canzoni più audaci di Ligabue».

Che fine ha fatto la casa gialla?

«È un meraviglioso libro che so stanno studiando al ministero. Lo avevo proposto sia ad Alberto Bonisoli che a Dario Franceschini: invano. Lì dentro ci sono le mie idee sulla tutela degli artisti vivi…».

Parlavo della casa-laboratorio come luogo fisico.

«È ancora disabitata. È stata sventrata e svuotata del suo contenuto che, ricordo, era incastonato nei muri… Pensi alla fretta di sbattere fuori una famiglia con una madre incinta e, a distanza di tre anni, non ci vive ancora nessuno».

Ora dove vive?

«In una casa in affitto dove non ci stanno i miei strumenti per lo studio che sto tentando di ricostruire».

Le manca solo riconciliarsi con Bugo?

«Prima che lo demoliscano potrei fare a San Siro la reunion con Bugo. A ingresso gratuito e al grido di Le brutte intenzioni, la maleducazione, la disobbedienza (titolo della canzone di Sanremo ndr). Così, finalmente, ci si renderà conto che lo stadio non va abbattuto. Ah ah ah».

 

La Verità, 19 novembre 2022

«A Sanremo dirige chi ha imparato al computer»

Gianni Morandi, Renato Zero, Enzo Jannacci, Paolo Conte, Nada, Riccardo Cocciante: sono solo alcune delle star per le quali Mimma Gaspari ha lavorato. Come press agent, autrice, consulente per l’immagine… Insomma, è stata la consigliera dei grandi della musica italiana. Dopo Penso che un «mondo» così non ritorni mai più, sempre per Baldini+Castoldi ha appena pubblicato La musica è cambiata?! Dite la vostra che io ho detto la mia, quasi seicento pagine di ritratti, aneddoti, interviste.

Le è piaciuto il Festival di Sanremo?

«A tratti sì. Alcune canzoni mi sono piaciute molto. Mi è piaciuta Drusilla Foer. E poi, ovviamente Gianni Morandi, la più bella voce italiana; la seconda è quella di Blanco».

Complessivamente, da 0 a 10?

«Darei un sette e mezzo, anche otto».

Il merito principale di Amadeus è stato mescolare generazioni musicali diverse?

«Direi di sì. Però, non ho capito se sceglie da solo le canzoni, con l’aiuto di Gianmarco Mazzi o di una commissione. In passato c’era una commissione, mi chiedo se sarebbe meglio che ci fosse ancora».

Perché questa domanda?

«Parlando in questi giorni con Pippo Baudo, mi raccontava che ai suoi tempi, dopo un’iniziale scrematura, una commissione sceglieva un certo numero di canzoni da mandare al Festival. Gianni Ravera voleva avere nel cassetto sempre sette o otto pezzi forti».

Sta dicendo che la selezione di questo Festival era modesta?

«No, il pregio di Amadeus è avere mescolato. Ma Sanremo deve avere grandi canzoni, come per esempio Brividi. In passato c’erano interpreti come Riccardo Cocciante, Renato Zero… Quando nel 1968 Sergio Endrigo vinse con Canzone per te si rammaricò: <Era meglio se arrivavo secondo>».

Ha avuto anche lei la sensazione che l’esibizione di Cesare Cremonini fosse una spanna sopra quelle di molti concorrenti?

«Senz’altro. Cremonini è bravissimo, è un animale da palcoscenico, ha bei testi. Ma io sono bolognese e dunque di parte. Morandi, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Luca Carboni, gli Stadio, Ligabue, anche Samuele Bersani, che è di Cattolica… diciamo che la scuola emiliano-romagnola ha dato molto alla canzone italiana».

Lei è stata vicina a star come Renato Zero, Conte e Morandi, ma nel suo libro parla con competenza di Salmo, Marracash, Rkomi, Achille Lauro… Perché è così interessata al rap e alla trap?

«La curiosità per la musica non muore mai. Voglio capire perché questi rapper hanno tanto successo».

E come si risponde?

«Ancora non l’ho capito bene. Ci sono situazioni diverse. Per esempio, Blanco ha una voce eccezionale. Alcuni testi sono interessanti, ma è molto difficile cantarli, mentre Poesia di Cocciante la canto anche ora dopo 50 anni».

Quindi non si spiega il successo del rap?

«Ai giovani piace molto questo genere, ma non sanno chi sono Lucio Battisti e Adriano Celentano. I ragazzi di oggi sono insicuri, déracinés, sradicati. Perciò si riconoscono in questi “fiumi di parole”. Dove si trovano bei testi come L’Albatro di Marracash, che però è incantabile. Forse è musica da ascolto».

Da ascolto?

«La indie e la trap più del rap».

Tornando alla domanda del libro che accompagna con il punto interrogativo e con quello esclamativo, la musica è cambiata in meglio o in peggio?

«Probabilmente in peggio, non poter cantare le canzoni è un grande difetto. I rapper cantano troppo velocemente».

Come si fa a cantare un rap sotto la doccia?

«Impossibile, per questo dico che è musica da ascolto».

Come il jazz o Ludovico Einaudi?

«Non ascolto nel senso classico. A volte il rap ha testi pesanti, come Suicidio di Faust’O, difficile da cantare per noi adulti».

Ecco, per gli adulti è più difficile il salto dalla canzone classica al rap o quello dal mondo analogico al digitale?

