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«Forza Italia impedirà che la destra sia legittimata»

No, Marco Tarchi, docente a Scienze politiche a Firenze, ideologo della Nuova destra vicino ad Alan de Benoist, non si è convertito al cellulare e ancor meno ai social network. Le conversazioni con lui avvengono per iscritto e sanno di pensatoio. Di riflessione lontana dalla schiuma mediatica. Lo abbiamo interpellato sulle ultime novità nello scacchiere italiano, in particolare nell’area del centrodestra e in vista della partita del Quirinale.

Professor Tarchi, che cosa pensa del fatto che alla recente convention di Fratelli d’Italia siano sfilati tutti i leader dell’arco costituzionale, da Giuseppe Conte a Enrico Letta fino a Matteo Renzi?

«È il riconoscimento del ruolo centrale che, grazie alla forte crescita dei consensi, il partito ha assunto all’interno del centrodestra, e di conseguenza nel sistema politico italiano. Un dato che nessuno può più ignorare».

Fino a ieri a Giorgia Meloni veniva chiesto di prendere le distanze dal fascismo e da gruppi come Forza nuova. Queste partecipazioni mostrano che è la pregiudiziale è caduta?

«Solo apparentemente. Quando si presenteranno occasioni di contrasto su temi importanti, l’accusa di criptofascismo verrà rispolverata da ambienti di centrosinistra. Del resto, questo compito continuano a svolgerlo, in tv, giornalisti e commentatori schierati su posizioni di sinistra radicale, che al momento opportuno torneranno utili anche al Pd».

Che eredità lasciano incontri apparentemente cordiali rapidamente contraddetti da prese di posizioni successive?

«Nessuna. Sono aspetti tattici di strategie che la politica conosce da sempre. Si dialoga pacatamente con l’avversario quando si ritiene conveniente esibire un volto moderato, salvo poi derubricarlo a nemico e attaccarlo duramente nelle situazioni in cui si vuole convincere l’elettorato dei “pericoli” che esso rappresenta».

Come valuta le critiche di Roberto Saviano che ha accusato la Meloni di usurpare la figura di Atreju, personaggio della Storia infinita di Michael Ende?

«È storia vecchia: riecheggia polemiche che si trascinano da quasi mezzo secolo sul diritto o meno dei giovani missini degli anni Settanta-Ottanta di sentirsi vicini alla visione che ispirava le opere di Tolkien, a partire dal Signore degli anelli. Accusarsi reciprocamente di appropriazioni indebite è un vezzo ideologico, nient’altro. Ben più preoccupante è l’apologia dell’odio per i “nemici politici” che Saviano ha recitato nella stessa occasione. Sembra di essere ritornati alla stagione che produsse l’orribile slogan “Uccidere un fascista non è un reato”, con le ben note conseguenze di quelle parole. Se a pronunciare quelle frasi fosse stato un esponente della destra, dal Quirinale fino alle piazze imperverserebbero le proteste più vigorose. Invece, tutto tace».

Esiste ed è credibile la svolta conservatrice di Fratelli d’Italia?

«Parzialmente. Molto più evidente, nel discorso di Giorgia Meloni e del suo partito, è il richiamo ad un nazionalismo che, pur declinato con la prudente etichetta di patriottismo, rischia di apparire – ed essere – anacronistico. La polemica antifrancese ne è un esempio. È difficile, poi, capire come questa visione possa sposarsi all’atlantismo e all’occidentalismo di cui Fdi si fa sempre più insistentemente alfiere. Può spiegarlo, ma non giustificarlo, solo il rapporto di collaborazione che il gruppo conservatore europeo che la Meloni presiede ha con i repubblicani statunitensi».

Che spazio c’è in positivo nel nostro Paese per una destra conservatrice che il più delle volte viene connotata solo in negativo come non sovranista e non populista?

«Ce ne sarebbe se quella destra scegliesse come suo obiettivo polemico principale quell’egemonia del politicamente corretto che si è abbattuta sul panorama culturale del cosiddetto Occidente e mette a repentaglio – come giustamente da più parti si sta facendo notare a cominciare, in Italia, dalle recenti critiche di Luca Ricolfi – la libertà di ricerca scientifica, di insegnamento e, ormai, anche di pensiero. Contrapporre, in questo campo, il conservatorismo al progressismo, con solidi argomenti e non solo con slogan, significherebbe anche dar voce a preoccupazioni diffuse negli strati popolari della società, dove mode intellettuali made in Usa come la teoria della fluidità di genere, l’attacco al presunto “privilegio bianco”, il separatismo etnico e così via sono tuttora viste come assurdità».

Giorgia Meloni è presidente del gruppo europeo conservatori e riformisti (Ecr) che risulta più moderato di quello cui aderisce Matteo Salvini. Questa contraddizione è risolvibile?

«È difficile dirlo, anche se in questa fase sia Fratelli d’Italia che la Lega sembrano prendere le distanze da quella mentalità populista che aveva fatto il successo del progetto di Salvini e che avrebbe potuto essere il terreno d’incontro dei due partiti. Convergere su temi più moderati li potrebbe però penalizzare, e non poco, dal punto di vista elettorale, specialmente se, una volta esaurita la pandemia, se ne dovranno pagare i costi economici e sociali».

Perché ritiene che sarà Silvio Berlusconi più ancora della sinistra a frenare il processo di legittimazione istituzionale di Meloni e Salvini?

«Perché Berlusconi non perdonerà mai né all’una né all’altro di averlo spodestato da quel ruolo di eterna leadership del centrodestra cui si riteneva predestinato. E anche perché, nel fondo, il presidente di Forza Italia non è e non è mai stato un uomo di destra. Lo ha rivendicato a più riprese, dicendosi sturziano e degasperiano».

Che cosa vuol dire esattamente che il nuovo capo dello Stato dev’essere un patriota?

«Mi pare una formula di comodo, un po’ improvvisata, e neanche troppo comprensibile per la pubblica opinione».

Patria è considerato un termine divisivo perché caro alla destra, in realtà dovrebbe essere inclusivo e richiamare un patrimonio comune?

«Le parole si trascinano dietro i significati che a esse vengono attribuiti in certi periodi. Il fascismo ha usato e abusato di questo termine, cercando di attribuirsene il monopolio, e le destre oggi ne pagano lo scotto. Non da oggi, la sinistra preferisce sostituirlo con “nazione”».

Per fissare subito dei paletti, Enrico Letta ha chiesto che il nuovo capo dello Stato sia europeista. I due elementi sono in contraddizione?

«Per come Giorgia Meloni aveva posto la questione, con l’attacco a Macron e alla Francia, sì. Letta sa che i rapporti con l’Unione europea sono una delle questioni che più chiaramente segnano, agli occhi dell’elettorato, la distinzione con il campo avverso, molto meno percettibile su altri terreni, e gioca su questo aspetto».

Quanto dobbiamo stare sereni se l’Europa a cui ci si richiama è quella che in nome dell’inclusività vorrebbe cancellare il Natale e i nomi della tradizione cristiana?

«Il problema è serio, e richiama in causa la questione del politicamente corretto, e quelle connesse dei pericoli della crescita dei caratteri multiculturali e multietnici delle società occidentali. Non è un caso che in Francia sia questo problema ad aver gonfiato le vele della candidatura alla presidenza dell’outsider Eric Zemmour».

Quanto è importante il pronunciamento di papa Francesco che ha sottolineato la necessità di salvaguardare le radici delle nazioni e messo in guardia dal dominio di entità sovranazionali?

«Non molto, visto che sono proprio quelle entità a promuovere fenomeni come l’immigrazione di massa extraeuropea, che il Papa instancabilmente difende dalle accuse dei suoi critici. È difficile salvaguardare le radici delle nazioni quando si contribuisce ad accrescerne l’eterogeneità sotto il profilo culturale e dei modi di vita».

Crede che il centrodestra riuscirà a essere determinante nella partita del Quirinale?

«Considerando l’insipienza strategica di cui i suoi leader hanno dato prova in passato, c’è da dubitarne».

Ha fatto bene Salvini a sollecitare per primo i leader di partito?

«È un modo come un altro per riguadagnare centralità mediatica, ma dubito che la mossa abbia effetti pratici. E difatti è già stata respinta al mittente».

Ritiene anche lei che la proroga dello stato di emergenza nasconda il tentativo di precludere a Mario Draghi la salita sul Colle più alto?

«Può essere, ma se l’interessato vorrà davvero raggiungere quel traguardo, non credo che questo sia un ostacolo insormontabile».

La candidatura di Berlusconi è davvero praticabile o rischia di riportare il Paese al clima di un decennio fa?

«Tutto può accadere, ma l’evento mi pare improbabile, e tutt’al più può risolversi in una sorta di omaggio formale degli alleati alla sua figura istituzionale».

Dopo il dibattito sul ddl Zan, ora il Pd sta alimentando il processo per l’approvazione della legge sull’eutanasia. Che scopo hanno queste campagne in questo momento politico?

«Attrarre le componenti più a sinistra dell’ipotizzato campo largo della coalizione anti destre, che nel recente passato hanno criticato duramente la svolta moderata del Pd, con Renzi e dopo. Ma non sarà un’impresa facile».

Al centro vede un’intesa possibile tra Forza Italia, Carlo Calenda, Italia Viva, Coraggio Italia e Noi con l’Italia?

«Possibile lo è certamente, ma perché si verifichi occorrerebbero circostanze adeguate, come un equilibrio, nei sondaggi pre-elettorali, del peso numerico delle due coalizioni maggiori, per tentare di fare da ago della bilancia».

Pensa che terminata l’esperienza del governo Draghi, se alle elezioni dovesse vincere il centrodestra sarà pronto per guidare il Paese? E i poteri forti glielo consentiranno?

«Se l’elettorato dovesse esprimersi nettamente a favore del centrodestra, le alchimie istituzionali per impedirgli di governare avrebbero poche possibilità di successo. A meno che il fuoco di sbarramento non provenisse dall’interno della coalizione. E questa è un’eventualità tutt’altro che peregrina: Forza Italia e centristi sono mine vaganti».

La pandemia come ha modificato lo scenario politico italiano?

«Lo ha ingessato, grazie al clima emergenziale e allo sfruttamento che ne è stato fatto, ma non ne ha cambiato i connotati. Quando la nevrosi da virus si attenuerà, ce ne renderemo conto».

Pensa anche lei che rischiamo di diventare un Paese in parte autistico?

«Il rischio c’è, visto il clima psicologico degli ultimi due anni».

 

La Verità, 18 dicembre 2021

«La strada per il Colle passa dal centrodestra»

Patti chiari e intervista lunga, Bruno Vespa è un maestro di ospitalità che sa mettere a proprio agio l’interlocutore invitato nell’accogliente casa di Cortina d’Ampezzo dove, come tutti gli anni ad agosto, l’ex direttore del Tg1 e conduttore di Porta a porta, la Terza camera del Paese, trascorre un paio di settimane di vacanza. I patti sono che non si parla di televisione e di Rai, ma di politica e del suo Quirinale – Dodici presidenti tra pubblico e privato (Rai Libri), ora che è iniziato il semestre bianco che porterà alla scelta del successore di Sergio Mattarella (sé medesimo?) nel prossimo mese di febbraio.

A tutte le elezioni del presidente della Repubblica il candidato più accreditato viene giubilato. È successo a Giovanni Spadolini, Giuliano Amato, Franco Marini, Massimo D’Alema, Romano Prodi…

«Tranne che a Francesco Cossiga, sul quale funzionò il patto di ferro stabilito in precedenza tra Democrazia cristiana e Partito comunista».

Stavolta a chi toccherà?

«A nessuno perché ancora non c’è un candidato esplicito. Ci sono tanti aspiranti coperti, ma nessuno si scopre per non esser costretto a dire di esser stato giubilato».

Parlando di candidati coperti, anche lei, come si legge nel libro, ha rischiato di correre a sua insaputa.

«Quello è un fatto divertente. Silvio Berlusconi disse a Matteo Renzi che siccome, a suo avviso, conosco bene l’Italia… “perché non eleggiamo lui?”. Era solo una battuta, che fu Renzi a riferirmi».

Anche il patto del Nazareno fu tradito quando Renzi estrasse dal cilindro Sergio Mattarella. Come giudica il suo settennato?

«Mattarella è uno dei presidenti più amati, forse il più silenzioso di tutti. Ha incaricato tre maggioranze diverse in tre anni, muovendosi bene in momenti delicati. Soprattutto in occasione della formazione del primo governo Conte e in quella della mancata nascita del Conte ter».

Anche la crisi dell’agosto 2019 non è stata uno scherzo.

«No. Ma la maggioranza imperniata su M5s e Pd è stata una scelta più facile, tant’è vero che se n’era già parlato dopo il voto del marzo 2018».

Quando non diede l’incarico a Matteo Salvini nonostante il centrodestra avesse la maggioranza relativa?

