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Carlos re di Parigi dopo una partita che è già storia

Una guerra sportiva. Una partita epica. Un thriller con colpi di scena a raffica. La rivalità più accesa ed entusiasmante che lo sport mondiale annovera ha offerto uno spettacolo straordinario. La prima finale di uno Slam tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz la vince il numero 2 del mondo che conferma il successo di un anno fa qui sul Phlippe Chatrier di Parigi e ribadisce la sua supremazia sulla terra rossa. Una partita che resterà nella storia del tennis. I tre match point non sfruttati nel quarto set Jannik se li sognerà a lungo. Il campione italiano ha pagato la lontananza di tre mesi dalle competizioni e il fatto di non essere stato messo alla prova, salvo che da Novak Djokovic, dagli avversari precedenti avendo vinto tutti i set disputati. Più la partita diventava una maratona muscolare più le sue probabilità di vittoria diminuivano. Anche la sua corsa per il Grande Slam s’interrompe.

Dopo il ghiotto antipasto del doppio, primo Slam conquistato dalla formidabile coppia formata da Jasmine Paolini e Sara Errani, in questo momento la più forte in assoluto sulla terra battuta (Roma 2024 e 2025 e, sullo stesso campo di ieri la medaglia d’oro delle Olimpiadi), ecco il piatto forte di giornata. Jannik contro Carlos. La Volpe rossa contro il Lupo nero. Equilibrio e solidità contro varietà e passione. Sinner più forte di testa, Alcaraz sul piano atletico.

Si parte subito con il piede sull’acceleratore. Il primo gioco del match è già un romanzo, manifesto del match che seguirà. Sinner deve annullare tre palle break prima di aggiudicarselo dopo 12 minuti. Jannik non è fluidissimo, sente la partita, il servizio non lo assiste e al quinto gioco subisce il break, ma subito ritrova il 3 pari. Entrambi giocano meglio quando rispondono, questo spiega le numerose palle break. Finalmente l’altoatesino si sblocca, tiene il servizio a zero e al decimo gioco si prende il primo set. È una partita tattica, più mentale che fisica e più congeniale al numero 1 che evita di sollecitare il dritto dell’avversario e dal 4 pari vince 5 giochi di fila portandosi sul 3 a 0 nel secondo. 13 a 11: Sinner ha più vincenti dello spagnolo. Ora la prima entra con continuità e i suoi turni filano veloci. Alcaraz non entra piu in campo per rispondere alla seconda. Anzi, è lui a perdere la prima e a commettere un paio di doppi falli. Ma resta in partita e con le smorzate cerca di mischiare le carte. Jannik non concede nulla, dà sempre peso e profondità ai suoi colpi per togliere a Carlos il tempo per ricamare. Sul 5 a 3 per Sinner al servizio, Carlos va 0-30 e poi fa il controbreak. Lo spagnolo alza il livello e il pugno vincente. La Volpe rossa si concentra sul suo tennis e all’undicesimo gioco sciorina tutto il repertorio, dritto lungolinea, smorzata, pallonetto e poi ace per portarsi 6 a 5. Al tie break Jannik si porta 4 a 2 con un dritto lungolinea che gela lo spagnolo. Alla terza occasione Sinner incamera il secondo set. La partita non è finita, ma ora, per prendersela, Alcaraz deve vincere tre set consecutivi, e Sinner, che non ne ha ancora ceduto uno in tutto il torneo, dovrebbe perderli. Il terzo set inizia con break e controbreak. Carlos deve inventarsi qualcosa, magari sfruttando il calo dell’avversario che affiora dopo due set molto lottati. Jannik perde due servizi consecutivi e lo spagnolo sale 4 a 1. Ora Alcaraz è galvanizzato all’idea dell’impresa e il pubblico lo spinge. Sinner perde il primo set del torneo e si va al quarto.

