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«Il no alla legge anti Gpa è un sì al mercato dei bimbi»

Nel dibattito sull’utero in affitto e le politiche in favore della vita alcuni aspetti sono distorti, altri sottaciuti. Ne abbiamo parlato con il ministro per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Roccella.
Ministro Eugenia Roccella, ci mancava il conflitto con l’Ordine dei medici.
«Non c’è nessun conflitto, casomai un dibattito. Riconosco che segnalare le notizie di reato quando un medico ne viene a conoscenza è un problema molto delicato. Non a caso esistono una legislazione e un’ampia letteratura giuridica, oltre che di bioetica, sull’argomento».
Proviamo a dettagliare?
«L’articolo 361 del Codice penale stabilisce che, nelle vesti di pubblico ufficiale, il medico è tenuto a segnalare la notizia di reato. Mentre l’articolo 365 crea un’eccezione, in quanto bisogna salvaguardare il rapporto di cura quando è a rischio la salute della persona che si dovrebbe segnalare».
Bel dilemma.
«È un dilemma che i medici affrontano da sempre, per esempio quando si imbattono in una violenza sessuale o in molte circostanze che si verificano nei pronto soccorso. Oppure quando hanno il sospetto che si sia davanti a un possibile traffico d’organi o di fronte a maltrattamenti o abusi su minore».
Di solito come si comportano i medici?
«Non c’è un comportamento univoco, la responsabilità è di ogni singolo medico nelle diverse situazioni. Da moltissimi anni esiste questa normativa: un articolo che invita a segnalare il reato e un altro che invita a preservare la relazione di cura. Non si tratta di un provvedimento di questo governo né, tantomeno, io ho incitato qualcuno alla denuncia».
La accusano di aver invitato i medici a fare le spie.
«Questo modo di affrontare il problema è banale e semplicistico. E non tiene conto di tutte le implicazioni né di una prassi con regole già in uso. I pronto soccorso da sempre sono tenuti a stilare dei referti. Per esempio, grazie alla legge contro la violenza sulle donne si sollecita l’iniziativa del medico, che può essere risolutiva perché esistono tanti casi sommersi di donne che non denunciano».
Perché di fronte alla maternità surrogata perseguibile anche se praticata all’estero i medici vogliono limitarsi a curare?
«Adesso chi dice che, di fronte a ipotesi di reato, è chiamata in causa la responsabilità del medico passa per illiberale e repressivo. In realtà, secondo me, dietro questo atteggiamento c’è il fatto che l’utero in affitto non è davvero considerato un reato».
Mentre giuristi, legislatori e ordini professionali discutono in punta di diritto, i veri soggetti deboli della vicenda restano i bambini e le madri biologiche?

«È così. Un importante medico e scienziato, ora senatore Pd, ha dichiarato che l’utero in affitto sarebbe addirittura un’azione terapeutica. E una parte dell’opinione pubblica non lo considera un disvalore o un reato, anzi. Manca solo che lo inseriamo nei livelli essenziali di assistenza. Fino a prima della nostra azione, chi tornava in Italia con il nuovo bambino aveva visibilità sulle riviste patinate e in tv che inneggiavano alla bellezza di essere genitori. Chissà perché questa bellezza non si sottolinea mai per i genitori naturali».
Né si sottolinea la condizione della madre che si presta alla Gpa.
«È terribile. Una persona che viene cancellata dopo essere stata usata e non potrà continuare la relazione simbiotica e fondante la personalità del bambino stesso, iniziata nel suo grembo».
L’espressione «reato universale» che sembra uno stigma planetario è una debolezza della nuova legge?
«La legge che vieta la maternità surrogata è in vigore dal 2004. Noi abbiamo visto che il divieto veniva aggirato e la Gpa sempre più normalizzata dalle fiere della procreazione assistita che promuovono l’opzione della compravendita dei gameti e dell’utero in affitto. La legge vieta anche la propaganda della maternità surrogata, ma non si è mai verificato se in quelle fiere veniva violata o no».
Reato universale però rimane un’espressione poco felice.
«È semplificatoria e non l’ho mai usata. Abbiamo corretto una legge vigente per evitarne l’aggiramento e perseguire il medesimo reato quando commesso all’estero».
Sembra che persino il Dipartimento di Stato americano sia preoccupato.
«È una legge italiana e la perseguibilità all’estero riguarda solo i cittadini italiani».
Qualcuno sostiene che non è applicabile perché in molti Paesi si può praticare.
«Ricordo che per certi reati la perseguibilità all’estero è automatica, noi in questo caso l’abbiamo resa esplicita per la gravità dell’azione. Esiste una rete internazionale che ha esultato di fronte alla nostra iniziativa – che, ribadisco, è solo un’estensione – perché vorrebbe abolire la Gpa in tutto il mondo rendendolo davvero reato universale».
L’aggiramento della legge italiana è così diffuso?
«Ovviamente, riguarda una piccola minoranza. Ma essendo un fenomeno in crescita ovunque, era necessario intervenire».
Come funziona?
«C’è un’organizzazione transnazionale che mette in contatto alcuni centri di procreazione assistita con quelli che praticano la Gpa. Così può accadere che si comprino i gameti in un paese dell’Est, vengano conservati in una biobanca del Nord Europa e si vada a fare l’inseminazione in un terzo Paese. C’è un’organizzazione di consulenti legali intorno all’intero sistema perché la caratteristica di questa genitorialità è il contratto. Si diventa genitori attraverso un passaggio di denaro».
Non proprio un dettaglio.
«Che nasconde un’altra ipocrisia. Comprare un bambino già nato è reato in tutto il mondo, mentre ordinarlo da committente in alcuni Paesi non lo è. Perché puniamo la compravendita di un bambino, ma ordinarlo va bene? Credo che il mercato si debba fermare: non si comprano, non si vendono e non si affittano gli esseri umani».
Come avviene l’ordinazione?
«Sui cataloghi dove si privilegiano gli ovociti di donne belle e giovani che trasmettono il dna del nascituro. Si scelgono anche le caratteristiche e il colore della pelle, con un’azione che ha un risvolto razzista perché gli ovociti delle donne di colore costano meno».
Nichi Vendola l’ha definita un ayatollah in gonnella dicendo che non sa niente di lui, di suo marito e del loro bambino?
«
Non giudico mai le persone singole e che io non sappia niente è ovvio. Purtroppo, non sappiamo niente nemmeno della madre che gli ha venduto gli ovociti né di quella che ha partorito il bambino».
Il ricorso alla maternità surrogata riguarda molte coppie eterosessuali.
«Certo, il punto fondamentale è la pratica. Ma anche nella galassia Lgbtqia+ ci sono associazioni che non la approvano, come Arcilesbica, e persone singole come Anna Paola Concia o Aurelio Mancuso, notoriamente contrarie».
Le femministe vi hanno appoggiato quanto speravate?
«Un’ampia parte del movimento internazionale ci appoggia. Un’altra parte è appiattita sulla sinistra che è in forte imbarazzo su questo tema. Infine, c’è il transfemminismo più giovanile che è favorevole in nome dell’autodeterminazione di genere e dell’idea che “il corpo è mio”. Queste organizzazioni chiedono: perché se posso donare un rene non posso donare l’utero? In realtà, sulla donazione di cellule del corpo umano esiste una legislazione molto puntuale. Non si può vendere nulla e anche la donazione solidaristica è fortemente regolata. In nessun Paese al mondo, invece, esiste una Gpa davvero solidaristica».
Perché?
«Perché quell’organizzazione transnazionale è molto radicata e coinvolge professionalità diverse che richiedono un pagamento molto consistente. A cominciare dalla consulenza legale e proseguendo con le altre operazioni nei laboratori, nelle banche del seme e dei medici».
Non ci sono singole donne che si prestano gratuitamente per la gravidanza?
«Se avviene in un rapporto di fiducia, in una relazione di condivisione, non serve una legge né un contratto. Nella realtà, il committente vuole essere garantito e quindi chiede il contratto».
I bambini già concepiti con la maternità surrogata come saranno trattati?
«Come tutti i bambini. L’ha riconosciuto anche la Corte europea, respingendo i ricorsi sul tema e attestando che in Italia i diritti dei bambini sono garantiti. Come lo è la riconoscibilità dei partner come genitori tramite la cosiddetta adozione in casi particolari».
Come funziona?
«Secondo una certa narrazione è diventata improvvisamente lenta e farraginosa. In realtà, è una procedura in vigore dal 1983 per la quale sono passate tante donne che avevano un figlio non riconosciuto dal padre o il cui padre era morto».
Il governo che cosa sta facendo per contrastare la denatalità?

