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Eugenio Borgna, grande psichiatra e anima gentile

È morto lo psichiatra Eugenio Borgna. Aveva 94 anni, viveva a Borgomanero, in provincia di Novara, dov’era nato nel 1930. Oltre a essere una delle autorità indiscusse della psichiatria italiana e internazionale, Borgna era una persona di enorme sensibilità d’animo. Umile, disposto all’ascolto, capace di farti sentire importante. Mancherà a tutti coloro che hanno a cuore la ricerca del bello e del vero. Di seguito ripubblico l’ultima intervista che ebbi il privilegio di fargli nel marzo del 2020 (nel sito se ne trova un’altra del 2017) a pandemia appena scoppiata.

«Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020

Una zattera di marginali in cerca di un’àncora

È la serie più commovente e tra le meglio recitate del momento, la seconda stagione di Tutto chiede salvezza visibile su Netflix, prodotta da Picomedia, diretta da Francesco Bruni, sceneggiata da Daniele Mencarelli, autore del romanzo autobiografico (Premio Strega Giovani del 2020) cui è liberamente ispirata (soprattutto la prima stagione). Dopo le dimissioni dal reparto dell’ospedale psichiatrico dov’era stato ricoverato in Tso per aver picchiato il padre, ritroviamo Daniele (Federico Cesari) alle prese con la causa con Nina (Fotinì Peluso) per l’affidamento di Maria, la figlia di pochi mesi. Per di più, dopo gli studi da infermiere, torna per un tirocinio di cinque settimane nel reparto dov’era stato paziente. Vi ritrova il burbero ma buono Pino (Ricky Memphis) ora suo tutor, il dottor Mancino (Filippo Nigro) e la responsabile dell’ospedale (Raffaella Lebboroni), mentre dei vecchi degenti, Giorgio (Lorenzo Renzi) è il giardiniere della clinica, Alessandro (Alessandro Pacioni) sopravvive nel suo stato catatonico e ricompare anche Madonnina (Vincenzo Nemolato). La nuova situazione fa emergere le fragilità perduranti in Daniele, non facilitato nella vita privata dalla preoccupazione dei genitori presso i quali continua a vivere e dal boicottaggio della madre di Nina (Carolina Crescentini)… Tra i nuovi pazienti lo destabilizzano soprattutto il giovane Rachid (Samuel Di Napoli), algerino e promessa incompiuta del calcio, che pretende favori e privilegi a colpi di ricatti, e Matilde (Drusilla Foer), spietata nichilista, frustrata dalla sua controversa condizione e dalla morte di un amante che Daniele le ricorda per la sensibilità e il candore con cui condivide il dolore degli altri. Nel guazzabuglio psico-sentimental-esistenziale di una maturazione incerta c’è spazio per la poesia, passione non segreta di Daniele, e l’incontro con Angelica (Valentina Romani), la figlia di Mario (Andrea Pennacchi), precipitato dalla finestra nella prima stagione. Tutto compone un dramedy che a volte strappa il sorriso e, più spesso, muove alla commozione narrando il vagare di una zattera di marginali alla ricerca di un’àncora salvifica.

Post scriptum Era inevitabile che, dopo l’imbarazzante 0,99% di share (169.000 spettatori) si cambiasse la programmazione (non ancora ridefinita) di L’altra Italia di Antonino Monteleone, per le prime tre puntate trasmesso senza successo il giovedì sera su Rai 2. Più che l’improbo confronto storico con Michele Santoro, qualunque approfondimento piazzato in quel presidiatissimo orario sconta il fatto di arrivare per terzo, dopo due talk show già ben consolidati.

 

La Verità, 20 ottobre 2024

«Farò la terza dose, ma il pass non mi convince»

Sergio Castellitto non si allinea. Anzi, si potrebbe dire che si ribella. Al pensiero unico, al gne gne salottiero, al chiacchiericcio dei talk show. Per questo, ascoltarlo qualche sera fa motivare il suo «pensiero altro» davanti a Giovanni Floris ha suscitato curiosità e voglia di approfondire. Lunedì lo vedremo su Rai 1, protagonista di Crazy for football, film-tv tratto dalla storia vera di una squadra di calcetto composta da persone con problemi psichiatrici che punta  a partecipare al campionato del mondo della sua categoria. Castellitto sarà Saverio Lulli, un medico visionario e generoso.

