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«Non sarò il terzo uomo tra Salvini e Di Maio»

Buongiorno presidente, come sta?

«Bene, grazie».

Come stanno andando le sue molteplici attività?

«Anche loro attraversano un ottimo stato di salute».

Dopo un lungo inseguimento, Urbano Cairo abbassa la guardia e accetta di fare il punto della situazione. Nei giorni scorsi qualcuno ha visto nel proprietario di La7, Rcs e Cairo editore, nonché del Torino calcio, la figura terza che poteva rappresentare una sintesi tra le posizioni di Matteo Salvini e quelle di Luigi Di Maio.

Che cosa c’è di vero, presidente?

«Sono indiscrezioni giornalistiche di cui nessuno mi ha parlato. Non c’è stato alcun contatto».

La politica però la tenta. Qualcuno ha scritto di un suo possibile impegno, magari tra una legislatura, quando potrebbe servire un leader dell’area moderata.

«Terrò conto di questa osservazione. Ma presiedo un gruppo imprenditoriale con 4.500 dipendenti, un impegno che mi assorbe 24 ore al giorno».

Eppure anche lei in passato non l’ha escluso.

«Nella vita non bisogna mai escludere nulla. Ma non è minimamente di attualità».

Diceva del buono stato di salute delle sue aziende.

«Partirei da Rcs che è l’ultima arrivata, un anno e mezzo fa. Già nel 2016, dopo soli cinque mesi, abbiamo riportato un utile netto. Quest’anno l’utile è di 71 milioni, conseguito non solo col taglio dei costi, ma mantenendo l’occupazione e sviluppando ricavi attraverso il lancio di nuove iniziative (il dorso di Buone notizie e di Corriere Innovazione) e il rilancio e consolidamento di altre, da Io donna a Gazza mondo fino al potenziamento di Oggi, l’unico settimanale familiare con una crescita a due cifre».

La7 è in un momento positivo grazie al fermento della politica. Lei auspica che si torni presto a votare?

«No, io auspico che le cose si sistemino per il Paese. La7 sta vivendo un momento favorevole già da novembre quando, con l’arrivo di Massimo Giletti, Andrea Purgatori e il gruppo di Diego Bianchi il palinsesto si è arricchito. Con la squadra già in forza alla rete mettiamo in campo una proposta solida e credibile. Poi, certo, nell’ultimo mese e mezzo, registriamo un decollo che ci ha portato in primetime al 5%, permettendoci di superare Rete 4 anche in daytime. Tutto questo, grazie al lavoro del direttore Andrea Salerno. Un paio d’anni fa c’era preoccupazione per il debutto di Tv8 e Nove. In realtà, sono altri a doversi preoccupare, noi ci siamo difesi attaccando e siamo soddisfatti».

A volte si ha la sensazione che La7 abbia pochi margini di crescita, essendo una rete semi tematica che si muove in un mercato generalista: è corretto?

«Rispetto allo scorso anno, nel 2018 stiamo crescendo del 20% nella giornata e ancora di più nel primetime. Abbiamo un posizionamento consolidato, che ha nell’informazione e negli approfondimenti il suo core business».

Perché è così seguita in questi momenti?

«Perché il profilo di prim’ordine dei nostri conduttori e opinionisti garantisce autorevolezza e affidabilità. Perché siamo ben focalizzati e abbiamo un posizionamento riconosciuto per cui, quando il pubblico si vuole informare, automaticamente viene su La7. Infine, perché un editore puro ha tutto l’interesse a lasciare totale libertà ai suoi conduttori e giornalisti».

Un editore che ha saputo convertire a proprio vantaggio il malcontento di molti volti Rai, da Giovanni Floris a Massimo Giletti, da Diego Bianchi a Andrea Purgatori, solo per citarne alcuni.

«Questo fa parte delle normali dinamiche di mercato. Qualcuno ha lasciato anche La7. Nel 2016 Maurizio Crozza è andato altrove, eppure, rispetto ad allora, i nostri ascolti aumentano».