«Intanto, inserendo la natalità nelle funzioni del ministero l’abbiamo messa al centro dell’agenda politica. Finora era un tema rimosso e parlarne era considerato un po’ da fascisti. Se ne occupavano solo alcuni esperti e demografi che ogni tanto lanciavano l’allarme. Noi abbiamo stanziato 1,5 miliardi nella prima finanziaria, 1 miliardo nella seconda e 1,5 in questa».
Concretamente?
«Abbiamo messo al centro la conciliazione tra vita e lavoro. Cioè, asili gratis dal secondo figlio, congedi parentali potenziati, aumento dell’assegno unico, decontribuzione per le madri lavoratrici e, in questa finanziaria, il bonus per i nuovi nati. Tuttavia, ricordiamo che in tutto il mondo le nascite diminuiscono nei Paesi a maggior livello di benessere».
Quindi l’inverno demografico è causato dalla scarsità di aiuti in favore della procreazione o da un’idea di vita radicata nelle giovani coppie basata sul tempo libero e i weekend lunghi?
«Le cause sono diverse. Sul piano personale e del progetto di vita, il fatto di avere dei sostegni economici e di servizi, e un clima amichevole nel posto di lavoro verso chi è genitore, in particolare le donne, incide parecchio. È a questo livello che i governi possono intervenire. Poi resta da esplorare in profondità la connessione tra benessere e denatalità: l’Europa e l’Occidente ma anche la Cina e molti Paesi asiatici sono in pieno inverno demografico».
È la cultura dei diritti a renderci così fragili? Avere figli in qualsiasi modo o, al contrario, rifiutarlo interrompendo la gravidanza, sono davvero diritti?
«Non penso che avere un figlio o non averlo si possano configurare come diritti. Sono delle libertà che dobbiamo garantire, ma non tutte le libertà possono tradursi in diritti veri e propri. Certamente, c’è una cultura che, in qualche modo, non incoraggia. Penso che si facciano figli come sovrabbondanza di vita, che i figli derivino da un sentimento di felicità dell’essere al mondo. Perciò dobbiamo capire perché questa felicità si sta così accartocciando su sé stessa».

 

La Verità, 26 ottobre 2024

«Vedo sempre Napoli, sirene arabe per Mancini»

Maurizio Pistocchi, volto storico dello sport di Mediaset, posta sui social video di spiagge da sogno che scatenano l’invidia di chi lo segue. Calette sarde, da dove, in attesa della ripresa del campionato, si gode gli ultimi giorni di vacanza e il successo di vendite di Juventopoli. Scudetti falsati & altre storie poco edificanti (Piemme), il libro che ha scritto con Paolo Ziliani, collega del Fatto quotidiano con il quale ha a lungo collaborato nei programmi della tv commerciale.

Pistocchi, che cosa sta succedendo nel calcio?

«Il calcio italiano è nella stessa situazione del Paese: senza risorse e senza idee».

I petrodollari si stanno comprando tutto?

«La Saudi league fa quello che facevamo noi negli anni Novanta, quando i migliori calciatori venivano in Italia non perché avessimo il campionato migliore del mondo, ma perché avevamo i soldi. Lo stesso si può dire della Premier league di adesso. I calciatori vanno dove sono pagati meglio e di più».

Cinquant’anni fa il calcio ha scoperto l’America e poi la via della Cina: che cos’ha di diverso il vento d’Arabia?

«Arriva da un Paese ricchissimo che ha investito in tutti i business più importanti del pianeta. Saudi Aramco, promotore della Saudi league, possiede più di 500 miliardi di dollari e un progetto di sviluppo sia della Lega calcistica che dell’intero Paese. È un progetto molto ambizioso, in vista dell’organizzazione dei Mondiali».

Ostacoli sul percorso?

«Certamente si scontrerà con tanti pregiudizi. Nonostante le offerte ultramilionarie, molti giocatori hanno declinato l’invito a causa di un ambiente che limita le abitudini dei calciatori occidentali. Le mogli, spesso protagoniste dello star system, non si sentono a proprio agio in un Paese in cui la donna ha un ruolo diverso».

È stupito che il segno della croce con cui Cristiano Ronaldo ha festeggiato il gol che ha qualificato la sua squadra alla finale della Champions non abbia causato contestazioni?

«Ronaldo è stato scelto come front-man di tutta la Lega, perciò non mi aspetto limitazioni ai suoi comportamenti. Se gliele imponessero se ne andrebbe. Credo abbia chiarito fin dall’inizio le sue libertà».

Fino all’anno scorso l’Arabia attraeva giocatori a fine carriera, come mai ci sono andati Koulibaly, Milinkovic Savic o Kessie?

«Gli ingaggi sono di gran lunga più alti. Finora nella Saudi league sono stati investiti 600 milioni di euro, ma per una realtà così ricca sono briciole. Se Mohammad bin Salman vuole costruire una Lega tecnicamente forte e seguita dal grande pubblico questa strada è giusta solo in parte. Servono scuole e centri di istruzione dove i migliori allenatori del mondo possano insegnare calcio. Sono partiti dall’alto, chiamando giocatori già affermati, ma perché non resti un fatto episodico adesso devono costruire le fondamenta».

Di fronte a una realtà così potente è romanticismo difendere storia e identità dei club?

«Sarebbe bello che in un mondo dove la valutazione professionale delle persone è determinata dal denaro il calcio si distinguesse. Le storie alla Gigi Riva o alla Giacinto Facchetti non esistono più. L’ultimo dei mohicani è stato Francesco Totti. Alcuni anni fa, quando passò dal Barcellona al Real Madrid, Luis Figo fu soprannominato pesetero, da peseta. Oggi sono tutti peseteros».

Che cosa pensa del caso Lukaku?

«Penso che si stia esagerando. Nel mondo, tutti i giorni, centinaia di professionisti lasciano un team o un ufficio per guadagnare di più o perché non si sentono valorizzati. Lukaku ha diritto di andare a giocare dove crede. Dopo che si è esposto con dichiarazioni smentite dai fatti, potrà spiegare il perché oppure no. Penso che la sua volontà sia stata determinata dalla gestione di Simone Inzaghi: se uno è un giocatore davvero fondamentale non lo si tiene in panchina nella partita più importante della stagione».

Quanto influiscono in queste decisioni i procuratori?

«I procuratori guadagnano dai trasferimenti dei giocatori, ma chi decide sono sempre i giocatori. A volte sono le società a spingere per le cessioni perché servono a sistemare i conti. Il calciatore può rifiutarsi, con il rischio di produrre una frattura difficilmente sanabile».

Zlatan Ibrahimovic che ha giocato in tutti i club europei più titolati non ha mai vinto la Champions league.

«Ibrahimovic è un campione straordinario, ma individualista. Il povero Mino Raiola ha fatto un grande lavoro per valorizzarlo, fin dai tempi dell’Ajax. Ma nel calcio il talento dev’essere funzionale alla squadra. Messi e Ronaldo si mettono a disposizione della squadra, Ibrahimovic è enorme per forza fisica e tecnica, ma la squadra dev’essere al suo servizio».

Cosa pensa della cessione al Newcastle di Sandro Tonali che doveva essere il perno del Milan del futuro?

«È una di quelle situazioni un po’ obbligate nelle quali il club caldeggia l’affare per finanziare parte della ricostruzione. Il Milan sta allestendo una squadra molto interessante, con giocatori di talento come Reijnders, Loftus-Cheek e Chukwueze. Vedremo se Pioli saprà darle un’identità e renderla protagonista dopo la delusione dell’anno scorso».

E dell’Inter che ha acquistato Cuadrado, il più inviso degli avversari?

«Cuadrado è uno dei giocatori più forti della Juventus degli ultimi cinque anni. Credo che sul piano tecnico sia un’operazione ottima. Però parliamo di un calciatore che ha avuto comportamenti poco sportivi. Sta a lui essere intelligente e togliersi di dosso la fama di simulatore e provocatore».

Il caso Lukaku, la cessione di Tonali e l’acquisto di Cuadrado: questo calcio procede a dispetto dei tifosi?