Forse troppo?

«La generosità non è mai troppa. Il suo contrario sarebbe la misura, la capacità di essere strategici? Da psichiatra ci caschi per forza, l’emotività ha i suoi diritti. E anche se gli psichiatri cercano di mantenere la giusta distanza, alla fine credo che le relazioni umane, con i loro conflitti, siano la benzina che ci tiene vivi. Parliamo molto della violenza esteriore, ma tendiamo a sottovalutare quella che investe la nostra interiorità».

Perché ha creduto in questo film-tv?

«Il mondo della psiche è importante nel mio mestiere. Gli attori lavorano molto sul “materiale emotivo”, mi sto autocitando. È un mondo che ho sempre frequentato fin da Il grande cocomero di Francesca Archibugi e poi nelle tre stagioni di In Treatment per Sky».

Poi c’è il calcio.

«Uno sport che è un gioco. Ma è anche una metafora, con due squadre, quasi due eserciti che si affrontano per prevalere e che offre la possibilità di raccontare la solitudine. Questi due gruppi di ragazzi trovano nel gioco una possibilità quasi terapeutica di mescolare le loro solitudini e di comprendere meglio la propria individualità. Infine, mi piaceva che al centro ci fosse non uomo perfetto, ma un padre e marito imperfetto. Spesso sono le nostre imperfezioni a renderci speciali. Perché dovremmo cominciare a chiederci cosa voglia dire essere normali e cosa non esserlo».

C’è bisogno di storie costruttive dopo quello che abbiamo passato e stiamo passando?

«C’è bisogno di dimenticare. Ma anche di impreziosire ciò che ci è accaduto, per esempio attraverso l’attività di noi artisti. Dobbiamo essere disposti a raccontare l’intimità di questa immane tragedia. Non ho mai creduto che saremo stati migliori. Rispetto a cosa? Purtroppo il dibattito politico mi dà la sensazione che i rancori e gli odi siano tornati a essere materia da prima serata».

Perché nonostante la riapertura al 100% le sale cinematografiche non si riempiono?

«C’è una sorta di ginnastica riabilitativa che ognuno di noi deve fare. Abbiamo voglia di riprendere i riti della socialità, il cinema, i concerti, il ristorante. Ma dopo due anni di isolamento e solitudine, una certa titubanza è comprensibile e legittima. I media non in crisi sono l’oggetto che tutti abbiamo in salotto e i social. Sono i totem moderni, la Chiesa, il Parlamento, l’opinionismo».

Il pubblico stenta a ritrovare l’abitudine di andare al cinema?

«Tutto ciò che ci costringeva a fare il gesto attivo di andare in un posto, che implicava la decisione di partecipare non è più automatico. Dobbiamo ricominciare. L’unico vantaggio è che vincerà la qualità. I rami secchi saranno tagliati e prevarrà ciò che ha davvero un senso. Sono ottimista senza essere superficiale».

Tra i media che sono cresciuti durante la pandemia ci sono anche i libri, protagonisti del suo Il materiale emotivo: quanto dobbiamo esserne contenti?

«Sì, dobbiamo essere contenti. Pur sapendo che i libri li abbiamo comprati soprattutto su Amazon. In Italia si pubblica una quantità esorbitante di libri rispetto a quanto si legge. Ma la letteratura non è un fatto di quantità perché nasce dentro la solitudine di un artista. Lo vedo con mia moglie, Margaret Mazzantini. Costruire un mondo, raccontare una storia e metterci la propria visione del mondo è un gesto a suo modo titanico».

Le rifaccio la domanda che le fa Yolande nel film: cosa vuol dire che l’attualità uccide?

«E io rispondo come il mio personaggio: “L’attualità ci folgora, ci rende più fragili”. Lui è circondato da amici. Sono i personaggi dei romanzi di Dostoevskij, di Simenon, Don Chisciotte… La sera davanti ai fatti terrificanti che ci raccontano i telegiornali continuiamo a mangiare, indifferenti. Ma se leggiamo in un romanzo di un gatto che muore magari ci commuoviamo. L’attualità ci anestetizza, offrendoci anche l’alibi di essere informati. Io vorrei capire di più di come l’informazione accende e spegne le notizie».