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«Sì alla Lega nazionale, no al lepenismo di Salvini»

A Irene Pivetti calza come un guanto il titolo dell’autobiografia di Vittorio Gassman: «Un grande avvenire dietro le spalle». Essendo diventata presidente della Camera a 31 anni, da lì in poi è difficile non mettersi a inseguire il passato. La incontro a Milano, tra mille impegni, negli uffici di Only Italia, piattaforma per la promozione di piccole e medie imprese nell’esportazione verso l’Oriente.

Presidente Pivetti, sta vedendo 1993, la serie di Sky su Tangentopoli?

«Purtroppo no, in queste settimane sono stata in Cina per lavoro».

C’è una parte dedicata alla discesa dei leghisti a Roma e il Carroccio non ne esce benissimo.

«Credo ci sia poca comprensione della Lega in generale, un fenomeno veramente fuori dagli schemi. Quando ero al liceo si teorizzava l’avvento della post politica, ma una volta che arrivò non andava bene perché non era quella che si aspettavano gli intellettuali».

Pietro Bosco (Guido Caprino) agita il cappio in Parlamento

Pietro Bosco (Guido Caprino) agita il cappio in Parlamento citando Luca Orsenigo

La Lega è dipinta come una forza ingenua, ma avulsa al Palazzo.

«La Lega comprendeva le logiche di potere, superandole. Le faccio un esempio: nel 1990 Umberto Bossi doveva avere un appuntamento a Roma con Giulio Andreotti: il numero uno della politica incontrava il numero zero. All’ora dell’appuntamento Bossi era ancora in Piazza Massari a Milano. Da dove, con calma, si avviò all’aeroporto per raggiungere Andreotti con oltre quattro ore di ritardo. Il Senatúr conosceva i codici e li usava contro il sistema. Ma i giornalisti si scandalizzavano: “Quel buzzurro arriva in ritardo all’appuntamento con Andreotti”. Anche la famosa canotta in Costa Smeralda: un messaggio, come altri, perfettamente consapevole, per dire che il Re era nudo e che quel potere poteva essere sovvertito».

Nella serie c’è una scena in cui Gianfranco Miglio sottolinea il ruolo rigeneratore dei «barbari».

«La verità e che Miglio non contava nulla nella Lega. Era una persona intelligente e stimabile, ma certamente non l’ideologo. Che era Bossi. Miglio piaceva agli intellettuali e ai giornalisti e serviva da traduttore simultaneo».

Nella prossima stagione, 1994, ci sarà una ragazza di 31 anni che diventa presidente della Camera.

«Il ’94 fu un anno importante, con una campagna elettorale molto impegnativa perché il centrodestra era diviso, con il Polo delle libertà al Nord e il Polo del buongoverno al Sud».

C’è qualcosa che ancora non sappiamo della sua nomina?

«Io avrei dovuto fare il ministro dell’Istruzione e Roberto Maroni il presidente della Camera. Ma Maroni voleva gli Interni. Allora Bossi propose Francesco Speroni per il Senato, sul quale cadde il veto di Berlusconi a causa delle sue giacche variopinte».

Come si arrivò a lei?

«Ci sono tanti padri di quella nomina, ma contò il benestare di Bossi. Ricordo che ero in macchina vicino al Castello Sforzesco quando squillò il cellularone dell’epoca: “Uè, mi sa che ti tocca fare il presidente. Vai alla Camera”. E io: “Aspetta un attimo che accosto…”. Mi disse che il partito mi avrebbe sostenuto. E fu così, soprattutto sul piano umano umano. Dal punto di vista politico, invece, ci mancava l’esperienza. Andai avanti col mio fiuto e l’aiuto delle persone di cui mi fidavo».

Che erano?

«Gianluigi Marrone, capo di gabinetto, giudice unico della Città del Vaticano e capo del personale della Camera. Vincenzo Parisi, capo della polizia, che morì di lì a poco, un grande servitore dello Stato. Francesco Cossiga, un galantuomo d’altri tempi, mente eclettica e personalità lungimirante».