«Non era sufficiente. È vero che il mandato a Roberto Fico fu molto più lungo di quello concesso a Elisabetta Alberti Casellati. Ma Salvini avrebbe dovuto cercarsi 50 parlamentari e sarebbe stato un governo fragilissimo. Poi fu Renzi a mandare all’aria l’ipotesi Pd-M5s in televisione. Mentre fece nascere il secondo governo Conte e ha impedito la nascita del terzo».

È il king maker dei governi pur con un partito infinitesimale.

«I sondaggi lo penalizzano, ma ha 47 parlamentari e conta di farli pesare anche nell’elezione del prossimo capo dello Stato».

Un po’ come faceva Bettino Craxi?

«Craxi aveva il 13%, Renzi era più forte nel Pd».

Con poco determina molto?

«Come Ghino di Tacco: bisogna passare per Radicofani».

Mattarella si è opposto anche alla scelta di Paolo Savona ministro dell’Economia.

«Quasi tutti i presidenti hanno imposto dei ministri, ma l’hanno fatto con il consenso del premier incaricato. Il veto su Savona è l’unico caso in cui un governo non è nato perché il capo dello Stato ha respinto un ministro».

Com’è cambiata la figura del presidente nella Seconda repubblica?

«È cambiata con l’avvento di Berlusconi. Mai Oscar Luigi Scalfaro si sarebbe comportato come fece se non fosse stato Berlusconi capo del governo. Scrivergli una lettera di galateo istituzionale alla quale Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti con il Parlamento, rispose giustamente per le rime, fu un comportamento inedito nei rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi».

Con l’avvento di Berlusconi i presidenti sono diventati più interventisti?

«Sì, certo. Lo hanno tenuto sotto tutela. Che lui sia propenso alle scappatelle è evidente, ma loro lo hanno ripetutamente messo in collegio».

Nel caso della nomina di Mario Monti seguita all’invito a dimettersi a Berlusconi di Giorgio Napolitano si è parlato di «dolce colpo di Stato».

«L’ha scritto il sociologo vicino alla sinistra tedesca, Jurgen Habermas. Sicuramente fu un comportamento anomalo, tutto documentato. E emerso a posteriori fa una certa impressione. Tuttavia, dopo la guerra che gli fece Fini, Berlusconi aveva una maggioranza risicatissima, puntellata dai cosiddetti responsabili».

La lievitazione dei poteri del capo dello Stato è conseguenza dell’indebolimento della classe dirigente attuale?

«Non c’è dubbio. È una supplenza di debolezze crescenti. E meno male che Mattarella si è comportato con equilibrio in situazioni che stavano scappando di mano. Direi che Draghi è stato il suo capolavoro».

Dipende anche dal fatto che i presidenti si sono assunti il compito di ridimensionare il centrodestra, dopo Berlusconi anche Salvini?

«Per Scalfaro, Berlusconi era un marziano. E non c’è dubbio che Salvini al governo sia vissuto come un’anomalia legittima».

Anomalia legittima… vengono in mente le convergenze parallele.

«È legittimo che Salvini sia al governo, ne ha tutto il diritto. Anche Mattarella ha chiesto la partecipazione di tutti. Ma non c’è dubbio che sia vissuto come un’anomalia, basta vedere i frequenti scontri con il Pd. Il fatto che due partiti come Lega e Pd approvino insieme riforme importanti è un miracolo congiunto di Mattarella e di Draghi».

L’anomalia è dovuta al fatto che Salvini è cresciuto nella Lega, partito dell’antipolitica come lo era Forza Italia?

«La Ztl della società italiana non si rassegna all’idea che ci sia la destra al governo. È un percorso lungo, vedremo come andranno le prossime elezioni. Il Pd è il legittimo punto di riferimento della classe dirigente e delle élites culturale, burocratica e, in parte, anche imprenditoriale italiana. Anche quando ha il consenso della maggioranza degli italiani, il centrodestra ha la vita più difficile…».

In questi anni Mattarella avrebbe potuto pronunciarsi a proposito delle varie crisi che hanno attraversato la magistratura?

«È una domanda alla quale preferisco non rispondere, per un riguardo al capo dello Stato. Posso solo dire che la magistratura sta vivendo la crisi più grave della storia repubblicana , ancora non si è capito come possa superarla e il Presidente della Repubblica lo è anche del Consiglio superiore della magistratura».

Scalfaro è quello che esce peggio nella galleria dei suoi ritratti?

«Sì, lo metterei in coda alla lista».

Mattarella rimarrà contrario all’idea di prolungare il mandato fino al 2023?

«Credo che il libro dimostri l’assoluta fragilità delle previsioni sul Quirinale. Nel merito ci sono due scuole di pensiero. Una per la quale Mattarella resterà fino a fine legislatura. L’altra, come lui ripete, che non accetterà prolungamenti. Secondo me la prima ipotesi è irrispettosa e con qualche elemento di debolezza. Si rieleggerebbe Mattarella, ma non per sette anni. Credo non si possa fare un contratto con il capo dello Stato in cui si dice: va bene, grazie, adesso ci porti a elezioni e poi te ne vai. Se si elegge Mattarella, lo si elegge per l’intero settennato».

Con Napolitano andò più o meno così.

«Ma decise lui di andarsene dopo due anni. Non si può fotocopiare Napolitano in una situazione diversa».

Oggi la situazione è ancora più complessa per l’emergenza sanitaria e il ruolo internazionale di Draghi.

«Non c’è dubbio che togliere Draghi da Palazzo Chigi sarebbe un peccato, ma il Paese potrebbe essere accompagnato a elezioni dal suo ministro dell’Economia, Daniele Franco. È sicuro anche che dal Quirinale Draghi potrebbe rivestire un ruolo superiore in campo internazionale. Ma parlarne ora è fantascienza. Tutto si deciderà tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio».

Una volta Napolitano le disse che erano maturi i tempi in cui il Quirinale avrebbe potuto essere occupato da un uomo proveniente dalla destra. Previsione realistica, profezia precoce o fantapolitica?

«Servono particolari condizioni politiche e sociali perché un uomo di destra vada al Quirinale. Oggi per la prima volta il centrodestra è decisivo per eleggere il capo dello Stato. Naturalmente conviene che sia una scelta condivisa».

Il Corriere della Sera è già sceso in campagna per il Quirinale?

«L’elezione del presidente della Repubblica è il gioco politico più appassionante dei prossimi sei mesi. È normale che i giornali ci costruiscano un giallo a puntate».

Sperando di piazzare il loro investigatore?

«E chi sarebbe?».

Walter Veltroni è un’importante editorialista del Corriere.

«Walter ha grandi capacità negoziali. Sta a lui convincere il centrodestra a votarlo».

Il giudizio generale sul governo Draghi è positivo: poteva segnare maggiore discontinuità nella lotta al Covid?

«La discontinuità è rappresentata dalla scelta del generale Figliuolo. Siamo passati dalle primule alla rinascita della Protezione civile che era stata lasciata morire».

Vera discontinuità sarebbe stata cambiare Roberto Speranza?

«Difficile cambiare il ministro della Sanità in piena emergenza».

Quanto crede al partito unico del centrodestra?

«In astratto, tra Lega e Forza Italia è possibile, anche se non si fa dalla sera alla mattina. Con la Meloni serve ancora più tempo».

Sul piano dei numeri sarebbe conveniente?

«La storia dice di no. Tutti i partiti che si fondono riducono i loro consensi. Ma le circostanze attuali potrebbero essere più favorevoli all’unificazione».

Come valuta la strategia di Enrico Letta di puntare sull’alleanza con Conte?

«È un esperimento interessante. Vedremo come finirà».

Chi è messo meglio in vista delle amministrative del 3 ottobre?

«E chi lo sa? I sondaggi agostani sono un non senso, quelli affidabili arrivano a tre settimane dal voto. Sono chiamati alle urne venti milioni d’italiani in mille comuni…».

Anche in Italia avremo una grossa coalizione?

«Qualcuno poteva immaginare Letta e Salvini insieme al governo in una situazione come questa? La grossa coalizione c’è già, ed è stata una fortuna. Per la sua collocazione internazionale, Salvini ha fatto bene a entrarci. Come la Meloni a starne fuori, perché avrebbe contato molto poco».

 

La Verità, 14 agosto 2021

«Si voterà nel ’23, quando tutto sarà cambiato»

Nonostante il pizzo mefistofelico i tatuaggi e gli anelli, Roberto D’Agostino, visionario titolare del sito Dagospia (3,5 milioni di pagine visualizzate al giorno), sa interpretare il ruolo del saggio, del politologo, dell’analista attaccato alla realtà e ai problemi della gente. «Davvero», dice, «pensiamo che un padre di famiglia quando torna a casa dica a sua moglie: hai visto che hanno segato l’uomo di Giorgia Meloni nel Cda della Rai? Oppure che l’operaio che si alza alle sette del mattino per andare in fabbrica abbia come primo pensiero cosa si son detti Beppe Grillo e Giuseppe Conte al ristorante? Io penso di no, penso che il distacco tra la vita dei cittadini e la narrazione dei media sia ormai abissale».

Un po’ l’ha colmata la sbornia degli Europei?

«Un po’ sì, ma non parliamo di sbornia. La politica è anche un fatto emotivo».

La politica?

«Anche lei vive di emozioni. Il Covid ci ha sconvolto anche perché è venuta a mancare la fiducia negli altri. La vittoria agli Europei rimette in circolo energie nuove».

Si parla di Rinascimento italiano.

«Più che altro una Rinascente cheap. Quello che lei chiama sbornia è un’onda emotiva che arriva dopo un anno e mezzo di afflizione, i 120.000 morti, i camion di Bergamo, le bare ammassate. La Nazionale ha fatto gridare “Viva l’Italia” a tutti, facendo tornare il senso di appartenenza e dello Stato».

Addirittura.

«Di solito quando si parla di senso dello Stato viene l’orticaria perché si pensa alle tasse. Ma dopo la pandemia si pensa anche che con le tasse si costruisce un ospedale che serve quando stai male. La vittoria degli Europei è come un integratore per affrontare il post Covid».

Tutti patrioti? Qualcuno ha scritto che è tornato il piacere abbracciarci…

«Stato vuol dire fiducia, come la Galbani della pubblicità di una volta. Si ricomincia a fidarsi degli altri anche se sappiamo di correre un rischio. Infatti, tanti portano ancora le mascherine nonostante si possa stare senza. Questa vittoria è come un tiramisù. Al contrario, i no-vax pensano solo alla loro libertà e non che può danneggiare gli altri. Io sto con Macron: la mia libertà finisce quando mette a rischio quella di un altro».

Per la Nazionale abbiamo fatto due giorni di rave e adesso ci vuole il green pass per andare al bar?

«I festeggiamenti di domenica sera erano difficilmente gestibili, anche le forze dell’ordine guardavano la partita. L’errore è ciò che è accaduto il giorno dopo, con la gente assiepata attorno al pullman e senza mascherina. La trattativa Stato-Bonucci è qualcosa d’insostenibile. Si sa che il pullman era già stato preparato, Bonucci stia tranquillo. Ma Draghi non può gestire tutto, ci sono i ministeri competenti. Toccava alla Lamorgese gestire la grana, ma non l’ha fatto».

Non l’ha infastidita un certo eccesso di retorica: la Nazionale simbolo di concordia, Mancini gemello di Draghi?

«Ognuno scrive quello che vuole. L’editoriale di un quotidiano non è le Tavole della legge».

È bastato rimettere all’ordine del giorno il ddl Zan per vedere la concordia andare in frantumi?

«Da una parte c’è la politica politicante, dall’altra 60 milioni di cittadini che dopo due anni come questi hanno ricevuto un’iniezione di fiducia e positività. Non credo che le sorti del ddl Zan incidano sulla quotidianità dei cittadini. In periferia o in un paesino nessuno s’interroga sull’identità di genere. Sono pippe dei giornali. Le persone comuni hanno altre priorità. Mio figlio troverà un lavoro? Riuscirò ad arrivare a fine mese? Sarò licenziato dopo la fine del blocco?».

Chi esce meglio dalla curva?

«I cittadini. Molto meglio della politica, che si balocca con questioni superflue. Immagino tanti lettori che aprono i giornali e mandano affanculo politici e giornalisti. La pace tra Conte e Grillo, i consiglieri del Cda Rai: chi si alza alle sette del mattino per andare a lavorare guarda a questi mondi come agli animali dentro le gabbie di uno zoo. Col mio sito lavoro in un altro modo».

Cioè?

«Il direttore è un algoritmo che mi dà in tempo reale il traffico degli articoli più letti. Così capisco gli interessi prioritari. Se il pubblico mi chiede la ricotta prendo la ricotta e la metto in vetrina. Il cliente ha sempre ragione, questo è il barometro. Ho 3,5 milioni di pagine visitate al giorno. I giornali raccontano le correnti del M5s o del Pd, mentre i cittadini si chiedono perché non si affronta il problema del debito pubblico che viaggia verso i 3.000 miliardi».

Il distacco tra popolazione e narrazione è colmabile?