«Domandona. Ormai si è obbligati a diventare digitali, almeno un po’. Entrare nella metrica rap invece è facoltativo e facciamo più fatica perché abbiamo sentito tanta musica importante. Invece, i rapper non conoscono Quando finisce un amore di Cocciante, per dire. Per questo nel libro ho suggerito 250 canzoni da ascoltare prima di lanciarsi come autori».

Condivide il tifo della critica per Mahmood e Blanco?

«Non sono una giornalista, ma condivido. Certo, preferisco Morandi, però Mahmood e Blanco sono affascinanti ed esprimono una fusione molto forte».

È davvero la migliore canzone di questo Festival o piace perché contiene altri messaggi?

«Può darsi, ma non ne sono sicura. In questo Festival ne abbiamo visti parecchi di questi messaggi. Avrei scelto canzoni più propriamente italiane, forse non ce n’erano abbastanza. Ma non voglio giudicare chi sceglie le canzoni. Non mi hanno mai coinvolto nella selezione del Festival, anche se me ne intendo, lo dico senza falsa modestia».

Nel 2019 la giuria di qualità sovvertì l’esito del televoto che aveva scelto Ultimo facendo vincere Mahmood.

«Ultimo aveva ottenuto il 49% dei voti, Mahmood il 15%».

In una prospettiva generazionale, il televoto premia sempre i concorrenti più giovani?

«È anche una delle mie curiosità: il televoto si concentrerà sui rapper?».

Perché l’hip hop nato nei ghetti neri ora, diventato urban, conquista un palco nazionalpopolare come l’Ariston?

«Il gangsta rap è espressione della protesta dei neri contro i bianchi, tanto che i neri si arrabbiarono parecchio quando Eminem se ne impadronì. Adesso il rap è diventato un ritmo più che l’espressione di una protesta antirazzista».

Non sarà anche perché i rapper italiani sono sensibili alle sirene del mercato e dei media?

«Molti si affermano perché si postano su Spotify e vengono segnalati alle case discografiche. È un sistema per sfondare molto diverso da quello di una volta. Oggi le canzoni sono meno verificate».

Fedez, J-Ax, Sfera Ebbasta nati nei centri sociali sono diventati fenomeni mediatici.

«A 51 anni J-Ax è considerato lo zio del rap. Dai centri sociali alle prime serate tv il salto è vertiginoso. Molti di questi ragazzi sono figli di operai che arrivano dal sud. Studiano informatica, ma quasi nessuno finisce la scuola. Con i social la strada per il successo è più breve».

Sbaglio o Achille Lauro è uno di quelli che le piace meno?

«Non sbaglia. Ho lavorato dieci anni con Renato Zero che è sempre stato molto scenografico. Mi diceva: “Non penseranno che ho copiato David Bowie… Ho cominciato prima di lui”. Soffriva perché non superava mai il provino per andare in televisione. Prima o poi mi chiamerete per fargli fare dieci sabati sera, dicevo ai capi della Rai. Infatti. A differenza di Renato che scriveva sempre grandi testi, Lauro fa passare canzoni modeste attraverso la messa in scena».

Prevalgono l’immagine e il glamour sulla qualità della musica?

«A volte mi sono occupata anche dell’immagine. Ai tempi di Il cuore è uno zingaro, copiandolo da Via col vento, suggerii a Nada un vestito bianco che andò su molte copertine. L’immagine deve aiutare la canzone, non sovrapporsi».

Cosa pensa dei Måneskin?

«Li trovo bravissimi, Coraline dimostra che sanno fare anche canzoni diverse».

Ritiene giustificata questa estasi diffusa?

«Mi chiedo perché hanno successo in tutto il mondo. Forse non sono il vero rock, ma in Italia è tanto che non c’è un vero gruppo rock e loro riempiono questo vuoto».

Un tempo il successo di un artista si costruiva in anni di studio e con il lavoro di produttori, autori, arrangiatori, discografici: oggi?

«Oggi più che costruire ci si posta. Se va va, se no pazienza».

I followers sui social hanno preso il posto di casting e provini?

«Morandi ha 2 milioni di followers, ma sono persone che lo amano. Io ho fatto tanti provini alla Rca con produttori, musicisti e arrangiatori, era un lavoro d’équipe. Se non si era tutti d’accordo, la canzone non passava».

Che cosa ha pensato quando ha visto Francesca Michielin dirigere l’orchestra del Festival?

«Non ho ben capito come mai fosse in grado di farlo. Io ho studiato tre anni pianoforte, ma poi ho smesso perché non me la sentivo. Mi chiedo se abbia seguito dei corsi di composizione o di direzione d’orchestra».

Consegnarle il podio di Sanremo squalifica il ruolo dei direttori e legittima la presunzione dei millennial?

«Ho sentito Enrico Melozzi, il direttore d’orchestra dei Måneskin, dire che ha imparato studiando su internet. S’impara a dirigere con il computer».

Con dei tutorial?

«Forse. Il direttore dei Måneskin ha fatto tante direzioni, so che suona anche il violoncello. Io ho sempre sognato di suonare, vedo che tanti ci riescono, ma a volte mi sembrano dei miracoli».

Che ricordo ha di Ennio Morricone conosciuto alla Rca?

«È uno degli uomini più adorabili che ho incontrato».

Parlando di umiltà e applicazione…

«Lo incontravo al bar della Rca, dove passavano musicisti, autori, artisti. Lui aveva ascoltato la mia traduzione di Exodus e mi chiese: “Signorina, sarebbe disposta a fare una canzone con me?”. Pensavo di sognare, era il 1966. Mi precipitai e insieme scrivemmo Occhio per occhio che fu portata al Cantagiro da Maurizio Graf».