È difficile reinventarsi dopo aver conquistato la vetta così giovani?

«Molto. Ma siccome lo sapevo mi ci sono preparata da subito. Devi avere coscienza che quell’esperienza è transitoria e dura finché servi».

E pur preparandosi…

«Le difficoltà restano. Quando esci da una carica così sei ingombrante. Essere imparziale mi procurò nemici politici e amministrativi. Bonificai il bilancio della Camera del 19% ogni anno: la spending review l’ho applicata ben prima di Mario Monti».

Secondo lei abbiamo completamente capito e metabolizzato la stagione di Tangentopoli?

«Metabolizzato sì, capito forse no. Tangentopoli è servita a cambiare la politica, ha distrutto i partiti e, a volte, anche delle persone. Ma non ha distrutto la corruzione».

Irene Pivetti e Umberto Bossi agli albori della Lega

Irene Pivetti e Umberto Bossi agli albori della Lega

Chi è e chi è stato Umberto Bossi?

«Chi è adesso non lo so, non vedendolo da anni. È stato la persona che ha reso davvero possibile la Seconda repubblica. Lui e Berlusconi sono una coppia simul stabunt simul cadent. Bossi ha portato la legittimazione popolare, Berlusconi gli strumenti. E con un riuscito matrimonio d’interessi sono diventati vincenti».

Berlusconi è l’Ercolino sempre in piedi della politica?

«Non lo definirei così. Berlusconi continua a dare le carte. È una persona che ha mantenuto lo spazio del centrodestra moderato, orfano della Dc. Ho dissentito sul primo accordo con Matteo Renzi: che significava opposizione non belligerante?».

E il Renzusconi di adesso lo approva?

«Questo è un accordo tecnico, finalizzato a una legge specifica. Berlusconi trova ancora le formule per presidiare quell’area priva di forze alternative».

Un’area in cui si riconosce, forse più che nella Lega attuale?

«Mi riconosco in quest’area moderata in base ai motivi originari della Lega, nella quale è sempre stata viva l’idea di uno Stato che rispetti i valori della cultura e delle libertà locali. Libertà e identità sono le parole chiave della Lega delle origini. Chi mi dà questo ha il mio voto».

E anche la sua candidatura?

«Come lei sa adesso faccio l’imprenditrice, un’attività che mal si concilia con la politica. Ho fatto un’esperienza più affettiva che efficace come capolista della Lega a Roma, ma il risultato è stato modesto».

Esclude di candidarsi?

«Adesso non ci penso. Faccio un lavoro che mi assorbe: promuovo il made in Italy in Cina».

Stando alle cronache sembra sia la Cina a prendersi l’Italia.

«Sì, a causa dell’incapacità della nostra politica di governare questo fenomeno. La Cina è una grandissima risorsa, un Paese che cura il proprio benessere e la propria crescita e con il quale si può lavorare bene se si hanno idee chiare e personalità. Le nostre istituzioni non hanno né l’una né l’altra. Amiamo dare di noi stessi l’immagine di un Paese del lusso e del futile, dimenticando che la forza dell’Italia è stata la sua capacità di progettare e realizzare uno Stato moderno a partire da un Paese agricolo e ignorante. Questo potrebbe fare di noi un grande partner della Cina. Ma ci comportiamo come nobili decaduti che non hanno voglia di lavorare».

La Seconda repubblica l’ha delusa?

«Sta durando troppo. Dovevamo destrutturare il precedente sistema per costruirne uno nuovo. Invece siamo sopra le macerie senza che si veda il nuovo progetto. Manca la visione di uno Stato capace di servire gli interessi più deboli e di inserire l’Italia al posto che merita. Ci accontentiamo della cena con Barack Obama o di stringere la mano a Donald Trump, ma la verità e che non contiamo niente».

Le piace la Lega nazionale di Matteo Salvini?

