Tag Archivio per: Serie

La realtà avvince più delle sceneggiature creative

C’è il capo della squadra omicidi di Copenaghen dagli occhi grandi e asimmetrici, soverchiato da un’indagine di grande complessità sulla scomparsa di una giornalista nelle acque del mar Baltico. C’è uno strano sommergibile affondato e poi rinvenuto dagli investigatori, di proprietà di un enigmatico inventore. Ci sono dei sommozzatori che devono scandagliare palmo a palmo i fondali marini per rinvenire il cadavere della giornalista e comprovare la versione del proprietario del sottomarino che asserisce di averla affidata agli abissi dopo che, colpita dal portellone dell’imbarcazione, è morta. Ci sono, infine, le due famiglie: quella dei genitori della giornalista, dilaniati dalla morte dell’unica figlia, e quella del capo della polizia, votato al lavoro per il quale, a sua volta, ha a lungo trascurato la sua figlia unica. È la trama di The Investigation, miniserie in sei episodi di 45 minuti di Hbo, in onda su Sky Atlantic e on demand. Solo che non è fiction, ma la ricostruzione dell’indagine sull’omicidio realmente avvenuto della giornalista svedese Kim Wall, collaboratrice di The Guardian, The New York Times, Vice, uccisa dall’inventore danese Peter Madsen nell’agosto del 2017. Una storia che i media scandinavi ribattezzarono rapidamente «il giallo del sottomarino».

Nella luce livida delle terre baltiche, già territorio fecondo di molta ottima serialità, Jens Møller (Søren Malling) sembra ipnotizzato dal caso che l’ha investito. Spesso inquadrato di spalle mentre cammina nei corridoi della stazione di polizia, rintuzza le richieste dei giornalisti e cerca di rispondere in qualche modo alle domande dei genitori della vittima. Quando lo si vede in faccia, il suo sguardo esprime un senso di sproporzione. Più passano i giorni e più la soluzione sembra allontanarsi. Serviranno la dedizione dei collaboratori, i cani da cadavere, le carte di un oceanografo studioso di correnti, l’abnegazione della squadra di sommozzatori, guidati da un capo comprensibilmente scettico.

Sembra un documentario e invece è una serie, magnetica forse proprio per la sua rarefazione, per i dialoghi essenziali, per le tante cose che non si vedono ma s’immaginano del racconto che procede per sottrazione. «Questo programma è consigliato ad un pubblico adulto», si avverte come spesso accade, all’inizio di ogni episodio. Ma vien da pensare che qui «adulto» stia per maturo. Non c’è bisogno di romanzare come in molte serie italiane, da Leonardo ai libri di Andrea Camilleri, per ruffianarsi un pubblico che evidentemente si ritiene acerbo. La realtà, ben raccontata, è già avvincente di suo.

 

La Verità, 30 marzo 2021

La sofisticatezza di Guadagnino sa d’ideologia

Spiace, ma tocca dissentire. Dagli osanna diffusi, dai cori entusiastici, dagli ooohh di meraviglia. I media si sono sperticati: «Una serie mozzafiato» (Vanity Fair), «Un affresco vivente e finemente dettagliato» (The New York Times), «Sbalorditiva, a dir poco bellissima» (Rolling Stone), tanto per citare qui e là. Purtroppo no, non condivido tanta esaltazione. We are who we are – Siamo ciò che siamo di Luca Guadagnino l’ho trovata irritante e indisponente. Non solo per ciò che racconta. Soprattutto per l’operazione ideologica che contiene. Per il modo di fare cinema e televisione. Scientificamente intellettuale, astratto, programmaticamente altero. Un modo che, intervistato da Marco Giusti per Dagospia, il regista di Chiamami col tuo nome ha spiegato citando Bernardo Bertolucci: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Tutto chiaro, no? Lo spunto dell’opera non è la vita, ma la nostra idea, la nostra pensata per il cinema. Che, attraverso esercizi di stile più o meno riusciti, porta a narrare qualcosa che ci sta a cuore.

Una coppia di lesbiche con figlio al seguito precipitata dentro una base militare: non è una bella pensata? Non è un’idea pittoresca? Che dà la sveglia a un ambiente retrogrado come quello dell’esercito, sebbene americano. Credevate che i battaglioni dei marines fossero uno degli ultimi posti dove il bianco e nero sono ancora tali senza troppe sfumature e distinguo? Vi sbagliate. Ecco una bella centrifuga di opposti che fa saltare il banco delle convenzioni e dimostra che il mondo gender è avanti e i militari sono indietro. Che la fluidità e la scelta di genere sono il futuro e la famiglia tradizionale opprime le libertà ancor più delle gerarchie dell’esercito. È la trovata di Guadagnino per We are who we are, otto episodi in onda su Sky Atlantic (coprodotti da Sky e Hbo con The Apartment di Wildside, entrambe del gruppo Fremantle, e Small Forward) tra gli applausi generali della critica mainstream.

Unghie smaltate, capelli ossigenati, abbigliamento queer e auricolari perennemente innestati nelle orecchie, il protagonista Frazer (Jack Dylan Grazer) si aggira irrequieto tra gli edifici dell’enclave militare citando poeti sparsi. Siamo nel 2016, durante la campagna per le presidenziali americane, e la di lui madre (precedente matrimonio, inseminazione artificiale o maternità surrogata?), interpretata da Chloë Sevigny, è il nuovo capo della base, accolto con evidente disappunto dall’ufficiale nero e trumpiano (Kid Kuli), uso a tirare di boxe con la figlia Caitlin (Jordan Kristine Seamon), coetanea di Frazer.

