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«Dopo Renzi pubblicherei il libro di Salvini»

«Io e mio padre eravamo molto diversi. Lui un’intellettuale con tratti geniali, io un manager con interessi di economia. Lui sempre vissuto in Italia, io molto all’estero. Lui sedentario, io sportivo. Concordavamo su cosa fare, non su come farlo. Ci confrontavamo animatamente». 52 anni, un passato da dirigente in Lehman Brothers, figlio del primo matrimonio di Cesare De Michelis, gran giocatore di bridge e praticante di triathlon, fatica pura, da un decennio Luca De Michelis è amministratore delegato di Marsilio editori. Dal padre ha preso la lungimiranza operativa, la facilità nei rapporti e la predisposizione a lavorare in squadra. Marsilio ha chiuso il 2018 registrando 8 milioni di fatturato, ma grazie all’accordo con Feltrinelli voluto da Luca, il bilancio 2019 migliorerà notevolmente. Da un anno l’editrice è nella nuova sede, più moderna e ariosa, all’imbocco del Canale della Giudecca, dove sfilano yacht e vaporetti. Cesare De Michelis è morto il 10 agosto scorso a Cortina d’Ampezzo.

Che cosa le manca di più di suo padre?

«Forse la generosità, la più sottaciuta tra le sue tante doti. Quando discutevamo su come fare una cosa, spesso io concludevo: “Se vuoi farlo così, fallo tu”. Allora lui concludeva: “No, fallo tu”. Si tirava da parte, mostrando generosità verso Marsilio e la sua storia, oltre che verso di me. Mi mancano questo confronto, le sue intuizioni geniali, certi guizzi irreplicabili. Dopo aver a lungo ascoltato, quando ho capito che volevo fare l’editore, ho anche capito che non potevo farlo come lui, intellettuale e fondatore che incarna il marchio. Insieme a Cesare abbiamo immaginato come sarebbe stata Marsilio senza di lui».

Con più gioco di squadra?

«In un certo senso sì, anche se qualche volta decido da solo. Il rapporto con Emanuela (Bassetti, seconda moglie di Cesare De Michelis ndr) e il suo aiuto quotidiano sono fondamentali. Eravamo preparati a questa perdita e oggi seguiamo un percorso tracciato e condiviso».

Nel quale l’insegnamento di suo padre – «un editore non fa i libri che si vendono, ma vende i libri che si fanno» – è la stella polare?

«È un mantra che continua a guidare il nostro lavoro».

Vuol dire che non si parte dal mercato, ma lo si determina?

«Noi crediamo che la domanda di cultura sia sostanzialmente una domanda di identità. Un’identità che si crea sia per somma che per differenza. Chi siamo e a cosa apparteniamo ci diversifica da altre persone e da altre comunità».

Concretamente, parlando di libri?

«In Italia si legge poco, ma i festival sono pieni. Le mostre sono affollate, ma le stesse opere sparse non destano analoga curiosità. Questo significa che sono gli eventi a creare appartenenza. Credo che un editore moderno debba saper trasmettere questo senso di comunità. Per farlo, prima di tutto un’identità deve averla».

E Marsilio…

«Prova a essere uno specchio intelligente del tempo presente. Prova a costruire la casa un mattone alla volta, attraverso il dialogo tra gli autori, aprendo spazi di discussione. Più che inseguire i bestsellers c’interessa che ogni autore si esprima al massimo delle sue potenzialità».

In che cosa il mercato del libro deve cambiare?

«Migliaia di case editrici producono decine di migliaia di libri. Questa ricchezza è sintomo di vitalità, ma genera un intasamento in cui è difficile distinguere le cose buone da quelle meno buone. Da economista penso che l’eccessiva frammentazione non faccia bene. Qualche anno fa c’erano 8000 case editrici, oggi sono meno, ma temo sempre troppe».

Suo padre diceva che «se i piccoli restano piccoli è perché sono malati».

«L’orgoglio del “piccolo è bello” non gli piaceva. Premesso che l’identità è fondamentale, non sempre la microidentità è un valore. Anche le imprese culturali non sfuggono alla regola per la quale, per guidare il cambiamento, serve una dimensione minima. Credo che una selezione darwiniana sarà inevitabile. Si perderà una certa pluralità ma, da liberale, sono convinto che il mercato sia il sistema più affidabile e democratico».

Bisogna crescere per non morire?

«Nel Novecento il mercato era determinato dalle aree geografiche. Editoria e media erano un sistema integrato, chi pubblicava libri stampava anche giornali e viceversa. Oggi l’accesso al pubblico è definito dal canale prescelto. Con l’avvento di Internet, l’editore è diventato un’infrastruttura, come la telefonia e le autostrade. Basta guardare a ciò che sta avvenendo nel sistema audiovisivo con Netflix o al declino della carta stampata. Nell’editoria il processo è più lento perché il libro è una tecnologia con applicazioni diversificate. Ma anche qui il processo è avviato».

Dov’è più visibile?

«Pensi alle enciclopedie e ai dizionari, il cosiddetto reference. Da quando c’è Wikipedia nessuno è più disposto a pagare per conoscere il significato di un vocabolo. L’Enciclopedia britannica ha chiuso».

Perché gli italiani leggono meno di altri popoli?

«Abbiamo una diversa cultura del commuting (pendolarismo ndr) rispetto, per esempio, al mondo anglosassone. Preferiamo raggiungere il posto di lavoro in auto, in Gran Bretagna si usano più treni e metropolitane. Non so quanto, ma credo che questo incida. La seconda motivazione è storico-culturale. Fino a 60 anni fa in Italia il tasso di analfabetismo era elevato; quando è arrivata l’alfabetizzazione è arrivata anche la televisione. Infine, il sistema scolastico ha le sue responsabilità».

A che cosa si deve il vostro incremento di vendite del 65% nei primi mesi del 2019?

«In gran parte all’ottima resa dell’accordo stipulato un anno e mezzo fa con Feltrinelli. Dopo la perdita di Cesare, con l’aiuto di Emanuela Bassetti abbiamo definito le linee dei singoli settori grazie agli innesti di Ottavio Di Brizzi per la saggistica e di Chiara Valerio per la narrativa italiana, e al lavoro di Francesca Varotto per la letteratura straniera, di Rossella Martignoni per l’editoria d’arte e di Jacopo De Michelis per i gialli. La piattaforma di Feltrinelli ha permesso che questa squadra rendesse al meglio».

È sbagliato dire che avete respinto Mondadori per finire in braccio a Feltrinelli?

«Mondadori ha scelto di cedere Marsilio e Bompiani dopo un provvedimento dell’Antitrust. A quel punto abbiamo riacquisito Marsilio e abbiamo trovato un altro partner che ci consente di perseguire il nostro progetto; progetto sul quale, questo partner, ha ritenuto a sua volta d’investire».

Nel 2020 scenderete al 40% delle azioni e Feltrinelli salirà al 55: timori?

«No, perché c’è grande complementarità. L’identità di Marsilio è un valore per noi e per loro. Non vedo pericoli di omologazione, siamo stati 16 anni in Rcs rafforzando la nostra identità».

Quanto incide il fatto di essere una casa editrice con sede a Venezia?

«Venezia offre opportunità che altri luoghi non consentono. Basta pensare a quello che succede qui nel mondo dell’arte. O alla presenza della Biennale e di tutti gli enti pubblici e privati, dall’università al museo Peggy Guggenheim, promotori di eventi di risonanza mondiale. Tutto questo fermento crea le condizioni per lo sviluppo di un polo editoriale eccentrico rispetto a quello milanese. Venezia, capitale di cultura internazionale è un patrimonio da coltivare con sempre maggior convinzione».

Un grande editore è più un manager attento al marketing, un uomo di rapporti, un talent scout o un organizzatore visionario?

«Io m’impegno come caposquadra per dare coerenza al gruppo di intelligenze e di talenti che lavora con me. Costruendo e consolidando il patrimonio di relazioni e il rapporto con il territorio. La funzione del manager è principalmente risolvere i problemi quando si presentano. Anche se ai miei collaboratori non piace tantissimo quando dico che non esistono problemi, ma solo opportunità».

Che idea si è fatto del caso Altaforte-Salone del libro?

