Neanche «Roadies» dà un tetto tv al rock
Mio figlio Alberto è un consumatore seriale di serie tv. Io ne guardo qualcuna meno. Perciò, eccoci qui.
La terza storia che abbiamo iniziato a seguire è quella di Roadies, racconto del backstage del tour di una band, (Premium Stories, Mediaset). Le premesse erano stimolanti, a cominciare dai crediti: J.J. Abrams produttore e Cameron Crowe ideatore e sceneggiatore. Una serie firmata, garantita da Showtime, cable tv produttrice di titoli cult come Homeland, Shameless e The Affair, per la quale i due miti di Hollywood si sono messi al lavoro.
Protagonisti della vicenda sono i componenti dello staff della band, appunto i «roadies» che percorrono migliaia di chilometri preparando e attrezzando palchi, impianti, logistica, location e tutto il resto. Insomma, coloro che si occupano della macchina organizzativa di un tour, dal ghiaccio in camerino fino all’acustica degli stadi. Persone votate alla causa, senza vita privata. O che, se ce l’hanno, è totalmente subordinata a quella dei musicisti di cui si occupano. Chi rende possibile la realizzazione dei concerti e non appare mai poteva essere un soggetto interessante per una serie, osserva Alberto. Abitualmente di loro non si sa niente e si apprende che esistono solo quando sono vittime di incidenti, come avvenuto qualche anno fa a margine del tour di Jovanotti. Però, bisogna riconoscere che il grande pubblico è attratto dalla vita delle star, non dai lavoratori oscuri.
Nel pilot si segue l’attrezzista Kelly Ann, decisa ad abbandonare la crew. La musica della The Staton House Band è diventata routine e il provino cinematografico che l’attende contiene più futuro. Non bastano gli aneddoti dell’autista (Luis Guzman) e i consigli del vecchio Phil (Ron White) a trattenerla. Il tour manager (Luke Wilson) e la direttrice di produzione (Carla Gugino) bisticciano di continuo e le regole del conto economico incombono. L’intreccio delle storie poteva, dunque, essere interessante se sorretto da scrittura e ritmo adeguati. Invece: delusione. Per raccontare il calcio parlando dei fisioterapisti dei giocatori o la storia della Apple partendo dai fattorini anziché da Steve Jobs serve una genialità e un’arguzia narrativa che in Roadies non si vedono. Fatta eccezione per Kelly Ann, ben interpretata da Imogen Poots, in tutti i personaggi spuntano eccessi che, invece di sottolinearne l’originalità, li rendono caricaturali. L’effetto collaterale è una demitizzazione del rock che difficilmente può soddisfare gli amanti della musica più eversiva del Novecento. Tanto più che, almeno nel primo episodio, non si sente una sola nota della band per cui tutti si sbattono.
Qui però non è il rock al centro, ma chi ci lavora dietro, sottolinea Alberto. Forse bisogna arrendersi al fatto che oggi il rock non è più attuale. Ma è una musica del passato, come si è visto in Vinyl, che era una serie in costume. Proprio dalla serie ideata da Mick Jagger e Martin Scorsese per Hbo, cancellata dopo la prima stagione, viene l’ulteriore conferma che non bastano le grandi firme a garantire qualità. Fuori dalla sua epoca d’oro, per sceneggiatori e registi è difficile trasmettere l’incandescenza di quella musica. Le aspettative sono alte e forse si pensa che il rock contenga una carica e una forza evocativa sufficienti a sfondare. Invece, così non è. Ma mentre per Alberto la causa dell’impaccio narrativo di Roadies deriva proprio dalla materia raccontata, troppo ingombrate e complessa, per me è prevalentemente una questione di scrittura. Comunque sia, alla fine, mentre il rap ha trovato la sua serie in Empire e il country in Nashville, il rock è ancora senzatetto (tv).
i caverzan