Lo spagnolo urla «vamos» e spara i suoi dritti sul lato destro del rivale che, invece, è in riserva. Ma è sempre lì. Contiene l’esuberanza dell’avversario fino a recuperare un po’ di rapidità negli spostamenti. Al settimo gioco ottiene il break a zero con una meravigliosa smorzata. Poi vince il suo turno e conquista l’opportunità di servire per il match. La Volpe rossa sente il traguardo vicino e conquista tre match point consecutivi sul servizio di Alcaraz. Che però non trasforma. Carlos lo riaggancia sul 5 pari e poi lo supera 6 a 5. Nel tie break, avanti 2 a 0, Sinner rimette in corsa il rivale giocandogli una palla sul dritto da esplodere. Alcaraz serve due ace consecutivi e va a prendersi il quarto set. Non doveva accadere. Il match è completamente girato. Lo spagnolo è impetuoso, l’italiano impreciso. Ma il thriller deve ancora mostrare il suo meglio. Jannik perde subito il servizio, accusa un accenno di crampi. Si rimette in sesto e tenta una resistenza stoica. Alcaraz lo martella di palle corte. Ma lui non demorde e lo riagguanta in extremis sul 5 pari. Si decide tutto in un tie break ai 10 punti. Lo spagnolo è più fresco e sfodera il suo tennis superlativo. Appuntamento a Wimbledon.

 

La Verità, 9 giugno 2025

Jannik pensiona Nole, ma ora si erge Carlitos

Niente terra rossa tricolore. Niente Italia contro Italia, Lorenzo Musetti contro Jannik Sinner. Sarà ancora Italia Spagna, la finale del Roland Garros. Il numero 1 del mondo contro il numero 2 Carlos Alcaraz, originario della Murcia. Un dualismo che il talento di Carrara non è ancora riuscito a incrinare. Al termine di un match, giocato per due set alla pari con Alcaraz, Musetti ha dovuto ritirarsi per un infortunio alla coscia sinistra. Finché è stato bene, Lorenzo, ora sesto nel ranking, ha mostrato un tennis più qualitativo di quello dell’avversario. Dispiace che, come a Monte Carlo, anche ieri Musetti abbia dovuto arrendersi per un problema muscolare, conseguenza del gioco dispendioso cui l’aveva costretto Alcaraz. Per diventare un campione c’è ancora un po’ di «strada da fare». Ma il percorso è tracciato.

Sul Philippe Chatrier ci sono due italiani semifinalisti in uno Slam: non accadeva dal 1960, sempre a Parigi, con Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola. Si inizia con la sfida artistica, la terza in due mesi tra Musetti e Alcaraz, a Monte Carlo e Roma ha vinto lo spagnolo. Lorenzo inizia bene, senza patire l’emozione della posta in palio e si vedono più vincenti che errori. In tribuna anche Dustin Hoffman commenta con un wow un tracciante dell’italiano. Meglio non impostare il match sulla potenza, però. Alcaraz è meno baldanzoso del solito. Simone Tartarini, coach di Musetti, sollecita attenzione nei «colpi d’inizio gioco» per non lasciare l’iniziativa all’avversario. Quando entra la prima, Musetti vince facile il punto. Sul 5 a 4 per Lorenzo, le prime due palle break concesse da Alcaraz sono altrettanti set point: un errore di dritto dello spagnolo consegna il primo set all’italiano.
In questa primavera sul rosso Musetti è definitivamente sbocciato. Tartarini ha dato concretezza e ordine tattico all’enorme talento del suo giocatore, a volte tentato dai virtuosismi. La condizione atletica sembra sorreggerlo anche in difesa. Il tennis di Lorenzo ha una definizione superiore a quella di Carlos. Del quale, però, bisogna attendere la reazione. Che puntualmente arriva. Con un dritto sulla riga di fondo e una controsmorzata millimetrica lo spagnolo conquista il break. Ma Musetti gli strappa di nuovo il servizio e pareggia. Si va al tie break: Alcaraz deve vincerlo se non vuole trovarsi sotto di due set e allora sale di livello. Dopo un errore di Musetti, un nastro amico porta lo spagnolo sul 5 a 1. Siamo un set pari, ma il tie break è la svolta. Musetti accusa una lesione muscolare alla coscia sinistra. Il terzo set finisce in un battito di ciglia. Inevitabile il ritiro per non mettere a rischio il seguito della stagione.

