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La Scala, la Murgia e l’arte mandata in frantumi

Ce l’avevano messa tutta la garrula Milly Carlucci e il sornione Bruno Vespa a convincerci che valeva la pena investire le tre ore dell’imbrunire di Sant’Ambrogio assistendo all’irripetibile edizione della Prima della Scala ai tempi del Covid in assenza di pubblico, con l’orchestra diretta da Riccardo Chailly e sparpagliata in platea, il coro distribuito nei palchi, le scene ambientate nel foyer, nel portico, nelle sale attigue e in tutto l’austero edificio progettato da Giuseppe Piermarini. L’occasione era solenne sebbene mancassero le signore ingioiellate, le contestazioni, il gossip sui chi c’era e chi no, il presidente della Repubblica e la Milano bene. A riveder le stelle rappresentava ugualmente, ancor più tra vincoli e rinunce, uno sforzo di composizione tra cultura alta e bassa, il meglio dell’opera soprattutto della tradizione italiana, Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti, senza tralasciare Bizet, Wagner e il celeberrimo Lago dei cigni di Tchaikovsky, intervallati da citazioni di Ingmar Bergman ed Eugenio Montale affidate a Massimo Popolizio e Laura Marinoni o decorati dall’iconografia dell’artista contemporaneo Jack Vettriano e il suo Tango sotto la pioggia. Tutto questo sfarzo amministrato dalla regia innovativa di Davide Livermore che avrebbe usato in un’unica scenografia spazi e anfratti del teatro. Arie popolari, aveva insistito Carlucci, nelle quali il pubblico televisivo, anche quello meno avvezzo, si sarebbe finalmente ritrovato. Brani nobilitati, fra gli altri, dal tenore Vittorio Grigolo e dal soprano Marina Rebeka, e dalle partecipazioni prestigiose di Placido Domingo e di Roberto Bolle. Insomma, il meglio del meglio, imperdibile, avevano garantito i due super testimonial della Rai radiotelevisione italiana. Un grande tentativo di trasformare il momento di dolore in rinascita attraverso la bellezza, secondo le parole di Livermore. E, dunque, proviamoci…

Poi però – che dire? – è comparsa Michela Murgia di nero vestita. La quale, senza citare nessuno se non sé stessa, ha riscritto l’intero repertorio lirico mondiale come una storia di riscatto delle «classi marginali» servi, poveri e donne. Così, «Tosca anticipa il Meeto» e «La Traviata mette alla berlina l’ipocrisia borghese che alle donne ancora oggi perdona tutto, tranne la libertà…». E avanti alla rinfusa, in un basso revisionismo da «Se non ora quando». «Questo fa l’arte», ha concluso la scrittrice, «manda in frantumi il vecchio mondo». Già. Poi, però, arriva l’ideologia delle Michela Murgia a mandare in frantumi lei. Si fosse in platea alla Scala, a questo punto ci si alzerebbe per dirigersi al guardaroba. Accomodati invece nel salotto di casa, con un sospiro poco lirico, si porta la mano al telecomando. Non per scagliarlo contro lo schermo, mandandolo a sua volta in frantumi. Ma per cambiare canale.

 

La Verità, 9 dicembre 2020