Ha visto il documentario che gli ha dedicato Giuseppe Tornatore?

«Ancora no. È rimasto solo due giorni, ma appena tornerà al cinema andrò di sicuro a vederlo».

Ha mai tentato di convincere Paolo Conte a partecipare a Sanremo?

«Impossibile. Però Conte ha scritto per altri. Azzurro l’aveva scritta da solo, ma poi fu Vito Pallavicini a farla cantare a Celentano. Il Clan era molto selettivo nella scelta delle canzoni. Pallavicini andò con un registratore Geloso a farla ascoltare ad Adriano attraverso la finestra aperta mentre faceva la doccia».

Tra i tanti con i quali ha collaborato a chi è più affezionata e perché?

«Ero diventata grande amica di Jannacci. Un po’ perché parlavamo in dollari…».

In che senso?

«I dirigenti della Rca la ritenevano una gag, ma io li convinsi a pubblicare Vengo anch’io. Vendette 600.000 copie e Jannacci diventò ricco. Così quando gli telefonavo mi diceva: “Parliamo in dollari?”».

Con Conte che rapporto ha?

«Affettuoso. Mi chiama la dama en bleu marine, alla sua maniera. Ci scriviamo e  telefoniamo ancora».

Tre canzoni che porterebbe in un’isola deserta?

«Vieni via con me, Un mondo d’amore e Vengo anch’io».

E l’artista con cui conversare per ingannare le lunghe giornate?

«Con Morandi, anche lui bolognese, mi sembrerebbe di tornare alle origini».

 

La Verità, 6 febbraio 2022

Saviano, Lauro, Morandi e il puzzle dell’Ariston

Adesso le caselle sono tutte piene, i tasselli sono tutti occupati. L’ultimo ancora vuoto era quello sotto l’insegna Impegno civile. Ma con l’annuncio di ieri di Amadeus, il cartellone è completato: «A trent’anni dalla strage di Capaci, ricorderemo questo evento con Roberto Saviano, sono felice e onorato della sua presenza». Parole scolpite e ribadite per i distratti, senza lesinare l’enfasi: «Saviano a Sanremo, accadrà nella sera di giovedì», fruscio in sottofondo di mani che si sfregano.

La fantasia è quella che è. Mancando Roberto Benigni e non riuscendo a convincere Greta Thunberg, non restava che la spalla di Fabio Fazio. Ciò che conta è il tabellone finito, il puzzle terminato. Il Festival di Sanremo è un grande gioco di società, con tante caselle da colorare una per una. Si canta, si balla, si esibiscono lustrini e pailettes, si gioca e si trasgredisce sui generi non solo musicali, ma alla fine i conti devono tornare anche in assenza di Tim, il main sponsor che grazie alla creatività di Luca Josi, direttore brand strategy, e alla versatilità di Mina, aveva punteggiato con leggerezza le ultime edizioni.

E devono tornare pure gli ascolti – ne sapremo qualcosa già stamattina – per sfatare la maledizione che un anno fa, dopo le accuse di flop all’edizione in corso senza pubblico, il talismano Fiorello inviò ai futuri conduttori del 2022: «Dovrà essere un festival pieno di gente, ma deve andare malissimo. Ma male, male, male. Ve lo auguro con tutto il cuore», sbottò allora lo showman. Grazie a Dio presente anche quest’anno in quota Unodinoi (insieme a lui anche Sabrina Ferilli).

Dunque, eccoci con la pila dei manuali di marketing sulla scrivania della direzione artistica per comporre il mosaico e rastrellare ogni piccola zolla ai quattro angoli dell’Auditel. Non c’è neanche bisogno di un filo conduttore, ci penseranno i telespettatori e i dottori della critica a cercarlo… In realtà, non è nemmeno indispensabile che lo trovino. Alla nutrita squadra di autori basta assemblare, accumulare, coprire tutti gli spazi. La tv generalista nella sua massima espressione è questo. Che cosa tiene insieme Achille Lauro, il primo a uscire sul palco ieri sera per inaugurare la gara, e Matteo Berrettini reduce dagli Australian open di tennis? Che cosa accomuna i Måneskin vincitori del Festival di un anno fa e Ornella Muti che, ancora sensuale e in totale controllo, ha affiancato Amadeus sul palco? Il marketing. Le quote. La rappresentanza delle community. Di rado una dichiarazione apparentemente innocua è stata densa di contenuti come quella fatta lunedì da Stefano Coletta, ancora direttore di Rai 1 fino a fine febbraio quando, nonostante i demeriti, assumerà l’incarico di capo dell’Area intrattenimento: «Sarà davvero il Festival di tutti, ancora più degli altri anni», ha chiosato.

Tanti pubblici fanno il grande pubblico, il corpaccione unico e strabordante del popolo di Sanremo. Perciò, si inseguono scientificamente le diverse comunità in cerca di riconoscimento e legittimazione. Mettendosi così anche al riparo da possibili e fastidiose proteste delle varie minoranze, più o meno presumibilmente trascurate. Accontentare tutti è il verbo del settantaduesimo Festival di Sanremo. Siamo o no nell’era della (quasi) unità nazionale?