All’ora dell’aperitivo va in scena la semifinale titanica, il maestro contro l’allievo che l’ha superato (tra i quali si è stesa un po’ di ruggine per le dichiarazioni dell’ex numero 1 sul caso Clostebol): il bilancio fra Sinner e Novak Djokovic è di 4 vittorie a testa. Sulla terra l’esperienza conta, ma i duellanti giocano un tennis a specchio, solo che Jannik fa tutto un filo meglio ed è più giovane di 15 anni. Il piano del serbo è evitare gli scambi lunghi, ricorrendo alla smorzata. Ma anche se il dritto è un po’ impreciso, al quinto gioco l’italiano ottiene il break. Perso il primo set, il diabolico Djoker inizia a colpire meglio. Per lui è obbligatorio vincere il secondo set, ma dopo un’altra smorzata inefficace, subisce il break al settimo gioco. Però la prima latitante di Sinner gli consente di rientrare sul 5 pari. Adesso i vincenti si susseguono e dopo due ace, uno con la seconda, Jannik si prende anche il secondo set. Davanti a Nole, che ha rinfoderato le palle corte, c’è l’Everest. Anche perché il servizio dell’italiano ora funziona. Il decimo gioco è un romanzo: Nole non trasforma tre set point, contesta una chiamata out dell’arbitro, vince con uno smash il punto successivo, ma il gioco se lo prende Jannik. Si arriva al tie break e Sinner che sa giocare al meglio i punti decisivi, se lo aggiudica. Grande onore allo sconfitto, «il migliore della storia del nostro sport», garantisce Jannik. Che è approdato alla finale senza aver perso un set.

Domani sul Philippe Chatrier, dopo il doppio femminile con Jasmine Paolini e Sara Errani, toccherà a lui vendicare Musetti. Sarà la prima volta che Sinner e Alcaraz si sfideranno in una finale slam. Lo spagnolo potrà difendere il successo del 2024 e rimarcare la sua supremazia sul rosso. Per Sinner sarà un match per continuare a puntare al Grande Slam.

 

La Verità, 7 giugno 2025

«Non c’è il diritto a migrare A Parigi rito massonico»

Ce lo chiediamo tutti se Dio esiste? Ora è il titolo del nuovo libro in cui il cardinale Robert Sarah risponde alle domande dell’editore David Cantagalli che lo pubblica. Sono domande dell’uomo comune: sulla fede, sull’attualità del cristianesimo, su perché Dio non cancella il dolore, su perché l’uomo si allontana dalla Chiesa. In occasione del Natale e dell’uscita del saggio, il prefetto emerito della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti che si è sempre espresso contro la teoria gender, ha accettato di rispondere anche alle domande della Verità.

Eminenza, anche questanno ci approssimiamo al Santo Natale. Che cosha di profondamente, direi oggettivamente, rivoluzionario questo giorno? In che cosa si differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni?

«Il Santo Natale del Signore Gesù è la memoria attuale dell’evento più straordinario della storia umana: il fatto che Dio sia divenuto uomo, restando Dio, e dunque che Dio abbia voluto camminare sulle nostre strade e nel nostro tempo, per salvarci dall’interno della nostra stessa esperienza umana. L’idea di un Dio lontano è superata per sempre del fatto dell’incarnazione, che rende il Dio-con-noi davvero credibile, perché vicino. Cristo è l’unico iniziatore di un “cammino religioso” che ha la pretesa di essere Dio: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Questa inaudita pretesa è la differenza cristiana. Tutte le religioni sono un tentativo umano di raggiungere Dio, ed in quanto tentativo possono avere certamente elementi di vero e di bene, ma il cristianesimo è esattamente il contrario: è Dio che ha raggiunto l’uomo. È il capovolgimento della mentalità comune. Dio prende l’iniziativa di venire verso l’uomo per farsi conoscere, farsi vedere, farsi toccare e rivelare il suo amore infinito per noi. Dio viene verso l’uomo tramite l’incomprensibile mistero dell’incarnazione del suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo».

Lavvenimento di duemila anni fa, la venuta, lincarnazione di Dio nel mondo, a quali domande delluomo risponde?

«L’incarnazione risponde a tutte le domande fondamentali dell’uomo! L’uomo, ogni uomo desidera conoscere Dio: il suo misterioso creatore. L’uomo desidera vedere il volto di Dio, aspira ad entrare in relazione con Dio, perché l’uomo sa che solo in Dio trova consistenza. Solo in Dio l’uomo può realmente entrare nella sua vera identità e nel suo vero destino. L’uomo è la sola creatura capace di autocoscienza e di ricerca di significato e tutti sperimentiamo come la presenza di un senso delle cose, coincida e sia direttamente proporzionale alla nostra libertà: senza senso non c’è libertà! L’uomo è – non solo ha – bisogno di verità, giustizia, felicità, amore… Cristo, Dio che si fa uomo, risponde a tutte queste domande, perché apre la possibilità del compimento dell’io, del pieno significato del nostro esistere e della possibilità che il “grido dell’uomo” trovi un interlocutore capace innanzitutto di abbracciarlo. Poi di rispondere in modo ragionevole, cioè, adeguato alla ragione umana».