«Il tifoso oggi non può più essere quello degli anni Ottanta o Novanta. Oggi si tifa la maglia, la squadra, lasciando perdere se possibile l’aspetto affettivo del rapporto con i giocatori».

C’è troppo poca considerazione dei tifosi nel sistema calcio?

«I tifosi sono come il parco buoi della Borsa. Pagano gli abbonamenti allo stadio e alle tv e acquistano il merchandising. Invece si dovrebbero inserire nell’azionariato delle società come ha fatto il Bayern Monaco».

Si aspettava che fossero giudicati diversamente i comportamenti che con Paolo Ziliani raccontate in Juventopoli?

«Sì. Con Paolo, professionista che stimo da molti anni, abbiamo fatto un gran lavoro. Mi auguravo che una volta tanto la legge fosse davvero “uguale per tutti”. Perché il Chievo è sparito, invece in questo caso sono state fatte valutazioni diverse? Detto ciò, rispetto i verdetti e credo nel superiore interesse della giustizia. Ma chi legge il nostro libro si renderà conto che quanto è successo quest’anno ha avuto un epilogo per certi versi sconcertante».

Siccome la Juventus è il vero potere forte della Serie A si finisce sempre per condonarla?

«Quest’anno c’è in ballo il rinnovo dei contratti tv. Essendo gli juventini in maggioranza tra i tifosi, lo sono anche tra gli abbonati di Sky e Dazn e tra i lettori dei giornali. Sono una quota irrinunciabile. Tanto più considerando che il nostro calcio, con un fatturato di 4 miliardi e debiti per 6, dovrebbe portare i libri in tribunale. Rinnovare i diritti tv in un momento così spaventava al punto che le varie offerte sono state secretate e saranno svelate solo a ottobre. Questa situazione è stata la premessa per giungere a una sentenza politica».

La Juventus ha un bilancio in rosso ma, per fare un esempio, dopo aver bocciato Arthur, Paredes, Zakaria e McKennie ora Allegri vuole Amrabat.

«L’allenatore dovrebbe essere un manager che, come in tutte le aziende, non può licenziare a destra e a manca senza ottenere risultati».

Cosa pensa dell’informazione sportiva italiana?

«Di informazione vera e propria se ne fa poca e si contribuisce molto poco alla crescita della cultura sportiva del Paese».

Perché Luciano Spalletti si è fermato dopo aver vinto lo scudetto?

«Per la mancanza di feeling con Aurelio De Laurentiis e per il timore di deludere i tifosi. A Napoli è particolarmente difficile vincere, l’ultima volta era accaduto con Diego Armando Maradona. Molti segnali facevano pensare che la squadra non si sarebbe rinforzata. Spalletti ha fatto qualcosa di straordinario, penso che alla fine abbia fatto la scelta giusta».

Carlo Ancelotti fa bene ad andare ad allenare il Brasile?

«Ad Ancelotti, persona fantastica e grandissimo allenatore, manca vincere con una nazionale. Il Brasile spesso non ha vinto perché ha interpretato alcune competizioni in maniera goliardica. Ma ricordiamoci che è pentacampeão, ha vinto più di tutti. Vedo bene Ancelotti alla guida di una nazionale che pratica un calcio giocato con allegria e divertimento».

La convince di più Stefano Pioli o Simone Inzaghi?

«Nessuno dei due».

Chi la convince?

«Maurizio Sarri, Luciano Spalletti, Roberto De Zerbi, Davide Ballardini».

Cosa pensa delle difficoltà delle nostre nazionali?

«Molti anni fa Roberto Baggio preparò un progetto che voleva riqualificare tecnicamente il calcio italiano partendo dai centri di formazione come quelli attivi in Germania e in Francia. Quella relazione giace nel cassetto dei presidenti federali che si sono succeduti da allora. Si sa che le rifondazioni mettono in discussione posizioni consolidate. Perciò si continua a vivere di improvvisazioni».

Pochi giorni fa sono stati ampliati i poteri di Roberto Mancini.

«Mancini ha dovuto lavorare in una situazione di grande difficoltà. Basta considerare che, a parte Immobile, la classifica dei cannonieri è tutta composta da calciatori stranieri. Non abbiamo più attaccanti di livello mondiale come ai tempi di Vieri, Inzaghi, Totti, Del Piero e Luca Toni. Fonti ben informate mi assicurano che per Mancini sia pronto un contratto molto danaroso nella solita Arabia».

Le piace Gianluigi Buffon capo delegazione?

«Siamo passati da Gigi Riva a Gianluca Vialli a Buffon, che è stato un grandissimo portiere. Non altrettanto si può dire di lui sul piano etico e comportamentale».

Cosa pensa di squadre come il Milan o l’Atalanta con uno o due calciatori italiani?

«È triste, ma è la conseguenza di una situazione generalizzata. Una volta la Juventus dava sei o sette giocatori alla Nazionale, oggi ha un portiere polacco, tre difensori brasiliani e solo due calciatori italiani, Chiesa e Locatelli».

La sua griglia per lo scudetto?

«È composta dal Napoli, dal Milan che ha preso giocatori interessanti, dall’Inter che è forte ma per me gioca con un sistema che la limita, dalla Juve che si può concentrare sul campionato. Questa è la mia griglia, con il Napoli un gradino sopra se tiene Osimhen».

 

La Verità, 12 agosto 2023

«All’algoritmo sarebbe sfuggito il genio di Rivera»

L’uomo del mercato: Walter Sabatini. Tra i più geniali e fantasiosi. Sicuramente il più tormentato. Da calciatore, una carriera di sogni incompiuti: «Volevo essere Gianni Rivera», ma «l’urgenza di dimostrare il mio talento fu, prima tra tutte, la mia condanna perché mi indusse a giocare un calcio bizantino, fatto di orpelli solitari e inutili. Non ero in grado di concorrere al fine comune», scrive in Il mio calcio furioso e solitario, da poco uscito da Piemme. Da direttore sportivo ha fatto la fortuna delle società per le quali ha lavorato. Scopre e porta alla Lazio giocatori come Aleksandar Kolarov e Stephen Lichtsteiner. Al Palermo di Maurizio Zamparini lo seguono Josip Iličić e Javier Pastore. Alla Roma ecco Miralem Pjanić, Marquinhos, Radja Nainggolan, Mohamed Salah. Nel gennaio 2022, appena chiamato alla Salernitana, conclude dieci acquisti in una settimana, tra i quali Ederson e Simone Verdi, che portano alla miracolosa salvezza del club.
Lo abbiamo in mente avvolto nel fumo della sigaretta, fronte aggrottata, barba incolta, come compare anche sulla copertina del libro.

Quante sigarette fuma al giorno?

«Zero. Ho fumato tutte le sigarette del mondo e adesso non ce ne sono più per me».

Obbligo di salute?

«Un’imposizione del mio fisico. Per i miei polmoni a brandelli non c’è nessun’altra possibilità».

Fumava più o meno di Gigi Riva?

«Penso di più. Sessanta al giorno per 40 anni».

Anche da giocatore?

«Certo».

Cos’è il calcio, passione?

«Soprattutto, non solamente. Senza passione non si va da nessuna parte. Il talento da solo non basta».

Scoperta che si fa subito o, a volte, troppo tardi?

«Io l’ho imparato tardi. Mi illudevo di esprimere il talento pur con qualche distrazione. Invece, il mio talento non produceva effetti. Ero un grande calciatore che non capiva il calcio».

Che invece è una professione.

«Ovviamente».

Anche una religione?

«Pier Paolo Pasolini l’ha definita l’ultima rappresentazione sacra contemporanea».

Un tormento, un’ossessione?

«Per me, sì. Un’ossessione, un tormento, un batticuore quotidiano. L’ho vissuto pienamente sulla mia pelle».

A che prezzo?

«Salatissimo, il mio fisico è conciato davvero male. Sono stato un uomo eccessivo, che ha voluto far tutto di corsa. Finché il mio corpo mi ha chiesto di fermarmi. Ora è un corpo sofferente, ma non ho nessun rammarico».

Il libro è una lunga lettera a suo figlio Santiago, nome in onore di chi?

«Di nessuno. È un nome che mi piaceva, da frequentatore ideologico del Sudamerica. Anche il pescatore di Ernest Hemingway si chiama Santiago».

Scrive di non aver «mai ceduto al nichilismo», eccetto che nei confronti del suo corpo «trasformato in un campo di battaglia». A che tipo di nichilismo avrebbe potuto cedere?