Cosa intende dire?

«Faccio un esempio. Ci siamo tutti fermati davanti a quel bambino lanciato per essere salvato oltre il muro dell’aeroporto di Kabul, ma una settimana dopo nessuno si è più chiesto che fine abbia fatto. Romanticamente, sogno un’informazione che mi dica dov’è finito, se ha trovato una famiglia, se un giorno potrà studiare a Oxford o tornerà a Kabul».

Non si fida molto dei media, mi pare.

«Ora stiamo assistendo al G20, un appuntamento importante e necessario. Ma ho la sensazione che questa rappresentazione somigli alle vecchie parate militari, quando ce ne stavamo dietro le transenne a veder passare i bersaglieri. Come osservava Luigi Pirandello: vedo tante maschere e pochi volti».

Che cosa le ha lasciato l’esperienza di malato di Covid?

«Il sentimento più presente è stata la solitudine. La sensazione di essere caduto nel mistero che questa malattia è stata ed è ancora».

Una solitudine dovuta al fatto che i suoi famigliari non potevano avvicinarla?

«Una solitudine interiore. Ogni malattia in qualche modo consente il riaccendersi di un colloquio con sé stessi. Ascolti il tuo corpo, riguardi al tuo passato, improvvisamente ti trovi su un baratro. Non ne parlato prima perché non mi piaceva un certo esibizionismo della malattia. Quando ne esci tendi a rimuoverla, ma una cicatrice, un senso di fragilità rimane».

La convince l’intransigenza con cui vengono indicate alcune regole di protezione?

«Non mi convince perché nel dibattito in corso, se non ti schieri completamente da una parte, diventi il nemico e sei etichettato come barbaro. Con chi la pensa diversamente da me, preferisco praticare il confronto anziché il conflitto. Lo dico con il green pass in tasca, voglio capire perché resiste questa minoranza. In questi anni si è insistito giustamente sull’accoglienza delle minoranze. Tra coloro che non si allineano ci sono intellettuali, filosofi, una persona che stimo come Carlo Freccero. Non si può accettare che sia assaltata la sede della Cgil, ma nemmeno che si sparino gli idranti contro i portuali di Trieste».

Si è scritto e parlato molto più del primo fatto che del secondo.

«Su questo ci vorrebbe un libro più che un’intervista. La narrazione è decisiva. Un giorno qualcuno potrà stabilire se tutto è nato dal pangolino o da qualcos’altro. Ma di questo non si parla».

E non solo di questo.

«Non ci si interroga sul fatto che un 50% di elettori non è andato a votare perché non si sente rappresentato. Ci sono degli establishment che si combattono. Se si continua fare buoni contro cattivi non si va da nessuna parte».

Anche perché i buoni sono sempre gli stessi.

«È pleonastico dire che siamo contro la violenza. O che gli immigrati vanno salvati. Un problema da risolvere è anche l’ipocrisia dell’Europa. L’uomo si è sempre spostato verso la ricchezza. Ma dobbiamo avere gli strumenti per aiutare davvero chi soffre, sia civilmente che sul piano morale».

I fautori del Green pass intransigente dicono che è garanzia di libertà.

«Io credo che nelle sue modalità conservi delle contraddizioni. Se salgo su un autobus o nel metro non mi viene chiesto niente, ma senza green pass non posso andare a lavorare».

Perché negli altri Paesi europei c’è un’applicazione più tollerante?

«Forse sono meno impauriti di noi. Oppure hanno maggiore capacità di imporre regole di altro tipo. In Italia probabilmente serve a selezionare chi accetta le regole e chi no. Le persone che non si vogliono vaccinare, e che per fortuna non sono la maggioranza, continueranno a non farlo. Una democrazia forte dovrebbe saper gestire anche le minoranze dissidenti. Al limite, imponendo l’obbligo vaccinale».

Che sarebbe incostituzionale.

«Certo, è un paradosso. Io le regole le rispetto, ma questo non m’impedisce di ragionare. Davvero c’è stata la corsa alle vaccinazioni a causa dell’obbligo del green pass? Il governo dia le sue indicazioni e si vada avanti, senza criminalizzare nessuno».