Quindi, questo è un mistero anche razionalmente comprensibile. Essendo noi esseri umani dotati di un desiderio assoluto dinfinito, senza una promessa di eternità resa possibile dalla condivisione di Dio della nostra condizione, la vita sarebbe solo uno scherzo crudele?

«Dipende da cosa si intende per “razionalmente comprensibile”. Se si ha un concetto di tipo tecno-scientista, per cui la ragione umana si riduce a essere la misura di tutte le cose, allora direi di no: la decisione sovrana di Dio di manifestarsi all’uomo, facendosi uomo, non è “misurabile”, né prevedibile dalla ragione. Se, al contrario, si ha un concetto ampio di ragione, secondo il richiamo di Papa Benedetto XVI nello storico discorso di Regensburg a “dilatare i confini della razionalità”, per cui la ragione è concepita per quello che essa è, una “finestra spalancata sulla realtà”, allora certamente sì. La ragione, per sua natura, cerca risposte alle proprie domande esistenziali. Potremmo dire che la ragione, per il solo fatto di esistere, ha da sempre invocato “una risposta”. La divina Rivelazione cristiana è questa risposta. Il fatto che Dio si sia incarnato, rende accoglibile questa risposta, perché commisurata a quanto l’uomo può comprendere: la condivisione dell’umano, l’espressione in linguaggio umano, la prossimità alle pieghe dell’esistenza. Dio è credibile proprio perché si è fatto uomo e si è reso accessibile».

Una delle principali obiezioni è il dolore provocato dallingiustizia e dalla malvagità delluomo? Perché Dio tace di fronte a queste? Pensiamo alla guerra in Ucraina o ai massacri continui tra palestinesi e israeliani.

«La domanda sul dolore, soprattutto sul dolore innocente, è la domanda delle domande. Noi sappiamo, per divina Rivelazione, che il male è entrato nel mondo a causa del peccato e che ogni uomo sperimenta, nella propria vita, il dramma del peccato personale, che poi diviene peccato sociale. La maggior parte dei mali del mondo è causata dalla malvagità, dal cattivo uso del libero arbitrio, da parte degli uomini. Dio non tace, semplicemente rispetta la libertà che Egli stesso ha donato alla sua creatura, perché “se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (2Tim 2,13). Dio soffre, Dio odia perfettamente il male, le perversità e i crimini barbari che commettiamo. Però Egli rispetta le opere buone e cattive, e le scelte e le decisioni dell’uomo e dei responsabili politici che, per esempio, hanno deciso e programmato la guerra in Ucraina e in Palestina, provocando così tanti massacri e sofferenze di popolazioni innocenti. Però nella nostra fede cristiana, crediamo che Cristo Signore, poi, ha assunto su di sé tutto il male del mondo, morendo sulla croce. Per questo, solo nella luce della croce, cioè nella fede in Dio che muore con tutti gli innocenti, è possibile stare di fronte al mistero del dolore, sia invocandone la liberazione, sia permanendo nella comunione con Dio e con i fratelli. La risposta a tutte le brutture del mondo resta sempre la divina misericordia».

Qual è lattualità del cristianesimo? Perché è una risposta credibile al mondo contemporaneo?

«L’attualità del cristianesimo è l’attualità dell’uomo. Al di là di tutti i condizionamenti storici, culturali e sociali, noi sappiamo che l’uomo, il cuore dell’uomo è sempre uguale a sé stesso, con sempre delle esigenze che gridano salvezza. Certamente queste, molto spesso, sono silenziate, perché fanno così male che non incontrare una risposta può essere terribile; ed allora scatta il meccanismo dell’anestesia individuale o sociale, della fuga dalle domande, che però è fuga da se stessi. In una cultura che voglia “farla finita con l’uomo”, il cristianesimo risulta estraneo, ma se vogliamo continuare a esistere e a esistere con un senso, allora non possiamo non guardare alla proposta di Cristo, unica persona divina-umana, che dà senso, dignità, consistenza e vera felicità all’esistenza umana. Infine, nessuna tradizione storico-religiosa ama la libertà umana più del cristianesimo, e anche in questo è attualissimo».

Duemila anni fa Cristo fu accolto dai pastori e respinto dagli intellettuali e i presunti costruttori di civiltà. Perché oggi i cristiani, nonostante anche San Paolo ammonisse di non conformarsi, sono così preoccupati di avere il consenso del mondo?