«Al nichilismo rispetto alla vita: il non affrontare i grandi temi cercando delle compensazioni. Non ho mai evitato di prendere certi pugni in faccia. Non ho mai nascosto i problemi agli altri, l’ho fatto solo con me stesso».

Il corpo campo di battaglia invece cos’è?

«L’ho usato così. Non ero un direttore sportivo, ma un acrobata del calcio. Ho fatto cose inimmaginabili, disdicevoli per il mio fisico».

Me ne dica una.

«Cinque giorni dopo essere uscito dalla clinica per un tumore ai polmoni sono andato in Sudamerica. Poi, una volta lì, ho intrapreso un altro viaggio in auto nell’interno dell’Argentina. Queste cose si fanno a danno della propria salute. Sono tornato in Italia con un pneuma toracico».

Non c’era nessuno vicino a fermarla?

«Ovviamente sì, ma ho sempre sfondato la soglia del rischio. Mia moglie e altri mi trattenevano per la giacca. Ma ci sono andato perché credevo non tanto di poterlo fare, quanto di doverlo fare».

Cosa vuol dire concretamente che ha un cervello di sinistra e un corpo di destra?

«Il mio cervello è liberale, aperto, inclusivo, dialogante. Il mio corpo no perché in certe circostanze ha reazioni violente. Il mio corpo è diretto, colpisce e si fa colpire».

Quante volte si è dimesso da direttore sportivo?

«Tante, non ricordo quante. Sono in doppia cifra, come i grandi attaccanti».

C’è un motivo di fondo o ricorrente?

«Il mio corpo di destra perde il controllo, quindi si dimette e se ne va. Con la testa saprei gestire meglio le situazioni, ma il mio corpo non la ascolta».

La sua idea romantica di calcio la fa litigare?

«Non ho un’idea romantica del calcio, è un luogo comune. Ho un’idea sublime del calcio. Se Eschilo e Sofocle, o lo stesso Shakespeare, avessero conosciuto il calcio, avrebbero rappresentato le loro tragedie mettendo negli anfiteatri calciatori e allenatori, e il pubblico a rappresentare il coro».

È intransigente, intollerante?

«L’ho ammesso più di una volta».

C’è qualcuno con cui va o è andato d’accordo?

«Con alcuni presidenti e dirigenti meravigliosi come Adriano Galliani. Ho avuto un ottimo rapporto, seppur litigioso, con Claudio Lotito e Maurizio Zamparini».

Con Galliani però non ha mai lavorato.

«Ma lo giudico il miglior dirigente calcistico italiano del dopoguerra».

Che cos’è la Walter Sabatini consulting team?

«Un’agenzia di consulenza. Un tentativo di sviluppo oggi necessario della figura del direttore sportivo classico che sta tramontando. Cerco di rinnovarmi perché i tempi lo richiedono».

Che caratteristiche devono avere gli osservatori del suo team?

«Grande sensibilità, forza di volontà e soprattutto grande perseveranza».

Gli osservatori possono essere sostituiti dagli algoritmi?

«Supportati, non sostituiti».

Come possono gli algoritmi controllare l’infinità di variabili che si producono in un campo dove si fronteggiano due squadre composte da 11 giocatori?

«Il calcio sfugge alla statistica fredda, ma gli algoritmi possono ridurre il margine di errore. Il calcio non è il baseball e le variabili sono troppe per essere calcolate da un algoritmo».

Parliamo del mercato di quest’anno: l’affare migliore, finora?

«Non è ancora stato fatto. Per lo meno io non l’ho visto».

Quale potrebbe essere?

«Non ne parlo».

E il peggiore?

«Non ho visto nemmeno questo. Ho visto uscire dei giocatori dal nostro campionato, un fatto doloroso ma anche necessario».

Parlando dei tempi in cui giocava scrive che «i soldi, al pari della fama immediata, ottundono le menti e innescano comportamenti spesso incomprensibili». Oggi è ancora più vero?

«È vero oggi come lo era ieri. È sempre stato vero per tutti in qualsiasi momento».

Cosa pensa del fatto che l’Al Alhi, una società araba, è disposta a sborsare per Paul Pogba 150 milioni di ingaggio per tre stagioni?

«Gli arabi sono intervenuti nel mercato di un campionato nel quale non competono con una forza potentissima per prendere i calciatori, ma non riusciranno a prendere la cultura. Per acquisire anche quella devono avere pazienza. Per adesso acquistano i calciatori. Non basterà».

Milinkovic Savic fa bene a trasferirsi all’Al Hilhal a 28 anni?

«Non vorrei parlare di casi specifici. Avrà ragionato con la sua famiglia e penserà che gli convenga».

Ho letto che disprezza la vendita di Sandro Tonali al Newcastle.

«Molto. Il Milan, una società con una tradizione solidissima, non doveva rinunciare a un campione giovane che ha vinto lo scudetto ed era leader in campo. Io non l’avrei mai fatto anche se si trattava di un’operazione remunerativa e hanno preso tanti soldi».

Qual è stato il suo miglior affare come uomo mercato?

«Marquinhos alla Roma».

Poi capitano al Psg, altri nomi?

«Li sanno tutti».

Chi è il miglior allenatore che ha visto?

«Luciano Spalletti».

Perché si è ritirato dopo aver vinto lo scudetto?

«Fa parte del suo carattere tormentato».

Molti allenatori si fermano dopo la conquista di uno scudetto o cambiano aria perché è difficile ripetersi?

«Lo stress è notevole. Quelli che lo soffrono di più hanno necessità di ritemprarsi».

Anche Fabio Grosso che ha conquistato la promozione in Serie A col Frosinone?

«Grosso è un ragazzo speciale, di un’intelligenza rara. Se lo ha fatto deve aver avuto motivi seri».

Consigli un calciatore a una squadra nel mercato attuale.

«Non ci penso neanche, sarebbe deontologicamente scorretto».

Quante partite vede in una settimana?

«In piena stagione anche tre al giorno».

Ci sono stati degli sliding doors che avrebbero potuto orientare diversamente la sua carriera di calciatore?

«Il primo fu quando sbagliai il gol del pareggio nel derby contro la Lazio. Il secondo in una partita contro l’Inter quando Nils Liedholm mi fece sostituire Bruno Conti incaricandomi di tenere d’occhio il terzino avversario, cosa che io non feci. Allora mi tirò fuori e preferì terminare la partita in 10 perché non c’erano più sostituzioni. Fu un’umiliazione tremenda, ma molto educativa. Liedholm era un grande educatore e quella volta aveva ragione».

Voleva essere Gianni Rivera per una questione di estetica?

«Per una questione tecnica. Frequentava le linee oscure di passaggio, un’attitudine che l’algoritmo non potrà mai comprendere. L’algoritmo può contare il numero di passaggi e le percentuali, non cogliere la genialità».

L’ammirazione per Rivera è stata poi superata dalla passione per la Roma?

«Ero prima di tutto un tifoso di Rivera, poi del Milan. Infine, è arrivato l’amore per la Roma».

Anche per la vita di Roma?

«Da direttore sportivo, non da calciatore».

L’incontro più importante fatto nel mondo del calcio?

«Sicuramente quello con Zamparini, uomo eccezionale e carismatico».

Ha commesso errori come direttore sportivo?

«Tipo questa intervista?».

Tutto qui?

«Ho sbagliato molte cose, anche nella vita. Ma non le rinnego. La mia vita me la tengo tutta».

Suo figlio ama il calcio?

«Certo. Fin dai primissimi anni quando veniva allo stadio della Roma. Vuole fare il direttore sportivo».

Guarda le partite con lui?

«Le partite le guardo sempre da solo. Con lui qualche spezzone e basta».

Che idea ha dei giornalisti sportivi?

«Sono esseri umani. Alcuni mi piacciono molto, hanno capacità incredibile di scrivere e di rendere la partita un grande racconto».

Chi per esempio?

«Mi piaceva molto Gianni Mura, il migliore in assoluto».

Tra i telecronisti?

«Mi diverto ancora oggi con Sandro Piccinini. E prima mi piaceva Bruno Pizzul, raffinatissimo raccontatore di partite. Un modello difficile da replicare perché aveva un vocabolario molto personale».