«Penso che sia stata una polemica sciocca. E che una volta di più avrebbe dovuto valere la famosa massima di Voltaire. Credo che la libertà di espressione sia irrinunciabile soprattutto per un Salone del libro. Detto questo, la polemica è stata uno spot pubblicitario, senza con questo intendere che sia stata cercata».

Oggi ripubblicherebbe Il sesso in confessionale, il primo saggio che nel 1973 superò le 100.000 copie e vi diede notorietà internazionale?

«Oggi sarebbe datato. Tendenzialmente sono favorevole alle pubblicazioni che rompano la cultura del politically correct invisa al grande pubblico. Ma mi sembra che quel tipo di editoria provocatoria che allora era un valore, abbia perso un po’ di mordente».

C’è un libro che avrebbe voluto pubblicare e non ci è riuscito?

«Non stravedo per la figura dell’editore predatorio. Al contrario sono molto felice quando pubblico un libro di cui non condivido nulla. Credo che il lavoro di editore sia anche dare voce a posizioni che meritano di essere rappresentate anche se non ti appartengono».

Quindi, dopo il libro di Matteo Renzi, pubblicherebbe anche un libro di o con Matteo Salvini?

«Certo, lo pubblicherei a patto che non fosse un testo di propaganda e di slogan, come sono spesso quelli firmati da esponenti politici. Un libro nel quale Salvini illustrasse in modo compiuto la sua visione politica lo pubblicherei senza puzza sotto il naso. Aiuterebbe a capire di più il nostro tempo».

Altri libri che vorrebbe avere in catalogo?

«Mi sarebbe piaciuto essere l’editore della saga di Harry Potter, più per divertimento che per altro. Mentre non sarei stato interessato a quella delle varie sfumature colorate. Trovare il bestseller è anche fortuna, ma la si può aiutare, com’è accaduto con i gialli di Stieg Larsson».

A differenza di suo padre che ha giurato a Stefano Lorenzetto di non averla, lei ce l’ha la psiche?

«Probabilmente sì, quello di mio padre era un paradosso. Ce l’aveva anche lui, la psiche. Come dimostra la sua predilezione per certi autori, che non rivelerò».

 

La Verità, 16 giugno 2019

«Insegno a scrivere con l’aiuto di Brian Eno»

Giulio Mozzi è nato a Camisano Vicentino nel 1960 e vive a Padova. Dopo il liceo, grazie a un corso per dattilografi, è entrato in Confartigianato. Nel 1989 si è fatto assumere come magazziniere alla Libreria internazionale Cortina. Dal 1993 ha iniziato a tenere corsi di scrittura creativa. In quello stesso anno ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti. Nel 1996 La felicità terrena è finalista al premio Strega. Dal 1997 la scrittura e «attività collegate» diventano la sua professione. È stato consulente di importanti case editrici, da Theoria a Einaudi, attualmente lo è di Marsilio. Ha fondato Vibrisselibri, bollettino di letture e scritture online, creato la Bottega di narrazione e scoperto o consacrato alcuni tra i maggiori talenti narrativi degli ultimi anni (tra loro Tullio Avoledo, Leonardo Colombati, Vitaliano Trevisan). Su YouTube si trovano sue lezioni e bizzarri video come Tutta la verità su Giulio Mozzi, 90 secondi in cui scorrono avvertenze e titoli di coda senza che si veda un’immagine o si legga una nota biografica.

Siccome a volte risponde con un’altra domanda, intervistarlo è un gioco enigmistico, una caccia al tesoro con tante retromarce. Come lo è la lettura di Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, sagace saggio, appena pubblicato da Sonzogno, sull’arte della narrazione, e composto da 200 massime stampate in grassetto sulla pagina di destra e brevemente spiegate su quella di sinistra.

Perché il suo libro non ha le pagine numerate?

«Perché sarebbe stato brutto da vedere. Il suo modello non sono altri libri, ma un mazzo di carte».

Com’è nata l’idea?

«Un giorno, sul treno diretto a Venezia per andare in Marsilio, riflettevo sul fatto che per le mie lezioni uso le Strategie oblique di Brian Eno e Il piccolo libro delle risposte di Carol Bolt. Sono curiosi manuali i cui suggerimenti, anche se non immediatamente utili, fanno pensare. Perché non fare qualcosa del genere per la letteratura di narrazione? mi son detto. In casa editrice Patricia Chendi mi ha subito incoraggiato. La sera a casa, in un’unica sessione di lavoro, ho buttato giù 170 pagine di massime».

Senza sbirciare le Strategie oblique?

«Tutt’altro. Per coerenza, ho pescato dal mazzo e mi è uscita questa carta: “Preparazione lenta… esecuzione veloce”. La mia preparazione sono 25 anni di scuola di scrittura e le massime sono uscite in poche ore. Quanto più sono “vuote”, tanto più sono versatili. Il segreto è nel fatto che il lettore si accosta con atteggiamento confidente a un gioco che mette in moto l’immaginazione».

L’Oracolo manuale serve per incoraggiare o per dissuadere alla scrittura?

«Serve per mettere alla prova. Poi è il lettore, potenziale scrittore, a decidere».

Non sono troppi gli scrittori o aspiranti tali in circolazione?

«Qual è il criterio per determinarlo? L’incremento nel numero dei lettori e degli scriventi è una conseguenza dell’alfabetizzazione universale. Se qualcuno pensa che sia un male sono problemi suoi».

Ci sono quasi più scrittori che lettori in Italia.

«Li ha contati? Se no, è una supposizione priva di sostanza».

Ha sostanza il fatto che pile di libri restino intonsi negli scaffali e che l’Italia abbia un indice di lettura tra i più bassi d’Europa?

«Sono problemi dell’industria editoriale non degli scrittori».

Quanti vivono davvero di scrittura?

«Non conosco le dichiarazioni dei redditi dei miei colleghi. Tanti vivono di attività connesse, io per primo. Non è scritto da nessuna parte che la scrittura debba essere una professione di cui campare. Ha senso che lo sia per i giallisti, gli autori di noir o di fantascienza, per altri generi ce l’ha di meno».

Le scuole creano scrittori d’allevamento?

«Bisognerebbe prendere un po’ di libri scritti da persone passate per le scuole e vedere se è davvero così».

Secondo lei?

«Non lo so perché è un lavoro che non ho fatto. Si dovrebbero considerare i libri scritti, non solo quelli pubblicati, perché su questi interviene il lavoro degli editori».

Ho condiviso un tweet che diceva: «Sono l’unica persona che conosco che non ha scritto un libro e non si è fatta un tatuaggio»: meglio un brutto libro scritto in meno e un bel libro letto in più?

«Il fatto che ci siano i divorziati non significa che sia insensato innamorarsi. Quanta gente ogni giorno cucina per sé, per la famiglia, per gli ospiti senza essere uno chef? Togliamo alla scrittura l’aurea che l’avvolge, è una cosa normale come cucinare o fare due chiacchiere al bar. Dopo di che ogni scritto avrà la circolazione che si merita. L’industria deve selezionare e pubblicare opere belle o di successo per pagare gli stipendi. Meglio ancora se sono sia belle che di successo».

Come le venne l’idea di creare una scuola di scrittura nel 1993?

«Me lo chiesero quelli del circolo Arci Lanterna magica, non ci avevo pensato io. Sono il rampollo di una famiglia colta, ho sempre parlato italiano e scritto bene. A scuola la principale differenza tra chi scriveva bene e chi male era il reddito, ma gli insegnanti dicevano che la scrittura è un dono, c’è chi ce l’ha e chi no».

Invece, non è un dono?

«Sì, della cultura di famiglia e del reddito. Sono figlio di biologi, non di letterati. Siccome la scuola ha abdicato a questo compito, bisognava che qualcuno se lo assumesse. Da quando ho iniziato a insegnare le cose sono cambiate e anche la scuola è tornata a preoccuparsi della scrittura».

Quanto sono determinanti le radici e il posto in cui si nasce?

«Mi ricordo bambino, seduto sul tappeto del salotto di casa a Sottomarina di Chioggia. I miei genitori leggevano il Corriere della Sera, Epoca e Grazia, mio fratello maggiore il Corriere dei piccoli, mia sorella Michelino e io Miao. La televisione arrivò tardi, ascoltavamo molta musica e la mia aspirazione era crescere per cominciare a leggere Michelino, poi il Corriere dei piccoli…».