«Non penso che tutti i cristiani cerchino affannosamente il consenso del mondo. Certamente alcuni paiono rincorrerlo irragionevolmente, credendo di trovare risposte più “a buon mercato”. Qualcuno lo fa, ingenuamente, pensando di essere più accettato o di evangelizzare. Forse è vero che il mondo è penetrato molto nella mentalità di tutti e questo è accaduto anche tra i cristiani e nella Chiesa; ma l’umanità non ha bisogno di una Chiesa più umana, più immersa nelle tenebre del nostro mondo, nascondendo così la luce del vangelo di Cristo, ma di una Chiesa più divina, di una comunità credente più raggiante di valori cristiani, che abbia consapevolezza della propria identità di “presenza divina nel mondo” ed offra a tutti gli uomini l’esperienza della prossimità di Dio, indicando costantemente la sua presenza».

Proclamando i diritti umani e civili come prioritari le agenzie internazionali, gran parte dei media e delle comunità artistiche tendono a creare le premesse di una nuova religione che renda superflua la ricerca della trascendenza?

«La ricerca della trascendenza non sarà mai superflua, perché appartiene all’identità dell’uomo; finché ci sarà un solo uomo, questi cercherà il significato dell’essere e della vita, dunque cercherà il mistero, l’infinito, la trascendenza, Dio. Il grande tema dei diritti umani e civili, di cui il cristianesimo è sempre il primo vero promotore, domanda di essere declinato insieme alla verità sull’uomo ed al bene comune. Senza questa “compagnia virtuosa”, i diritti umani divengono mera obbedienza a una arbitraria soggettività e quelli civili pretesa di riconoscimento pubblico dei propri desideri, anche volgari, indegni di un essere umano, non sempre corrispondenti alla propria profonda identità e natura. Certamente la consapevolezza della irrinunciabilità della dimensione religiosa può portare a immaginare una “super-religione” mondiale aconfessionale e priva di ogni dottrina, di ogni insegnamento morale e di ogni trascendenza, ma non basterà mai al cuore dell’uomo».

Questa nuova religione sta attuando la sua prova generale durante la gestione globalizzata delle varie emergenze, cominciando dalla pandemia del Covid e proseguendo con quella ambientale?

«Le nuove tecnologie, utilizzate in tempi di emergenza, possono certamente creare l’illusione, in chi le gestisce, di un “controllo globale”. Non sono lontani gli esempi di Stati che, in certo modo, anche se ancora su base volontaria, stanno già attuando quello che si chiama “punteggio sociale”, divenuto un vero e proprio status symbol, che sostituisce ogni valutazione dell’agire morale, privato e sociale, divenendo nuovo criterio di giudizio. È sempre necessario, nelle emergenze, da parte di tutti conservare un vivo senso critico, senza mai lasciarsi prendere dal panico e, da parte delle autorità, evitare decisioni non sufficientemente ponderate. La chiusura delle chiese, forse, è stata una di queste».

Che cosa ha suscitato in lei la rappresentazione artistica allestita in occasione della cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, forse levento più globale del pianeta?

«Al di là del cattivo gusto e dell’oggettiva “bruttezza” della rappresentazione, che nulla aveva di artistico, mi pare sia stata la misura dell’odio al fatto cristiano. Mi ha positivamente stupito che la Conferenza episcopale francese, che certamente non può essere accusata di oscurantismo, abbia espresso una protesta formale, seguita da quella della Santa Sede. Vede, quella rappresentazione blasfema e satanica ha mostrato al mondo come i finti irenismi non abbiano spazio e come la battaglia per la verità e il bene sia, in fondo, sempre anche una battaglia soprannaturale. E le battaglie soprannaturali si combattono con le armi soprannaturali: la preghiera, i sacramenti e i sacramentali, inclusi gli esorcismi. Sono molto legato e grato alla Francia, paese a cui la mia storia personale deve moltissimo, e so che quella rappresentazione non è stata affatto l’espressione di tutto il popolo francese, ma di una minoranza ideologizzata, massonica e opportunamente finanziata».

Tra i nuovi diritti proclamati dagli intellettuali e anche da molte personalità del clero c’è quello a emigrare. Perché si fa molto di meno per favorire il diritto, forse più primordiale, a crescere là dove si è nati?