«Mi piace: la prospettiva nazionale appartiene alle origini. Ricordo quando, nel 1991, andammo con una decina di persone a tenere un comizio a Napoli. Molte altre volte siamo andati al Sud per far nascere le sezioni».

E il lepenismo le piace?

«No. Quella destra ha un’origine culturale diversa dalla nostra, che è popolare e identitaria. La Lega è un movimento delle Italie plurali, che non ha niente a che vedere con le forze sovraniste francesi».

Il tratto di unione è il rifiuto dell’accoglienza degli immigrati.

«Sono d’accordo a contrastare l’immigrazione perché e una forma moderna di tratta degli schiavi. La risposta vera però dev’essere politica: la cooperazione non è più sufficiente. Bisogna richiamare alle loro responsabilità gli Stati complici, molti dei quali sono quelli di provenienza».

Che cosa pensa di papa Francesco?

«Che è un gesuita estremamente in gamba. La sa lunga in termini di comunicazione e lascia che tre quarti del mondo lo trovi rivoluzionario, mentre lui non fa che ripetere con grande chiarezza la dottrina della Chiesa, spostando l’accento sulla misericordia. Mi piace molto. Non condivido le accuse di essere troppo innovativo. Al contrario, vedo molta ignoranza in queste critiche».

Le piace anche il suo magistero dell’accoglienza?

«Il Papa fa il Papa. E ci ricorda che gli immigrati sono persone che hanno una dignità. Non indica una linea politica. Tocca ai politici prendere le decisioni. Con Salvini spesso cito il catechismo dove dice che l’accoglienza è doverosa “nei limiti del possibile”. Il che vuol dire che ci sono istituzioni che devono fare di più per rimuovere le cause, contrastando all’origine il flusso migratorio».

A cena con Bergoglio o con Trump?

«La conversazione della cena si addice di più a un presidente. Ma un ritiro con Bergoglio lo farei volentieri».

Cosa pensa dell’altro Matteo?

«È un bravo comunicatore. Però è anche moltissimo borghese, nel senso che la sua è una sinistra adatta ai ricchi e ai colti, ma che lascia indietro il popolo».

E di Beppe Grillo?

«Ottimo uomo di spettacolo. Come politico mi ha sorpreso perché pensavo mollasse prima. Però, a questo punto, è ora che tiri fuori una proposta. L’onestà è un prerequisito del far politica. Tutta l’anima dei 5 stelle è un discorso sul metodo: i contenuti oggettivi e la visione restano ignoti».

Perché a un certo punto la sua esperienza televisiva si è fermata?

«Mi sono concentrata sul lavoro d’impresa e non mi sono più stati proposti programmi adatti. Ma è stata un’esperienza positiva».

Che cosa farà Irene Pivetti da grande?

«Svilupperò questa piattaforma di affari tra Italia e Oriente, Cina prima e Via della seta. Poi farò qualche bella vacanza di trekking».

La Verità, 4 giugno 2017

Perché anche in tv l’accozzaglia batte il golden boy

Venti punti di distacco tra il Sì e il No: molti più del previsto. Riavvolgiamo il nastro di questi mesi, a caccia del meglio e del peggio delle esibizioni dei protagonisti. In televisione, nei confronti, nelle scelte di campo.

Il goldeb boy del Sì. L’altra sera Giovanni Minoli ha chiesto a Gianni Rivera chi era il marcatore che temeva di più. L’ex golden boy ha risposto: «Ero io stesso quando giocavo male». Matteo Renzi ha giocato male dall’inizio alla fine della campagna referendaria. Massimo Cacciari, che ha votato Sì, ha detto che «la responsabilità di questo risultato è al 99 per cento» sua «e della sua scriteriata presunzione». Renzi ha sbagliato la prima mossa dichiarando che sull’esito del referendum si giocava tutto e promettendo che in caso di sconfitta si sarebbe dimesso. La famigerata «personalizzazione» ha trasformato il referendum sulla Costituzione in un referendum sul premier, spaccando il Paese in due com’era ai tempi di Berlusconi. Il secondo errore, effetto collatorale del primo, è stato l’esasperante presenzialismo televisivo che ha provocato il rigetto dei telespettatori-elettori. Gliel’avranno consigliato gli spin doctor o ha sbagliato da solo? La sua attività di governo è coincisa con la campagna referendaria sulla quale ha piegato elargizioni e promesse dell’ultim’ora. Anche il Marchese del Grillo perde. E dà il meglio nel discorso della sconfitta, come già accaduto in passato. Egocentrico.