Dopo la casella dedicata all’Impegno civile riempita da Saviano a trent’anni dalla strage di Capaci (che per la verità cadrebbero il 23 maggio, ma non cavilliamo), la seconda quota è intitolata alla Fluidità. Detto dei Måneskin e di Achille Lauro, proprio la sera del monologo dell’ombroso autore di Gomorra, insieme ad Amadeus, toccherà alla garrula Drusilla Foer fare gli onori del palco. Vederli uno accanto all’altra, pur così lontani per immagine e sensibilità, sarà l’apoteosi del mainstream. Sanremo mixa e metabolizza tutto nel suo calderone, carrozzone, caleidoscopio. La coppia composta da Blanco e Mahmood, già favorita della critica, occupa il riquadro intitolato Integrazione. Nella quale è iscritta anche Lorena Cesarini, l’attrice nata a Dakar, cresciuta a Roma, consacrata dalla serie Suburra e co-conduttrice stasera, quando gli ospiti saranno Laura Pausini, in quota Perché Sanremo è Sanremo, e Checco Zalone, si spera titolare della casella Comicità scorretta. Corposissima la sezione intestata alla Fiction della casa, rappresentata da un’overdose di volti della rete, da Nino Frassica a Raoul Bova, da Claudio Gioè a Maria Chiara Giannetta, partner del direttore artistico nella serata di venerdì. Quanto ai concorrenti, ce n’è per tutti i palati, rapper, melodici, pop, cantautori. Con un’avvertenza: giusta l’attenzione alla Generazione Z (nati dal 1997 al 2012) con concorrenti come Rkomi e Sangiovanni. Ma senza trascurare il pubblico più stagionato che un anno fa si dimostrò tiepido. Non è un caso che per soddisfare le preferenze dei Telemorenti (Dagospia) siano stati richiamati in servizio Gianni Morandi, Massimo Ranieri e Iva Zanicchi.
Signore e signori, ecco a voi il Festival tuttifrutti. Nella stagione della maggioranza macedonia, tenuta insieme con sommo sforzo da Draghi, il Sanremo buono per (quasi) tutti i pubblici è servito.

 

La Verità, 2 febbraio 2022

«Il mio programma su Rai1 era ok, ma l’hanno chiuso»

Poliedrico e versatile, Enrico Ruggeri continua a navigare controcorrente. Musicista, conduttore televisivo e radiofonico, autore di romanzi, presidente della Nazionale cantanti, non ha paura di prendere posizione senza sottoscrivere il pensiero unico. Anzi. «Uno dei vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata», riflette in questa intervista, «è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo».

Perfetto, allora. Cominciamo dal bilancio del tour estivo nelle piazze e nei teatri?

«Il bilancio è ottimo,:ci siamo molto divertiti sia noi della band che la gente che ci ha seguito. In giro c’è molta voglia di concerti».

Ha notato qualcosa di diverso nel pubblico rispetto a prima della pandemia?

«Quasi due anni di astinenza l’hanno caricato di attesa e di entusiasmo. Ho visto molta voglia di viaggiare per partecipare ai concerti: in Abruzzo c’erano ragazzi che arrivavano dal Piemonte, in Veneto dalla Toscana. Di solito, alle mie serate, a un certo punto tutti si alzano e si ammassano sotto il palco. Purtroppo adesso non è possibile, perciò a volte circola anche una voglia repressa».

Ha notato nuove preferenze riguardo al repertorio?

«Ho fatto 35 album e ogni sera cambiamo la scaletta. E anche se alcune canzoni vanno sempre proposte, non replico mai lo stesso concerto. Conosco persone che non ci sono mai venute, ma non conosco persone che siano venute una volta sola».

Dalle richieste ha constatato che c’è maggiore attenzione a canzoni più esistenziali?

«Io abbino temi profondi a musiche coinvolgenti. Se ti chiedono di ascoltare una determinata canzone non sai se è per la densità dei testi, per la musica ritmata o per entrambe le cose».

Come si gestisce un tour nelle piazze e nei teatri con tante restrizioni?

«Per fortuna non c’è più l’obbligo delle mascherine e si possono vedere le persone in faccia. Certo, l’arena non è piena a causa del distanziamento, ma ci accontentiamo. Meglio fare concerti così che non farli per niente».

Nei giorni scorsi la Nazionale cantanti di cui è presidente si è impegnata con la onlus creata da Paolo Brosio per la creazione di un ospedale di Pronto soccorso a Medjugorje. Che cos’è esattamente la Nazionale cantanti?

«Intanto è uno strumento per difendere i deboli. 100 milioni di euro in beneficenza in quarant’anni non sono poca cosa. È una meravigliosa esperienza di volontariato, molto più che una serie di partite di calcio in posti strani. Giocando a calcio, andiamo a incontrare la sofferenza dov’è. Sono orgoglioso di collaborare a questi progetti».

A volte, quando si sente parlare della Partita del cuore si avverte un retrogusto di buonismo.

«Il buonismo è fatto di parole. Se costruire ospedali e strutture per il trapianto del midollo significa essere buonisti, mi va bene esserlo. Ci sono persone che sono sopravvissute anche grazie alle nostre partite».

Lei arriva dopo le presidenze di Mogol e di Gianni Morandi…

«Mogol è il fondatore, quello che ha avuto il sogno e ha acceso la scintilla. Forse non tutti ricordano che nel 2000, grazie a Mogol, Shimon Peres e Yasser Arafat s’incontrarono per l’ultima volta a una nostra partita. Morandi ha consolidato il progetto, rendendolo popolare e realizzando manifestazioni con decine di migliaia di persone. Adesso ci sono io».

Che differenza c’è fra la vostra storia e quella del Concertone del Primo maggio?