Come scopre talenti letterari?

«Le racconto un aneddoto. Il 30 aprile 1988 lavoravo ancora in Confartigianato ed ero a Roma per un convegno. Un pomeriggio libero entro in una libreria e m’incuriosisce un libriccino di poesia: l’autrice è romana ed è nata nel 1970, perciò ha pubblicato quei versi a 17 anni. Vado alla Sip per consultare la guida telefonica trovando che in città solo otto persone hanno il suo cognome. Dopo un’ora sto bevendo il caffè offerto dalla madre. Lei rincasa poco dopo, è stata dalla parrucchiera per prepararsi al diciottesimo compleanno per il quale la zia le ha regalato quella pubblicazione da un editore a pagamento. All’inizio è diffidente davanti a un estraneo piombato in casa… Ma da lì comincia un rapporto epistolare che dura tuttora, migliaia di lettere. Lei è Laura Pugno, poetessa e scrittrice entrata nella cinquina del Campiello e direttrice dell’Istituto di cultura italiana di Madrid. Queste vicende mi appagano».

Perché?

«Perché quando leggo qualcosa di bello mi appassiono e cerco di stabilire un rapporto. Non mi sono mai particolarmente emozionato per la pubblicazione dei miei libri, ma la prima volta che ne ho preso in mano uno che avevo patrocinato mi sono fatto un pianto».

Cosa intendeva dire quando, intervistato da Pangea, ha confessato che la sua migliore qualità «è aver smesso di scrivere»?

«I giocatori d’azzardo più abili sono quelli che sanno fermarsi al momento giusto. Negli anni precedenti avevo pubblicato molti racconti e mi sembrava di aver finito. Così mi sono cimentato con altri generi».

Come in 10 buoni motivi per essere cattolici?

«Sì. Dopo una conversazione con una persona che, pur professandosi cattolica praticante, sosteneva che la Chiesa non annunciava la resurrezione della carne, con Valter Binaghi – già autore di Re nudo, convertito e grande amico – abbiamo deciso di scrivere questo libello. Avevamo realizzato che il cristianesimo è la religione più sconosciuta d’Italia».

Coraggiosi, chissà che reazioni.

«Un po’ di rumore e qualche discussione con Michela Murgia».

I romanzi che restano nascono da una tecnica o da esperienze forti, conflitti, solitudini, ossessioni?

«Rispondo a una domanda che non mi ha fatto: la tecnica è insegnabile e può essere oggetto di un’attività didattica, tutto il resto è educabile e può essere oggetto di una pedagogia».

La pedagogia c’entra con l’essere, la didattica con l’esercizio.

«Il lettore di romanzi dà credito a una storia che sa essere inventata. L’autore di romanzi dà credito a una storia che inventa o almeno trasfigura».

Qual è la sua diagnosi sullo stato di salute dell’italiano?

«Ogni lingua evolve. La natura sintetica della lingua italiana è stata stabilita attraverso atti di governo. Mentre constatiamo che c’è un’osmosi interessante tra italiano e dialetto, la capacità di assorbire le lingue di chi viene in Italia – romeni, albanesi, asiatici – è piuttosto ridotta».

In compenso, grazie alla tecnologia e alla pubblicità, ormai parliamo tutti l’italenglish.

«Che nell’italiano entrino parole di altre lingue non è né un bene né un male, ma un dato di fatto. Poi c’è il gusto personale, per il quale io stesso tendo a sfrondare – francesismo – certi neologismi di uso comune e di scarsa efficacia. Ma non si possono fare leggi per impedire l’uso di parole straniere. Alessandro Manzoni parlava in milanese e in francese, ma la lingua in cui scriveva era un’altra. Possiamo accusarlo di aver contribuito alla distruzione del lombardo perché scriveva in una lingua inventata da lui con influssi di fiorentino?».

Quali sono gli ultimi grandi romanzi italiani?

«Direi Il quinto evangelio di Mario Pomilio, da poco ripubblicato, Tanto gentile e tanto onesta di Gaia Servadio, primo romanzo postmoderno scritto in Italia, e La messa dell’uomo disarmato di Luisito Bianchi, romanzo resistenziale teologico di 800 pagine. Li prediligo per l’innovazione formale e per la potenza della storia. Sono estranei al canone novecentesco, ma questo non è un problema mio».

 

La Verità, 28 aprile 2019

«La pistola posso trovarla, mi manca il coraggio»

Massimo Fini gioca d’anticipo e come metto piede in salotto dice: «Prima d’iniziare devi firmare un impegno a farmi rileggere il testo. Non l’ho mai fatto, ma ho deciso di cambiare». Due anni fa Fini è già stato protagonista degli Irregolari, ma gli ultimi suoi scritti, sempre più radicali, giustificano un aggiornamento. In un lungo articolo sul Fatto quotidiano del 22 settembre ha invitato i ragazzi ad ascoltare Il bombarolo di Fabrizio De André e a ribellarsi. In un secondo del 7 ottobre, intitolato «La lealtà presa a pesci in faccia», ha praticamente dichiarato guerra al mondo: «Per tutta la vita», ha scritto, «ho cercato di essere leale nei confronti del Paese in cui mi è toccato di nascere, non nascondendo mai le mie posizioni quando gli erano avverse. Ma adesso mi sono stufato di fare “il bravo ragazzo”. E questa è l’ultima dichiarazione leale che faccio. D’ora in poi, nemici o estimatori che siate, non potrete più fidarvi di me. E le forme della mia rivolta le sceglierò io». Dunque, eccoci qua. Firmato l’impegno scritto, chiedo: come dobbiamo considerare questa intervista, mi posso fidare delle risposte? «No che non ti puoi fidare. È un controsenso che tu venga da Padova dopo il mio proclama di slealtà. Ti dirò una serie di menzogne o di mezze verità, che forse sono anche peggio». Le sorprese, però, non sono finite: «Adesso devi ascoltare Il bombarolo, da cui tutto è cominciato». Si alza e accende l’impianto hi fi.

Perché tutto è cominciato da questa canzone del 1973?

«Perché mi riporta alle mie origini anarchiche. Ascoltandola, mi sono chiesto che cosa ho fatto. La risposta è: nulla. A parte i libri, che resteranno almeno per un po’, tutto il mio lavoro molto doverista non ha avuto senso. Credo di aver sprecato il mio talento. Avrei dovuto venderlo al miglior offerente».

Al miglior offerente?

«Sì, come han fatto tutti. Anche uno come Alessandro Sallusti, che ritengo un ottimo professionista, si è messo al servizio di Berlusconi. Qualche tempo fa, a una cena nella terrazza di casa sua, mi presentò agli ospiti: “Massimo è uno che ha rinunciato a grandi quantità di denaro, a miliardi”. Le donne rizzarono le orecchie. “Si sa come funziona”, continuò Sallusti, “si entra in un giro e poi le cose vanno di conseguenza”. Apprezzai la schiettezza. Sallusti conserva una sua integrità. Salvo anche Maurizio Belpietro che ha una sua dignità. La stessa non vedo in Vittorio Feltri che, come ho già scritto, ha la moralità di una biscia. Questo mi spiace perché con lui ho condiviso esperienze professionali notevoli, però oggi questo è».

Tornando a te e al soldo del miglior offerente, quanto avresti retto?

«Ho lavorato a Repubblica. Eugenio Scalfari mi mandò due telegrammi di complimenti, ma dopo tre mesi me ne andai. Il mondo radical chic non era il mio. Non erano loro a essere sbagliati, lo ero io per loro. Non era il mondo giusto neanche per il mio unico vero amico nel mestiere, Giorgio Bocca. Conservo ancora la sua recensione a Ragazzo. Storia di una vecchiaia: “Una lettura affascinante. Il ragazzo mi spiega con fraterna sincerità cosa sono oggi”».

Grandi amici, ma Bocca rimase a Repubblica.

«Manteniamo le misure: Giorgio era di una categoria superiore. Una delle critiche che mi si può muovere è di essere troppo tranchant».

Il fatto che lo consideri superiore è verità o mezza verità?

«Lo ritengo il più grande giornalista del dopoguerra».

Più di Montanelli?