«A questo punto non lo so. Fossi direttore di un grande quotidiano mi chiederei perché i lettori rifiutano il mio prodotto. Qualche anno fa Repubblica e Corriere vendevano 6/700.000 copie ora sono a 100.000. Il Fatto quotidiano era sopra le 100.000 ora è a 25.000».

Ci si informa anche in altri modi?

«In parte sì. L’edicola sta diventando un residuato bellico come la cabina del telefono. Però i giornali cartacei hanno stravenduto il giorno dopo la vittoria dell’Italia. Vuol dire che i lettori volevano avere un  ricordo del trionfo acquistando il giornale con il poster della squadra vincitrice. Se dai, in cambio ricevi».

Responsabilità dei giornali ma anche dei vari Enrico Letta, Matteo Salvini eccetera?

«Purtroppo i nostri leader non hanno un’idea seria della politica, di come sono cambiati gli equilibri geopolitici dopo l’arrivo di Joe Biden alla Casa bianca, dopo l’avvento della Brexit, dopo la crescita del ruolo della Cina che sta sostituendo gli Stati uniti e ha in mano tutta la produzione strategica, dalle auto alla telefonia. Con tutto questo, noi continuiamo a parlare del consigliere di Fratelli d’Italia in Rai».

E Draghi?

«Non pensa al Quirinale. Punta a diventare il successore di Charles Michel alla presidenza del Consiglio europeo. Invece sul piano del carisma, prenderà il testimone da Angela Merkel. Già adesso Biden parla solo con lui, anche per la debolezza di Macron.

Con questi nuovi scenari hanno ragione Meloni e Salvini a credere che dopo Draghi toccherà a loro?

«Da qui al 2023, quando si andrà a votare, vedremo cambiamenti copernicani. Già ne abbiamo le avvisaglie. Il più draghiano dei leader è Salvini, che è una sorta di pontiere del centrodestra nel governo. Quando di recente Forza Italia si è incazzata per la mediazione della Cartabia con i 5 stelle è stato Salvini a fare da pontiere. Tutto cambia. Basta guardare il patto tra i due Matteo che, con la regia di Denis Verdini, vecchia volpe democristiana, stanno lavorando a una federazione centrista con Berlusconi e Forza Italia».

Quindi l’idea della federazione resiste?

«È l’approdo futuro. Salvini non parla più di migranti e ong, ma di giustizia. La politica in Italia sta vivendo una trasmutazione, a destra nascerà un centro con Salvini, Renzi, Calenda e Berlusconi. Questo dispiacere dato alla Meloni è un segnale: tu resta a destra, al centro stiamo noi».

Conviene lasciar fuori il partito più in crescita dell’area?

«Se l’ideologo della Meloni è Guido Crosetto che è presidente dell’Aiad (Aziende italiane per l’aerospazio e la difesa ndr), apparato di Stato da Fincantieri a Leonardo, che opposizione può fare».

Al di là dell’opposizione è conveniente per il centrodestra escludere il partito più in salute?

«Questo riguarda l’ego dei leader. Non si può parlare di alleanze e poi ci si comporta da ducetti. Il problema di Salvini era che prima twittava e poi ragionava. Ora ha capito che bisogna capovolgere il processo e che la politica è mediazione. Con i fondi del Recovery in arrivo non possiamo permetterci di mandare il Paese al macero. Bisogna mediare gli obiettivi di parte con il bene del Paese. E poi c’è un altro discorso…».

Prego.

«Oltre allo Stato c’è il Deep State, lo Stato profondo. Burocrazia, magistratura, servizi segreti, macchina dei ministeri: tutte realtà che sia Renzi che Salvini in passato hanno trascurato. Pagandone il conto».

Nel centrosinistra niente rivoluzioni copernicane?

«L’idea di Goffredo Bettini che vedeva Conte punto di riferimento dei progressisti è entrata in crisi».

Infatti Bettini sta tornando in Thailandia.

«Per Letta il governo Draghi è il governo del Pd. Ma Conte è contrario alla riforma Cartabia mentre il Pd è a favore. Perciò anche quest’asse è in discussione. Cosa siano oggi i 5 stelle nessuno lo sa».

Quanto crede alla pace di Bibbona?

«Ah, saperlo…».

Conte è andato a Canossa?

«Non so. Se Conte piazza una persona sua in un posto di rilievo Grillo potrà sfiduciarla. Mi sembra una diarchia che non ha grande futuro».

Invece Letta ce l’ha?

«Con il 18% come fa a tornare a Palazzo Chigi? Tanti gli consigliano di aprire a Salvini, così che in futuro ci possa essere un’alleanza con la federazione di centro. Che nel Pd potrà essere appoggiata dalla corrente maggioritaria, formata da ex renziani».

Letta è la persona giusta per aprire a Salvini?

«Credo che le amministrative del 20 ottobre daranno una botta a tante posizioni ideologiche. Si capirà se l’alleanza con i 5 stelle ha un futuro. E se ce l’ha Letta. Nei grandi Paesi europei governano le grosse coalizioni. In Germania i socialdemocratici con i democristiani, in Francia i gaullisti con Macron. In Italia potrà nascere un governo di centrosinistra con la federazione di Verdini, Salvini e Berlusconi alleata al Pd: un governo fattuale, che toglie di mezzo troppe battaglie di bandiera».

Chi è messo meglio in vista delle amministrative di ottobre?

«Credo che il risultato lascerà molti a bocca aperta. Dopo due anni di Covid non sappiamo come si orienteranno gli elettori. Molti sondaggi sono apertamente taroccati e io vorrei avere la palla di vetro per capire cosa ci aspetta. Abbiamo ancora un Parlamento con il 32% di grillini eletti…».

E tra poco inizia il semestre bianco in preparazione alla successione di Mattarella?

«Il copione del Quirinale è tale e quale a quello usato per Napolitano. Mentre Mattarella continuerà a dire di voler tornare a dedicarsi ai nipotini, dopo le prime fumate nere tutte le forze politiche andranno in fila indiana a dirgli di restare. E lui accetterà. Poi nel 2023, con il nuovo Parlamento, si deciderà in base al voto dei cittadini».

E i vari Casini, Veltroni, Franceschini, Berlusconi?

«No future».

 

La Verità, 17 luglio 2021

«Senza conformismo non risulterei provocatorio»

Buonasera. Scusate la voce. È la mia». Esordisce così Saverio Raimondo nello show Il satiro parlante, visibile su Netflix. «Del resto», prosegue, «ho preso la voce da mio padre che è un delfino mentre mia madre è un gabbiano. Voi direte: con quella voce non dovresti parlare in pubblico. Vero. Ma con il fisico che mi ritrovo potevo fare o il comico o il nano nei film porno. Ho sempre sbagliato tutto nella vita. Ed eccoci qui. Sono il secondo di tre figli, mia madre voleva una femmina e mio padre un aborto. Si misero d’accordo per abortire una femmina e io li ho delusi». Saverio Raimondo è il più caustico e sulfureo dei comici in circolazione e Il satiro parlante è un gioiello di anticonformismo. A cominciare da quando suggerisce agli spettatori di ridere e applaudire fragorosamente, indipendentemente dall’efficacia delle sue gag, per non «fare la figura del pubblico di merda». In fondo, dice Raimondo, «vi chiedo solo un’ora d’ipocrisia in più rispetto alle altre 23 della vostra giornata». Dal 18 giugno su Disney+ sarà disponibile in streaming Luca, il nuovo cartoon della Pixar ambientato nelle Cinque terre, scritto e diretto da Enrico Casarosa. Mentre il 19 e il 20 ripartirà in tour da Senigallia e Carpi.

Con questa voce non può che doppiare i cattivi?

«Fin da bambino ho sempre preferito i cattivi, per me hanno sempre avuto più fascino. Oggi i buoni sono antieroici e quindi contendono un po’ di carisma ai cattivi. Già a nove anni ho interpretato Scar del Re Leone in una recita scolastica, una cosa miserabile…».

Cattivo fin da piccolo?

«Umanamente sono un buono. Ma la mia satira si distingue per una nota cinica, perfida e anche feroce, se possibile».

Dura andare contro tutto questo buonismo?

«Mai stato facile essere scorretti. Chi si lamenta del politicamente corretto montante o si è svegliato tardi o ha poca memoria. Per chi fa il mio lavoro misurarsi con il conformismo è stimolante. La comicità è una corsa a ostacoli. Senza, non riuscirei a essere provocatorio».

Il politicamente corretto facilita i comici e affligge le persone comuni? Non si può più dire niente…

«Dipende dal contesto. A volte un’espressione che supera la censura della tv viene contestata sui social. Così la libertà di parola si abbina alla libertà di movimento. Chi può esprimere la propria opinione nel più ampio spettro dei media gode della massima libertà. Tant’è vero che si può dire che non si può più dire niente. Una volta i censori erano figure grigie, adesso chiunque assurge a censore e anche questo, paradossalmente, è sintomo di grande libertà».

Nel cartoon Luca presta la sua voce insolente a Ercole Visconti, un bullo che se la prende con i due ragazzini protagonisti della storia.

«La mia voce è insolente per natura e anch’io sono stato discriminato a causa sua. Sono contento che un’eccellenza come la Pixar ne abbia colto il lato positivo. Perché se è vero che Nemo è profeta in patria, è anche vero che ci vuole orecchio per cogliere le voci fuori dal coro».

Sta per caso parlando di Mario Giordano?

«Potremmo incidere insieme una hit estiva, creando un duo di voci bianche».

Anche l’umorismo nero è nella sua natura: quando se n’è accorto la prima volta?

«L’umorismo nero lo scopri quando ti accorgi che la morte, la malattia e la disgrazia appartengono al nostro sistema immunitario. È un anticorpo che serve ad affrontare le curve della vita. A me non piace come esercizio umoristico, ma quando coinvolge il comico che lo usa».

Perché la sua satira non è livida e livorosa?

«Perché non nasce dalla rabbia. Se nella vita subisco un torto non provo rabbia, ma mi dispiaccio. Credo che la satira sia frutto di un lavoro, mentre la rabbia è un sentimento non elaborato».

Il suo bersaglio principale è l’ipocrisia?

«Sì, ma in senso paradossale. Ciò che non digerisco è l’ipocrisia sull’ipocrisia, cioè la condanna ipocrita all’ipocrisia».

Esempio?

«Considero l’ipocrisia una conquista sociale. Sono regole più o meno implicite per vivere in una società nella maniera meno violenta possibile. Condannare l’ipocrisia come uno dei grandi mali sociali è ipocrita perché, in realtà, tutto sommato ci fa bene. La buona educazione è ipocrita: molti di noi sono educati anche quando non verrebbe spontaneo».

Parlando del linguaggio corrente lei dice diversamente abili al posto di handicappati?

«Bisogna cogliere le sfumature. Dire handicappato nel mio caso non è ironizzare su di lui, ma su chi si esprime con quel termine».

Gabriele Salvatores e Carlo Verdone si ribellano al politicamente corretto perché rende più difficile far ridere.

«Chi l’ha detto che il comico sia un lavoro semplice? Personalmente trovo stimolante quando il gioco si fa duro. Il moralismo d’accatto e accattone che ci circonda m’ispira perché sono un saltatore d’ostacoli. Ok, ci sono persone che si offendono per una battuta. E poi? O si sono violate davvero delle leggi e si va sul penale, oppure parte l’onda di proteste su Twitter. In fondo, non è così grave: sopravvivono sia l’offeso sia l’offensore. La missione del comico è la provocazione, trovo ridicolo che si stupisca che la sua provocazione provochi».

Fra qualche anno il cattivo del cartoon Luca verrà cancellato dai censori di turno?

«Forse già fra qualche mese».

Come il principe azzurro di Biancaneve che ora passa per molestatore.

«Però è sempre lì, scopa lo stesso e se ne frega».

È ipocrisia quella di alcuni suoi colleghi satirici che in spogliatoio anziché contare i centimetri del pisello contano le censure subite?

«Certo. Le denunce per mancanza di libertà d’espressione sono un’espressione della libertà d’espressione».

Come nel caso di Fedez che si è detto censurato dalla Rai nei programmi Rai?

«Esatto. Quella volta hanno fatto tutti una figura buffa, e noi abbiamo visto che la libertà di parola è confrontarsi, non aprire bocca senza criterio. Anzi, lì forse abbiamo visto all’opera troppe libertà. Compresa quella di registrare una telefonata in incognita».

Per trafiggere un politico bastano poche parole anche senza imitazioni e travestimenti?

«Sì, ma trovo che stiamo sopravvalutando le parole. È vero che hanno un peso, ma non credo che siano così taglienti come le riteniamo».

Anche perché ora i politici fanno i simpatici.

«Rendendosi tremendamente antipatici. Non c’è niente di più antipatico della simpatia, come i comici ben sanno. L’esempio di Paolo Villaggio grande antipatico spiega tutto».

Letta vuole il Pd empatico.

«Operazione disperata».

È difficile far ridere sulla pandemia?

«Per me è un soggetto di grande ispirazione. All’inizio, c’era molto moralismo, ma adesso che la retorica è caduta c’è voglia di ridere in faccia al virus. Che, fortunatamente, per la maggioranza è stato un disagio più che una tragedia».