«Qui si vola più alto del dibattito politico nostrano, fatto più per avere consensi che per reale convinzione. Un conto è dire no alla guerra, un altro prendere un aereo militare e andare a Sarajevo durante la guerra dei Balcani. Oppure a Bagdad o sulla Striscia di Gaza. Noi usciamo dal mondo delle parole ed entriamo in quello dei fatti. Non a caso abbiamo incontrato persone come il Dalai Lama e Gorbaciov».

Ora il fatto è il Pronto soccorso a Medjugorje, ci è mai stato?

«Mai. Sono stato a Lourdes, ma non a Medjugorje. Anche Brosio è un visionario e in questo progetto è assecondato da Andrea Bocelli e da persone come Sinisa Mihajlovic e Al Bano che, anche se non gioca a pallone, è in prima fila con noi».

È stato a Lourdes da credente?

«Certo. Vi ho percepito una vibrazione particolare, diversa rispetto a qualsiasi altro posto del mondo. Devo dire che, avendo visto prima tutto il merchandising delle bancarelle, ero un po’ prevenuto. Ma poi, una volta dentro la grotta, capisci che non sei in un posto come gli altri. C’erano anche Morandi e Celentano…».

Quand’è successo?

«Una quindicina d’anni fa».

Chi ebbe l’idea di andarci?

«Celentano. Eravamo andati a Lourdes con la Nazionale e Adriano si era aggregato, senza giocare. Una volta lì, propose di visitare la grotta».

Andaste solo voi tre?

«C’era anche Claudia Mori. Fu una sensazione forte, anche Celentano ne fu toccato».

Qualche giorno fa ha sorpreso un suo tweet in cui elogiava l’intervento di Javier Prades al Meeting di Rimini intitolato «Il coraggio di dire io». Che cosa l’ha colpita in particolare?

«Per prima cosa che sia riuscito a rendere fruibile per tutti un filosofo come Kierkegaard, passando per Pirandello e arrivando ai Queen. Rendere vivo e attuale un pensiero che di solito mette soggezione non è un fatto di tutti i giorni. Poi mi ha colpito il fatto che una riflessione così fosse accompagnata da applausi simili a quelli di un concerto. Non tutto è perduto se ci sono ragazzi che vivono una ricerca più alta e non ascoltano solo la trap».

Cosa voleva dire scrivendo a commento di quell’evento che «il mondo non è solo carta velina»?

«Che non c’è solo l’effimero, un mondo di gente che si agita per cose inutili, vacue. Sentire Prades che parla in un posto affollato di ragazzi è un segnale confortante».

Ha colpito anche lei come alcuni cronisti il fatto che davanti alla platea del Meeting i leader politici si siano confrontati senza litigare o alzare la voce?

«I politici hanno capito che al Meeting se litighi fai brutta figura perché quello è il luogo del confronto».

Ha detto che molti suoi colleghi temono di suscitare disapprovazione, lei non ha paura di schierarsi?

«Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo. Molti artisti sono terrorizzati all’idea di perdere consensi. Perciò si limitano a pronunciarsi contro la guerra, contro la povertà e contro la violenza sui bambini. Tutto bene, ragazzi: ma forse bisognerebbe entrare un po’ più nel merito».

Dobbiamo essere soddisfatti per il fatto che oggi il rock italiano sia rappresentato dai Maneskin?

«Io ci vedo due notizie positive. La prima è che, in un periodo in cui domina la trap, si compone musica al computer e il successo si misura con le visualizzazioni, i Maneskin vanno in cantina a provare e suonare. La seconda è che, dopo anni in cui lo stereotipo italiano prevalente è stato pizza e mandolino, oggi si scopre che gli italiani sanno anche fare rock».

Quindi, soddisfatti e appagati dai Maneskin?

«Al di là del loro specifico valore, sono un passo avanti rispetto a ciò che ci ha rappresentato finora».

Ora che Charlie Watts è morto abbiamo scoperto che tra i Rolling Stones ce n’era uno che è rimasto 60 anni con sua moglie.

«Il vero trasgressivo era lui, visto l’andazzo. Nel suo libro, Keith Richards scrive che il suono degli Stones era dovuto al lieve ritardo della batteria di Watts e al lieve anticipo della sua chitarra. Non a caso, non c’è mai stata una band in grado di rifare le loro cover. Mentre ce ne sono mille che rifanno i pezzi dei Beatles, dei Queen, di Vasco. Quel suono è solo loro, e Charlie Watts ne era uno degli artefici».

Era anche la dimostrazione che si può fare rock ’n’ roll senza rovinarsi di sesso e droga?

«Infatti lui stava dietro, alla batteria, mentre Richards stava davanti. Ci sono l’immagine e la sostanza. Il rock è fatto di tante componenti diverse e sul palco si vivono traumi positivi e negativi. C’è chi reagisce drogandosi e chi riesce a crearsi una realtà tranquilla quando smette di suonare. Ricordiamoci che chi va sul palco fa la cosa più stressante del mondo».

Parlando di palco, lei aspetta di tornarci con un nuovo disco?

«Sì. In tutto questo periodo ho scritto parecchio. Il mio è lo studio più bello d’Europa, però non lo affitto. Prima ci trovavamo a fare musica e poi andavamo tutti a cena insieme. Con il Covid suoniamo e poi offro tamponi a tutti. Abbiamo un sacco di pezzi pronti, aspettiamo di vedere che cosa succede a ottobre, nella speranza di pubblicare il disco e ripartire…».

Invece, in televisione?

«La televisione è vittima di strani meccanismi. Il programma Una storia da cantare su Rai 1 è andato talmente bene che non mi hanno più chiamato».

Prego?