 

La Verità, 15 luglio 2023

«Ci salverà il lavoro umano, non le task force»

Ha l’età di Elisabetta II d’Inghilterra, ma la reattività di un quarantenne. Tre ore dopo la mia mail, Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, è al telefono con la sua voce squillante. Niente uffici stampa né altri intermediari. «La regina? Sì, siamo entrambi dell’aprile del 1926. Una coincidenza. Io non sono né re né regina e nemmeno monarchico. Ma ricordo che, a differenza di altri sovrani che ripararono in Canada o altrove, i Windsor restarono nella loro residenza anche durante i bombardamenti dei tedeschi. L’ora più buia, come va di moda dire. Un conto sono certi pennacchi di facciata, un altro l’attaccamento al popolo di cui si è veri rappresentanti».

Consigliere di Adriano Olivetti, fondatore di riviste e collane editoriali, gran viaggiatore, docente negli Stati uniti, parlamentare, cavaliere di Gran croce, tuttora professore emerito alla Sapienza di Roma, a proposito di vecchi che hanno parole più solide nei momenti drammatici, l’editore Marietti 1820 sta pubblicando tutte le opere di Ferrarotti: sei volumi, cinquemila pagine.

Professore, qual è la prima lezione che dovremmo trarre da questa pandemia?

«Che la famiglia umana ha un destino comune e nessuno si salva da solo. Devo fare autocritica: pensavo che la globalizzazione sarebbe stata opera delle multinazionali, invece la sta facendo il virus».

Che cosa vuol dire?

«La globalizzazione è stata lo strumento delle multinazionali occidentali per soddisfare la fame di mercati, il bisogno di produrre, vendere e generare profitto. Il quale è legittimo, s’intende. Ma questo era il mondo di prima».

Invece, con la pandemia…

«Dobbiamo riscoprire il senso del limite. Non possiamo pensare che andare avanti per andare avanti sia in sé il bene. È giusto produrre, ma mantenendo l’equilibrio ecosistemico delle comunità».

Adelante con juicio.

«Dobbiamo imparare la lentezza, perché il cervello umano è una macchina lenta. Dopotutto, ci vogliono sempre nove mesi per fare un bambino. A meno che i ginecologi non s’inventino qualcosa… ma nemmeno l’inseminazione artificiale ha migliorato le cose, anzi. Può darsi che l’uomo non sia fatto per vivere alla velocità della luce».

Lo spot di una casa automobilistica tedesca recitava: «Io sono il tempo. Vado avanti per natura. Può sembrare che vada di fretta. Ma anche se non puoi fermarmi, grazie alla tecnologia puoi darmi molto più valore».

«È l’illusione di onnipotenza alla quale ci siamo votati. Spero impareremo che siamo interagenti, interdipendenti. Nessuno si salva da solo, come ha detto il Papa».

Nel secolo scorso abbiamo lottato contro la povertà e il terrorismo, ora la minaccia riguarda la salute.

«Stavolta non sono in gioco l’equilibrio socio economico e la redistribuzione della ricchezza, ma la sopravvivenza dell’umanità come famiglia unitaria. Il virus intacca le radici esistenziali della natura umana».

È una sconfitta per la scienza?

«Da tempo la scienza non è in grado di dispensare certezze, cioè leggi universalmente necessarie e vincolanti. Dopo la grande triade Copernico Galileo Newton, dopo la teoria della relatività, può darci solo uniformità tendenziali e probabilistiche».

È una sconfitta anche per la politica?

«I politici, non solo i nostri, nascondono dietro una scienza che non è quella che immaginano, la propria incapacità di decidere e di rappresentare i popoli».

Tutti o qualcuno di più?

«Direi tutti i gruppi dirigenti, non solo i governanti. Anche coloro che collaborano a formare l’opinione pubblica. Sono già iniziate contestazioni e processi fuori luogo che andranno fatti quando la crisi sarà superata».

Che cosa comporta per la nostra società la moria degli anziani?

«Una perdita irrimediabile. I vecchi sono lo scrigno della memoria, senza la quale non c’è vita sociale e civile. Gli esseri umani sono ciò che sono stati e ciò che ricordano di essere stati. Per questo la memoria è fondamentale. Noi siamo ricordi ambulanti».

Che sconfitta è se una comunità non può accompagnare chi muore?

«Tragica, perché i morti continuano a parlare. La grande invenzione della storia umana è stata la sedentarietà, cioè l’uscita dal nomadismo. Le popolazioni hanno scelto di rimanere ferme perché non potevano trasportare i morti, così la casa e l’opificio sono sorti accanto al camposanto».

Che cos’ha pensato vedendo i camion dell’esercito che trasportavano le bare di Bergamo?

«Quell’immagine ha messo in luce l’imbarazzo dei sopravvissuti. I quali possono pacificarsi solo trasformandosi da superstiti in supertesti. Cioè testimoni di coloro che non ci sono più. Ma che, nel ricordo, continuano a vivere».

L’immagine più memorabile sono quei camion, il Papa solo in piazza San Pietro o l’infermiera addormentata sulla tastiera del computer?

«Oltre tutte queste, non mi abbandona quella del malato intubato che respira grazie a un congegno meccanico. Un morto che non cessa dal morire e affida alla macchina la sua speranza di vita».

Se le avessero detto che saremmo stati reclusi in casa davanti a uno schermo ci avrebbe creduto?

«Certo che no. Per gli italiani e i popoli mediterranei la socializzazione elettronica è una mutilazione. Per secoli abbiamo comunicato più con i gesti e le mani che con le parole. Giustamente si fanno le lezioni via web, ma il nostro vitalismo ci dice che non ci sono surrogati del dialogo faccia a faccia».

Non ha molta fiducia nella comunicazione elettronica.

«Perché è comunicare a, anziché comunicare con».

La differenza?

«Comunicare a significa comunicare tutto a tutti. Cioè, in realtà, niente a nessuno. Comunicare con esprime la comunione, il parlare guardandosi negli occhi».

Dopo la crisi saremo migliori, uguali o peggiori?

«Saremo diversi: migliori se diventeremo più consapevoli dei limiti del profitto e del mercato. Il profitto è legittimo quando dimostra razionalità nella gestione dell’impresa. Ma la ricerca della sua massimizzazione nel più breve tempo possibile porta a un’azione predatoria, insensata e infine autodistruttiva. Quanto al mercato, che ha vinto su scala planetaria contro Confucio in Cina e le caste in India, è legittimo come foro di negoziazione. Ma quando l’economia di mercato diventa dominante e i politici cominciano a dire “Vediamo come aprono i mercati”, c’è il rischio che si traduca in società di mercato».

Il mercatismo di cui parla Giulio Tremonti.

«Esatto, un’economia prettamente finanziaria, non produttrice di merci. L’espressione “società di mercato” è una contraddizione in termini. Perché identifica rapporti che valgono in quanto finalizzati a un obiettivo strumentale definito da un prezzo».

Perché tornare al mondo di prima sarebbe la fine?

«Perché è un mondo in cui l’individuo non è aggregato, ma disgregato. In cui c’è libero accesso, ma non controllo dell’eccesso».

Guardando al futuro, come trovare equilibrio tra libertà e sicurezza, iniziativa e salute?

«L’equilibrio non si trova una volta per tutte, sarà sempre mobile e problematico. È inutile interrogare la scienza come una sfinge. Vedo la necessità di tornare ad Aristotele, che sosteneva che la virtù fondamentale dell’uomo e della donna in politica è la prudenza».

Concretamente?

«Vuol dire tenere alti gli ideali di libertà democratica, giustizia sociale e iniziativa del singolo. Ma sapendo procedere a piccoli passi, in vista del bene pubblico. Credo che dovremo scoprire un nuovo riformismo. Finora abbiamo oscillato tra il polo rivoluzionario, con l’immaginazione che è diventata incompetenza al potere, e il polo del realismo pauroso che dimentica le grandi visioni».

La terza via è quella della tecnica e delle task force?

«La tecnica rappresenta un’illusione di perfezione operativa, ma non è in grado di dire da dove veniamo, dove siamo e dove andiamo. Ha una prospettiva solo strumentale. Le task force sono il tentativo di coprire le vergogne dell’indecisionismo con foglie di fico ingiallite».

Quali dovrebbero essere le priorità della fase due?

«Tornare a lavorare e produrre, ma con grande cautela. La parola d’ordine è convivere con il virus».

Sarà il primo e l’ultimo?

«Non sarà l’ultimo, perché il dramma del vivere, per gli esseri umani, gli animali e i vegetali passa attraverso la lotta costante per la sopravvivenza».