Che cosa l’ha divertita di più?

«Da cittadino ho trovato divertente il modo paternalistico e propagandistico in cui è stata gestita dal precedente governo. Nei tg si vedevano i camion di fiale dei vaccini che attraversavano il Brennero, sembravano notizie del traffico… Come essere umano mi ha divertito la nostra goffaggine alle prese con distanziamenti, mascherine, gel igienizzanti…».

L’unico rimedio trovato dal progresso scientifico è stato chiuderci in casa?

«È piuttosto triste. All’inizio la quarantena era necessaria. Ma averla adottata con disinvoltura a distanza di mesi ha tolto autorevolezza della comunità scientifica. Il fatto più ridicolo però è il tentativo della politica di gestire il virus con la burocrazia».

Tipo?

«Le autocertificazioni. E il coprifuoco alle 18 che è lì in tutta la sua ridicolaggine».

L’unica cosa da chiudere di sicuro erano le bocche dei virologi che si contraddicevano?

«Ho spesso pensato che molti virologi nella loro esposizione mediatica abbiano fatto più male alla scienza dei no vax».

Anche perché i no vax non hanno la patente della scienza infusa.

«E vanno meno in televisione, fortunatamente».

Chi è il virologo che ha trovato più comico?

«Massimo Galli: borbottava sempre e andava in tv a dire che non voleva andare in tv».

Risorgerà il mondo di prima, cinema discoteche e stadi, o è un mondo vintage?

«Penso che ritornerà. Mi colpisce il fatto che non siamo stati in grado d’inventarci un nuovo mondo, ma stiamo lavorando per far tornare quello di prima. Forse non era così male, è il massimo che riusciamo a fare noi umani. Un mondo con dei limiti e dei lati oscuri che vanno accettati. Credo ci voglia un po’ di sana rassegnazione».

Qual è il segreto del Pd che perde le elezioni ma governa sempre?

«Mi verrebbe da dire: fortunatamente. Credo nei pesi e contrappesi delle istituzioni. E quindi anche che il potere degli elettori vada limitato».

Niente voto ai sedicenni come propone Letta?

«Sono per limitare il voto più che per estenderlo perché credo che si eserciti in modo emotivo e scriteriato».

Cosa pensa dell’Erasmus obbligatorio?

«Che nessuna bella esperienza, com’è l’Erasmus, possa restare bella se resa obbligatoria».

Dopo la Lega europeista vedremo Salvini vegano?

«I selfie con il seitan non li ho ancora visti. Salvini cambia opinione velocemente, potrebbe tornare antieuropeista in pochi secondi».

Federazione del centrodestra: 2 più 2 fa 4 o 0 come dice Bossi?

«Ho fatto lo scientifico e quindi dovrei sapere la risposta. In realtà, la politica non risponde alle regole della matematica».

Del caos nel M5s tra Grillo, Casaleggio, Conte, Di Maio e Jean Jacques Rousseau cos’ha capito?

«Non mi ha appassionato, ma mi sono fatto qualche risata amara. Sospetto che il M5s non sia in difficoltà come si racconta. Un po’ come il Pd che si dice in crisi da 50 anni e c’è sempre. Magari la crisi è la nuova forza e loro sanno qualcosa che noi non sappiamo».

Nel suo spettacolo dice che le battute contro i 5 stelle sono vietate come quelle sugli handicappati, stavolta parola sua.

«Vero. Anche le notizie recenti non mi smentiscono. Di fronte a persone inadeguate e inadatte avremmo fatto meglio a parcheggiare sugli spazi riservati».

Collabora con Massimo Gramellini su Rai 3, con Porta a porta di Bruno Vespa e fa Pigiama rave su Rai 4: è uno stand up comedian mainstream?

«No, sono la dimostrazione che anche coltivando la nicchia si può lavorare. Per me non è importante il successo, ma lavorare. Perché alla fine del mese la padrona di casa non mi chiede quanti follower ho, ma l’affitto».

La Verità, 12 giugno 2021

«Serve un vero federalismo in un’Europa comunitaria»

Poi dici, gli imprenditori del Nord… Nella pedemontana vicentina, fra Thiene e Asiago, ha radici Roberto Brazzale, 59 anni, sposato con Luisa, padre di tre figli, comandante della più antica industria casearia del Veneto: 750 dipendenti, 220 milioni di fatturato, aziende in Moravia e in Brasile. Anima lunga e mimica da visionario, mostra le stanze degli avi prima di accompagnarmi nella nuova sede, vetrate e scale minimaliste. «I miei dipendenti devono aver voglia di venire a lavorare perché qui si sta bene», sottolinea mentre preme un pulsante che fa lievitare il tavolo al quale siamo seduti: «Se ci si vuole alleggerire la schiena si può lavorare stando in piedi, come al bar. Quando si è stanchi si schiaccia e ci si risiede».

Lei è l’uomo del colesterolo?

«Di quello buono. Il colesterolo è essenzialmente un fatto naturale».

E di burro e formaggio.

«Il settore ha sofferto quarant’anni di fake news. C’era cascata perfino la Food and drugs administration».

Invece?

«La scienza ha completamente riabilitato il burro. Al quale è stato restituito il ruolo che merita perché non solo non fa male, ma è indispensabile per una vita sana».

La liberazione è definitiva o la strada è ancora lunga?

«Il consumatore risente ancora delle campagne del passato. Nostro compito è realizzare prodotti straordinari per accompagnarne il rinascimento, tipo un burro Rolls Royce che, se lo assaggi, non riesci più a mangiarne un altro».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono un tipico veneto nato negli anni Sessanta, felice di esserlo».

Studi?

«Liceo classico, laurea in legge e studi di organo e composizione organistica al conservatorio».

Genitori?

«Mia madre è stata organista della cattedrale di Padova, direttrice di conservatorio, concertista internazionale. Il papà era chimico industriale con sensibilità artistica, amico di Luigi Meneghello, in pratica uno dei bricconi di Libera nos a malo. Accompagnavo mia madre nelle tournée, eravamo europei ben prima che arrivasse l’Unione europea».

Tutto questo cosa c’entra con la gestione di un caseificio industriale?

«I miei mi hanno insegnato l’importanza di una preparazione più ampia possibile. Sono a mio agio come giurista che opera in campo economico».

Precisando il suo ritratto, quanto le piace andare controcorrente?

«A me sembra di pensare col buon senso e che siano gli altri controcorrente. Ha presente il tipo che guida nell’autostrada immersa nella nebbia e sente la notizia alla radio? “Attenzione, c’è un pazzo che sta andando contromano”. E lui: “Come uno? Saranno almeno cento”».

Appunto, tutti esaltano il consorzio del Grana padano: e lei?

«Pensi che i nostri nonni lo fondarono… Noi a un certo punto abbiamo scelto di superare i limiti delle Dop e andare dove poter produrre meglio ed ecosostenibile. Dopo lunghe ricerche, abbiamo scoperto la Moravia».

Quindi addio made in Italy?

«No, è solo più evoluto».

In che senso?

«Per noi è made in Italy un prodotto con una prevalente componente italiana in termini di territorio, fattore umano, cultura. Legarsi alla provenienza delle materie prime è autolesionistico, perché siamo limitati per carenza di territorio e perché il vero valore aggiunto del food italiano sta nella capacità di trasformazione, che può esprimersi ovunque. Abbiamo triplicato i dipendenti in Italia da quando abbiamo espanso la produzione in Moravia. Questa è la contraddizione».

Spieghi.

«La domanda di prodotti italiani nel mondo è altissima, ma non abbiamo materia prima per soddisfarla tutta. Così la copre l’italian sounding, prodotti totalmente esteri ispirati ai nostri, come il parmesan. Così i giovani rimangono disoccupati. È conseguenza della visione miope del principale sindacato agricolo».

La Coldiretti?

«Restando legati a quelle logiche perdiamo interi mercati. Lo sa che l’Italia esporta meno prodotti alimentari del Belgio?»

In compenso voi vi siete spinti fino in Brasile.

«Per regola facciamo le cose dove riescono meglio e dagli anni Novanta le opportunità si sono ampliate a dismisura. Per un allevamento da carne il posto migliore è il Mato Grosso do Sul dove si pascola 365 giorni all’anno. Lì abbiamo riforestato i pascoli piantando 1,5 milioni di alberi e raggiungendo la neutralità di carbonio dei nostri stabilimenti».

La riforestazione compensa le emissioni carboniche delle vostre aziende?

«Esatto. Per primi al mondo nel settore caseario».

Avete anche introdotto il baby bonus.

«Nel 2016 abbiamo scoperto che una nostra dipendente aveva paura di dirci che aspettava un bambino. Bisognava reagire. Abbiamo introdotto una mensilità premio per ogni nato o adottato, e la possibilità di allungare di un altro anno il congedo parentale, per la mamma o papà, retribuito al 30%».

Le piace la svolta europeista di Salvini?

«È Draghi che nove anni fa ha fatto una svolta sovranista, con la famosa frase “whatever it takes”: è stata una calamità».

Addirittura.

«Ha scelto di perseverare nell’errore del progetto dell’euro quando era palese che la convergenza dell’Italia non ci sarà mai. Invece di smontare l’illusione, Draghi ha promesso al mondo di sostenere i Btp all’infinito, iniziando a stampare montagne di moneta dal nulla, come chiedevano i sovranisti. L’Italia ha così potuto evitare di riformarsi e ha ingigantito il proprio debito pubblico. Ma gli squilibri continuano a crescere: il debito dell’Italia verso la Bce è salito a oltre 500 miliardi a fronte di un credito della Germania di mille miliardi. Chi regolerà queste posizioni?».

La next generation?

«Ci meriteremmo ci venisse revocata la patria potestà sulla prossima generazione come si fa con un tutore infedele».

Draghi ha difeso l’euro.

«Ma non gli europei. Ha monetizzato i deficit, come negli anni Settanta, in spregio ai trattati: anestesia, non terapia, contro un male che nel frattempo avanza indisturbato. Nel 1992 Draghi era direttore generale del Tesoro quando Ciampi per “difendere la lira” lanciò un mini “whatever it takes” che costò all’Italia 50.000 miliardi di lire per sostenere una quotazione irreale. Quello di Draghi ci costerà molto di più quando il castello di carte crollerà. Succederà, perché nessuna costruzione politica è <irreversibile>, tanto più se è sbagliata, guardi il comunismo».

Contromano in autostrada, boccia anche la presentazione in Parlamento per la fiducia?

«Draghi ha una visione statalista, da alto burocrate ministeriale. Vuole un forte ruolo dello Stato nell’economia e trasferire ulteriore sovranità alla Ue, per ovviare alle debolezze italiane, anziché progettare riforme efficaci. Non parla di autonomie regionali, praticamente assenti i temi della natalità e dell’insopportabile vessazione fiscale su famiglie e imprese. Draghi concorre da protagonista al governo dello Stato italiano da almeno trent’anni: ingenuo aspettarsi cambiamenti coraggiosi».

Si dice che la svolta di Salvini sia stata suggerita dagli imprenditori del Nord per sedersi al tavolo che gestirà i miliardi del Recovery fund.

«Sarebbe comprensibile, ma sbagliato. Il Recovery fund è nuovo debito, il 10% del Pil, che graverà sui nostri figli. Denari sottratti loro per essere spesi oggi dalla mano pubblica. Una bestialità. Quel che serve sono adeguati e veloci indennizzi a lavoratori e imprese penalizzati delle chiusure».

Non incrementano l’assistenzialismo al contrario degli investimenti che creano sviluppo?

«Abbiamo bisogno di meno spesa pubblica non di più spesa pubblica. Non esiste denaro dello Stato perché tutto ciò che spende lo stato lo toglie ai cittadini. E pensare che ne faccia uso migliore dei cittadini è insensato».

Bocciato sul nascere anche il nuovo governo: sta all’opposizione con Giorgia Meloni?

«Fratelli d’Italia è un partito centralista e statalista. Questo governo è meno peggio del precedente, ma ciò di cui abbiamo bisogno è ben altro».

Sentiamo.

«Riformare l’architettura istituzionale, restituendo ai territori responsabilità e libertà. Smontare il modello centralistico dei trasferimenti che ci ha portato in questa situazione. In tutto il mondo le realtà che funzionano meglio sono comunità di 5-10 milioni di abitanti, indipendenti come Austria o Singapore, o federate come Svizzera o Stati Uniti».

Quindi è anche contro l’Europa?

«Scherza? Nessuno è più europeista di me. Ma credo in un’Europa comunitaria, non unionista. L’unionismo è un’ideologia velleitaria e dannosa perché è lapalissiano che l’integrazione tra i Paesi europei non verrà mai».

Per chi vota?

«Ho cambiato spesso, a volte non voto».

Dove sbaglia Salvini?

«Doveva perseguire il federalismo che oggi, in Italia, è orfano».

Durante la pandemia le regioni non hanno dato grande prova.