«Chi è arrivato alla direzione di Rai 1 (Stefano Coletta ndr) dopo il mio programma con Bianca Guaccero non poteva ammettere che la gestione precedente (Teresa De Santis ndr) aveva fatto qualcosa di buono, come portare le canzoni e le storie di Fabrizio De André o Sergio Endrigo nella prima serata del sabato. Perciò il contratto non è stato rinnovato».

È un giudizio molto duro.

«Audience e costi di produzione sono facilmente verificabili. Abbiamo fatto ottimi ascolti con una produzione che è costata dieci volte meno di tanti programmi appaltati all’esterno. Ma questa è stata la mia condanna. Così è se vi pare. Invece, su Rai 2 ho condotto Musicultura».

Poi ci sono la radio, i romanzi… da dove nasce questo eclettismo, insolito tra i cantautori?

« Avendo una formazione plurima, mi piace raccontare la vita in mille modi diversi. Non credo che molti dei miei colleghi, forse escluso Francesco De Gregori, abbiano letto Il Capitale di Marx. Io sì».

Se è per questo il cantautore di riferimento del Pd è Fedez, mentre De Gregori almeno sulla vicenda dei concerti in pubblico si è esposto…

«Ed è stato un segno di grande apertura mentale».

 

La Verità, 27 agosto 2021

«La cancel culture è il nuovo oscurantismo»

La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». Pierluigi «Pigi» Battista fa sua la riflessione di Jep Gambardella nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nato giornalisticamente a Epoca, poi alla Stampa di Paolo Mieli e Ezio Mauro, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, due mesi fa, prepensionato dal quotidiano di Via Solferino, è atterrato all’Huffington post di Mattia Feltri con una rubrica intitolata «Uscita di sicurezza». È un collega, ci diamo del tu.

Cosa ti manca del Corriere della Sera?

«Senza essere sgradevole, niente. Non sono fuggito polemicamente».

Ma perché?

«Ho approfittato del prepensionamento per iniziare una nuova esperienza all’Huffington post».

Lasciare la carta stampata ti è pesato?

«No. Ero arrivato alla saturazione per il giornalismo politico».

Rigetto della politica o di come la raccontano i giornali?

«Rifiuto dell’overdose che ci infliggono tutti i quotidiani cartacei, non solo il Corriere. Trovo che 10 pagine di politica siano un numero esorbitante per chiunque. Sfido a trovare una persona sotto i trent’anni che le legga».

Provocano anche un senso d’impotenza?

«Quando ero ragazzo c’era il pastone che orientava il lettore, un’intervista e stop. Poi c’erano la terza pagina, le cronache, gli spettacoli. Oggi la politica è lottizzata: c’è la pagina dei 5 stelle, quella del Pd, quella dedicata alla Lega, a Forza Italia, con le interviste ai peones e ai portaborse dei peones. Il risultato è l’iperframmentazione e il senso d’impotenza».

La causa?

«La nascita di troppi governi bizzarri sotto l’egida della democrazia parlamentare. Per la quale il voto dei cittadini è una specie di delega che il partito spende come gli pare. Nella Prima repubblica si votava per la coalizione di governo o per l’opposizione. Nella Seconda c’erano l’Ulivo e il centrodestra. Dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son dieci anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione».

Raccontano minuziosamente i tatticismi delle forze politiche che quasi mai sfociano in qualcosa di significativo per i cittadini?

«Tra un governo e l’altro i cambiamenti sono ridotti: meno tasse per il centrodestra, più Stato per la sinistra. Il vero cambiamento è che la politica economica non è più nella disponibilità degli Stati nazionali. Quando diciamo che la legge di bilancio è sottoposta all’esame dell’Europa di cosa parliamo se non di questo? Questa cessione di sovranità significa minor democrazia perché la Commissione europea si forma fuori dalla logica elettorale. Il Ppe ha preso più voti, ma non governa».

Occhio che l’accusa di sovranismo è in agguato.

«Lo so bene, ma non c’entra. C’entra il fatto che il nesso tra volontà popolare e decisioni politiche è sempre più debole. Da qui nasce il mio totale disinteresse».

Voti e per chi?

«Ho smesso di fumare e di votare».

Eppure sei cresciuto nell’epoca del «tutto è politica».

«Era qualcosa di totalizzante. Adesso per capire ciò che passa nella testa delle persone è meglio andare al cinema, quando si poteva, leggere…».

Anche in famiglia tutto passava dalla politica?

«L’ho raccontato in Mio padre era fascista: per contestare l’autorità e contrappormi a lui usavo il linguaggio della politica. Oggi, a spanne, non credo che il conflitto tra padri e figli passi per la politica. Perché oggi un ragazzo dovrebbe iscriversi a Forza Italia o al Pd?».

Al Pd perché lo farà votare già a 16 anni?

«Ma quando mai. Tutti sanno che, almeno in questa legislatura, il voto a 16 anni è pura chimera. Come lo ius soli. Quando il Pd alza queste bandiere si sa che sono solo parole».

A sinistra si pensa ancora che tutto sia politica?

«A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

I giornali perdono copie per troppa politica o perché lontani dalla vita reale?

«Per entrambi i motivi. Ma anche perché sta finendo l’era gutenbergiana a vantaggio di altri linguaggi, l’immagine, la vocalità. Ai quali corrispondono altrettanti social media, i podcast e gli audiolibri. Il nuovo social è Clubhouse fatto di stanze dove si commentano i fatti e tutto si autodistrugge. Puro effimero».

Preferisci l’ipercomunicazione di Conte o la non comunicazione di Draghi?