Su cosa far leva, dove trovare le risorse migliori?

«Qui non si tratta di materie prime, naturali o soprannaturali. Per ripartire servirà una grande chiamata al coraggio e al cambiamento. Dobbiamo capire questa lezione di lentezza, di silenzio, di solitudine, di profondità. Questa crisi ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali inventati da Sant’Ignazio di Loyola».

L’Occidente è disposto a questa revisione?

«Dobbiamo scegliere. Galvanizzati dall’onnipotenza tecnologica, puntavamo a conquistare Marte, ma il virus ci ha riportato con i piedi per terra. Alla crisi seguirà una voglia di vita, ci sarà una ripresa della natalità. Stiamo vivendo un tempo di depurazione, una catarsi. Come dopo il Getsemani».

Possiamo contare sull’Europa?

«L’Europa ha un’enorme occasione. Invece di Meccanismo europeo di stabilità lo si chiami Meccanismo europeo di solidarietà. Senza cambiare l’acronimo. L’Italia deve farsi dare i 37 miliardi per la sanità non solo senza condizioni e a lunga scadenza, ma anche a un tasso dello 0,5%».

Vede un ritorno della centralità dello Stato?

«Dovrà essere una centralità leggera, non il foro degli opportunismi e della corruzione endemica com’è ora. Ci vorrà uno Stato centrale più snello, coordinato con le comunità di base e le regioni. Attenti a evitare i protagonismi incrociati di ministri, governatori e sindaci».

Se dovesse dare l’agenda al premier della rinascita cosa gli direbbe?

«Di procedere per gradi, sulla base di tre criteri. Primo: migliorare il servizio sanitario nazionale. Secondo: promuovere industrializzazione senza disumanizzazione, come raccomandava Olivetti. Terzo: lavorare a un grande risveglio del Mezzogiorno».

 

La Verità, 26 aprile 2020

«Dopo Renzi pubblicherei il libro di Salvini»

«Io e mio padre eravamo molto diversi. Lui un’intellettuale con tratti geniali, io un manager con interessi di economia. Lui sempre vissuto in Italia, io molto all’estero. Lui sedentario, io sportivo. Concordavamo su cosa fare, non su come farlo. Ci confrontavamo animatamente». 52 anni, un passato da dirigente in Lehman Brothers, figlio del primo matrimonio di Cesare De Michelis, gran giocatore di bridge e praticante di triathlon, fatica pura, da un decennio Luca De Michelis è amministratore delegato di Marsilio editori. Dal padre ha preso la lungimiranza operativa, la facilità nei rapporti e la predisposizione a lavorare in squadra. Marsilio ha chiuso il 2018 registrando 8 milioni di fatturato, ma grazie all’accordo con Feltrinelli voluto da Luca, il bilancio 2019 migliorerà notevolmente. Da un anno l’editrice è nella nuova sede, più moderna e ariosa, all’imbocco del Canale della Giudecca, dove sfilano yacht e vaporetti. Cesare De Michelis è morto il 10 agosto scorso a Cortina d’Ampezzo.

Che cosa le manca di più di suo padre?

«Forse la generosità, la più sottaciuta tra le sue tante doti. Quando discutevamo su come fare una cosa, spesso io concludevo: “Se vuoi farlo così, fallo tu”. Allora lui concludeva: “No, fallo tu”. Si tirava da parte, mostrando generosità verso Marsilio e la sua storia, oltre che verso di me. Mi mancano questo confronto, le sue intuizioni geniali, certi guizzi irreplicabili. Dopo aver a lungo ascoltato, quando ho capito che volevo fare l’editore, ho anche capito che non potevo farlo come lui, intellettuale e fondatore che incarna il marchio. Insieme a Cesare abbiamo immaginato come sarebbe stata Marsilio senza di lui».

Con più gioco di squadra?

«In un certo senso sì, anche se qualche volta decido da solo. Il rapporto con Emanuela (Bassetti, seconda moglie di Cesare De Michelis ndr) e il suo aiuto quotidiano sono fondamentali. Eravamo preparati a questa perdita e oggi seguiamo un percorso tracciato e condiviso».

Nel quale l’insegnamento di suo padre – «un editore non fa i libri che si vendono, ma vende i libri che si fanno» – è la stella polare?

«È un mantra che continua a guidare il nostro lavoro».

Vuol dire che non si parte dal mercato, ma lo si determina?

«Noi crediamo che la domanda di cultura sia sostanzialmente una domanda di identità. Un’identità che si crea sia per somma che per differenza. Chi siamo e a cosa apparteniamo ci diversifica da altre persone e da altre comunità».

Concretamente, parlando di libri?

«In Italia si legge poco, ma i festival sono pieni. Le mostre sono affollate, ma le stesse opere sparse non destano analoga curiosità. Questo significa che sono gli eventi a creare appartenenza. Credo che un editore moderno debba saper trasmettere questo senso di comunità. Per farlo, prima di tutto un’identità deve averla».

E Marsilio…

«Prova a essere uno specchio intelligente del tempo presente. Prova a costruire la casa un mattone alla volta, attraverso il dialogo tra gli autori, aprendo spazi di discussione. Più che inseguire i bestsellers c’interessa che ogni autore si esprima al massimo delle sue potenzialità».

In che cosa il mercato del libro deve cambiare?

«Migliaia di case editrici producono decine di migliaia di libri. Questa ricchezza è sintomo di vitalità, ma genera un intasamento in cui è difficile distinguere le cose buone da quelle meno buone. Da economista penso che l’eccessiva frammentazione non faccia bene. Qualche anno fa c’erano 8000 case editrici, oggi sono meno, ma temo sempre troppe».

Suo padre diceva che «se i piccoli restano piccoli è perché sono malati».

«L’orgoglio del “piccolo è bello” non gli piaceva. Premesso che l’identità è fondamentale, non sempre la microidentità è un valore. Anche le imprese culturali non sfuggono alla regola per la quale, per guidare il cambiamento, serve una dimensione minima. Credo che una selezione darwiniana sarà inevitabile. Si perderà una certa pluralità ma, da liberale, sono convinto che il mercato sia il sistema più affidabile e democratico».

Bisogna crescere per non morire?

«Nel Novecento il mercato era determinato dalle aree geografiche. Editoria e media erano un sistema integrato, chi pubblicava libri stampava anche giornali e viceversa. Oggi l’accesso al pubblico è definito dal canale prescelto. Con l’avvento di Internet, l’editore è diventato un’infrastruttura, come la telefonia e le autostrade. Basta guardare a ciò che sta avvenendo nel sistema audiovisivo con Netflix o al declino della carta stampata. Nell’editoria il processo è più lento perché il libro è una tecnologia con applicazioni diversificate. Ma anche qui il processo è avviato».

Dov’è più visibile?

«Pensi alle enciclopedie e ai dizionari, il cosiddetto reference. Da quando c’è Wikipedia nessuno è più disposto a pagare per conoscere il significato di un vocabolo. L’Enciclopedia britannica ha chiuso».

Perché gli italiani leggono meno di altri popoli?

«Abbiamo una diversa cultura del commuting (pendolarismo ndr) rispetto, per esempio, al mondo anglosassone. Preferiamo raggiungere il posto di lavoro in auto, in Gran Bretagna si usano più treni e metropolitane. Non so quanto, ma credo che questo incida. La seconda motivazione è storico-culturale. Fino a 60 anni fa in Italia il tasso di analfabetismo era elevato; quando è arrivata l’alfabetizzazione è arrivata anche la televisione. Infine, il sistema scolastico ha le sue responsabilità».

A che cosa si deve il vostro incremento di vendite del 65% nei primi mesi del 2019?

«In gran parte all’ottima resa dell’accordo stipulato un anno e mezzo fa con Feltrinelli. Dopo la perdita di Cesare, con l’aiuto di Emanuela Bassetti abbiamo definito le linee dei singoli settori grazie agli innesti di Ottavio Di Brizzi per la saggistica e di Chiara Valerio per la narrativa italiana, e al lavoro di Francesca Varotto per la letteratura straniera, di Rossella Martignoni per l’editoria d’arte e di Jacopo De Michelis per i gialli. La piattaforma di Feltrinelli ha permesso che questa squadra rendesse al meglio».

È sbagliato dire che avete respinto Mondadori per finire in braccio a Feltrinelli?