«Sì. Ricordo un dialogo proprio con Giorgio, sempre più brontolone: “Non mi piace più niente e nessuno”, diceva. “Neanche Marco Travaglio?”. “Non si può scrivere un pezzo ogni giorno”. Allora, cercando qualcuno che lo soddisfacesse citai Montanelli. Disse che venivano spesso accomunati e che, sebbene ne apprezzasse la scrittura elegante, pensava non fosse un uomo profondo. Aveva ragione Giorgio, lo dico con gran sofferenza».

Immagino, anche perché Montanelli ha scritto: «Massimo Fini ha le mani pulite. Non rispetta le regole. Non sta al gioco. Ed è questo che dà tanta forza alla sua frusta».

«La sua prefazione a Il conformista me la tengo stretta anche più del premio alla carriera intitolato a lui che un gruppo di colleghi, tra cui Paolo Mieli, ha pensato di tributarmi. Indro è stato un gigante. Però fare il bastian contrario con i tolleranti democristiani non era così difficile. Quando è finito il suo mondo di comunisti e democristiani ha perso la presa. Non ha capito il fenomeno Lega e l’avvento di Berlusconi. La rapida fine della Voce lo dimostra. Berlusconi lo cacciò per le ragioni che conosciamo, ma in quel momento Il Giornale aveva come punto di riferimento Arnaldo Forlani. Da editore l’avrei cacciato anch’io».

Quello di Repubblica non era il tuo mondo, quale avrebbe potuto esserlo?

«Il mio mondo non c’è. I giornali della cosiddetta destra, Il Giornale, Libero, La Verità mi hanno sempre trattato con rispetto. Fosse stato per le testate della sinistra non sarei esistito culturalmente in questo Paese».

Avresti potuto resistere nella stampa moderata o conservatrice?

«Io non faccio la puttana. Credo che l’unico personaggio pubblico che si avvicina a me sia Daniele Luttazzi, l’unico uscito massacrato dal cosiddetto editto bulgaro. Anche Marco Travaglio e Carlo Freccero si sono ripresi».

Hanno pagato le loro posizioni, Freccero in particolare.

«Non ne sono convinto… Lo vedi quel telone che copre la vista all’esterno?».

E cosa c’entra?

«È una questione di dignità. Noi, qui dentro, alle quattro del pomeriggio, teniamo le luci accese e non vediamo fuori a causa di quel pannello su impalcature. Al decimo piano si dovevano fare dei lavori di ristrutturazione e ci sarebbe stato un costo da suddividere tra condòmini. Ma siccome una società di affissioni pubblicitarie ha offerto mille euro al mese a inquilino ora il pannello toglie la vista a tutti. Qui ci abita gente benestante, non siamo a Quarto Oggiaro. Per mille euro non si vendono luce e aria e la propria dignità. Ne ho parlato con gli avvocati».

Che pubblicità c’è?

«Qualunque sia. All’inizio c’era Sky, adesso non so».

È l’inizio della tua rivolta?

«Ma che ne so, ho 74 anni… So che Travaglio è preoccupato perché teme la violenza. Qualcosa m’inventerò e non sarà politically correct».

La lealtà è un ideale dell’Ottocento romantico un po’ superato?

«Per me no. Io sono legato a questo principio ottocentesco, mio padre mi ha educato a questi ideali, io ho fatto lo stesso con mio figlio. Faremo tutti una brutta fine. Spero non mio figlio. Non l’ho mai aiutato, però ha già subito tutti i danni del fatto di essere mio figlio. È docente di matematica, nulla che c’entri con me. Si è presentato al concorso per diventare associato, ma hanno promosso la moglie del suo professore».

Lo stato d’animo del bombarolo è la solitudine o l’isolamento?

«Direi l’isolamento. Rischiando di persona, fa esplodere un chiosco di giornali esponendosi al ridicolo che è la cosa peggiore. Qualcun altro sfrutta la situazione e finisce in prima pagina».

Il contrario della lealtà è l’ipocrisia cioè il politicamente corretto?

«Diciamo che è la mezza menzogna, che è peggiore della menzogna pura e semplice. Ne sono pieni i nostri giornali, perciò non li leggo più».

Neanche nello sport si predica più lealtà.

«A cominciare dal calcio, dominio del business. Ne parlerò nel libro che sto scrivendo per Marsilio con Giancarlo Padovan. S’intitolerà Storia reazionaria del calcio italiano, racconterò la bellezza perduta degli ultimi anni. Non a caso i ragazzi si indirizzano alla pallavolo, al basket, all’hockey».

In politica c’è posto per la lealtà?

«In genere finisce male. Nutro una certa simpatia per i 5 stelle, ma non è un caso che Alessandro Di Battista se ne sia andato in Guatemala. Dopo anni in cui vedi che non cambia niente ti rassegni. Non voglio togliere la speranza ai giovani, ma io non ce l’ho».

Che cosa t’ispira dei grillini? Sono forse un po’ ingenui?

«Conosco Beppe Grillo da più di trent’anni, e anche Luigi Di Maio e Di Battista. Sono puliti. Ci chiediamo se sono anche capaci. La risposta è nel mantra di Travaglio: i capaci cos’hanno fatto finora?».

Che cosa pensi di Matteo Salvini?

«Che ha ragione quando dice che sarà difficile reggere alle pressioni della finanza internazionale, in gran parte ebraica. Sta crescendo un movimento di populismi che mira a disarticolare il sistema che si è affermato dopo la fine della Seconda guerra mondiale».

Un movimento che parte dall’America dell’impresentabile Donald Trump.

«Quando i cittadini americani hanno visto che le grandi società della finanza, i media e Hollywood stavano tutti con Hillary Clinton, dopo essersi chiesti se quel mondo li rappresentava, hanno votato Trump. Questo movimento parte da lì, attraversa l’Europa e arriva al candidato brasiliano Jair Bolsonaro».

Il politicamente corretto vuol trasformare le istituzioni in luoghi di bontà?

«Fino al 1960 l’Africa sub sahariana era alimentarmente autosufficiente. È stato il modello occidentale a produrre l’immigrazione e non basteranno i cannoni di Salvini a fermarla. Abbiamo bombardato la Libia, ma si dice che non siamo stati capaci di controllare il dopo Gheddafi. In realtà, la Libia era riconosciuta dall’Onu e l’intervento francese, americano e italiano era fuori dalle leggi internazionali. Il problema non è quello che abbiamo fatto dopo, ma quello che abbiamo fatto prima».

Il caso del sindaco di Riace dimostra che per perseguire una missione le istituzioni possono scavalcare la legge?

«Il re Caronte si oppose alla sepoltura del fratello di Antigone perché aveva violato la legge. Il dilemma tra regole e umanità è uno dei tanti, irrisolvibili, a cui è posto di fronte quest’essere tragico che è l’uomo».

Hai risposto a tutto senza bluffare, solo non mi è chiaro come e quando inizierà la rivolta.

«Smetterò di scrivere, sono stanco».

L’hai annunciato altre volte.

«Mi sto allontanando lentamente dalla vita. La pistola la trovo, mi manca il coraggio».

 

La Verità, 14 ottobre 2018

Corradi: «Con un libro perdono i miei genitori»

«Di notte, quando porto fuori il cane, finisco spesso sotto casa di mio padre che abitava a 300 metri da qui. Guardo. Lo sento presente». Marina Corradi, editorialista di Avvenire oltre che scrittrice, è la figlia di Egisto Corradi, storico inviato speciale del Corriere della Sera e del Giornale di Indro Montanelli, che collaborò a fondare. Un padre vincente, amato da tutti. Eppure il romanzo, molto autobiografico, che Marina ha appena pubblicato per l’editore Marsilio, s’intitola L’ombra della madre. Si chiamava Annamaria Cucchi. Era una nobildonna, bella, elegante, in possesso di due lauree. Ma con un marito sempre in giro per il mondo dietro a guerre, invasioni e alluvioni, si rassegnò alla cura della casa e dei tre figli che divennero il tutto della vita. Un padre monumento e una madre ingombrante. Segnati dal destino.