«Non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

Si sono resi conto di aver commesso un errore bloccando Astrazeneca?

«Dobbiamo capire perché lo hanno fatto. Compito delle istituzioni è rassicurare spiegando le ragioni delle decisioni. Invece, si è finito per alimentare la paura. Tanto più nel contesto di un’informazione apocalittica».

È ancora così?

«Dal primo gennaio c’è un crollo dei contagi nel personale sanitario perché i vaccini funzionano, ma nessuno lo scrive. Invece, un caso di trombosi ferma tutto. Hai voglia a chiamare il povero generale Figliuolo. Sui vaccini e sulle varianti si diffonde solo allarmismo. Vogliamo dire che la variante sudafricana in Sudafrica è stata sconfitta?».

O che in Australia e Nuova Zelanda si convive tranquillamente con il Covid come hanno dimostrato le immagini dell’America’s cup?

«Senza andare così lontano, perché non si dice che, seguendo i protocolli dell’azienda nazionale del farmaco, Boris Johnson sta completando la vaccinazione? Siccome c’è la Brexit non va bene. In Israele hanno fatto la cosa giusta, copiamoli. Ora ci svegliamo con l’idea di produrre il vaccino in casa, ma ci vorranno sei mesi».

Che fiducia si può avere?

«Si continua a ripetere che è tutto complesso. Non è vero: è tutto semplice. Abbiamo poche terapie intensive? Si fossero fatti i bandi in maggio in settembre le avremmo avute. L’alternativa non è un governo diverso, ma la trasparenza. Biden ha detto: vaccineremo 100 milioni di persone in 100 giorni. Bisogna dare un obiettivo. Il sistema del lockdown non regge, non si vedono più pattuglie che fanno rispettare le restrizioni. Personalmente, giro con due mascherine, ma mi chiedo con che faccia rampognamo i giovani per gli aperitivi quando sui vaccini abbiamo fatto tutti questi casini».

Che riscontri ha la tua rubrica?

«Eccellenti. Ma, al di là dei numeri, che sono diversi rispetto a quelli della stampa su carta, mi piace aver creato un appuntamento quotidiano. Online c’è meno fedeltà alla testata e più ai singoli autori. Quando un lettore mi chiede perché la domenica non esce la rubrica mi fa piacere».

Il politicamente corretto è il nuovo catechismo radical chic?

«Con la cancel culture c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria».

Invece ingabbia la creatività, l’arte, il cinema?

«E favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

Invece?

«L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».

Ingabbia anche il linguaggio?

«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa».

Il trionfo del correttismo è nelle candidature agli Oscar?

«Adottano il manuale Cencelli delle minoranze. Non ci si chiede più se un film è meritevole o no. Ci sono le donne, i neri, i gruppi sociali marginalizzati e allora è ok. Se ha per protagonista un maschio bianco eterosessuale di una famiglia tradizionale di Manhattan è tagliato fuori».

Zitti e buoni i Maneskin hanno cambiato il testo di Zitti e buoni per allinearsi alle regole dell’Eurovision.

«Sono sufficientemente anziano per ricordare che anche Dalla fu costretto a cambiare il testo per esibirsi a Sanremo. Era una forma di oscurantismo censorio premoderno e così lo chiamammo. Del resto si spaccia per rivoluzionario Achille Lauro, 40 anni dopo Renato Zero».

Il libro più bello degli ultimi anni?

«Quelli di Michel Houellebecq. Apprezzo anche il modo in cui scrive. Serotonina è fondamentale per capire la frattura tra la provincia e le élites urbane».

La serie?

«Ho scoperto da poco Le bureau, già alla quinta stagione. Una bellissima spy story con un’ugualmente bella storia d’amore».

Il tuo prossimo libro?

«Sarà un po’ come Mio padre era fascista, la storia romanzata di una famiglia italiana del Novecento».

Un maestro che ti manca?

«Lucio Colletti, un grande liberale. Le sue lezioni erano di una chiarezza e di un coraggio assoluti. Quando sento certe fregnacce, mi chiedo cosa ne direbbe lui. E poi mi manca Philip Roth, anche lui sferzato dal politicamente corretto».

 

La Verità, 20 marzo 2021

Perché il successo dei Maneskin sa di déjà vu

Ancora due parole per l’archiviazione del settantunesimo Festival di Sanremo. Un’archiviazione controcorrente perché, purtroppo, il verdetto finale l’ha consegnato a una sensazione di vecchio e già visto. La vittoria dei Maneskin, infatti, non è niente di nuovo. È la vittoria di X Factor, del talent show più di tendenza dell’ultimo decennio. Lo conferma il duetto con il loro coach, Manuel Agnelli, nella serata delle cover. E lo conferma il secondo posto finale conquistato da Francesca Michielin e Fedez. È la vittoria della community del talent di Sky. È la conferma della vampirizzazione della tv generalista da parte delle piattaforme (notata l’invasione dei marchi dello streaming nei break pubblicitari?). Tutto già visto, magari in modo più semplice e meno sofisticato. Ricordate quando nel 2009 vinse Marco Carta? Un quotidiano titolò: Amici vince il Festival di Sanremo. L’anno dopo ci fu il bis con Valerio Scanu. Anche allora pesò l’influenza dei televotanti, determinanti nelle giurie come stavolta: quella demoscopica, quella della sala stampa e, appunto, quella del pubblico che vota via sms. Non a caso, come si è ripetutamente vantato il direttore di Rai 1 Stefano Coletta, nell’audience di questo Festival è cresciuto il pubblico giovane. Mentre è calato quello più stagionato. Niente di nuovo, dunque. La prova del nove è data da Zitti e buoni, un brano esplicitamente rock, un genere musicale straniero all’Ariston nazionalpopolare. E il successo dei Maneskin è proprio questo: la consacrazione nazionalpopolare, la legittimazione mainstream, della generazione dell’asterisco. Né maschi né femmine. La fluidità al potere. A ben guardare roba vecchia, roba omologata anche questa. Sono passati quasi cinquant’anni da quando David Bowie, Alice Cooper e poi Renato Zero scuotevano il perbenismo dominante. Era un’altra èra: internet e i cellulari appartenevano alla fantascienza. Già Marilyn Manson un paio di decenni dopo è stato un fenomeno di riporto, un rimbalzo plastificato. Figuriamoci Achille Lauro, santificato a furor di social network, il posto dove si coagulato il verdetto di questo festival. La differenza è che quella di cinquant’anni fa era vera trasgressione e rivolta dei costumi. Oggi la generazione asterisco è fashion, mainstream, politicamente corretto, conformismo puro. Tutto déjà vu.