La situazione è così esasperata perché il virus è diventato terreno di scontro ideologico?

«È diventato solo questo. Mentre la verità si raggiunge attraverso il confronto».

Rischiamo di fare del vaccino una nuova religione?

«Lo è già. Lo dico mentre attendo la terza dose».

Però andando al cinema è più contento di avere vicino altri spettatori certificati?

«Relativamente. Un vaccinato può essere contagioso o no? Nessuno è immune nel senso che è totalmente intoccabile. Nelle sale la gente entra con le mascherine e non parla».

Ci stiamo riavvicinando alla normalità?

«Non so definire la normalità. Se si toglie la carne dell’informazione intorno al Covid non so bene cosa ci rimane. Trovo più terapeutico vedere un bel film, leggere un bel libro o ascoltare una bella musica piuttosto che assistere all’ennesimo talk show. Lo dico senza altezzosità. I talk show sono diventati dei casting: si chiama quella giornalista perché sappiamo che litigherà con l’altro ospite e via di questo passo».

Ci si allontana dai media perché sono in gran parte allineati al politicamente corretto?

«Il danno peggiore ci viene dalla cancel culture. Trovo nefasta l’idea di cancellare la storia e l’arte. Oggi Fellini sarebbe censurato a ogni inquadratura. Questo fanatismo ucciderà la creatività. Tutti dovranno allinearsi perché tutti hanno bisogno di denaro. E il denaro te lo dà l’algoritmo. Così lo scrittore non sarà più uno scrittore ma un trascrittore, un pennivendolo. I danni di tutto questo ancora non li immaginiamo».

Dipinge uno scenario cupo.

«Raccapricciante. Ho un figlio di 15 anni che è ancora sanamente eversivo in quello che dice e pensa. A 30 anni dovrà fare i conti con questa cultura. Per fortuna lo abbiamo educato alla libertà e a far girare le idee».

 

La Verità, 31 0tt0bre 2021

Trevisan: «Sono rinchiuso, ma non so perché»

La grata a maglie larghe davanti al plexiglas sa di reclusione. Dentro il finestrone spunta Vitaliano Trevisan. Magro, barba lunga, occhiaia grigie. Il reparto di psichiatria è un’area separata dell’ospedale di Montecchio Maggiore (Vicenza). Sessant’anni, scrittore, drammaturgo, saggista, attore, Trevisan è qui perché qualcuno ha chiesto che fosse sottoposto a un Accertamento sanitario obbligatorio (l’acronimo è Aso). Sabato scorso i carabinieri di Crespadoro, il paese del vicentino dove risiede, lo hanno convocato per notificargli il provvedimento firmato dall’ex sindaco, Emanuela Dal Cengio. Questa è la procedura. È salito su un’auto del 118 ed è stato portato all’ospedale di Vicenza. Lunedì lo hanno trasferito qui. La notizia l’ha data lui sulla sua pagina Facebook: «Prigioniero, da domenica in psichiatria. Resisto». E poi: «Per accertare la mia sanità mentale possono tenermi recluso 15 giorni. In teoria potrei chiedere di andarmene, essendo l’accertamento non coercitivo, ma, se lo facessi, come mi è stato fatto chiaramente intendere, rischierei il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Perciò resterò in osservazione». Il documento è stato firmato da uno psichiatra, secondo Trevisan e molto verosimilmente, su richiesta della sua compagna.

Appresa la notizia, gli ho scritto su whatsapp. Per qualche ora al giorno gli è consentito usare il cellulare. «Vuoi venire su appuntamento o attraverso plexiglas?». «Come si fa nel modo più rapido». Ora eccoci qui, in piedi. Io fuori, lui dentro. Il dialogo è difficile, anche per ragioni acustiche. «Posso uscire dal retro a fumare una sigaretta. Se fai il giro del palazzo, ci vediamo all’aperto», suggerisce. Sul retro c’è un piccolo spazio recintato da pareti metalliche traforate, alte tre metri. Un paio di pazienti fumano seduti su una panca e chiacchierano con un’infermiera. Trevisan rolla il tabacco e si avvicina, cappuccio calato sulla pelata.