«Non esiste il diritto a emigrare, se l’emigrazione è forzata, organizzata, pianificata per nascondere una forma nuova di schiavitù o di traffico di esseri umani. Esiste il diritto a una vita buona, a esprimere le qualità della propria personalità, a non morire di fame o di malattie perfettamente curabili, e tutto questo potrebbe essere realizzato nei vari Paesi del mondo in difficoltà. Basterebbe ricordare che un terzo del cibo prodotto nel mondo viene gettato via».

Poche settimane fa sono usciti i dati dellAnnuario cattolico. Per la sua conoscenza del mondo africano ed europeo, come si spiega il fatto che i cattolici sono in aumento in tutti i continenti a eccezione che in Europa?

«Credo ci sia una fondamentale ragione di tipo demografico. Noi in Africa amiamo la vita, nonostante tutte le sue difficoltà. A me fa una certa impressione passeggiare in alcune città dell’Europa e non vedere, per ore e ore, un solo bambino. La vera emergenza dell’Europa è quella demografica e alcuni governi lo stanno comprendendo. Il cruciale problema demografico viene dalla distruzione sistematica della famiglia, del matrimonio, dall’egoismo e dall’individualismo come scelta della società occidentale. Ciò chiude una società in sé stessa. Tutto il mondo sarebbe molto più povero senza gli europei e senza gli italiani. Bisogna guardarsi attentamente da ogni tentazione o illusione di sostituzione etnica. Poi c’è una freschezza del cristianesimo africano, vivace e dinamico, perché giovane, che forse quello europeo, un po’ stanco e troppo istituzionalizzato, può aver perduto. Infine, c’è l’ideologia illuminista anticristiana e soprattutto anticattolica, che in Africa non è mai sbarcata, se non per quegli intellettuali che hanno studiato in Europa, esportandone il peggio».

Quali responsabilità ha la Chiesa nellallontanamento di molti dal cristianesimo? O, per dirla con T. S. Eliot, è la Chiesa che ha abbandonato lumanità o lumanità che ha abbandonato la Chiesa?

«L’uomo abbandona la Chiesa, o la fede, ogni volta che si dimentica di sé stesso, che censura le proprie domande fondamentali; la Chiesa non ha mai abbandonato e mai abbandonerà l’uomo. Alcuni cristiani, a ogni grado della gerarchia, possono aver abbandonato gli uomini ogni volta che non sono stati sé stessi, cioè ogni volta che si sono vergognati di Cristo, tacendo la ragione unica del proprio essere cristiani».

Perché, a suo avviso, negli ultimi concistori papa Francesco ha creato solo tre cardinali africani?

«Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo al Santo Padre. La Chiesa africana non è in concorrenza con le Chiese sorelle ed è molto onorata di avere nuovi cardinali».

 

La Verità, 14 dicembre 2024

Se Parigi è la Ville ténèbre di Donnarumma

Meglio soli che gestiti dai procuratori. Chissà, forse la morale della faccenda è tutta qui. In uno di quei vecchi proverbi che anche i nonni di Gigio da Castellammare di Stabia sicuramente conoscevano e che avrebbero potuto rammentargli. Invece no. Si sa com’è andata. O, piuttosto, come non è andata. Per il Paris Saint-Germain, prima. Eliminato agli ottavi di Champions League, con un suo grave impaccio a innescare la remontada del Real Madrid. E per la nostra Nazionale, esclusa dai Mondiali in Qatar da un tiro di Aleksandar Traikovski che ha stanato il suo errato piazzamento. La Macedonia nel 2022 come la Corea nel 1966, entrambi del Nord. L’altra sera, invece, in uno stadio dell’altopiano anatolico, abbiamo dovuto segnare tre gol per ammortizzare le due papere del portierone. Non sembra più lui, Gianluigi Donnarumma, anima lunga e sempre più tormentata. Tuttora capace di balzi istintivi e voli pindarici a sventare altri schiaffi – perché la dotazione naturale è super, superba, superlativa. Poco lucido, impacciato e insicuro, invece, appena ha il tempo di pensare e la palla tra i piedi.

La perturbazione non è ancora passata. Lo si può capire, esposto com’è allo scherno dei social, soprattutto dei tifosi milanisti (tra i quali, confesso, mi annovero). Chissà se e quando si riprenderà da questa stagione incubo, ce lo auguriamo per lui e per le sorti della Nazionale. E chissà tra quanto gli Azzurri potranno tornare a giocare a Milano se non vogliono esporre ai fischi il loro numero 21.