Incerto Amadeus se accettare l’invito del direttore generale Rai Fabrizio Salini a triplicare, sul 2022 si staglia la sagoma di Alessandro Cattelan, per anni conduttore di X Factor e neo acquisto di Viale Mazzini. Il cerchio si chiude.

Sky conferma che Tv8 ha fatto vincere Licitra

A conferma di quanto scritto e pubblicato da La Verità il 16 dicembre e su Cavevisioni.it il 17 Sky ha fornito i dati di tutti gli otto live per fugare le tesi complottarde dei fan dei Maneskin. Si scopre così che la band romana è stata la più votata nel corso della seconda, terza, quinta e settima puntata, ma Licitra (che ha ottenuto un maggior numero dei voti solo nel primo e sesto live) è riuscito a scavalcarla proprio nella puntata finale, anche se con uno scarto minimo: 1.446.848 voti per il gruppo nell’ultima manche, e 1.615.665 per il cantante siciliano. Sommando i voti giunti per i due concorrenti nel corso dell’edizione si arriva a 7.479.630 voti per la band, e 7.070.939 per il tenore pop. È plausibile pensare che a consegnare la vittoria al concorrente della squadra di Mara Maionchi possa essere stato il pubblico che ha seguito la finale in chiaro su Tv8 e Cielo; un po’ come successe nel 2015, quando Giò Sada riuscì a vincere sugli Urban Strangers che invece nelle puntate precedenti erano risultati i favoriti dai telespettatori.

Non è Sanremo, ma X Factor in chiaro su Tv8

Il televoto di Tv8. Sembra un gioco di parole ed è l’arcano neanche tanto nascosto del risultato a sorpresa di X Factor 11: Lorenzo Licitra vincitore al posto dei super pronosticati Maneskin capeggiati da Damiano David. Un verdetto inaspettato, un laser che ha squarciato le certezze del Forum di Assago, spiazzando Alessandro Cattelan che doveva proclamarlo, Mara Maionchi, Manuel Agnelli, gli stessi artisti in attesa. Tutto pendeva dalla parte della sfrontatezza dei ragazzi di Monteverde, quartiere del Gianicolo dall’elevato profilo artistico. La fresca conquista del disco d’oro con l’inedito Chosen, mitragliato da tutte le radio. Le previsioni delle agenzie di scommesse. Il tifo del pubblico femminile più modaiolo, sedotto dalla fluidità del frontman che aveva acceso fenomeni d’isteria anche un filo over. La preferenza delle testate glamour, degli ambienti rock, del mondo fashion. Una vittoria annunciata. La gran voce tenorile e il sorriso aperto di Licitra non potevano bastare. Invece, il talent fa i cantanti, guida i percorsi, ma non i gusti dei telespettatori. Tanto più se, dopo aver lavorato al coperto, per la finale ti affacci sulle reti in chiaro. La smentita è in agguato. Il pubblico generalista è più pop, più tradizionale e allergico agli eccessi. Era accaduto, per lo stesso motivo, anche nel 2015 con Giosada che, a sorpresa, aveva superato i favoriti Urban Strangers. Stavolta si sottolinea che nella prova del medley Licitra è stato superiore all’avversario. In realtà il vantaggio dei Maneskin non poteva essere annullato da una sola esibizione. È il televoto a fare la differenza. «Come Sanremo. Il rock non può vincere», ha cinguettato Gino Castaldo su Twitter. Per anni, proprio al Festival di Sanremo i concorrenti di Amici di Maria De Filippi e dei talent hanno imperversato perché le community dei loro fan erano più attive al momento del televoto. A X Factor accade il contrario: al momento di scegliere il vincitore il pubblico di Tv8 e Cielo smentisce o almeno corregge il percorso sul canale criptato. Una smentita clamorosa, un colpo di coda anche sul dualismo tra scelte pop e mondo underground, tra la Maionchi e Agnelli.

Sky Italia e FremantleMedia si godono i numeri da primato: 2,7 milioni di telespettatori, l’11.2% di share sommando Sky Uno, Tv8 e Cielo, in crescita del 22% rispetto alla finale del 2016. Si gode la qualità dello spettacolo e la macchina oliatissima che fa perno sull’inventiva del direttore artistico Luca Tommassini, sulla disinvoltura di Alessandro Cattelan e su un brand forte che si avvantaggia pure delle polemiche sul verdetto.

La Verità, 16 dicembre 2017