«Perché sono dipendenti dal centro, una realtà incompiuta. Il regionalismo manca dei pezzi più importanti come l’autonomia fiscale. Tre anni fa 2,3 milioni di veneti hanno chiesto al governo di concedere più autonomia come previsto dalla Costituzione: ignorati. Anche da Salvini che ha fatto una svolta nazionalista e centralista».

Alla ricerca di consensi in tutto il Paese e per non abbandonare il Sud al suo destino?

«I consensi si devono conquistare in un’ottica federalista che è urgente soprattutto al sud dove può favorire una rinascita grazie alle straordinarie risorse umane che oggi sono depresse dallo statalismo».

Niente grandi opere al Sud?

«Cito la ricerca di Accetturo e De Blasio intitolata Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) pubblicata dall’Istituto Bruno Leoni. Il denaro pubblico ha fatto danni enormi al Sud».

Io cito due investimenti statali virtuosi in tempi di crisi: l’Autostrada del sole consegnata in anticipo e il ponte Morandi ricostruito in un anno.

«Quelli erano investimenti necessari. Perché prima di avviare una grande opera non s’interpella chi la paga, come in Svizzera?  Non è rilevante se lo Stato sia svelto a fare le opere, ma se queste opere siano più utili che lasciare i soldi in tasca ai cittadini perché investano loro. Lo Stato, che spende già oltre 900 miliardi, avvalora l’ideologia che fare investimenti e spesa pubblica sia utile all’economia perché innescherebbe un moltiplicatore. Frottole, l’unico moltiplicatore che innesca è quello dei debiti pubblici».

 

La Verità, 20 febbraio 2021

 

 

«Se la destra vuole governare deve maturare»

Storico, saggista, autorevole firma del Corriere della Sera, di recente Ernesto Galli della Loggia ha vergato due interventi sul marmo. Il 12 gennaio a proposito dei fatti di Capitol Hill ha scritto che «ciò che spinge la gente in piazza non sono tanto le diseguaglianze, ma il sentimento di giustizia offeso». Mentre il 21 gennaio si è chiesto «che cosa altro deve succedere in Italia perché cambi il sistema politico, perché cambino le regole che lo governano? Non basta avere da tre anni come presidente del Consiglio un signor nessuno mai presentatosi in alcuna competizione elettorale?».

Professore, il fatto che il suo editore Urbano Cairo si sia espresso contro la crisi rappresenta un problema per gli editorialisti del Corriere della Sera?

«No, nessun problema direi. Gli editorialisti del Corriere rispondono al direttore ed è lui che decide se pubblicarli o no».

Secondo lei Giuseppe Conte è fuori dai giochi?

«Direi che ha ancora il 50% di probabilità di farcela. La situazione è così oscura e intrecciata che è difficile andare oltre qualche profezia in percentuale».

Qual è il mistero di Conte?

«Non c’è nessun mistero. Ha approfittato della situazione straordinaria nella quale i partiti vincitori delle elezioni del 2018, Lega e 5 stelle, si sono trovati: privi di un esponente in grado di metterli d’accordo, sono dovuti ricorrere a una figura terza. È stato prescelto proprio perché sconosciuto. Da lì in poi Conte è stato abile a cavalcare gli avvenimenti. Non c’è un segreto, se non che è una personalità duttile».

Non male come eufemismo.

«La duttilità è la capacità di adattarsi alle circostanze».

A me viene in mente Arturo Brachetti, l’attore trasformista.

«A me Fregoli, un Fregoli della politica».

Perché tutti lo vogliono tenere, a parole?

«Be’ proprio tutti non direi, diciamo molti. In ogni caso una persona che si adatta fa comodo. Anche se così si realizza una situazione in cui non si sa bene chi si adatta a chi».

Per qualche giorno la crisi è sembrata una guerra sulla sua testa?

«Sì, ma in realtà è una guerra tra partiti che o non hanno futuro o, pensando di averlo assai incerto, provano a garantirsi la sopravvivenza nel disfacimento generale».

Se Conte farà il suo partito toglierà voti al Pd e ai 5 stelle che, oltre la facciata, preferiscono un cambio a Palazzo Chigi?

«Cambiare Conte significa convincere i 5 stelle a trovare un altro premier. La sua forza è che nessun altro sembra in grado di garantire la convivenza tra Pd e M5s. D’altra parte senza Italia viva non ci sono maggioranze di centrosinistra diverse».

Conte ha resistito così tanto grazie alla pandemia?

«La pandemia lo ha aiutato, ma anche la sua adattabilità. Con lui il trasformismo è arrivato ai vertici del sistema».

Dietro l’aria azzimata c’è un politico inflessibile?

«Abbiamo appena finito di dire che è duttile… L’aria azzimata è tipica di un certo avvocato meridionale di un tempo che ignora l’abbigliamento casual. Cravatta e camicia bianca, poi, sono da sempre l’uniforme del politico italiano medio».

Ha esautorato il Parlamento con i dpcm.

«Non è certo il primo che governa con i decreti. Sono anni che il Parlamento è sopraffatto dall’attività legislativa del governo. Ma in questo caso che cosa sarebbe accaduto se su ogni provvedimento di emergenza si fosse aperto un confronto parlamentare, magari a botte di centinaia di emendamenti?».

È accentramento scrivere il Recovery plan affidandolo a una task force di sei manager scelti da lui?

«Non sono pregiudizialmente contrario ad accentrare certe decisioni. Purtroppo gli accentratori che Conte ha scelto hanno partorito un testo ridicolo. Non credo però che un bel tavolo di confronto con le regioni avrebbe fatto meglio».

Ha gestito con una struttura privata le immagini da diffondere sui media.

«Questo è un comportamento davvero singolare. Sarebbe interessante sapere se Rocco Casalino o la sua società si facevano pagare per cedere le immagini alla Rai».

Che sono sempre le stesse, come ai tempi dell’Istituto Luce.

«Il Luce era una cosa seria. Diciamo un’azione da Minculpop de noantri».

In questi giorni la parola più gettonata è europeismo: è la discriminante per escludere la destra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni?

«Fossi Ursula von der Leyen avvierei un’azione legale contro chi usa il mio nome e quello dell’Europa per qualificare cause poco raccomandabili. Ognuno piega l’Europa secondo convenienza. È il modo giusto per screditarla».

I miliardi del Recovery fund l’Europa li dà solo se governa qualcuno che le è gradito?

«No, ma prenderla a sberle ogni giorno non facilita certo i rapporti. Non si va a chiedere un prestito in banca maltrattando gli impiegati e insultando il direttore…».

Senza arrivare ai maltrattamenti si può rivendicare autonomia nell’uso dei fondi?

«Sono stati assegnati all’Italia, ma a certi scopi. L’Europa vuole vedere se li rispettiamo. Il Recovery fund sarà il cuore della politica dei prossimi anni. Un governo di destra avrebbe certo un problema di coerenza se usufruisse di quei fondi continuando a dire che l’Ue è un’istituzione malvagia da combattere».

Il voto dei singoli paesi conta qualcosa?

«Certo. Il problema è che il voto di alcuni paesi conta più di quello di altri. Il voto dell’elettore tedesco elegge un governo che pesa più di quello italiano e quindi conta di più».

Sulla pandemia e sulla crisi economica annaspiamo: come vede il governo di salvezza nazionale?

«Non mi piacciono i governi di unità nazionale se non durante le guerre. Nei regimi democratici i governi devono essere governi politici. Durante una guerra si ha un unico obiettivo: vincerla. Paragonare l’epidemia a una guerra è inutile retorica. Durante un’epidemia si combatte il virus con il vaccino, ma produrre vaccini non è compito dei governi, distribuirli riguarda invece l’amministrazione, sulla quale i partiti hanno visioni diverse».

Il centrodestra è andato da Mattarella unito, Forza Italia entrerà in un governo di larghe intese?

«Probabilmente sì se ce ne sarà l’occasione, che però non vedo all’orizzonte».

Anche Salvini ha aperto a un governo di salvezza nazionale, senza Conte, che faccia poche riforme.

«Mi sembrano parole, solo Salvini sa che cosa voglia davvero».

Se non si andrà a votare, il nuovo capo dello Stato sarà espresso come sempre dal centrosinistra?

«Molto probabile. Ma bisogna vedere quali saranno i candidati e ricordare che il voto è segreto. Se si candidasse Massimo D’Alema, ad esempio, credo che per primi qualche decina di parlamentari del centrosinistra non lo voterebbero».

Proverrà dalla solita area?

«Sì, ma i nomi, cioè le persone, fanno la differenza. Ad esempio Pierferdinando Casini è un senatore del centrosinistra, ma sono sicuro che avrebbe un’ampiezza di consensi maggiore della sua parte».

Se invece ci fossero le elezioni vedrebbe come candidato del centrodestra uno come Giulio Tremonti?

«Certo. Un altro potrebbe essere Giancarlo Giorgetti».

Il centrodestra riuscirà a proporre una classe dirigente autorevole?

«Tra quanti anni? Temo ci sia bisogno di un lungo processo di cui però non vedo ancora l’inizio. Faccio un esempio: parlare dell’Europa come un mostro o in modo apocalittico della presenza degli immigrati non favorisce certo la formazione di una classe dirigente dotata di autorevolezza e di un minimo di spirito critico».

Come mai, da angolazioni diverse, sia lei che Tremonti avete evocato la Rivoluzione francese come esempio di sfogo finale della rabbia di larghi strati della popolazione?

«Forse perché non siamo degli ottimisti a 18 carati. Perché vediamo ciò che succede nel mondo. Se in questi giorni c’è stata una rivolta che ha messo a ferro e fuoco alcune città della pacifica Olanda, immagini cosa può accadere in Italia».

Oltre alla diseguaglianza economica qual è la molla di queste rivolte?

«L’essere rimasti in tanti per un anno senza reddito e vedere il proprio livello di vita avvicinarsi a quello della miseria. La forte diversità tra la massa e le élites fomenta la rabbia, certo, ma il Covid è decisivo. L’Europa è diversa dagli Stati Uniti, ma senza il Covid sono convinto che non ci sarebbe stato nemmeno l’assalto a Capitol Hill».

Qual è la cosa più grave che Salvini non capisce della situazione attuale?

«Non capisce che la piattaforma della Lega è invisa a molta gente che pure è tutt’altro che tifosa della sinistra».

Non sarà una strategia di marketing?

«Con il suo modo di fare e di parlare Salvini consolida solo lo zoccolo duro sovranista. Se il suo obiettivo è di riuscire a essere eletto a vita in Parlamento, senz’altro ci riuscirà. Ma se il centrodestra ambisce a governare, il leader leghista non deve accontentarsi dello zoccolo duro».

Alla sua destra Fratelli d’Italia cresce.

«Ma più o meno vale anche qui lo stesso discorso. Il compito delle forze politiche di destra è far maturare la propria base elettorale tradizionale per allargarla e arrivare a essere maggioranza. Ma perché questo accada devono maturare anche i suoi stessi dirigenti, che invece sembrano votati a restare minoranza».

Qual è invece la cosa più grave che non capisce il Pd?

«Che per mantenere il ruolo politico centrale che per un gioco del destino gli è capitato, sarebbe bene avere delle idee per il paese. Idee sul sistema fiscale, sull’avvenire della scuola, sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Idee che riguardino cioè i problemi veri del Paese e dei cittadini».

Quelle per le quali il Pd si spende sono genitore 1 e genitore 2 o il ddl sull’omotransfobia?

«Non direi che il Pd si spenda per queste idee, ne parla a mezza bocca e le sostiene a metà. Non ha il coraggio di opporsi mai a un certo genere di proposte».

A chi soggiace?

«A gruppi di opinione molto attivi. Non propone questi temi per primo, ma si fa ipnotizzare da idee non sue».

L’Italia resterà un paese in maggioranza moderato governato dalle sinistre?

«Se la destra non cambia, i moderati preferiranno a lungo di farsi rappresentare da una sinistra che non è certo composta da pericolosi bolscevichi».

Anche se ha una somma di consensi inferiore?

«Ma ha una capacità di coalizione maggiore, ed è quello che conta. Se la destra non accresce la sua capacità di dialogo e di allargamento del consenso può essere sicura che un presidente della Repubblica non lo eleggerà mai».

 

La Verità, 30 gennaio 2021

«Il governo delle tre paure cambierà a gennaio»

Professor Marcello Pera, a cosa dobbiamo il piacere di rivederla presente nel dibattito politico?

«È del tutto casuale, mi hanno cercato ora, non prima. Non sono rientrato in politica».

Però sembra sia tornato da una lunga vacanza.

«In realtà, mi sono dedicato alle mie attività di sempre. Ho scritto un libro e ne ho in mente un altro. Se possibile, spero di continuare a fare il mio mestiere».

Presidente del Senato dal 2001 al 2006, filosofo, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo al quale si è avvicinato anche grazie al rapporto con Benedetto XVI, da qualche tempo Marcello Pera ha ritrovato nuova visibilità sui media.

Il momento difficile l’ha richiamata in servizio come certi poliziotti nei film americani che si commuovono davanti a un caso disperato?