Cos’è successo, Vitaliano?

«È una faccenda molto complicata».

S’intuisce.

«La mia ex compagna ha deciso di accertare la mia sanità mentale».

Ex?

«Dopo questo fatto, sì».

Il motivo?

«È un’insegnante divorziata e antivaccinista».

Una no-vax?

«Insomma… Dovevamo sposarci, avevamo trovato anche la casa. Il marito da due anni e mezzo non le paga gli alimenti. Ma adesso, con il clima che c’è, può chiedere l’affidamento dei due bambini. E lei è terrorizzata. In sintesi, la storia è tutta qui».

Trevisan è asciutto, niente piagnistei. Rabbia sì. Bestemmie anche. La sigaretta si spegne, si allontana per riaccenderla.

È vaccinato?

«E cosa c’entra questo? Sono cazzi miei».

Lo dico in relazione ai bambini.

«Sono cazzi miei. Adesso sono qui».

Dovevate sposarvi in Toscana?

«Sì. Il marito è lì, per facilitare tutto con i bambini… Questa che vede era la fede di mio nonno, ne ho fatta fare una copia uguale per lei».

La sigaretta si spegne di nuovo. «Si porti l’accendino», butto lì. «Non si può». Intanto, dal reparto sbuca un’infermiera che lo invita a rientrare. Può fumare, ma non fermarsi a parlare con me all’esterno, anche se siamo separati dalla massiccia cancellata: «Me l’ha confermato anche il medico», sottolinea. Ci ritroviamo davanti al plexiglas con grata.

Com’è possibile che una persona estranea com’era finora la sua compagna possa chiedere un Aso per lei?

«Formalmente è stato presentato da un medico psichiatra. Durante il lockdown mi ero trasferito vicino a lei. Per aiutarla con i bambini, portarli a scuola… Ho preso domicilio in Toscana. Poi sono caduto in depressione, ne soffro da sempre. Ho iniziato le cure. La situazione si stava risolvendo. Ero seguito da uno psicologo, un naturopata e uno psichiatra che mi ha prescritto due farmaci molto blandi. Non come qui…».

Però è deciso a restare.

«Sì».

L’istanza è stata qualcosa d’inatteso?

«Quando sono tornato a Crespadoro non sono più riuscito a parlare con i bambini. Lei mi diceva di andare lì per vedere che stavano bene. Ma davanti a casa trovavo un’auto dei carabinieri di guardia, come se fossi uno stalker. Un po’ alla volta si è tutto incasinato».

Se una donna divorziata si risposa non per questo le tolgono i figli, a meno che non manifesti altre problematiche.

«Come ho detto, la situazione è molto complicata. Lei è di Trani. La sua famiglia preferiva che restasse sposata con il marito, pugliese anche lui. Per evitare che si irritassero sia il marito che la famiglia avevo preso una casa per conto mio. Solo ultimamente ero andato a convivere».

Continuo a non capire cosa c’entri la richiesta di Aso per lei. Forse la sua compagna poteva temere che, non vaccinandosi lei e i bambini, qualche giudice potesse contestarle la mancata cura dei figli?

«Lei non è antivaccinista per qualche strana impuntatura. Nel suo sangue e in quello dei bambini c’è un gene a causa del quale la vaccinazione è pericolosa. Sia la famiglia che la scuola approvano la sua scelta».

E quindi?

«Temendo di perdere l’affidamento dei bambini si è spaventata e ha perso la testa. Togliendo di mezzo me, toglie di mezzo un elemento di turbativa che irrita tutti. Questa è la spiegazione che mi do io da qui».

Potrete riconciliarvi?

«Non so. Lei mi accusa di essere violento, anche se non se ne parla nel testo del provvedimento. Però sono io che devo dimostrare di non esserlo».

Una volta nei processi, e qui non c’è una denuncia, l’onere della prova spettava all’accusa.

«Comunque è un’accusa totalmente infondata e indimostrabile».

Come si difende?

«Nella mia fedina penale non c’è traccia di comportamenti violenti. Non ho mai sfiorato una donna. Però, per come funziona la legislazione oggi, sono io a dover dimostrare di non essere violento. Nel clima di oggi, se una donna accusa un uomo, si è subito portati a crederle. Provi a vedere cosa succede se sua moglie dice che è violento…».