Lei scampò al naufragio del Sussex, il traghetto britannico che il 24 marzo 1916 affondò nelle acque della Manica, colpito da un U-Boot tedesco che l’aveva scambiato per una nave da guerra. Tra i passeggeri c’era una donna italiana con i suoi due figli, un bambino di due anni e una bimba di cinque mesi. Nel dramma del momento la donna lanciò la bambina agli occupanti di una scialuppa calata in mare, ma finì nelle acque gelide. Affondò. Poi riemerse e fu recuperata da braccia ignote. Superò la notte avvolta nei mutandoni di lana di cui si privò una suora, anche lei naufraga. Quella bimba era Annamaria, mamma di Marina. Quasi trent’anni dopo, il suo futuro marito si salvò dalla Ritirata di Russia che raccontò in memorabili reportage (raccolti in un libro edito da Mursia): «Camminavamo ora veloci ora lenti, a seconda della intensità della tormenta. Io avevo l’impressione di camminare sempre nello stesso luogo, come in un incubo; o di muovere vanamente le gambe sopra un tappeto mobile. Dopo qualche ora la superficie ci apparve rotta da un qualcosa che sembrava un insieme di bassi cespugli. Non erano cespugli, ma una decina di cadaveri. Erano nudi, non si capiva se erano italiani o tedeschi o russi».

Con genitori così non è strano che la vita di Marina sia stata attraversata dall’inquietudine. Che la sua scrittura abbia una grazia speciale nel cogliere l’intimo delle persone. E che la sua casa di Milano sia punteggiata di foto e documenti del padre: la stampa di un volantino della resistenza ungherese contro i sovietici o la cartina che lo orientò nella steppa russa.

La ritirata di Russia, descritta da Egisto Corradi

La ritirata di Russia, descritta da Egisto Corradi

Non è paradossale che il libro s’intitoli L’ombra della madre?

«Ho vissuto più con lei che con lui. Lei ha condizionato la mia infanzia e adolescenza. Soffriva, ma era due persone in una. Per noi figli è stata una lotta di sopravvivenza».

Avrai subito anche l’ombra del padre.

«Ovviamente ne sono stata molto influenzata, anche se era sempre via e l’ho conosciuto e amato tardi. M’illudo di dialogare ancora con lui».

Perché questo romanzo?

«È la storia di una famiglia disastrata che ha vissuto con trent’anni di anticipo il disfacimento della famiglia di oggi».

Che cosa è successo?

«Papà e mamma si conobbero prima, ma si sposarono dopo la guerra. Durante, lui le scriveva bellissime lettere dal fronte. Dopo il matrimonio, papà cominciò a viaggiare per lavoro. Mamma soffriva la solitudine e la vita in casa. Quando mia sorella morì a 14 anni, il castello crollò. La malattia di mia madre peggiorò. Mio padre tornava distrutto dal Vietnam, con la barba lunga e l’impermeabile sgualcito, ma lei esplodeva nel suo risentimento. Si separarono. Eravamo negli anni Sessanta».

La Teresa del romanzo sei tu?

«Nella prima parte sì. Nella seconda ho mischiato le carte perché compaiono persone tuttora vive».

Il marito e padre è un ingegnere di piattaforme petrolifere.

«Anche lui molto assente, costretto a lunghe trasferte».

Di cosa è morta tua sorella?

«Di cancro».

Cos’ha significato per te?

«Sono stata a lungo turbata. Continuavo a chiedermi: vivono tanti stronzi, perché doveva morire una ragazza piena di talento come lei?».

E alla fine?

«C’è qualcosa d’imponderabile che non possiamo stabilire noi».

Tua madre però è crollata.

«La capisco, da quando sono madre anch’io. Se mi capitasse di perdere un figlio così non so come reagirei, pur con tutta la mia fede».

Il naufragio del Sussex da cui si salvò la madre di Marina Corradi

Un’immagine del naufragio del Sussex

Due genitori scampati alla morte: la tua vita è stata dall’inizio un duello col destino?

«Per tanto tempo ho pensato che fosse cieco e casuale. Avevo una visione nichilista: se quello che si è sporto dalla scialuppa per salvare la bambina dall’annegamento non ci fosse riuscito io non avrei sofferto così tanto. Poi, grazie ad alcuni amici, ai figli e a don Fabio Baroncini che è stato un secondo padre, ho scoperto un disegno buono, uno sguardo positivo».

Si avverte la necessità di sentirsi figlia. E di essere madre?

«Diventarlo mi ha sbalordito. Io, che non sono capace di niente, avevo fatto un uomo».

Oltre alla precocità dello sfaldamento familiare, considerato che è un romanzo autobiografico c’è un motivo personale?

«Ce ne sono due. Il primo è che ho rimesso faticosamente insieme i cocci. Grazie all’amore di mio marito e all’esperienza di Comunione e Liberazione ho ritrovato Dio e riallacciato i fili della mia storia. Avevo una nonna cristiana e molto dolce. Il secondo motivo è aver perdonato mio padre per la sua assenza. Ma soprattutto mia madre che, senza volerlo, ci rendeva la vita impossibile».

Come ci sei arrivata?

«È stato un cammino lungo. Anche lei ha sofferto molto. Chi non sa cos’è la depressione, il dolore psichico, non se lo può immaginare. Sono stata aiutata da mio marito. Ho capito che o questo dolore ti distrugge oppure ti migliora».

Anche l’incontro di cui parli potrebbe essere casuale?

«Preferisco credere in un destino buono. Ero incuriosita dal cristianesimo. Mi è venuto il dubbio che un catechismo di divieti mi avesse precluso la sua parte migliore. Ricordo il pomeriggio in cui alla Feltrinelli di Milano ho chiesto I pensieri di Pascal e Le confessioni di Sant’Agostino a un commesso un po’ stranito».

Abbiamo in comune l’amicizia con il professor Eugenio Borgna.

«Gli sono molto affezionata. Possiede una parola taumaturgica, che guarisce».

Quando hai deciso di fare la giornalista? Quanto c’entra tuo padre?

«Fin da piccola scrivevo bene, a scuola leggevano i miei temi. Ho iniziato nel 1981 alla Notte di Livio Caputo. Non sarò mai come papà, mi dicevo, presa dall’imperativo psicanalitico: misurarmi con lui e dimostrarmi brava per essere amata».

E lui?

«Diceva che scrivevo bene, ma che non avevo il mestiere nella pancia. Morì nel 1990. Un anno dopo, per una reazione vitale, mi sono sposata. Oggi gli direi che nella pancia ho avuto tre figli».

Quanto è compatibile il mestiere di inviato con le responsabilità di madre?

«Non lo è. Quando partivo avevo le nausee. Pensavo a mio padre che riceveva le chiamate dal giornale per il disastro del Vajont o per qualcos’altro. Fremente, buttava le cose in valigia e spariva. Avvenire mi ha mandato in posti bellissimi. Ma quando entravo in hotel mi maceravo pensando ai miei figli a casa col morbillo».

Dopo La Notte?

«Sono stata a Repubblica tre anni. Era ideologizzata e io mi annoiavo. Accettai la proposta di Avvenire. Papà ne fu sconvolto. Forse rivedeva il suo passaggio dal Corriere al Giornale. Dopo aver letto una corrispondenza dal Santo Sepolcro mi telefonò per dirmi che aveva capito la scelta».

Come visse l’addio al Corriere?

«Dopo trent’anni in via Solferino fu come un altro divorzio. Si sentiva emarginato, ma fu coraggioso a ricominciare a 60 anni».

Che consigli ti dava?

«Mi diceva: “Vai, guarda e racconta come se scrivessi una lettera al tuo più caro amico”. Quando si parla con un amico non si usano verbosità o astrusità».

Egisto Corradi, inviato gentiluomo

Egisto Corradi, inviato gentiluomo

Dicevi che t’illudi di dialogare ancora con lui: cosa ti direbbe oggi?

«Insisterebbe sull’importanza della precisione per chi fa cronaca. Quand’era sul Po per l’alluvione misurava la piena con un bastoncino, senza fidarsi dei numeri ufficiali. Penso che avrebbe potuto essere più di un cronista. Ma lui ripeteva: “Meglio un bravo giornalista che uno scrittore mediocre”».

Oggi tanti giornalisti modesti scrivono libri ancor più mediocri.