«Mondadori ha scelto di cedere Marsilio e Bompiani dopo un provvedimento dell’Antitrust. A quel punto abbiamo riacquisito Marsilio e abbiamo trovato un altro partner che ci consente di perseguire il nostro progetto; progetto sul quale, questo partner, ha ritenuto a sua volta d’investire».

Nel 2020 scenderete al 40% delle azioni e Feltrinelli salirà al 55: timori?

«No, perché c’è grande complementarità. L’identità di Marsilio è un valore per noi e per loro. Non vedo pericoli di omologazione, siamo stati 16 anni in Rcs rafforzando la nostra identità».

Quanto incide il fatto di essere una casa editrice con sede a Venezia?

«Venezia offre opportunità che altri luoghi non consentono. Basta pensare a quello che succede qui nel mondo dell’arte. O alla presenza della Biennale e di tutti gli enti pubblici e privati, dall’università al museo Peggy Guggenheim, promotori di eventi di risonanza mondiale. Tutto questo fermento crea le condizioni per lo sviluppo di un polo editoriale eccentrico rispetto a quello milanese. Venezia, capitale di cultura internazionale è un patrimonio da coltivare con sempre maggior convinzione».

Un grande editore è più un manager attento al marketing, un uomo di rapporti, un talent scout o un organizzatore visionario?

«Io m’impegno come caposquadra per dare coerenza al gruppo di intelligenze e di talenti che lavora con me. Costruendo e consolidando il patrimonio di relazioni e il rapporto con il territorio. La funzione del manager è principalmente risolvere i problemi quando si presentano. Anche se ai miei collaboratori non piace tantissimo quando dico che non esistono problemi, ma solo opportunità».

Che idea si è fatto del caso Altaforte-Salone del libro?

«Penso che sia stata una polemica sciocca. E che una volta di più avrebbe dovuto valere la famosa massima di Voltaire. Credo che la libertà di espressione sia irrinunciabile soprattutto per un Salone del libro. Detto questo, la polemica è stata uno spot pubblicitario, senza con questo intendere che sia stata cercata».

Oggi ripubblicherebbe Il sesso in confessionale, il primo saggio che nel 1973 superò le 100.000 copie e vi diede notorietà internazionale?

«Oggi sarebbe datato. Tendenzialmente sono favorevole alle pubblicazioni che rompano la cultura del politically correct invisa al grande pubblico. Ma mi sembra che quel tipo di editoria provocatoria che allora era un valore, abbia perso un po’ di mordente».

C’è un libro che avrebbe voluto pubblicare e non ci è riuscito?

«Non stravedo per la figura dell’editore predatorio. Al contrario sono molto felice quando pubblico un libro di cui non condivido nulla. Credo che il lavoro di editore sia anche dare voce a posizioni che meritano di essere rappresentate anche se non ti appartengono».

Quindi, dopo il libro di Matteo Renzi, pubblicherebbe anche un libro di o con Matteo Salvini?

«Certo, lo pubblicherei a patto che non fosse un testo di propaganda e di slogan, come sono spesso quelli firmati da esponenti politici. Un libro nel quale Salvini illustrasse in modo compiuto la sua visione politica lo pubblicherei senza puzza sotto il naso. Aiuterebbe a capire di più il nostro tempo».

Altri libri che vorrebbe avere in catalogo?

«Mi sarebbe piaciuto essere l’editore della saga di Harry Potter, più per divertimento che per altro. Mentre non sarei stato interessato a quella delle varie sfumature colorate. Trovare il bestseller è anche fortuna, ma la si può aiutare, com’è accaduto con i gialli di Stieg Larsson».

A differenza di suo padre che ha giurato a Stefano Lorenzetto di non averla, lei ce l’ha la psiche?

«Probabilmente sì, quello di mio padre era un paradosso. Ce l’aveva anche lui, la psiche. Come dimostra la sua predilezione per certi autori, che non rivelerò».

 

La Verità, 16 giugno 2019

Marina Terragni: «L’utero in affitto umilia le donne»

Una femminista contraria all’utero in affitto, proprio in quanto femminista. Marina Terragni, giornalista, saggista e conduttrice radiotelevisiva, ha una lunga militanza dalla parte delle donne e sui temi della maternità. Una militanza suffragata da studi di bioetica e dall’esperienza diretta di amici e amiche che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri (Gpa). E, nel tempo, hanno avuto problemi derivati da quella scelta. Disagi irrisolti. Soprattutto per il figlio nato dalla maternità surrogata, ma anche per i genitori, padri e madri, spesso due papà (due casi su dieci, secondo le statistiche). Perché non va dimenticato che, mentre per gli eterosessuali esiste anche l’adozione come opportunità per diventare genitori, per i gay ricorrere all’utero in affitto è considerata l’unica chance. Secondo alcune stime, in Italia un centinaio di bambini nascerebbero ogni anno da utero in affitto. Negli Stati Uniti, invece, secondo l’American Society for Reproductive Medicine, i bambini nati annualmente dalla Gpa sono 2000, con un incremento del 200 per cento annuo. In India le surrogazioni sarebbero 1500 all’anno. «Una pratica che si sta progressivamente diffondendo, grazie alla dittatura dei diritti. Invece», sottolinea Terragni, «mi sono convinta che la surrogacy è la più subdola espressione della cultura del patriarcato. È una forma sottile di strumentalizzazione della donna, un modo per sfruttarne l’attrezzatura gestatoria, congedandola appena terminata la prestazione». Si intitola, infatti, Temporary mother (Vanda epublishing) il pamphlet, documentatissimo, pubblicato nel giugno scorso. Poche dense pagine che la stampa di sinistra e le televisioni, tutte, hanno ignorato.

La copertina di «Temporary mother», il pamphlet di Marina Terragni sulla maternità surrogata

La copertina di «Temporary mother», il pamphlet della Terragni sulla maternità surrogata

Censura?

«Non posso non notare che, mentre il Corriere della Sera, Avvenire e Il Giornale hanno dato spazio a questo lavoro, La Repubblica, L’Espresso, il magazine femminile di Repubblica e Il Manifesto non hanno scritto una riga. Un omissis totale. Solo Radio popolare, l’emittente dove cominciai, ha fatto eccezione offrendo, su mia sollecitazione, lo spazio di Microfono aperto, durante il quale ho ricevuto numerose telefonate di donne che si sono dette rinfrancate e autorizzate a dire quello che pensavano, ma tenevano per loro. In Italia solo Stefano Fassina si è esposto. In Francia, per dire, Libération ha sposato la battaglia».

Come si spiega questo comportamento?

«La critica alla maternità surrogata è inaccettabile da chi è abituato a ragionare solo in termini di diritti, un diritto per ogni capello che abbiamo in testa. Sono rattristata dalla sinistra presentista, persa nel qui e ora perché priva di orizzonte. Se sei contro gli Ogm stai lottando per l’ambiente e la biodiversità, se invece chiedi uno stop alla Gpa sei un conservatore, tendenzialmente omofobico».

Nel dibattito a Strasburgo che pochi giorni fa ha portato alla bocciatura della maternità surrogata, però, si è distinta Eleonora Cimbro, un’eurodeputata del Pd.

«Ammesso che il Pd si possa considerare ancora sinistra, va detto che è parecchio lacerato. Quando proprio la Cimbro ha scritto su Facebook di essere contraria alla maternità surrogata, postando una foto mentre allattava, i compagni di partito hanno cominciato a contestarla e qualcuno ha scritto che quella foto era violenta. Quindi, ho pensato, tutte le maternità della nostra arte pittorica con la Madonna che allatta esposte nei nostri musei, sono immagini violente. Sono le perversioni dell’ideologia».

Nichi Vendola con il figlio Tobia in un momento di relax

Nichi Vendola con il figlio Tobia in un momento di relax

Più che altro sembra esasperazione dell’arbitrio. Perché ne è vittima soprattutto il mondo omosessuale?

«Perché gli eterosessuali sterili, che hanno l’alternativa dell’adozione, non rivendicano la surrogacy come una questione di vita o di morte. Dove l’adozione dei single è vietata, come in Italia, l’utero in affitto è ritenuto, a torto, l’unica possibilità di diventare papà per un omosessuale. La resistenza a queste pratiche viene classificata automaticamente come omofobia. Un’accusa che, per assurdo, hanno sperimentato anche gay appena dubbiosi come Aldo Busi o Domenico Dolce e Stefano Gabbana».