Cosa fa qui dentro? Riesce a lavorare, a leggere?

«Dovrei consegnare il nuovo libro a Einaudi entro il 30 ottobre. Ma mi vede? Vede come sono messo?».

Ci salutiamo. I nostri palmi delle mani si stampano sul plexiglas.

 

 

Un autore totale che ha fatto cento mestieri

Nato a Cavazzale (Vicenza) il 12 dicembre 1960, Vitaliano Trevisan è uno degli scrittori più solitari e talentuosi della sua generazione. Scrive romanzi, come I quindicimila passi (Einaudi) premio Campiello Francia 2008, saggi come Tristissimi giardini (Laterza), testi teatrali come Una notte in Tunisia, interpretato da Alessandro Haber, o Il delirio del particolare (in cartellone nella stagione in corso allo Stabile del Friuli Venezia Giulia). Attore a sua volta per il teatro, il cinema e la televisione, il suo ultimo libro è Works (Einaudi), «un mémoire centrato sul tema del lavoro», come l’ha definito, intervistato dalla Verità. Perché, prima di affermarsi come autore totale, Trevisan ha fatto il manovale, il muratore, il costruttore di barche a vela, il gelataio in Germania, il portiere di notte…

 

La Verità, 10 ottobre 2021

 

«Paolo VI e Donato Bilancia mi dissero…»

Si accomodi lì, è il posto dei pazienti», sorride Vittorino Andreoli. «Pronto per essere analizzato», annuisco. Lo studio del professore veronese, psichiatra di fama internazionale e autore di perizie sui casi di cronaca nera che hanno segnato gli ultimi trent’anni di storia, è nel bellissimo salone di una dimora del Cinquecento. Ci sono una grande scrivania, un inginocchiatoio, stucchi e affreschi. «Non è casa mia, io amo la campagna», precisa. «Questo è uno dei due palazzi veneziani rimasti di quella che fu una dominazione tremenda. Qui hanno comandato austriaci, francesi e la Serenissima, la peggiore. I veronesi non amano i veneziani. Della ventina di leoni di San Marco che arredavano piazze e monumenti, poco alla volta ne è rimasto uno solo perché si faceva a gara per toglierli. Sa come sono i veronesi…».

No, mi fa l’identikit?

«Gran lavoratori, molto centrati su di sé, poco amanti della cultura. Parlo anche di me, s’intende. I veneziani invece non lavorano. Veneziani gran signori, vicentini magna gati, veronesi tuti mati».

Da psichiatra ha giocato in casa.

«Noi veronesi siamo così. Amavamo re Teodorico che se ne stava nella sua rocca e, racconta la leggenda, morì rincorrendo un cervo d’oro. Delirava, ma i veronesi lo adoravano malgrado fosse barbaro, invasore e pazzoide. La pearà, una salsa particolare che accompagna il bollito, è diventata il piatto veronese per definizione perché era il suo preferito».

Insisto: l’indole dei locali c’entra con la sua professione?

«Mettiamola così: conosco la lingua madre e questo aiuta. Faccio il mio lavoro con il dialetto. Nel raptus non si dice: “Guarda, c’è il demonio che ti mangia”, ma: “Varda, gh’è el demonio che te magna”. Ho lavorato anche negli Stati Uniti, ma i matti veronesi sono i miei preferiti. Come uno che predilige le donne modenesi».

Settantasette anni, statura, chioma e sopracciglia da scienziato istrione, frequente ospite di salotti tv sul disastro antropologico contemporaneo, prolifico saggista e autore di narrativa, nell’ultimo libro intitolato Il silenzio delle pietre (Rizzoli), Andreoli racconta di un uomo che nel 2028 fugge dalla sua città e si ritira nel Sutherland, alta Scozia, territorio con «un abitante per chilometro quadrato, la più bassa concentrazione umana di tutto il pianeta, deserto compreso».

Il nuovo romanzo con parti autobiografiche di Vittorino Andreoli

Il nuovo romanzo con parti autobiografiche di Vittorino Andreoli

Siamo in via XX settembre 35, lo stesso indirizzo del protagonista del romanzo. È mai stato a Inverkirkaig?