«Non giudico. A me piace soprattutto scrutare gli occhi delle persone. Adoro Georges Simenon, le sue nebbie, i dialoghi. C’è un giallo in cui Maigret dice a un assassino: “Non si rende conto che sto facendo di tutto per tirare fuori l’essere umano che è in lei?”».

Altre letture?

«Dopo aver letto Alberto Moravia, mi sono disamorata alla letteratura italiana contemporanea. Preferisco gli autori del pensiero cristiano: Luigi Giussani, Joseph Ratzinger, Jorge Mario Bergoglio. Mi piacciono Charles Péguy e Etty Hillesum che considero una sorella maggiore, pur senza esser stata nel lager. Da ragazza un altro grande amore è stato Dino Buzzati, uno che ha sempre cercato. Era collega di papà e nostro vicino di casa. Abitava al piano di sotto e si svegliava nel cuore della notte per un tonfo sul pavimento».

Cosa succedeva?

«In Russia papà era stato sfiorato da un carro armato. Adesso era il suo incubo ricorrente. Il carro gli passava vicinissimo e lui rivedeva il numero di matricola. Scostandosi di colpo cadeva dal letto».

Sei contenta di aver scritto questo libro?

«Chissà. Probabilmente, se lo leggesse mia madre s’incazzerebbe perché si parla di lei in termini di verità. Se lo leggesse mio padre anche, perché è un romanzo. Però, a un certo punto, bisogna emanciparsi anche da un padre come Egisto Corradi».

Alla fine vince il destino buono.

«Vince, anche se la positività non mi viene facile. Se non mi fossi convertita mi sarei immiserita brigando per la carriera».

 

La Verità, 28 maggio 2017

 

«Titanic Italia? No, vedo un lento decadimento»

Professore, in Italia si può cambiare posizione politica senza essere etichettati come traditori? «Sì, si può a due condizioni. La prima è che non si traggano vantaggi personali dal proprio cambiamento, perché allora sarebbe un cambiamento tacciabile di opportunismo. La seconda è che si spieghino le ragioni del proprio mutamento». Qualche mese fa Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista principe del Corriere della Sera, autore di interventi di grande lucidità sul momento della nostra Italia, ha mandato in libreria per Il Mulino un saggio intitolato Credere, tradire, vivere. È un’articolata riflessione, in parte autobiografica, che prende le mosse dalla parabola vissuta dalla generazione protagonista del ’68, nella quale molti, lui tra questi, dopo aver idealmente ucciso i padri sostituendoli con nuovi maestri, sono rimasti delusi dalle loro lezioni, oltre che dagli eventi della storia, e hanno deciso di allontanarsi dalle rive della sinistra comunista, chi avvicinandosi alla fede, chi scegliendo altre appartenenze.

In questi giorni Galli della Loggia sta invece preparando l’introduzione a un nuovo saggio in uscita da Marsilio che si concentrerà sugli ultimi vent’anni, per analizzare la crisi delle identità politiche e ideologiche, le nuove emergenze sociali, etiche e ambientali, la perdita dei legami tradizionali.

Da qualche tempo stiamo assistendo all’avverarsi della profezia del filosofo Augusto Del Noce che sosteneva che il vecchio Pci si sarebbe trasformato in un «partito radicale di massa». Sembra anche a lei che oggi la sinistra persegua traguardi di natura etica più che di equità sociale?

«È ciò che sta avvenendo. Ma va detto che, all’epoca, a Del Noce potevano sfuggire alcuni aspetti dell’evoluzione sociale italiana. Oggi non ci sono più gli operai e per i partiti di sinistra votano pensionati, professoresse della Cgil, strati dei ceti medi. Tuttavia, quel che resta del Pd mantiene un minimo collante sociale. Se dovessimo cercare una profezia sulla destra non sapremmo a chi rivolgerci. L’idea di rappresentare il popolo delle partite Iva si è rivelata un’illusione. La destra ha un elettorato, ma non sa esattamente quale sia».

Il filosofo Augusto Del Noce

Il filosofo Augusto Del Noce

Forse perché non ha più un partito perno come qualche anno fa?

«Credo che la causa principale sia la mancanza di argomenti. Oltre l’idiosincrasia nei confronti degli immigrati non riesce ad andare. Anche la promessa di abbassare le tasse è illusoria finché persiste questo mostruoso debito pubblico».

La nuova emergenza sono i temi etici: eutanasia, nuove genitorialità, uguaglianza a tutti i livelli delle coppie dello stesso sesso. Il pensiero unico che sostiene l’emergenza etica è il politicamente corretto?

«Il politicamente corretto è un’ideologia che riguarda una minoranza della popolazione. Forse un milione di persone tra addetti alla comunicazione, intellettuali, strati colti. Dopo il caso del ristoratore di Lodi, ho visto un servizio in tv su una sezione del Pd di Bologna. Bene, gli iscritti erano tutti a favore della libertà di sparare per difendersi. Un’opinione che non differiva in nulla dalle posizioni leghiste. Per il resto, sì: il politicamente corretto è la nostra ideologia ufficiale, non lo è in Francia e Gran Bretagna. Italia e Germania sono politicamente corrette perché devono farsi perdonare il loro passato scorretto».

Non trova che su questi temi il punto di vista dei cattolici sia sottorappresentato?

«I temi etici non possono essere presi in blocco. Anche la Chiesa concorda con la necessità di ridurre l’accanimento terapeutico. Tutt’altra faccenda è l’utero in affitto, una mostruosità che va avversata e punita. Come mostruosa è stata la sentenza di quel tribunale che ha tolto la figlia ai genitori perché ritenuti troppo anziani».

In tema di adozione per le coppie omosessuali i nostri tribunali sono sordi al pronunciamento della Corte di Strasburgo che ha stabilito la necessità di un legame biologico.

«La nostra magistratura opera con l’idea di tutelare i diritti, sostituendosi ai legislatori. È una scimmiottatura del diritto anglosassone per il quale il giudice, anziché applicare la legge come prescrive il diritto romano, difende e instaura dei diritti in modo creativo. Agli intellettuali e ai giornalisti bisognerebbe aggiungere i giudici tra le categorie politicamente corrette».

A destra sembra che si pensi che la risposta al correttismo siano i modi spicci, un certo massimalismo negli argomenti, anziché il discernimento. Concorda?

«Al tuo partito preso contrappongo il mio. L’importante è non affrontare il merito delle questioni. I talk show sono la messa in scena di questi radicalismi simmetrici utili a innalzare gli ascolti. La destra non riesce a organizzare una proposta che vada oltre il rifiuto degli immigrati e il rifiuto delle tasse. Questo la candida a essere votata solo come anti sinistra, non come portatrice di un discorso propositivo autonomo».

Possono essere i populismi la risposta al politicamente corretto?

«Non mi convince il modo in cui viene usata questa parola. Essendo governo del popolo ogni democrazia è in un certo senso populista. È questione di misura, certo. La xenofobia, l’isteria anti islamica e il nazionalismo sono sbagliati. Anche l’uso del termine sovranismo va precisato. La nostra Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo. Da parte leghista si tende a confonderla con la difesa dei confini. La sinistra manifesta disprezzo per i cosiddetti sovranisti, ma quando difende la nostra autonomia dalle ingerenze di Bruxelles, il governo di sinistra si mostra sovranista, e giustamente. In generale, la gente desidera essere padrona a casa propria e governata da persone che parlino la propria lingua. Non mi sembrano esigenze antidemocratiche».

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg

Che cosa pensa dell’affinità elettiva tra il renzismo e i marchi della new technology?

«Parlerei di innamoramento culturale. I grandi marchi americani hanno visto in Renzi il loro portabandiera in Europa. Ma il recente viaggio in California dell’ex premier è sembrato la gita di un ragazzo di Firenze. Che i vari Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e George Soros siano i profeti del futuro è una favola che fa sorridere. Come fa sorridere questa ideologia universalistica in cui siamo tutti pacifisti, animalisti, vegani, propugnatori delle nuove genitorialità e degli uteri in affitto, un po’ new age, il cristianesimo ci fa schifo… È una poltiglia buonista che nasconde certi inferni che si vivono nel mondo. A cominciare da quello delle miniere del Congo, dove in condizioni di schiavitù, si estrae il silicio che arricchisce i big della Silicon Valley. E sul quale il nostro ex premier dovrebbe avere informazioni sufficienti».