I mastini del No. Renzi si è fatto male da solo, ma Matteo Salvini e Renato Brunetta hanno giocato la loro partita in una campagna tutta sangue sudore e sondaggi. Sono stati i faticatori dell’«accozzaglia» che non tirano indietro la gamba in mezzo al fango. Il leader leghista si è buttato nella mischia, ma avrebbe preferito spostare la battaglia sull’immigrazione e sul potere delle banche. Ancora più aggressiva la marcatura di Brunetta, non a caso evitato dal premier in tv, pronto a mobilitare anche la consorte via Twitter. È stato lui a decretare: «Renzi, game over». Arcigni.

La squadra del Sì. Chi l’ha vista? Maria Elena Boschi e Graziano Delrio ridotti ai minimi termini. Indebolita dallo scandalo di Banca Etruria, la ministra per le Riforme ha tentato di evitare i duelli, a cominciare da quello con Salvini. A Otto e mezzo è stata beccata a suggerire a Lilli Gruber di togliere la parola all’interlocutore (Valerio Onida). Dopo la presenza da pecorella smarrita a DiMartedì, Delrio non si è più visto. Considerate queste prestazioni, Renzi aveva minacciato di boicottare i talk show. Per riempire il vuoto è rispuntato Pierferdinando Casini. Desaparecida.

Il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi al confronto tv con Matteo Salvini

Il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi al confronto tv con Matteo Salvini

I registi del No. Beppe Grillo in prima linea, Silvio Berlusconi più defilato, ma determinante nell’ultima fase per non lasciare campo libero al M5S. Obiettivo raggiunto a metà. Pur infiacchito dalle polemiche sulla giunta romana, il leader pentastellato si è caricato la campagna sulle spalle duellando alla pari con Renzi, senza invadere come lui le tv. Ispirati.

I cattivi maestri del Sì. Gli endorsement non portano voti. Anzi, quando lo scontento è diffuso e l’insofferenza elevata è facile che li tolgano. Il sostegno accorato di Giorgio Napolitano e quello in extremis di Romano Prodi hanno creato il corto circuito: come mai gli uomini della casta stanno con Renzi? Datati.

I prof del No. Li aveva scelti lui come avversari stagionati su cui maramaldeggiare e per far passare l’idea che chi è contro la riforma appartiene al passato. Invece, sia Gustavo Zagrebelsky che Ciriaco De Mita si sono rivelati alquanto ostici. La forza tranquilla della conoscenza. Resistenti.

I business del Sì. Schierato, schieratissimo il mondo imprenditoriale, da Vincenzo Boccia (Confindustria) a Sergio Marchionne (Fca), da Fedele Confalonieri (Mediaset) a Flavio Briatore (Billionaire). Con una motivazione: i mercati hanno bisogno di stabilità. Furbi.

Sabrina Ferilli, tra i protagonisti della serata del «Fatto quotidiano» intitolata La Costituzione è NOstra

Sabrina Ferilli protagonista della festa del «Fatto quotidiano»: La Costituzione è NOstra

I fattoidi del No. Pancia a terra senza se e senza ma contro questa riforma. Se un tempo c’era il partito di Repubblica, dopo l’adunata di venerdì scorso si può parlare del movimento del Fatto quotidiano. Marco Travaglio: «Renzi pù che un premier è uno stalker»; Carlo Freccero: «La politica è diventata marketing»; Sabrina Ferilli: «Ci vogliono dividere sulla Carta che ci ha sempre unito». Movimentisti.

La Verità, 6 dicembre 2016