«15 anni fa ho fatto sistemare da un architetto una casa di pescatori davanti a una baia sull’Oceano. Adesso ci vado meno perché è troppo isolata, ma ho sempre amato la Scozia. Per un anno ho studiato a Cambridge e quando potevo scappavo lassù. Ci ho trascorso molte estati. Anche se lì, come si dice, le stagioni le puoi vivere tutte in un giorno».

Ci andava per immergersi nella natura?

«Per ridurre la paura dell’uomo. Penso che chiunque voglia fuggire dalla città immagini un posto così».

Quindi è un libro con parti autobiografiche?

«Ci sono esperienze, sentimenti, pensieri personali».

Anche sul rapporto con la sua città?

«Ho un ottimo rapporto con Verona. Mi muovo, vado all’estero, ma ho sempre voglia di tornarci. La città non va abbandonata, ma ripensata allo scopo di renderla vivibile per tutti».

A fine anni Novanta poteva farlo candidandosi come sindaco.

«Alcuni cittadini avevano fatto il mio nome. La gente mi vuole bene. Non me ne vogliono giornalisti e professionisti».

Perché uno psichiatra scrive romanzi, in parte autobiografici?

«Lo psichiatra non è un fisico che studia le particelle in modo distaccato, con i suoi pazienti si mette in gioco. Scrivere romanzi è l’unico modo per esprimere i miei sentimenti, per immedesimarmi».

La storia del suo personaggio senza nome contiene un dilemma antropologico: meglio la vita nella metropoli o nella natura?

«Il mio personaggio è stanco del mondo metropolitano, pensa a un mondo che si è fermato al quinto giorno del libro della Genesi».

Dicevamo del dilemma antropologico.

«Se è per questo ci sono tutti i dualismi: silenzio e rumore, isolamento e ressa, solitudine e compagnia, animali e uomo».

Scrive che forse sarebbe stato meglio si fosse occupato di zoologia anziché di psichiatria. Le prime 80 pagine sono descrizioni di uccelli marini.

«Li osservo senza pretese scientifiche. All’inizio, sembra che la natura sia l’eden, invece poco alla volta il protagonista scopre che anche gli uccelli sono pericolosi, come nel film di Alfred Hitchcock. Anche in riva all’oceano c’è bisogno dell’uomo. Questo è l’approdo dello psichiatra: senza l’altro, l’io non esiste».

Lei ha seguito i casi più tragici della storia criminale recente, da Pietro Maso a Donato Bilancia a Luigi Chiatti. Che cosa ne ha tratto?

«Quando iniziai a fare lo psichiatra si pensava che il matto fosse una summa di devianze: irrazionalità, immoralità, impulsività, rapporto alterato col reale. Io mi son sempre chiesto: che cos’ha di umano questa persona? Cosa c’è di positivo nella follia? Lo schizofrenico veronese Carlo Zinelli, mio paziente, è diventato un grande pittore: al Guggenheim di Venezia per vedere le sue opere ho pagato un biglietto d’ingresso. Donato Bilancia è stato il più grande criminale del Novecento italiano. Ha commesso 17 omicidi in sei mesi. Un giorno mi disse: “Ci sono due persone che godono della mia massima stima. La prima è chi mi ha insegnato a rubare, la seconda è lei”. Ho sempre rispettato l’uomo nel paziente. Lo vedevo ogni giorno, mi aveva raccontato tutto. “Che cosa posso raccontarle che non le abbia già detto? Non le ho mai parlato di quelli a cui è andata bene”. Capisce il grado di fiducia?».

Crede nell’esistenza del demonio?

«Nel 1972 scrissi un libro intitolato Demonologia e schizofrenia. Il cardinale di Milano Giovanni Colombo mi telefonò per chiedermi se ero disposto a incontrare Palo VI. Lo vidi due volte. La prima mi chiese se avessi mai avuto un paziente il cui comportamento fosse collegabile alla possessione. Risposi che mi ero imbattuto nei limiti della conoscenza, ma mai avevo pensato alla necessità di un’entità esterna all’uomo. Per noi il male è nell’uomo e nella società. Mi chiese ancora se la psichiatria avesse mai rilevato casi di possessione. Mi presi del tempo. Quando ci rivedemmo dopo un mese gli dissi che i dubbi della psichiatria non riguardano il trascendente, bensì la funzionalità dell’uomo da solo e in mezzo agli altri uomini. Mentre, prendendomi sotto braccio mi accompagnò alla porta, continuava a ripetere: “Il male c’è, professore; il male c’è”. Qualche tempo dopo scrisse la famosa lettera sull’esistenza del maligno e “il fumo di Satana entrato nella Chiesa”».