Tra ideologia del politicamente corretto da una parte e popolazione poco ascoltata dall’altra che ruolo può avere la Chiesa di papa Francesco?

«Avendo radici sudamericane, Bergoglio non ha lo stesso rapporto drammatico con il Vecchio Continente che aveva il tedesco Ratzinger. In Europa, che crede ormai scristianizzata, Francesco si fa portavoce delle istanze dei poveri del mondo. Le origini sudamericane si notano anche nella critica al capitalismo di sapore anti yankee».

Sui temi etici però sembra allineato con la cultura di Obama…

«Ha scelto una posizione non contrappositiva. Dobbiamo ricordarci che Bergoglio è un gesuita e i gesuiti sono maestri del “caso per caso”. Francesco applica questo spirito gesuitico, non inquisitoriale. Con la possibilità che alla fine risulti vincente nel dialogo con parti importanti della società. La Chiesa ha uno sguardo più lungo, ragiona con i secoli. I cattolici tradizionalisti dovrebbero leggere più libri di storia e riflettere sulla sconfitta del Risorgimento, in cui si è visto che contrapporsi alla modernità e ai valori liberali può essere catastrofico».

A volte certe espressioni di papa Francesco lasciano perplessi.

«Perché parla spesso a braccio. “Chi sono io per giudicare” ha messo in discussione secoli di magistero. Se la sua apertura al dialogo e la sottolineatura della centralità delle periferie porteranno a un concordato con la Cina e il suo miliardo e mezzo di abitanti, avrà avuto ragione lui. Capisco che una parte dei cattolici europei sia in imbarazzo, ma dobbiamo ricordare che la partita si gioca nel mondo intero».

Papa Francesco in una sua tipica espressione

Papa Francesco in una sua tipica espressione

Proviamo a proiettarci nel futuro. Come vede quello di Renzi?

«Ci vorrebbe la sfera di cristallo. Se il 30 aprile vincerà le primarie, avrà davanti la sfida più difficile. Cioè, superata la salita del Pd ne troverà una più ripida. Mi chiedo: alle prossime elezioni il candidato sarà lui o Gentiloni? Infine, bisognerà prendere un voto in più del M5s».

Berlusconi riuscirà a ricompattare il centrodestra?

«Berlusconi è un genio della comunicazione. Con la foto al McDonald’s nella quale leggeva con attenzione il menù, ha parlato a chi frequenta i fast food, agli investitori pubblicitari, a chi guarda la tv. Berlusconi conosce il suo pubblico, ma non sempre il pubblico vota per lui. Però a destra non si vede nessuno che possa essere suo concorrente. Nonostante gli sconfinamenti a Napoli, un leader nazionale non parla come Salvini».

Moriremo grillini?

«Tutto sembra convergere in quella direzione. Anche se in Italia ci sono sempre le intercettazioni…».

Cosa vuol dire?

«Che ci sono tante incognite».

Che cosa pensa dello scambio di favori tra Pd e Forza Italia nel voto sulla mozione di sfiducia al ministro Lotti e per la decadenza da senatore di Augusto Minzolini?

«È evidente che il Pd e Forza Italia sono destinati a governare insieme. Le alleanze si costruiscono anche così, non mi scandalizzo. Detto questo, c’è una faziosità nella politica italiana che spesso impedisce una riflessione approfondita. I grillini non applicano lo stesso criterio quando le indagini riguardano qualche loro esponente. Lotti era in una situazione oggettivamente complicata e anche se non è automatico che scattino sempre le richieste di dimissioni, credo che avrebbe fatto bene a fare un passo indietro. Come in passato fecero i ministri Annamaria Cancellieri, Federica Guidi e Maurizio Lupi».

Ci sono margini di ripresa per il nostro Paese?

«Sono pessimista».

Titanic Italia?

«Non vedo un iceberg, ma una decadenza progressiva. Stiamo già uscendo dal gruppetto di testa delle potenze mondiali in cui pensavamo di stare per diritto. I nostri marchi storici sono preda degli stranieri. Nessuno si occupa dell’assetto idrogeologico del Paese che sta fisicamente sgretolandosi. Ponti, argini…».

 

La Verità, 19 marzo 2017

 

Concentrazioni contro spacchettamenti, vince l’America

Spacchettamento: è uno dei vocaboli più alla moda nel milieu culturale di tendenza nel nostro Paese. Si contrappone al termine nemico: posizione dominante. O all’altra parolona tabù: concentrazione. Vade retro. Antitrust e authority vigilano, accigliate. Guai a favorire posizioni dominanti, concentrazioni, accorpamenti editoriali. Ordunque, in questi giorni si è realizzato l’auspicato spacchettamento: nella fusione in atto tra Mondadori e Rizzoli è stata scorporata la Bompiani che non poteva confluire anch’essa nella casa di Segrate. Ceduta alla Giunti per 16,5 milioni e quasi tutti contenti. Com’è noto, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi ha ulteriormente spacchettato, creando La Nave di Teseo, portandosi dietro buona parte degli autori. Anche Marsilio è uscita dalla concentrazione ed è rimasta ai suoi fondatori, la famiglia De Michelis. Il caso di Bompiani, però, è particolarmente significativo perché sul marchio aveva allungato le sue mire nientemeno che Amazon. Invece, spacchettamento è compiuto e almeno il pericolo di vedere una sigla tra le più prestigiose della narrativa confluire sotto l’ombrello del gigante del web è scongiurato. Sarebbe stata una beffa se la preoccupazione di evitare concentrazioni domestiche ne avesse favorita una internazionale a scàpito della nostra storia.

Il logo della casa editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione tra Mondadori e Rizzoli per decisione dell'Antitrust

Il logo dell’editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione Mondadori-Rizzoli per decisione dell’Antitrust

Perché, ormai, il rischio ricorrente è questo. Mentre noi spacchettiamo, i colossi digitali inglobano, assorbono, acquisiscono. Si allargano a tutti i settori, moltiplicano le piattaforme, estendono i territori del business. Per stare alle ultime manovre, Google sta provando a mettere le mani su Twitter, mentre Apple ha appena annunciato l’interesse per la McLaren, storica casa britannica produttrice di prototipi da competizione, ritenuta utile all’avanzamento del progetto di auto senza pilota. Qualche tempo fa, invece, il colosso di Cupertino aveva mosso i primi passi sul fronte televisivo, per la produzione di nuove serie, nell’intenzione dichiarata di far concorrenza alla solita Amazon che sul terreno della fiction era già sbarcata nel 2014.

La faccenda che fa pensare è la seguente. Queste notizie sono quasi universalmente accompagnate da «ooohhh» estasiati, da esclamazioni di meraviglia. I brand della new technology fanno moda, tendenza, contemporaneità. E, dunque, tutto ciò che viene da lì o passa da lì è, per definizione, bello, positivo, cool. Tra qualche giorno a Napoli Lisa Jackson, vice presidente Apple, inaugurerà il centro europeo per lo sviluppo delle app della Mela e, ovviamente, avrà al suo fianco il ministro per l’Università Stefania Giannini. Le cronache che annunciano l’evento trasudano enfasi. Per non parlare della fibrillazione che circonda la prossima visita a sorpresa, dopo quella del gennaio scorso, di Tim Cook, invece assente all’inaugurazione di cui sopra.

