«All’algoritmo sarebbe sfuggito il genio di Rivera»
L’uomo del mercato: Walter Sabatini. Tra i più geniali e fantasiosi. Sicuramente il più tormentato. Da calciatore, una carriera di sogni incompiuti: «Volevo essere Gianni Rivera», ma «l’urgenza di dimostrare il mio talento fu, prima tra tutte, la mia condanna perché mi indusse a giocare un calcio bizantino, fatto di orpelli solitari e inutili. Non ero in grado di concorrere al fine comune», scrive in Il mio calcio furioso e solitario, da poco uscito da Piemme. Da direttore sportivo ha fatto la fortuna delle società per le quali ha lavorato. Scopre e porta alla Lazio giocatori come Aleksandar Kolarov e Stephen Lichtsteiner. Al Palermo di Maurizio Zamparini lo seguono Josip Iličić e Javier Pastore. Alla Roma ecco Miralem Pjanić, Marquinhos, Radja Nainggolan, Mohamed Salah. Nel gennaio 2022, appena chiamato alla Salernitana, conclude dieci acquisti in una settimana, tra i quali Ederson e Simone Verdi, che portano alla miracolosa salvezza del club.
Lo abbiamo in mente avvolto nel fumo della sigaretta, fronte aggrottata, barba incolta, come compare anche sulla copertina del libro.
Quante sigarette fuma al giorno?
«Zero. Ho fumato tutte le sigarette del mondo e adesso non ce ne sono più per me».
Obbligo di salute?
«Un’imposizione del mio fisico. Per i miei polmoni a brandelli non c’è nessun’altra possibilità».
Fumava più o meno di Gigi Riva?
«Penso di più. Sessanta al giorno per 40 anni».
Anche da giocatore?
«Certo».
Cos’è il calcio, passione?
«Soprattutto, non solamente. Senza passione non si va da nessuna parte. Il talento da solo non basta».
Scoperta che si fa subito o, a volte, troppo tardi?
«Io l’ho imparato tardi. Mi illudevo di esprimere il talento pur con qualche distrazione. Invece, il mio talento non produceva effetti. Ero un grande calciatore che non capiva il calcio».
Che invece è una professione.
«Ovviamente».
Anche una religione?
«Pier Paolo Pasolini l’ha definita l’ultima rappresentazione sacra contemporanea».
Un tormento, un’ossessione?
«Per me, sì. Un’ossessione, un tormento, un batticuore quotidiano. L’ho vissuto pienamente sulla mia pelle».
A che prezzo?
«Salatissimo, il mio fisico è conciato davvero male. Sono stato un uomo eccessivo, che ha voluto far tutto di corsa. Finché il mio corpo mi ha chiesto di fermarmi. Ora è un corpo sofferente, ma non ho nessun rammarico».
Il libro è una lunga lettera a suo figlio Santiago, nome in onore di chi?
«Di nessuno. È un nome che mi piaceva, da frequentatore ideologico del Sudamerica. Anche il pescatore di Ernest Hemingway si chiama Santiago».
Scrive di non aver «mai ceduto al nichilismo», eccetto che nei confronti del suo corpo «trasformato in un campo di battaglia». A che tipo di nichilismo avrebbe potuto cedere?
«Al nichilismo rispetto alla vita: il non affrontare i grandi temi cercando delle compensazioni. Non ho mai evitato di prendere certi pugni in faccia. Non ho mai nascosto i problemi agli altri, l’ho fatto solo con me stesso».
Il corpo campo di battaglia invece cos’è?
«L’ho usato così. Non ero un direttore sportivo, ma un acrobata del calcio. Ho fatto cose inimmaginabili, disdicevoli per il mio fisico».
Me ne dica una.
«Cinque giorni dopo essere uscito dalla clinica per un tumore ai polmoni sono andato in Sudamerica. Poi, una volta lì, ho intrapreso un altro viaggio in auto nell’interno dell’Argentina. Queste cose si fanno a danno della propria salute. Sono tornato in Italia con un pneuma toracico».
Non c’era nessuno vicino a fermarla?
«Ovviamente sì, ma ho sempre sfondato la soglia del rischio. Mia moglie e altri mi trattenevano per la giacca. Ma ci sono andato perché credevo non tanto di poterlo fare, quanto di doverlo fare».
Cosa vuol dire concretamente che ha un cervello di sinistra e un corpo di destra?
«Il mio cervello è liberale, aperto, inclusivo, dialogante. Il mio corpo no perché in certe circostanze ha reazioni violente. Il mio corpo è diretto, colpisce e si fa colpire».
Quante volte si è dimesso da direttore sportivo?
«Tante, non ricordo quante. Sono in doppia cifra, come i grandi attaccanti».
C’è un motivo di fondo o ricorrente?
«Il mio corpo di destra perde il controllo, quindi si dimette e se ne va. Con la testa saprei gestire meglio le situazioni, ma il mio corpo non la ascolta».
La sua idea romantica di calcio la fa litigare?
«Non ho un’idea romantica del calcio, è un luogo comune. Ho un’idea sublime del calcio. Se Eschilo e Sofocle, o lo stesso Shakespeare, avessero conosciuto il calcio, avrebbero rappresentato le loro tragedie mettendo negli anfiteatri calciatori e allenatori, e il pubblico a rappresentare il coro».
È intransigente, intollerante?
«L’ho ammesso più di una volta».
C’è qualcuno con cui va o è andato d’accordo?
«Con alcuni presidenti e dirigenti meravigliosi come Adriano Galliani. Ho avuto un ottimo rapporto, seppur litigioso, con Claudio Lotito e Maurizio Zamparini».
Con Galliani però non ha mai lavorato.
«Ma lo giudico il miglior dirigente calcistico italiano del dopoguerra».