Fa una certa tenerezza la parabola dell’ex candidato miglior portiere del mondo. Le cause del prolungato appannamento che lo avvolge da quando ha lasciato il Milan possono essere svariate. Ingenuità personale manovrata dal machiavellico procuratore. Eccesso di presunzione e ambizione. O, sempre attingendo alla solita saggezza popolare, l’accoppiamento operato da Dio tra esseri affini. Difficile credere che il ragazzo di Castellammare si sia fatto manovrare dal supermegaprocuratore. Però forse conveniva stare accorti. Mino Raiola ha da sempre sotto contratto uno come Zlatan Ibrahimovic. Il quale, pur avendo giocato nell’Ajax, nella Juventus, nell’Inter, nel Barcellona, nel Milan due volte, nel Paris Saint-Germain e nel Manchester United, a forza di cambiare squadra nel momento sbagliato non ha mai vinto la Champions League. Quando si sta bene in un ambiente di lavoro, il buon senso consiglia di non cambiarlo. Di non avventurarsi. Di non farsi prendere dall’ambizione.

Arrivato nella Ville lumière non tutto luccica come si aspetta. Lo spogliatoio è diviso, il rivale Keylor Navas un tipo tosto e Gigio siede in panchina più del previsto. Ma comprimere i rigurgiti di coscienza è difficile anche a colpi d’interviste e di troppe versioni del divorzio rossonero. «Avevo bisogno di cambiare per crescere, per migliorare e diventare il più forte. La vita è fatta di scelte, avevamo ambizioni diverse» (al Corriere dello Sport). «Quando leggo le critiche alla mia scelta mi faccio tante risate» (a Sky). «Il Psg mi seguiva da tempo, non ho esitato a firmare» (a France football). Infine, alla Gazzetta dello Sport: l’ultima telefonata del club «è stata per informarmi che avevano preso un altro portiere». Alla quale aveva replicato il direttore sportivo Frederic Massara: «Chiamarlo ci è sembrato un gesto di cortesia dopo i suoi rifiuti alle nostre proposte. Ci è sembrato corretto prima di ufficializzare l’acquisto di un nuovo portiere informare lui direttamente».

Alla vigilia del match con il Real il buon Gigio aveva svelato la complicità «del destino» nella sua scelta parigina. Poi Karim Benzema gli aveva soffiato il pallone e addio sogni di Champions. «Ha sbagliato a scegliere i soldi, l’ho detto anche ai suoi genitori», ha sentenziato Arrigo Sacchi dopo l’eliminazione. «Colpa sua. Il Real Madrid era morto», ha rincarato Fabio Capello, sottolineando anche la poca riconoscenza verso il club che l’aveva fatto crescere. Concetto nobile, ma forse legato a un calcio del passato. Le bandiere sono state ammainate ovunque. Il professionismo ha da tempo archiviato i romanticismi. I club cambiano proprietà con una certa frequenza, non ci sono più presidenti storici come Massimo Moratti o Silvio Berlusconi, i contratti vengono siglati dai manager e le società guardano solo al conto economico. Ma proprio per valutazioni strettamente professionali Donnarumma «doveva restare al Milan», ha ribadito Sacchi, «era il posto ideale per crescere». «Adesso a Parigi non so come se la passerà», si è preoccupato Capello. Il Psg è in testa alla Ligue 1, con 12 punti di distacco sull’Olimpique Marsiglia. Ma nelle ultime cinque partite ha perso tre volte e il clima di smobilitazione generale è palpabile. A fine stagione l’allenatore Mauricio Pochettino verrà sostituito. Kilian Mbappè andrà al Real e forse qualcun altro dei troppi fuoriclasse cambierà aria. Per superare i turbamenti del giovane Gigio, ex candidato miglior portiere del mondo, forse la Ville ténèbre non è il posto giusto.

 

La Verità, 31 marzo 2022

Grande Marco, continua a giocare sulla tua nuvola

Chissà. Forse abbiamo trovato il giocatore da top ten. Probabilmente è presto per dirlo, ci vogliono altri test, le prove sulle superfici veloci, l’erba di Wimbledon, il cemento degli Us Open… Tutto vero; nel tennis è così, le favole si accendono e spengono nel volgere di due tornei. Però non si battono in sequenza Pablo Carreno Busta, David Goffin e Novak Djokovic se non si è qualcuno. Destinati a diventare qualcuno. L’immagine giusta l’ha usata Diego Nargiso su Eurosport: «Marco sta in un mondo suo, sta giocando su una nuvola, come dentro un sogno». È così. E anch’io, in qualche modo lo sono, perché non ho ancora identificato il soggetto: Marco Cecchinato, 25 anni, palermitano, allenato da Simone Vagnozzi, giunto alla semifinale del Roland Garros dopo questa imprevedibile serie di successi sulle barricate. Prima del torneo di Parigi era infatti numero 72 dell’Atp e già all’esordio aveva rischiato di uscire, spuntandola solo al quinto set (10-8) sul rumeno Marius Copil. Dunque, dopo averlo visto superare Carreno Busta (numero 11) e Goffin (ottava testa di serie del torneo), eccolo alla prova di Nole, ex numero 1 del mondo che si sta finalmente ritrovando dopo un misterioso, e in parte non risolto, periodo di appannamento.