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

I guru dell’high-tech sono ormai di casa in Europa e in Italia, in particolare. Tutti ricordiamo l’accoglienza regale che ha accompagnato a fine agosto la visita di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ricevuto anche da papa Francesco. Qui non si tratta di disconoscere i vantaggi e l’enorme miglioramento della qualità della nostra vita determinato dalle innovazioni introdotte dall’era digitale. Né, tantomeno, al netto del rispetto delle leggi fiscali (la Ue ha appena chiesto ad Apple il rimborso di 13 miliardi di tasse non versate per accordi illegali con il governo irlandese), di frenare l’onda anomala della globalizzazione trincerandosi dietro antistorici protezionismi. O di ostacolare lo scambio d’informazioni e di know how tra le sponde dell’Atlantico. Il problema, semmai, è che più che di scambio, dobbiamo parlare di flusso a senso unico, ovvero dagli States all’Europa e non viceversa. Facendola breve, perché in Europa e in Italia non si affermano guru delle tecnologie digitali? Perché, nonostante gli scopritori del web fossero un belga e un britannico e, dunque, all’origine di questa soria ci fosse il Vecchio Continente, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Larry Page tanto per citare i soliti nomi, sono tutti americani? Perché un marchio come Nokia, che fino a qualche anno fa era tra i leader mondiali della telefonia, è desaparecido tra nuvole molto poco tecnologiche? Domande, solo per capire, e senza risposte preconfezionate. A naso, però, vien da dire che il ritardo europeo in materia non sia principalmente dovuto a limiti intellettuali o di talento creativo. Forse, la questione è più complessa. E potrebbe aver a che fare con l’assetto legislativo del Vecchio Continente. Con le sue griglie amministrative, gli antitrust e le authority che, a differenza dell’economia digitale d’Oltreoceano, vedono come tabù le joint venture e le fusioni editoriali, rendendoci inevitabilmente più lenti nei movimenti e più scettici rispetto alla possibilità di affermare un’idea, realizzare un progetto, lanciare una app. Così, non resta che rassegnarci e accogliere i Ceo di Apple e di Facebook come nuovi messia. E mentre sui giornali scriviamo la nostra avversione alle concentrazioni e teorizziamo gli spacchettamenti editoriali, con l’iphone ordiniamo su Amazon l’ultimo romanzo di Jonhatan Franzen o la biografia di Zuckerberg.

La Verità, 1 ottobre 2016

 

I social network, padri putativi del futuro

Il  dominio delle nuove tecnologie, di Internet e dei social network, è contro la famiglia. C’è un disegno preciso. Una logica economica scientificamente costruita e perseguita. Lo afferma Massimo Gandolfini, medico chirurgo specialista in neurochirurgia e psichiatria, consultore vaticano per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II nonché leader del Family Day. Nel libro-intervista realizzato con Stefano Lorenzetto (L’Italia del Family Day, 234 pagine, 15,5 euro, appena uscito da Marsilio editore) afferma che non è assolutamente un caso se “le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay e gender”. Non è una questione di omofobia o di tabù per certi orientamenti sessuali. No. Per Gandolfini è vero il contrario: la famiglia è un ostacolo al potere sugli individui dei grandi marchi della new economy. Perché i potenti dell’economia digitale preferiscono parlare di individui piuttosto che di persone. “Si dà il caso – dice Gandolfini a Lorenzetto – che nel febbraio 2013 le 200 più importanti aziende americane, tutte insieme, abbiano chiesto e ottenuto da Obama e dalla Corte suprema l’abrogazione del marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c’erano Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay… Multinazionali in grado di orientare l’opinione pubblica e determinare le sorti dei governi”. Una visione maliziosa o apocalittica? Un’interpretazione antimoderna e oscurantista del progresso? Certamente, una bella sassata contro il vetro levigato e luccicante della Rete nuovo paradiso terrestre. Chissà se Carlo Freccero, che tra qualche giorno al Festival della Comunicazione di Camogli dedicato al tema Pro e contro il web terrà una lezione su “Media apocalittici e integrati”, prenderà in considerazione questa analisi di Gandolfini.

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Da qualche tempo la critica contro la Rete ha iniziato ad allargarsi a macchia d’olio. Ho scritto critica, ma in qualche caso si potrebbe cominciare a parlare di rifiuto, di ribellione. Se ne evidenziano sempre più i lati oscuri, le ambiguità.  Internet, e tutto ciò che ne consegue, social network e connessione h24, non è più l’eden della comunicazione. L’eldorado della democrazia. Ci si accorge che il web inevitabilmente riproduce e amplifica i limiti e le ossessioni di chi la usa. E si cominciano a mettere dei paletti per frenare l’ondata invasiva della new technology. È di oggi la notizia proveniente dalla Francia che annuncia i primi accordi tra aziende e sindacati per tutelare “il diritto alla disconnessione“. Niente mail, niente messaggini di emergenza, niente più reperibilità costante fuori dall’orario di lavoro per i dipendenti di aziende con più di 50 persone, come consente la Loi Travail. Si è scoperto che la connessione abbassa la qualità del lavoro, aumenta lo stress, toglie quella lucidità che proviene dal distacco, dal recupero di una distanza psicologica di sicurezza. Troppe sollecitazioni fanno sì che, come ha sintetizzato il sindacalista Jérome Chemin, “non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Nel nostro circo mediatico, dopo l’invenzione del neologismo webete, Enrico Mentana è diventato il guru dell’anti-Rete. Un ruolo consolidato dai successivi post su Facebook, sempre conditi di fulminanti giochi linguistici come l’ultimo riguardante “i Bufala Bill del Far Web“, i quali, senza darsi troppa pena a documentarsi, discettano contro il giornalismo fazioso che non darebbe certe notizie per amplificarne altre. Storia vecchia come la stilografica. Che, tuttavia, “i Bufala Bill” suffragano con il 77esimo posto assegnato da Reporters sans frontières all’Italia nella classifica della libertà di stampa. In realtà, scrive Mentana, quella posizione così bassa non ci è affibbiata “per la scarsa qualità o indipendenza dei nostri giornalisti, ma per l’esatto contrario”, ovvero a causa delle loro coraggiose inchieste che li espongono alle minacce della criminalità o a imputazioni giudiziarie. Come si vede la critica al web di Mentana non nasce da un neoluddismo del Terzo millennio, tant’è vero che la confeziona su Facebook. Ma riguarda l’uso che alcuni – molti, troppi – fanno dei social (Twitter in particolare). In sostanza, non c’è una sorta di stupidità da like, quanto una stupidità di persone che fanno uso di strumenti digitali. C’è una presunzione diffusa nella società contemporanea, una megalomania mediatica per la quale chiunque, avendo a disposizione una tastiera o uno smartphone, si sente in diritto di mettersi sul pulpito a pontificare e impartire lezioni all’universo mondo. Nessuno darebbe mai un mitra a uno psicolabile che si aggira in una piazza affollata. Salvo il fatto che il web non uccide (ma bisognerebbe riflettere anche su certi fenomeni di cyber-bullismo) la questione è la stessa. Ecco perché si comincia a riflettere sul fatto che la Rete è uno strumento incontrollato, nel quale ognuno senza autorevolezza alcuna può dar libero sfogo alla parte peggiore di sé.

 

 

Qualche giorno fa anche Alessandro Sallusti in un editoriale intitolato “Tenete i cretini fuori da Internet” ha proposto una sorta di moratoria digitale. “Non so se da qualche parte esista un interruttore di Internet. Se esistesse il mio sogno sarebbe di spegnerlo e vedere l’effetto che fa – ha scritto il direttore del Giornale -. Che diavolo ce ne facciamo di tutta questa presunta democrazia, di questa libertà senza regole e confini? A mio modesto avviso nulla, se non illudersi di esistere postando nel mondo stupide fotografie”.

Inventando "webete", Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Inventando “webete”, Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Chissà che cosa ne pensano le multinazionali citate da Gandolfini nell’intervista con Lorenzetto. A differenza di quella di Mentana e di Sallusti, o anche della scelta introdotta dalla legge francese, quella del leader del Family Day non è una critica all’uso soggettivo dell’economia digitale, quanto alla cultura che la alimenta e la sta trasformando in un nuovo potere dominante. Al quale, per dispiegarsi senza freni, serve una società debole. “Perché le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay o gender? – si chiede Gandolfini -. Perché una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli, è altissimamente condizionabile da qualsiasi input proveniente dall’esterno. Non esiste più il contraltare rappresentato dai valori della famiglia tradizionale. Anzi, a dirla tutta, – scherza ma non tanto Gandolfini – non esiste più nemmeno l’altare”. In questo modo le persone vivono “in uno stato di anomia. La relazione diventa esclusivamente individuale. Avremo un mondo di figli che non hanno più genitori, nel senso che ne avranno cinque o sei, e che cercheranno le ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, basti vedere che cosa già rappresentano per loro oggetti come l’Iphone o l’Ipad… E con chi puoi instaurare una relazione forte, significativa, realmente accudente, se non esiste più la famiglia? Con Facebook, con Twitter, con Google+, con Instagram…”. Sono questi, i social network, i nostri nuovi genitori putativi.