«Di disperato in Italia c’è l’Italia stessa. Ci troviamo in una situazione gravissima. Da ogni punto di vista: istituzionale, politico, economico. Siamo molto mal messi e faremo fatica a rialzarci».

Che cos’ha pensato vedendo l’ultimo rapporto Censis nel quale si dice che circa il 58% degli italiani è disposto a cedere quote di libertà in nome della salute collettiva?

«Ho pensato alla battuta di Boris Johnson che fece arrabbiare il presidente Sergio Mattarella. Johnson disse che gli inglesi amano la liberta più degli italiani che prediligono la sicurezza. Penso avesse ragione. Il rapporto Censis lo quantifica. Diciamo che noi amiamo la libertà guidata».

Diagnosi infausta.

«Gli italiani sono propensi a rivolgersi allo Stato affinché li conduca per mano da qualche parte. È istintivo chiedere alla mamma Stato o al babbo Stato: aiutaci tu. Se le cose vanno male, la colpa è sua. Siamo sempre in attesa delle direttive dei dpcm, che nella loro frequenza scandalizzano sempre meno. Questo è un altro elemento che mi fa essere molto pessimista: desideriamo uno Stato paternalistico, che oggi abbiamo».

Siamo un popolo bambino?

«Che non vuole prendersi responsabilità per agire in prima persona e preferisce essere condotto. A tanti anni dal dopoguerra è un comportamento che mi spaventa».

Perché?

«Perché è uno scambio comodo. Io cittadino ti do la mia libertà e tu Stato mi salvi. Si commercia con l’anima».

L’infantilismo si sposa con l’assistenzialismo e il moralismo dei partiti di sinistra?

«Non è infantilismo, ma un atto cosciente e deliberato perché se ne trae un vantaggio».

È un atteggiamento che giustifica lo Stato etico.

«Si sposa con la cultura della sinistra, ma anche con quella cattolica come viene vissuta nel presente. Il cattocomunismo pesca nell’animo italiano».

È ancora vivo e vegeto?

«Mio Dio, sì. La classe dirigente del Pd è notevolmente cattocomunista».

Secondo il Censis il 77% degli italiani vuole pene severissime per chi non indossa la mascherina.

«È quello che dicevo: prima di tutto la salute, la famiglia, la propria sicurezza. Viviamo nella paura che qualcuno ci infetti».

Un altro dato è che la pandemia ha allargato la forbice tra lavoratori che hanno la certezza del reddito e chi ha introiti precari.

«La divisione tra i tutelati e i precari c’era già prima, ma ora si è acuita. Coloro che fanno lo smart working nella pubblica amministrazione, più smart che working, hanno una via d’uscita che gli altri non hanno. Come se ne esce? Ci vorrà la ripresa economica, un nuovo miracolo italiano. Non sono ottimista».

Adesso che si è superata l’opposizione del M5s al Mes e Conte potrebbe mettere da parte la task force sul Recovery fund ci salveranno gli aiuti europei?

«Se fossimo preparati a coglierli sì. Invece siamo preparati a spargerli. Vedo una rincorsa di lobby, parti e partiti a spendere questi fondi più promessi che garantiti. Non sono sicuro che avranno l’effetto di quelli che arrivarono dal Piano Marshall».

Tanto più che sono prestiti.

«Già come siamo adesso ci stanno portando al 169% del debito pubblico, una cifra che si pronuncia sottovoce. Mi chiedo: come si ripaga questo debito e chi lo ripaga?».

Le generazioni future?

«In realtà potrebbe essere un’ipoteca già per noi. Tra un anno, quando la pandemia sarà finita, gli altri Paesi riprenderanno a correre, mentre noi continueremo con il nostro solito Pil all’1-1,2%. Certamente i nostri figli avranno questo gravoso debito sulle spalle, ma si comincerà a soffrire prima».

Qual è il suo giudizio sulla retromarcia del M5s?

«La possibilità di spendere i soldi per le proprie clientele stando in Parlamento sovrarappresentati e con l’opportunità di eleggere il presidente della Repubblica ha convinto i 5 stelle a trangugiare il rospo indigesto».

Anche Matteo Renzi farà retromarcia sulla task force?

«Può darsi che sbagli, ma mi sembra il gioco del vai avanti tu che a me vien da ridere. Renzi si acconcia a fare l’ariete per conto di altri. Oggi sarebbe fuori dal Parlamento come tutti gli esponenti di Italia viva: sono consapevoli che per rientrarci devono pescare voti dal Pd».

Questa curva prepara il rettilineo per?

«Renzi recita la parte del guascone che ben gli riesce. Pd e 5 stelle sono stanchi di Conte che, penso, in gennaio cadrà per essere sostituito da qualcun altro».

Un Conte 3 è impensabile?

«Direi di sì. Troveranno un nome gradito a Di Maio e Zingaretti».

Enrico Franceschini?

«Troppo cattocomunista, anche se molto ambizioso. Serve una figura meno aggressiva e più accomodante per ricompattare M5s e Pd».

Domenico Delrio?

«È meno aggressivo e torvo di Franceschini, ma proviene dallo stesso ceppo. Troveranno qualcuno che li aiuti a presentarsi uniti, gestire la nomina del capo dello Stato e andare a elezioni una volta celebrate nuove nozze».

Conte sta governando con i dpcm, i sussidi e le task force: si poteva fare diversamente?

«Avrebbe potuto se fosse stato un uomo politico, espressione di una propria forza coesa. Inoltre, si è presto invaghito del gioco, ma devo dire che è stato abile».

Ha accentrato il potere.

«Ora è in difficoltà, ma per un certo tempo è riuscito a gestirlo. Per essere un premier raccolto tra i passanti ha mostrato talento e comincia a fare paura perché dispone di una quota di consenso. Minacciando una lista propria può negoziare sul futuro, non sarà facile disarcionarlo. Per questo occorrerà Renzi al suo peggio: anche questo gli riesce bene».

Il governo ha fatto invasione in campo religioso e liturgico?

«Non penso. Più serio e grave è il fenomeno di secolarizzazione della Chiesa che sta rincorrendo il mondo e si sta trasformando in una religione non più della salvezza ma del benessere. Ciò che sta accadendo nel mondo cattolico è veramente epocale e spaventoso. Sta perdendo la sua propria tradizione e la sua dottrina. Ci voleva un gesuita per fare questo…».

Quello di Conte è il governo delle tre paure? Del Covid, della non rielezione di molti parlamentari e di Salvini e Meloni?

«Certamente sì. La curva del Covid sembra risentire dell’andamento della politica. Per esempio, il contagio è scoppiato a fine settembre, dopo le ultime elezioni regionali, mentre nelle settimane precedenti sembrava debellato. Poi c’è la paura diffusa in Parlamento, non solo tra i parlamentari della maggioranza. Pensi a Forza Italia, le percentuali che hanno portato alle attuali rappresentanze non ci sono più. E poi c’è il mostro, il truce, il fascismo che avanza. La sinistra ha sempre bisogno di questi bersagli che fanno presa anche sui nostri media».

La narrazione.

«Salvini è fascista, vuole i pieni poteri, toglie la libertà, si allea con i polacchi e gli ungheresi: questo è il ritratto».

Difficilmente accadrà, ma se si andasse a votare il centrodestra sarebbe pronto?

«Temo di no. Penso che potrebbe avere la maggioranza, ma non sarebbe pronto».

Non possiede una classe dirigente adeguata all’ora più buia?

«Non vedo i tre partiti parlarsi, confrontarsi, stendere un programma comune nel quale coinvolgere le istituzioni, la politica, l’economia. Li vedo ancora in competizione e quindi quel programma comune che infonde credibilità nell’elettore è di là da venire. Ero presente in occasione della vittoria del centrodestra nel 2001 e ricordo il susseguirsi di incontri e scambi tra i partiti di allora. Ora questo lavoro che dovrebbe preparare le leggi e tenerle pronte nel cassetto, non c’è. E questo mi preoccupa».

Più della mancanza di una classe dirigente all’altezza?

«Sì, perché, in realtà qualche volto nuovo e credibile nella Lega e in Fratelli d’Italia comincia a spuntare. Invece, se il centrodestra dovesse vincere alle urne che cosa farebbe dell’attuale Costituzione, dell’assetto istituzionale, della presidenza della Repubblica, di un sistema di governo troppo debole? Quale posizione avremmo in Europa? Sull’economia e sul fisco? Può darsi che la riflessione su questi temi ci sia, ma io non ne ho notizia».

È ancora l’uomo che sussurra a Salvini?

«Ci ho parlato qualche volta, ma non sono uno che sussurra. Se ne avessi l’occasione segnalerei i problemi che le ho enunciato. Nel 2001 il lavoro del centrodestra fu agevolato dal fatto che c’era una leadership forte. Adesso non c’è e prevale la competizione anche sorda sull’unità. Questo non lo sussurro, ma lo dico a voce alta».

Sarà difficile trovare il candidato premier?

«Si finirà per scegliere chi ha più voti. Lei ricorderà Ugo La Malfa: voti ne aveva pochissimi, ma era un leader».

Rebus di non facile soluzione.

«Lo scioglierà l’aritmetica».

Servirebbe qualcuno in grado di amalgamare le diverse anime?

«Con due o tre idee che si concretizzino in un programma sul quale concordino tutti».

Ci vorrebbe una certa maturità.

«E l’aiuto di Dio».

Alcide De Gasperi diceva che un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni.

«Ma lui un leader lo era e forse non possiamo aspirare così in alto. Nel 2001 ci fu Berlusconi. Se nostro Signore fosse benevolo, potrebbe suggerirci qualcuno di accettabile».

Il nuovo capo dello Stato che si sceglierà nel gennaio 2022 sarà inevitabilmente di centrosinistra?

«Non è una condanna biblica, ma probabilmente andrà così. Sarà eletto dalla maggioranza che c’è ora in Parlamento anche se non lo è nel Paese».

Siamo destinati alla discrepanza fra palazzo e Paese reale?

«Eletto con la maggioranza formata da Pd e M5s sarà un presidente di palazzo, certamente non di popolo».

 

La Verità, 11 dicembre 2020

«Senza una scossa si va dal lockdown allo showdown»

Professor Massimo Cacciari, l’ho visto più rilassato di altre volte qualche sera fa a Otto e mezzo: soddisfatto dell’esito delle elezioni?

«Soddisfatto… Sono state elezioni di conservazione».

In che senso?

«Nel senso che hanno mostrato che la maggioranza degli elettori teme il futuro e tende a non agitare ulteriormente la situazione. Conte e il governo ne sono usciti consolidati. Segni di mutamenti sostanziali non ne ho visti».

E il trionfo di Nicola Zingaretti?

«Macché trionfo. Zingaretti ha scongiurato il pericolo che, cadendo la Toscana, sarebbe caduto pure lui. Dopo di che in Campania e in Puglia hanno vinto due capibastone. Oso sperare che il Pd non sia modellato su Michele Emiliano e Vincenzo De Luca».

Il Pd chiederà di cambiare i decreti sicurezza e di introdurre lo ius soli?

«Non so quanto voglia mettere alla prova il governo o consolidarlo. Nel Pd c’è un problema colossale: nessuno del gruppo dirigente ha una vera legittimazione dalla base. E non l’avrà fin tanto che non si farà un congresso e si creerà una vera maggioranza. Zingaretti continua a essere un uomo sospeso».

I successi di Luca Zaia, Giovanni Toti, Stefano Bonaccini e De Luca dimostrano che gli uomini nuovi vengono dal territorio perché gli elettori si fidano degli amministratori più che dei dichiaratori da talk show?

«È un discorso fatto altre volte. Alle amministrative di Venezia nel 1997 presi il 65%. A Roma tutto cambia: spesso comandano quelli massacrati a casa loro, come Dario Franceschini. La politica di oggi è talmente centralistica e burocratica da cancellare qualsiasi illusione federalistica. Non vedremo mai i De Luca e gli Emiliano presidenti del Consiglio».

Per il M5s, referendum a parte, è stata una débâcle.

«Ed era prevedibilissimo. In queste elezioni era tutto prevedibilissimo, fuorché Zaia».

Ci arriviamo. Perché si aspettava un risultato negativo dei grillini?

«Se si chiede agli elettori di eliminare un po’ di poltrone o di dimezzare gli stipendi dei parlamentari, come vuole che rispondano? Come si fa a parlare di vittoria storica… Ha ragione Alessandro Di Battista: non si può nascondere la totale mancanza di radicamento territoriale e di competenza amministrativa del M5s dietro il risultato del referendum. I 5 stelle devono decidere se restare un movimento di opinione che campa con referendum demagogici o se cominciare davvero a fare politica».

Gli altri sconfitti sono la Lega di Salvini e Matteo Renzi?

«Renzi è andato straordinariamente male anche nella sua Toscana. Ha sbagliato tutte le mosse, come Salvini. Sono due persone che pagano la loro megalomania».

Quali errori ha commesso Salvini?