Papa Paolo VI, che Andreoli incontrò due volte per parlare dell'esistenza del demonio

Papa Paolo VI, che Andreoli incontrò due volte per parlare dell’esistenza del demonio

La società del 2028 che descrive nel romanzo è un mondo in cui la trasgressione è il principale strumento di successo e chi è stanco di vivere si può ammazzare. Pensa che tutto precipiterà così rapidamente o è fantascienza?

«Tutto fuorché fantascienza. Estremizzo fatti che già accadono. Se avessi traslato il racconto di un secolo sarebbe stata fantascienza. In dieci anni il declino può diventare precipizio. Se non cambierà qualcosa, in un decennio l’uomo pulsionale che agisce in base ai sensi – voglio, mi piace, lo prendo – avrà vinto».

Qual è la causa di questa deriva?

«Con Tangentopoli scoprimmo che un gruppo di persone usava il denaro per appropriarsi di tutto, potere, vantaggi, donne. Nel mio studio vennero a chiedere aiuto politici e ministri. Non dormivano, vivevano nel terrore. Sembrava che si dovessero correggere le abitudini di una fetta di popolazione. Invece, la corruzione è diventata di massa. Una volta gli avvisi di garanzia spaventavano. Oggi sono relativizzati. Si dice che bisogna essere flessibili, adeguarsi. È la banalità della corruzione. Il verbo rubare è stato cancellato».

Da psichiatra cosa pensa delle baby gang e di ciò che avviene nelle nostre scuole?

«Non ci sono più educazione e principio di autorità. Non c’è più differenza tra bene e male. I genitori ricorrono al Tar perché il figlio ha preso nove anziché dieci. Un alunno di 17 anni sfregia l’insegnante con un coltello perché vuole interrogarlo. Educare è insegnare a vivere. Purtroppo non vedo i maestri. La risposta alle baby gang è mandare 100 militari in più a Napoli?».

La soluzione?

«Leggi che rispondano ai principi, i quali appartengono alla natura dell’uomo. La consapevolezza della propria fragilità, che è una conquista perché ci fa capire di aver bisogno dell’altro, il rispetto della donna che può diventare madre, l’amore e il dono di sé».

Da dove cominciare?

«Mi sono attribuito l’ambizione di completare la massima socratica: “Conosci te stesso”. Aggiungerei: per vivere meglio con l’altro».

Che consiglio darebbe ai politici in vista delle elezioni?

«Di farsi aiutare – da soli non ce la fanno – a scoprire se il loro impegno è motivato dalla ricerca di una gratificazione dell’ego, o da un reale servizio alla comunità. Politico deriva da polis, città: siamo sempre lì. Purtroppo, non vedo nessuno con questo spirito».

Perciò non andrà a votare?

«Non glielo dico. Amo la democrazia, non quella mascherata delle sette».

Ha mai pensato di entrare in politica?

«Mi è stato proposto in due occasioni molto importanti, ma ho declinato. Il mio sogno sarebbe andare 15 giorni a Palazzo Chigi o a Montecitorio. Ma non mi vogliono».

Per analizzare i politici?

«Per curarli. Sono maghi nel fregare la fiducia delle persone. Con l’occhio clinico vedo subito quando qualcuno recita. Il potere è una malattia sociale gravissima, si crede di curarla aumentandolo».

Crede in Dio?

«Se non credo in Dio devo credere al caso. Nel nostro cervello ci sono 85 miliardi di cellule organizzate in una rete a cui si legano idee, parole, gesti, fantasia, desideri. Come si fa a non credere che esista un Creatore? Più difficile è credere in un Dio che regola la morale. Molti miei amici lo hanno incontrato, io spero visiti anche me».

La Verità, 4 febbraio 2017