Djokovic è uno dei miei preferiti, forse il preferito, lo vedo come un Borg 2.0, ne ammiro la tenuta mentale, il non essere mai morto, i recuperi acrobatici, il gioco in difesa e, molto, l’autoironia. Sapete com’è: troppo facile e scontato tenere per Roger Federer, chi non ne vede l’eleganza, il gesto superiore, l’incanto? Lui è il tennis. Dunque, sono contento del ritorno di Nole a livelli competitivi, anche se non ancora ai vertici assoluti. Match imperdibile ma, impegnato in altre faccende, finalmente mi sintonizzo su Eurosport (grazie Sky Go!) quando Cecchinato è sorprendentemente avanti un set. Guardo meglio: 6-3. Nargiso e Gianni Ocleppo stanno dicendo che Ceck sta riuscendo a imporre il suo gioco. Djokovic chiede l’intervento del fisioterapista e risale da 0-2 a 3-2. Si arriva al tie break con Nole che sembra aver ritrovato vigore e mobilità, diciamo all’80%, ma Cecchinato mantiene percentuali elevate di prime, alterna palle corte sia di rovescio che di dritto, e usa come una fionda il rovescio lungolinea che sorprende Djokovic dopo lunghi scambi sulla diagonale di sinistra. Mentre generalmente se ne loda il dritto, il rovescio a una mano di Marco è una bella realtà del tennis italiano. Piuttosto profondo, raramente difensivo o in beck, non subisce quello a due mani di Nole, e anche l’altro giorno non pativa troppo quello di Goffin.

Nel tie break Cecchinato infila una serie di vincenti e porta a casa anche il secondo set. Il calo di concentrazione nel terzo è inevitabile. Scende il livello complessivo del gioco e Nole lo incamera rapidamente con un 6-1. Il quarto set inizia dal warning inflitto a Cecchinato perché Vagnozzi gli ha portato un paio di scarpe negli spogliatoi. Non si può. Cecchinato è nervoso, va sotto 0-3 e io ne approfitto per uscire e sbrigare un paio di commissioni. Tanto, mi dico, faccio in tempo a tornare per godermi il quinto set, e speriamo non finisca come quello tra Fabio Fognini e Marin Cilic del giorno prima. Quando mi sintonizzo nuovamente, lo score dà 5-5. Anche stavolta guardo meglio, altro che quinto set… Serve Nole e «si salva», dicono i cronisti di Eurosport, portandosi sul 6-5. Cecchinato pareggia e si va al tie break. Uno dei più altalenanti e spettacolari degli ultimi anni, da montagne russe dell’emozione, finito 13-11 per The Cekinator (il suo nuovo nickname) in un’alternanza di set point e match point fatti di smorzate, lob, schiaffi al volo e passanti lungolinea. Come quello, imprendibile, con il quale ha superato Djoko proiettato a rete, chiudendo game, set e match. Alla fine, arriva anche il tweet gioioso e giocoso di Fiorello, uno che segue sempre le imprese degli atleti italiani.

Domani tocca a Dominic Thiem, uno che tira catenate sia di dritto che di rovescio. Vedremo… Intanto, proveremo a sapere di più di questo ragazzo di Palermo con un cognome veneto, rinato dopo una strana storia di scommesse, che qualche settimana fa ha vinto il torneo di Budapest battendo Andreas Seppi in semifinale, e superato Fabio Fognini al primo turno di Monaco la settimana successiva.

Forse abbiamo trovato il giocatore da top ten che ha preso una buona parte del talento di Fabio e un altro bel pezzo della testa e della solidità di Andreas.

Aspettiamo, tocchiamo ferro. «Spero che tutta l’Italia sia felice di questo risultato», ha detto lui a match concluso. Lo siamo. Ma tu continua a giocare su quella nuvola.