Quindi non tutto il mondo omosessuale è a favore della gestazione per altri.

«Le donne di Arcilesbica sono contrarie. Perché si considerano donne prima che lesbiche. Nelle Famiglie arcobaleno, molto vicine ai gay, la priorità è il loro essere omosessuali, con i diritti che ne conseguono. L’errore da cui tutto nasce è impostare il discorso sulla parità sessuale».

Ma la parità non è sempre stato un traguardo del movimento femminista?

«In fatto di procreazione la parità non esiste, c’è solo al momento del concepimento. Poi inizia la gravidanza. Persino Dio ha avuto bisogno di quella ragazza per compiere il suo disegno».

Decidendo quando e come si dà e si toglie la vita l’uomo si sostituisce a Dio. Da qui deriva la dittatura dei diritti.

«Giocare alla divinità è un libro di June Goodfield, uno studioso britannico, che già negli anni ’70 anticipava questi scenari. Ci creiamo i diritti che vogliamo. Siamo omosessuali, ma vogliamo anche essere genitori e avere bambini. Invece, se vuoi davvero un figlio puoi provare a condividere la genitorialità con una persona per la quale non provi attrazione sessuale. Non esiste un’esistenza senza croce. Ma se il tuo diritto è l’ultima parola vuoi tutto: il piacere sessuale, oggi assoluto e intoccabile, ma anche il figlio come ti pare. Senza rinunciare a nulla. È l’autodeterminazione assoluta. Perciò paghiamo una donna che lo porti in grembo per nove mesi, senza coinvolgersi troppo e sparendo dopo averlo consegnato».

Come se l’utero fosse un organo separato, una protesi impersonale che esclude emozioni e comunicazioni tra la donna e il feto. È la robotizzazione della maternità?

«La non troppo fantascientifica civiltà dei cyborg passa attraverso l’annullamento del ruolo della donna e della madre. La maternità è una prestazione temporanea che ha delle tariffe (tra i 120 e i 150.000 dollari in California e attorno ai 20.000 in India) decise dal mercato in base a varie esigenze. Il tutto disconoscendo completamente sia le conseguenze psicologiche della gestante sia, soprattutto, quelle della creatura».

L'utero in affitto è una protesi strumentale. Siamo alla robotizzazione della amternità

L’utero in affitto è una protesi strumentale. Siamo alla robotizzazione della maternità

In che modo l’arbitrio si serve del mercato?

«Lo vediamo ogni giorno: il capitalismo ha la capacità di riassorbire qualsiasi criticità trasformandola in fonte di profitto. Avviene anche nella procreazione. Mario Caballero, il capo della clinica di Sacramento in California di cui hanno usufruito Nichi Vendola e il suo compagno, ha creato uno staff di psicologhe che affianca le gestanti per aiutarle a non coinvolgersi affettivamente con il feto. Ripetendo continuamente: è solo business, è solo business…».

E se una donna si prestasse per generosità, gratuitamente?

«Ci credo poco. Sappiamo che cosa comporta per una donna una gravidanza? Quali conseguenze ha nel suo corpo e nella sua psiche? Se una donna si offrisse gratuitamente consiglierei al suo medico di base di sorvegliare più attentamente il suo equilibrio mentale».

Come se ne esce?

«L’unica via d’uscita è l’adozione, sulla quale c’è ancora molto da lavorare a livello legislativo, psicologico e assistenziale. Il punto di partenza però è culturale. E riguarda l’idea stessa della persona».

Si spieghi.

«L’antidoto al consumismo è la persona concepita come relazione, dentro una relazione. A differenza di ciò che sostiene la cultura illuminista, solo lo sguardo di un altro ti fa essere. Solo se vivi in relazione con l’altro, trovi dei limiti al tuo arbitrio. L’unità di misura dell’individuo è il due. La relazione materna è il luogo dove questa soggettività raggiunge la massima espressione, madre e figlio sono nello stesso corpo».

 

La Verità, 23 ottobre 2016

 

 

Rai ente pubblico, un passo avanti e uno indietro

Una tegola al giorno sulla testa della Rai. L’ultima caduta, dopo il tetto agli stipendi e le entrate del canone da ridimensionare, potrebbe essere addirittura fatale, almeno per la tv pubblica che vediamo oggi. La sorpresa è di venerdì scorso, nascosta nel numero della Gazzetta ufficiale che contiene il conto economico consolidato dello Stato. L’Istat ha inserito l’azienda di Viale Mazzini tra le amministrazioni pubbliche conteggiate perché, essendo una società controllata dal ministero dell’Economia, il suo bilancio va a influire sul debito pubblico. Nel 2015 Rai Spa ha perso 46 milioni di euro totalizzando debiti per oltre 349 milioni. Se queste cifre fossero confermate anche nel 2016 i nostri conti pubblici peggiorerebbero ulteriormente.

Ma la situazione peggiorerebbe parecchio anche per la Rai che, col nuovo inquadramento in regime di Pubblica amministrazione, dovrebbe stare alle norme già vigenti per i Comuni, le Asl o le scuole. Cioè, regole pubbliche, bandi d’appalto, assunzioni tramite concorsi. Un cambio radicale rispetto al sistema attuale, fatto di nomine effettuate dall’alto, di incarichi a società di produzione sponsorizzate da politici, di assunzioni pilotate, di forniture di prodotti e materiali assegnate in base a criteri arbitrari. Tutto dovrebbe avvenire alla luce del sole, secondo procedure stabilite e finalmente trasparenti. Per esempio, per assegnare la produzione di una fiction a una società esterna non basterà più, come avviene adesso, vagliare la proposta arrivata da una delle imprese già iscritte all’Albo dei fornitori della Rai e, una volta approvata, fissare il budget e incaricare la società proponente di realizzarla. L’iniziativa dovrebbe partire dai responsabili aziendali della fiction, gestita e indirizzata attraverso ufficiali gare d’appalto. Niente più corsie preferenziali, come quelle concesse alla tv di Stato anche dalla legge del dicembre scorso che consentiva frequenti deroghe dal Codice dei contratti pubblici. Insomma, una rivoluzione copernicana. In Viale Mazzini stanno ancora riprendendosi dallo choc della notizia: avranno modo di farlo in questi giorni fitti di consigli d’amministrazione e commissioni di Vigilanza. Inevitabile che i vertici aziendali passino al governo la matassa da sbrogliare. E vedremo se e come questo se la caverà.

Monica Maggioni, presidente Rai, ha detto: «In regime di ente pubblico non potremmo competere sul mercato»

Monica Maggioni, presidente Rai: «In regime di ente pubblico non potremmo competere sul mercato»

Il fulmine a ciel (renzianamente) sereno è caduto su Viale Mazzini con la decisione di Bruxelles di applicare il Sistema europeo dei conti (Sec) alle società controllate da istituzioni pubbliche. Nel caso della Rai, come in quello di altri servizi pubblici non solo radiotelevisivi, si deve registrare il fatto che i ricavi provenienti dall’attività commerciale (pubblicità o vendita di programmi) «non riescono a coprire la metà dei costi di esercizio». In sostanza, Eurostat ha stabilito e l’Istat ha recepito che, se la maggior parte del finanziamento della Rai deriva da denaro pubblico, allora deve sottostare al regime della Pubblica amministrazione.

Detta così sembra semplice. Invece, l’anomalia viene al pettine. La Rai è sì, un servizio pubblico, ma compete sul mercato con altri soggetti di natura privata. Qui la faccenda si complica perché, se da un lato si guadagnerebbe in trasparenza e certezza dei percorsi gestionali, dall’altro la Rai sarebbe costretta ad allungare di molto i tempi per portare a compimento ogni iniziativa, un’assunzione, una commessa, l’acquisto di una semplice telecamera. «In queste condizioni non saremmo più in grado di competere con Mediaset, con La7, con Sky e Discovery», lamenta il consigliere d’amministrazione Franco Siddi. «Purtroppo l’Italia è un po’ distratta rispetto alle normative europee, mentre l’Istat l’ha applicata automaticamente. La legge del dicembre scorso si è prefissata di trasformare il direttore generale nell’amministratore delegato di un’azienda, mentre con questa disposizione sarebbe ridotto alla stregua di un preside scolastico», esagera ma non tanto Siddi. Che chiede «un intervento urgente del ministero dell’Economia per risolvere la questione».