«Il primo è stato l’atto autolesionistico di un anno fa. Poi in queste elezioni ha spostato l’asticella in cielo, illudendosi di conquistare l’Emilia Romagna, con quella candidata, e la Toscana idem. La stessa cosa che aveva fatto Renzi con il referendum: o me o morte. Sono persone divorate dalla loro megalomania. Salvini adesso ha anche il problema di Giorgia Meloni».

Che però lei non vede leader del centrodestra.

«Pesa ancora troppo il suo passato. Poi, visto l’arretramento di Forza Italia, dobbiamo ridiscutere il concetto di centrodestra, chiedendoci di quale destra parliamo. E qui diventa interessante il caso Zaia».

Eccoci al punto. In questi giorni Cacciari ha rivelato che alcuni suoi amici di centrosinistra hanno votato per il governatore del Veneto. Lui no, è rimasto fedele alla linea… Ma rimane il fatto che la parabola di Zaia lo stimola.

Perché incarna una destra più presentabile?

«Non è solo un fatto d’immagine. Zaia rappresenta una destra diversa, che non vive di comizi, che non fa il karaoke, che non si limita agli slogan. Ma una destra che amministra, radicata nel territorio, che interpretando gli interessi dell’imprenditoria, dell’agricoltura, delle reti commerciali e artigianali ha saputo modificare la struttura di una regione».

Altra cosa rispetto alla Lega salviniana.

«È una destra borghese anche in senso culturale. Salvini ha fatto la cosa giusta quando ha superato la Lega secessionista di Bossi. Ma ora c’è un altro cambiamento all’orizzonte. La Lega di Zaia è affidabile, non populista, antieuropeista e lepenista».

Si parla di nuova segreteria. Il leader nazionale potrebbe essere Giancarlo Giorgetti?

«Giorgetti e Zaia potrebbero essere i padroni del Nord e Salvini il leader nazionale».

In una fase transitoria?

«Una fase nella quale convicono la Lega populista e quella moderata, fin quando si sceglierà una linea o l’altra».

Un altro tema discriminante è l’immigrazione?

«Nel Veneto ci sono esperienze interessanti d’integrazione. Chi produce sa bene che una certa quota di immigrati è necessaria. Questo senza dimenticare le esigenze di sicurezza, ma anche senza sceneggiate e isterie».

E la Meloni che ruolo avrebbe?

«Intanto erode consensi a Salvini. Poi potrebbe essere l’ala nazionalista con cui allearsi per governare».

Conte continua a galleggiare sulle debolezze altrui?

«Sul piano politico i 5 stelle non esistono. Sono un movimento di opinione, flatus vocis. Il Pd tiene il suo 20% e vince con i capibastone, altrimenti sparisce come in Veneto, Liguria e nelle Marche. Resiste il Granducato di Toscana e l’Emilia. Guardando le mappe di vent’anni fa è evidente che l’eredità si sta consumando. Mi verrebbe da scuoterli: come fate a raccontare che avete vinto? Che congresso potrete mai fare senza una diagnosi realistica?».

E Conte?

«Approfitta del fatto che queste debolezze sono costrette a sorreggerlo. I 5 stelle non andrebbero a elezioni nemmeno con le cannonate e neanche il Pd smania per andarci. Spero che non si limiti a sopravvivere».

Intanto ha detto no al rimpasto. Ci terremo i ministri Azzolina, Bonafede, De Micheli…

«Che cambino un ministro o due significa poco. Quello che conta è decidere se i 200 miliardi del Recovery fund saranno debito in più o verranno investiti nella ricerca, nella scuola, nella formazione».

Il premier ha promesso un cambio di marcia: già sentito?

«Tutti i governi l’hanno promesso. Nei documenti dei famosi Stati generali c’era qualcosa di non già sentito negli ultimi trent’anni?».

Il cambio di marcia è rifare la legge elettorale?

«Devono farlo, altrimenti lo sconquasso sarà totale».

È il momento giusto?

«Tra un mese, quando finirà la cassa integrazione e vedremo fallimenti in serie, gli italiani dovrebbero appassionarsi alla riforma elettorale».

Di Ilva e Alitalia non si parla più…

«Come di scuola e di ricerca. Nel mondo, mentre negli ultimi sei mesi si è registrato un crollo del 10% della produzione, le 90 aziende top dell’informatica hanno aumentato il fatturato di 800 miliardi rispetto al 2019. I big del capitalismo finanziario moltiplicano i profitti, non pagano le tasse e noi parliamo di Emiliano e De Luca. Siamo fuori fase noi italiani, noi europei, noi occidentali».

Consigli?

«La politica dopo la Seconda guerra mondiale costringeva i grandi capitalisti a pagare le tasse e inventava forme di previdenza risolutive per i ceti più sfortunati. Questa urgenza dovrebbe accomunare le forze politiche, al di là di destra e sinistra, invece…».

Si pensa a prorogare lo stato di emergenza.

«Mi auguro che non avremo più lockdown generalizzati. Non possiamo guarire dal Covid crepando. La morte è la migliore medicina, ma se vogliono far guarire il Paese uccidendolo ce lo dicano. Dopo di che, bisogna avere grande attenzione alle regole».

Per esempio?

«Evitando gli eccessi visti in Sardegna. Evitando certi negazionismi. L’epidemia c’è e non è ancora stata sconfitta. Servono indicazioni precise, istruzioni chiare ai medici di base, potenziamento delle strutture sanitarie, delle terapie intensive, le zone rosse tempestive, non come a Bergamo. Ma, detto questo, tutto deve pian piano ripartire».

Beppe Grillo parla di reddito universale e il M5s continua a proporre bonus.

«La società contemporanea va verso una riduzione drastica del lavoro. Questo problema va affrontato con competenza e responsabilità. Doti che al M5s mancano, come si è visto dalla distribuzione a capocchia del reddito di cittadinanza. Ci vogliono criteri e controlli precisi. Altrimenti si creano nuovi ghetti di precari e sottoccupati».

Il pericolo è la società parassitaria di massa?

«Il reddito di cittadinanza non può autorizzare a stare a casa a grattarsi la pancia. Se il lavoro non ce l’hai ti industri per trovartelo o inventartelo. Servono strutture e meccanismi di formazione permanente. Se si continua con la mentalità del lavoro fisso e dello stipendio al 27 del mese, il risultato sarà la nascita di ghetti di poveri e ricchi sempre più distanti tra loro, mentre il ceto medio andrà in malora».

In occasione del caso Palamara si aspettava un’iniziativa maggiore del capo dello Stato, presidente del Csm?

«Il caso Palamara è molto grave, ma anche prevedibile. La crisi dei partiti si è allargata alle altre istituzioni e ai gruppi dirigenti. Una certa prudenza del capo dello Stato è comprensibile, qualsiasi suo intervento avrebbe acuito questa crisi. Il picconatore Cossiga poteva esternare perché c’era ancora la Prima repubblica».

Dove ci porterà una politica fatta di piattaforme, monopattini e banchi a rotelle?

«Dove già siamo. A una politica priva di professionalità e responsabilità. D’altra parte, chi è causa del suo mal pianga sé stesso. Alla fine della Prima repubblica c’erano giornali o tv che non alimentavano la retorica anticasta e sottolineavano l’importanza della competenza e della responsabilità?».

Che cosa ci aspetta nei prossimi mesi?

«Mi auguro di vedere un governo che, sulla base di un’analisi realistica, sappia gestire i soldi del Recovery fund».

Che però arriveranno a giungo 2021.

«Ma già ora bisogna decidere. Se si sceglierà una prospettiva di sviluppo, bene. Se invece prevarrà la logica assistenzialistica vista finora, si passerà direttamente dal lockdown allo showdown. E quando saremo obbligati a rientrare nei parametri, qualcuno metterà le mani nei nostri conti correnti come fece il governo Amato a inizio anni Novanta».

 

La Verità, 26 settembre 2020

«Questa politica urlata non piacerebbe a Belzebù»

Un altro Giulio Andreotti. Un altro, rispetto al ritratto che ci ha lasciato la vulgata giustizialista di gran parte dei media. Un politico in rapporto con Licio Gelli e Cosa nostra. Un Belzebù che trama nell’ombra. Il Divo Giulio dei salotti e delle terrazze. Dai Diari segreti di Andreotti emerge un tessitore di relazioni, un instancabile mediatore, un interlocutore di Papi, un amico di madre Teresa di Calcutta, uno statista. «Ai miei occhi è così, ma io sono di parte», si giustifica Stefano Andreotti, 68 anni, ex dirigente Siemens, sposato, con un figlio, che, insieme alla sorella Serena, ha curato la pubblicazione per l’editrice Solferino di un decennio (1979-1989) di appunti, lettere, minute, ritagli di giornali, per fortuna raccolti in cartelline con la dicitura «Diario».

Un volume gigantesco di scritti.

«Pensi che è solo una piccola parte. Mio padre ha raccolto una montagna di documenti, già donati all’archivio della Fondazione Sturzo».

Che cosa emerge da questi Diari?

«La quantità di relazioni che coltivava in Italia e nel mondo. Dal 1979, dopo il governo di solidarietà nazionale, al 1989 quando tornò a Palazzo Chigi succedendo a Ciriaco De Mita, Andreotti fu per quattro anni presidente della commissione Esteri della Camera e per sei ministro degli Esteri. Non c’è nazione in cui non avesse rapporti. In ogni situazione nella quale emergeva il bisogno di mediazione lui c’era. Dalle crisi nell’area del Mediterraneo fino ai primi passi nella distensione con l’Urss».

Nella nota dei curatori scrive che I Diari possono aiutare a comprendere meglio la sua figura «depurandola da alcuni luoghi comuni»: quali?

«Diceva che dalle Guerre puniche in poi tutti i mali italiani gli venivano addebitati».

La gobba di Andreotti era la scatola nera della Repubblica.

«Ancor più dopo che è morto. Ora molti giovani non sanno chi è stato, altre persone l’hanno conosciuto in modo diverso. Con mia sorella Serena abbiamo deciso di documentare perché crediamo che leggendo questi Diari senza essere prevenuti si possa vedere come viveva giorno per giorno. Inoltre, per chi la ama, possono essere un buon ripasso di storia».

Quante ore dormiva?

«Quattro, al massimo cinque. Però di pomeriggio si concedeva un quarto d’ora di pennichella».

Dava appuntamenti all’alba, il tempo del diario era la notte?

«La giornata iniziava alle 4 e mezza, 5 del mattino. Alle 6,30 assisteva alla messa e alle 7,30 era nello studio privato. Tutti i giorni, sabato e domenica compresi».

E il diario?

«Scriveva sempre, non c’era un momento topico. Anche le poche sere in cui rimaneva a casa, davanti alla tv scriveva, annotava, chiosava».

La goccia che vi ha fatto decidere per la pubblicazione è stata la ricostruzione circolata della storia delle fotografie di papa Wojtyla in piscina?

«Secondo la versione riportata nella biografia scritta da Massimo Franco mio padre avrebbe ricevuto quelle foto da Gelli con l’invito a non farle pubblicare».

Invece come andò?

«Abbiamo trovato una ricostruzione molto differente. Agosto 1980, mentre era in vacanza a Merano ricevette una telefonata urgente dal segretario di Stato Agostino Casaroli che lo avvisava del fatto che in Germania si parlava di fotografie di Giovanni Paolo II in costume da bagno a Castel Gandolfo. In Italia il settimanale Gente aveva già pubblicato due scatti della piscina, senza il Papa. Era una situazione strana… bisogna ricordare il clima di quegli anni. C’erano le prime proteste dei sindacati a Danzica. La Polonia era sottomessa all’Urss, un Papa straniero che fa il bagno poteva dare scandalo. Mio padre contattò Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e il cavalier Edilio Rusconi, proprietario di Gente, per sincerarsi che se fossero entrati in possesso delle fotografie non le avrebbero pubblicate».

E Gelli?

«Non ce n’è traccia. Allora però la Rizzoli era chiacchierata, non si può escludere che Gelli si sia vantato con qualcuno».

Andreotti aveva sempre avuto un filo diretto con la Santa Sede.

«Con Giovanni Battista Montini, che diverrà Paolo VI, avevano condiviso la formazione nella Fuci, di cui mio padre sarà presidente dopo Aldo Moro. Ma i rapporti erano buoni anche prima con Pio XII e Giovanni XXIII. E poi con Giovanni Paolo I».

Proseguendo con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, mentre morì poco dopo l’elezione di Bergoglio.

«Che conosceva già. Al sabato pomeriggio andava spesso alla messa a san Lorenzo in Verano dove incontrava il cardinal Bergoglio in trasferta a Roma».

Avrebbe amato la spiccata intonazione sociale di Francesco?

«Credo di sì. Non dimentichiamo che l’interclassismo della Dc proviene dalla dottrina sociale. Mio padre era attento al Terzo mondo, s’interessava alla cooperazione. Affiancava le imprese missionarie. Forse non avrebbe sposato appieno la rivoluzione ora in corso nella curia romana, perché è sempre stato uomo di cambiamenti graduali».

Cosa vuol dire che nei dieci anni in cui non è stato primo ministro ha potuto lavorare per la pace «a ogni costo»?