Che cos’è la Walter Sabatini consulting team?
«Un’agenzia di consulenza. Un tentativo di sviluppo oggi necessario della figura del direttore sportivo classico che sta tramontando. Cerco di rinnovarmi perché i tempi lo richiedono».
Che caratteristiche devono avere gli osservatori del suo team?
«Grande sensibilità, forza di volontà e soprattutto grande perseveranza».
Gli osservatori possono essere sostituiti dagli algoritmi?
«Supportati, non sostituiti».
Come possono gli algoritmi controllare l’infinità di variabili che si producono in un campo dove si fronteggiano due squadre composte da 11 giocatori?
«Il calcio sfugge alla statistica fredda, ma gli algoritmi possono ridurre il margine di errore. Il calcio non è il baseball e le variabili sono troppe per essere calcolate da un algoritmo».
Parliamo del mercato di quest’anno: l’affare migliore, finora?
«Non è ancora stato fatto. Per lo meno io non l’ho visto».
Quale potrebbe essere?
«Non ne parlo».
E il peggiore?
«Non ho visto nemmeno questo. Ho visto uscire dei giocatori dal nostro campionato, un fatto doloroso ma anche necessario».
Parlando dei tempi in cui giocava scrive che «i soldi, al pari della fama immediata, ottundono le menti e innescano comportamenti spesso incomprensibili». Oggi è ancora più vero?
«È vero oggi come lo era ieri. È sempre stato vero per tutti in qualsiasi momento».
Cosa pensa del fatto che l’Al Alhi, una società araba, è disposta a sborsare per Paul Pogba 150 milioni di ingaggio per tre stagioni?
«Gli arabi sono intervenuti nel mercato di un campionato nel quale non competono con una forza potentissima per prendere i calciatori, ma non riusciranno a prendere la cultura. Per acquisire anche quella devono avere pazienza. Per adesso acquistano i calciatori. Non basterà».
Milinkovic Savic fa bene a trasferirsi all’Al Hilhal a 28 anni?
«Non vorrei parlare di casi specifici. Avrà ragionato con la sua famiglia e penserà che gli convenga».
Ho letto che disprezza la vendita di Sandro Tonali al Newcastle.
«Molto. Il Milan, una società con una tradizione solidissima, non doveva rinunciare a un campione giovane che ha vinto lo scudetto ed era leader in campo. Io non l’avrei mai fatto anche se si trattava di un’operazione remunerativa e hanno preso tanti soldi».
Qual è stato il suo miglior affare come uomo mercato?
«Marquinhos alla Roma».
Poi capitano al Psg, altri nomi?
«Li sanno tutti».
Chi è il miglior allenatore che ha visto?
«Luciano Spalletti».
Perché si è ritirato dopo aver vinto lo scudetto?
«Fa parte del suo carattere tormentato».
Molti allenatori si fermano dopo la conquista di uno scudetto o cambiano aria perché è difficile ripetersi?
«Lo stress è notevole. Quelli che lo soffrono di più hanno necessità di ritemprarsi».
Anche Fabio Grosso che ha conquistato la promozione in Serie A col Frosinone?
«Grosso è un ragazzo speciale, di un’intelligenza rara. Se lo ha fatto deve aver avuto motivi seri».
Consigli un calciatore a una squadra nel mercato attuale.
«Non ci penso neanche, sarebbe deontologicamente scorretto».
Quante partite vede in una settimana?
«In piena stagione anche tre al giorno».
Ci sono stati degli sliding doors che avrebbero potuto orientare diversamente la sua carriera di calciatore?
«Il primo fu quando sbagliai il gol del pareggio nel derby contro la Lazio. Il secondo in una partita contro l’Inter quando Nils Liedholm mi fece sostituire Bruno Conti incaricandomi di tenere d’occhio il terzino avversario, cosa che io non feci. Allora mi tirò fuori e preferì terminare la partita in 10 perché non c’erano più sostituzioni. Fu un’umiliazione tremenda, ma molto educativa. Liedholm era un grande educatore e quella volta aveva ragione».
Voleva essere Gianni Rivera per una questione di estetica?
«Per una questione tecnica. Frequentava le linee oscure di passaggio, un’attitudine che l’algoritmo non potrà mai comprendere. L’algoritmo può contare il numero di passaggi e le percentuali, non cogliere la genialità».
L’ammirazione per Rivera è stata poi superata dalla passione per la Roma?
«Ero prima di tutto un tifoso di Rivera, poi del Milan. Infine, è arrivato l’amore per la Roma».
Anche per la vita di Roma?
«Da direttore sportivo, non da calciatore».
L’incontro più importante fatto nel mondo del calcio?
«Sicuramente quello con Zamparini, uomo eccezionale e carismatico».
Ha commesso errori come direttore sportivo?
«Tipo questa intervista?».
Tutto qui?
«Ho sbagliato molte cose, anche nella vita. Ma non le rinnego. La mia vita me la tengo tutta».
Suo figlio ama il calcio?
«Certo. Fin dai primissimi anni quando veniva allo stadio della Roma. Vuole fare il direttore sportivo».
Guarda le partite con lui?
«Le partite le guardo sempre da solo. Con lui qualche spezzone e basta».
Che idea ha dei giornalisti sportivi?
«Sono esseri umani. Alcuni mi piacciono molto, hanno capacità incredibile di scrivere e di rendere la partita un grande racconto».
Chi per esempio?
«Mi piaceva molto Gianni Mura, il migliore in assoluto».
Tra i telecronisti?
«Mi diverto ancora oggi con Sandro Piccinini. E prima mi piaceva Bruno Pizzul, raffinatissimo raccontatore di partite. Un modello difficile da replicare perché aveva un vocabolario molto personale».
La Verità, 15 luglio 2023