«Veniva da una guerra e la ricordava come una sciagura da evitare in tutti i modi per l’Europa. Non gli interessava il potere in quanto tale. Tant’è vero che rifiutò quando Giovanni Spadolini e Arnaldo Forlani gli offrirono il ministero del Tesoro».

Non è un paradosso il fatto che mentre il mondo era diviso in blocchi la politica fosse soprattutto trattativa?

«Era la caratteristica dell’epoca. Basta vedere anche come è caduto l’Impero sovietico, goccia dopo goccia, con l’apertura realizzata da Gorbaciov. La vicenda dei missili e dello scudo spaziale fu sempre affrontata nell’ottica della distensione».

Proseguendo nel paradosso, oggi che l’ideologia è in crisi la politica è fatta di scontri.

«Una modalità che non approverebbe. Con l’eccezione del periodo della solidarietà nazionale, il Pci era sempre rimasto all’opposizione. Eppure la scelta atlantica fu condivisa da tutti. C’era rispetto umano anche per gli esponenti del Pci e del Psi. Lo si vede in tutti i Diari, aldilà della partita a scopone in aereo quando mio padre, D’Alema, Berlinguer e Pertini andarono ai funerali di Jurij Andropov. Questo non impediva che si facessero sgambetti anche nella Dc, per esempio con Amintore Fanfani, Carlo Donat-Cattin e De Mita…».

L’emergenza sanitaria fa tornare di moda la formula della solidarietà nazionale: la classe politica di oggi è paragonabile a quella di allora?

«No, è molto diverso. Comunque, al di là della qualità dei singoli esponenti, alla base c’era il fatto che le grandi decisioni erano sempre concordate».

Nell’introduzione accenna a «una relazione del tutto particolare con Comunione e liberazione».

«Aveva un grande rapporto con don Luigi Giussani e, finché ce l’ha fatta, il Meeting di Rimini è stato un appuntamento fisso al quale contribuiva anche suggerendo personalità da invitare… Era poi molto amico di don Giacomo Tantardini, il sacerdote responsabile del movimento a Roma al quale rimase sempre grato per l’offerta della direzione di 30Giorni, il periodico punto di riferimento del pensiero e della presenza della Chiesa nel mondo. Mio padre amava il giornalismo. Sull’Europeo teneva la rubrica Blocnotes, ma quando finì sotto processo quella collaborazione fu carinamente interrotta. Così accettò volentieri l’offerta di don Tantardini, buttandosi con passione nel rapporto con i giovani giornalisti di 30Giorni che diresse fino alla fine».

Come reagì quando fu accusato di collusioni con Cosa nostra?

«I primi due anni furono terribili, non riusciva a dormire nemmeno poche ore. Non usciva di casa, si imbottiva di psicofarmaci… Poi finalmente reagì, ritrovando serenità. Cosciente di aver avuto in altre occasioni della vita magari comportamenti da farsi perdonare, ma non certamente nei casi degli addebiti per associazione mafiosa e per la morte del giornalista Mino Pecorelli».

Che giudizio dava della magistratura?

«Essendo uomo delle istituzioni ne ha sempre avuto grande rispetto. In qualche caso si è ricreduto, perché una certa politicizzazione non gli piaceva».

E dei giornalisti? Ogni tanto dissentiva da Indro Montanelli?

«I giornalisti non se li è mai arruffianati, come diciamo a Roma. Con Montanelli c’era un buon rapporto, si vedevano d’estate a Cortina. In un’intervista sul caso Sindona gli aveva suggerito di reagire e precisare. Mio padre acconsentì, ma poi non lo fece, convinto che tutto si sarebbe sistemato. Più complesso era il dialogo con Scalfari».

Doveva correggere certe sue interpretazioni?

«Sì, ma mai in modo brusco».

Come giudicherebbe la politica muscolare di Matteo Salvini?

«Non credo si troverebbe bene in questo clima di assalto tutti contro tutti. Avrebbe disapprovato la tendenza ad attaccare l’avversario piuttosto che a proporre soluzioni».

E i Cinque stelle al governo?

«Non accetterebbe l’improvvisazione. Mio padre aveva il culto della preparazione, non andava da nessuna parte senza prima informarsi, studiare su enciclopedie e annuari…».

Che ironia gli susciterebbe il trasformismo di Conte che in un pomeriggio passa dal guidare un governo di centrodestra a un altro con quattro formazioni di sinistra?

«Nella Prima repubblica ci sono sempre state evoluzioni. Lui stesso nella Dc all’inizio era visto come un esponente della destra, poi del centro, infine dialogante con il Pci. Non credo avrebbe approvato un cambiamento così repentino dalla sera alla mattina come quello visto un anno fa».

Gli sarebbe piaciuta la moda politicamente corretta?

«La mentalità radical chic lo infastidiva molto. La sua natura romana confliggerebbe con le ipocrisie cui assistiamo».

Che cosa vuol dire essere figlio di Giulio Andreotti?

«Noi quattro fratelli abbiamo condotto una vita normalissima, con una madre più presente e un padre affettuoso, attento alla qualità dei rapporti. Essere figlio di un ministro è stato normale perché ci siamo nati. Oggi sono orgoglioso di dare il mio contributo per far conoscere chi è stato davvero Giulio Andreotti. Una persona che è morta nel suo letto con la coscienza a posto».

 

La Verità, 12 settembre 2020

 

De Luca, Zaia, Conte, Sala, Fazio: quanti salti di specie

Quanti spillover durante questo lockdown. Quanti salti di specie verso l’alto. Ma pure verso il basso, perciò spillunder. A forza di stare reclusi, a forza di parlare di virus e contagi, abbiamo finito per assorbirne comportamenti e abitudini. Così anche i nostri politici, gli scienziati, i volti noti della tv ne hanno introiettato la metamorfosi, il cambiamento, la modificazione genetica. Sono entrati in una situazione sconosciuta, in un tunnel semibuio, e ne sono usciti trasformati come dopo un viaggio sulla macchina del tempo di Ritorno al futuro. Qualcuno ha completato l’upgrade, consacrandosi. Qualcun altro ha inanellato svarioni, precipitando nell’arrampicata. Qualcun altro ancora è scomparso del tutto.

Il salto di specie di Vincenzo De Luca, governatore della Campania, è materia di studio. Certo, già prima del coronavirus era un campione del folclore partenopeo, ma oggi è un altro leader. Fustigatore di lassismi giovanili, educatore col lanciafiamme. I suoi video sono degni di Totò e Peppino. Come quello sugli assistenti civici: «Il governo ci apre il cuore alla speranza… E infatti ha deciso questa straordinaria operazione, direi mistica perché… che cosa devono fare questi sessantamila assistenti volontari? Abbiamo posto questa domanda… Possono fare la multa a chi non porterà la mascherina obbligatoria? No. Possono fare la multa ai ristoranti che non mantengono i tavoli distanziati? No. Possono intervenire a controllare un po’ la movida? No. Possono regolamentare un po’ il traffico? No. E allora ci domandiamo che (pausa nervosetta) cosa devono fare questi sessantamila? Ci è stato risposto che possono fare moral suasion (suescion)… Cioè, faranno in pratica gli esercizi spirituali. Quindi vedremo sessantamila persone andare in giro con il saio con sopra scritto: Pentiti! È colpa tua», ha ammonito con l’indice accusatore verso la telecamera.

Da governatore sceriffo a sublime cabarettista.

Niente social invece per Luca Zaia. Il Veneto è stata la prima regione colpita insieme con la Lombardia, ma non si sa ancora se per merito di Andrea Crisanti, della professoressa Francesca Russo o del virologo Giorgio Palù, fatto sta che ne è uscita con un bilancio più contenuto di decessi. Merito della proclamazione tempestiva di Vo’ Euganeo zona rossa e dei tamponi a tappeto. Sicuramente merito della guida risoluta del governatore. Zero distrazioni, riunioni continue con lo staff, comunicazione stringata. Sempre in anticipo sull’agenda del virus, dalla strategia delle tre T alle riaperture. Un Clint Eastwood dell’emergenza.

Da amministratore periferico a volto pragmatico e dialogante della Lega, possibile uomo di governo.

Protagonista di un considerevole upgrade è pure Ilaria Capua. Con all’attivo l’assicurazione che il coronavirus equivaleva «a una brutta influenza», quando la veterinaria dell’università della Florida compare a DiMartedì i telespettatori fanno gli scongiuri. Qualche giorno fa ha detto che il contagio in Lombardia è dovuto ai «treni dei pendolari sporchi e maltenuti». Queste performance non le hanno impedito di pubblicare l’instant book nel quale discetta sul Dopo, promosso dal Corriere della sera con tanto di foto da star ispirata. Caso da manuale del principio di Peter: «In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello d’incompetenza», sempre con esiti comici. In questo caso si temono tragici.

Da stimata scienziata a caposala della pandemia e sociologa scifi.

Uno che sembrerebbe rimasto uguale a sé stesso è Fabio Fazio. Invece il suo spillover è evidente quanto misterioso. A differenza di tanti suoi colleghi, FF ha continuato ad andare in onda, sciorinando personalità assurte, nostro malgrado, al ruolo di maître à penser dell’emergenza. All’uscita dal tunnel ha trovato il prolungamento del dorato contratto, il ritorno alla Rai 3 delle origini, ulteriori spazi e programmi. Tutte cose che ha sempre fatto, si dirà.

Resta da vedere se il passaggio da figurina del bontonismo ideologico a «fratacchione» consulente di Bergoglio è un upgrade oppure no.

Per Giorgia Meloni invece il salto di qualità è inconfutabile. La leader di Fratelli d’Italia aveva iniziato a crescere già prima della pandemia. Durante il lockdown l’ascesa s’è fatta verticale e ora Fdi, quarta forza nazionale, ha nel mirino i 5 Stelle. Merito di una scala di priorità intellegibile e di una comunicazione lucida, senza eccessi propagandistici. Memorabile l’intervento alla Camera nel quale imputava a Conte «la sospensione della Costituzione» e l’adozione di quei «pieni poteri» la cui richiesta contestava a Salvini.

Da leader di complemento a potenziale leader primaria del centrodestra.

La stella di Matteo Salvini si è invece appannata. Questa viscida crisi ha messo a nudo una certa tendenza alla semplificazione e alla comunicazione monocorde. Forse servirebbe più ponderazione, un po’ di dieta dai social, studio dei dossier. Prima l’invito ad aprire tutto, poi la retromarcia non gli hanno giovato. Le montagne russe della complessità e il gioco di squadra non si addicono al Capitano.

Da uomo nero da tenere lontano dalle urne a leader in condominio, sorvegliato anche dentro la Lega.

Precipitano anche gli indici di Giuseppe Conte. A fine gennaio chez Lilli Gruber annunciò improvvidamente: «Siamo prontissimi». Da allora ha enfatizzato l’emergenza per puntellarsi a Palazzo Chigi. Ha rifiutato il supercommissario e infarcito d’inutili consiglieri la task force di Vittorio Colao per rallentarne le decisioni. Cavilli e paternalismi. Mattonate di decreti e buffetti ruffiani. «Congiunti», «apriamo con prudenza» e altre supercazzole, si esprime al gerundio o al futuro, mai al passato prossimo (copyright Mario Giordano). Usare la crisi per assurgere a leader del centrosinistra è il suo obiettivo fallito.

Ora sta lavorando al suo partito: da statista in rotta sul Quirinale a piazzista di sé stesso.

Dopo le prime gaffe di Walter Ricciardi, l’ex attore membro dell’Oms consulente del ministero della Salute, si è capito che non tirava aria buona per scienziati e tecnici. Ma per pararsi il lato B, il governo si è duplicato nelle task force. Qualcuno ha visto uno straccio di relazione? La débâcle ha infranto per sempre il mito dei tecnici salvatori della patria nei momenti di crisi. Il sospetto che, con il loro dogmatismo, i virologi siano stati i migliori alleati di Conte è molto più che un sospetto.

Da task force a task weakness.

Tutte strette per riempire le piazze contro il leader della Lega, le sardine avevano fatto dell’assembramento il loro manifesto politico.

Da movimento col sole in tasca, universalmente coccolato a sinistra, a specie estinta.

Beppe Sala, il sindaco a cui piace essere «cool», lo confidò a Daria Bignardi, è entrato a tavoletta nel lockdown. Prima una colazione nella Chinatown milanese per sconfiggere il razzismo e la psicosi. Poi con la stessa preveggenza ha firmato il video #milanononsiferma e dato appuntamento ad Alessandro Cattelan sui Navigli per l’aperitivo. Dopo l’appello alla Madonnina tra le guglie del Duomo, l’invito ai milanesi a svacanzare all’Idroscalo, i litigi con i sardi e il nuovo libro che auspica la rinascita di «una sinistra spirituale», i suoi video su Facebook hanno l’autorevolezza dei giochi di prestigio del Mago Oronzo.

Da candidato in pectore della sinistra di governo a funzionario in monopattino e Forrest gump dei social.

 

La Verità, 4 giugno 2020