La pensata è astrusa e artificiale, ma la trama è costruita ad arte. Con simili genitori, infatti, non è difficile immaginare che Frazer e Caitlin abbiano qualche problema di identità e finiscano per familiarizzare, scambiandosi vestiti, confidenze sulla loro irresolutezza, condividendo il rasoio per tagliare la prima peluria sopra le labbra. È questa indeterminatezza sessuale con le sue sfumature miste tra mascolinità e femminilità il centro della storia. Una volubilità per la quale, tanto per rendere la complicazione della vicenda, si è coniato l’ossimoro «normalità trasgressiva».

Nell’intervista citata Guadagnino ricorre spesso all’aggettivo sofisticato e precisa che la sua «arte è far sembrare improvvisata una serie ultra-scritta». Stia tranquillo, nessuno l’aveva sospettato. E non solo perché, tra gli sceneggiatori, oltre a Francesca Manieri c’è il premio Strega Paolo Giordano. Ma perché tutto, dall’idea di partenza fino all’ultima ripresa, è evidentemente studiato. In una scena del terzo episodio, la madre-comandante flirta con il suo attendente sul quale ha poco prima riflettuto a voce alta: «È il mio tipo, ma non il mio genere». Stupito, Fraser osserva poco distante insieme a Caitlin, tagliata a metà dall’inquadratura. Chi è davvero colpito dalla stranezza della madre è lui. We are who we are è questo esercizio di ambiguità e doppiezza, reso anche dai movimenti della cinepresa, senza mai un centro riconoscibile. Provvisorie e oblique le riprese, sfalsate le voci rispetto ai volti. Spesso qualcuno parla, pensa a voce alta senza comparire. L’effetto è un senso d’instabilità, volubilità, fuggevolezza. Oltre che nell’abbigliamento e nel minimalismo da bidet, la fluidità è resa dall’assenza di un fulcro visivo. L’occhio del regista rallenta sugli indumenti raggrumati a bordo piscina, sulle bottiglie di birra e di whisky vuote e sui posaceneri pieni dopo lo sballo post matrimonio improvviso e improvvisato tra il milite in partenza per la missione e la bella del posto. Quella parte di Laguna popolare che rimane sullo sfondo della storia. E dove, volendo fare un bagno di realtà, la sofisticatezza di Guadagnino probabilmente risulterebbe in tutta la sua artificiosità. Chissà che cosa direbbero gli avventori di un’osteria di Chioggia o i pescatori del porto di una coppia di lesbiche con figlio in una base militare americana.

 

La Verità, 20 ottobre 2020

Gassman e Sansa salvano la serie dagli stereotipi

C’è ancora Roma, con le sue periferie e i suoi paesi satelliti, al centro della nuova serie di Rai 1, Io ti cercherò, otto episodi coprodotti da Rai Fiction con Publispei e Verdiana Bixio, diretti da Gianluca Maria Tavarelli e interpretati da Alessandro Gassman, Maya Sansa, Luigi Fedele e Andrea Sartoretti (lunedì, ore 21,30, share del 20, 7%, 4,8 milioni di telespettatori). La capitale trasmette sempre un certo fascino e continua a svelare scorci inediti, soprattutto nei quartieri. Perciò, perché no? L’originalità non dev’essere l’asso nella manica di Rai Fiction, così, in queste nuove produzioni, si ha una percezione di déjà vu o forse, ancor più, di déjà entendu. Per esempio nella sigla e nell’accompagnamento musicale, efficace ma insistente.

Nella vita di un ex poliziotto (Gassman) ora benzinaio precario, i fantasmi del passato affiorano con il dolore della perdita dell’unico figlio per suicidio. Questa, almeno, è la versione fornita dagli inquirenti e dai medici legali. Dopo una rapida visita nell’abitazione dove il ragazzo risiedeva: «Non era la casa di uno che aveva in mente di uccidersi», al vicequestore ed ex fiamma (Sansa) bastano poche verifiche per scoprire che quella versione fa acqua da tutte le parti e convincere l’ex collega a scavare più a fondo.

Costruito su una buona sceneggiatura che alterna le parti investigative ai passaggi psicologici e sentimentali spesso proposti attraverso dosati flashback, Io ti cercherò si giova anche dell’ottima interpretazione di Sansa e Gassman. Nei misteri nascosti nel passato del protagonista – dall’espulsione dalla polizia al divorzio dalla moglie fino al distacco dal figlio – risiede verosimilmente il segreto della fine violenta del ragazzo. Proprio nel dipanarsi progressivo di queste ombre e del complesso rapporto tra padre e figlio, reso attraverso una lettera-confessione del ragazzo, si esprime il meglio della storia. Che invece tende a sbandare dove affiorano i tratti di una sociologia modaiola. Riesce infatti difficile immaginare come un ventenne che si pagava l’università consegnando pizze a domicilio, che portava i dreadlocks fino alle spalle, che appiccicava adesivi pro legalizzazione della marijuana, che in vacanza al mare, dopo aver visto affondare un barcone, si era fermato con la fidanzata alcuni giorni in un centro di prima accoglienza, in realtà fosse, come lei racconta al padre, «un salutista» che «andava a correre tutti i giorni, mangiava solo sano, niente salumi, niente dolci e sveniva se vedeva una goccia di sangue». Vedremo il seguito, ma già fin d’ora lo stereotipo sembra perfetto.

 

La Verità, 7 ottobre 2020

Il cuore nascosto di Petra farà quadrare la serie?

E se la faccia una risata ogni tanto», dice il capo della mobile (Riccardo Lombardo) a Petra dopo averle dato stringate istruzioni sulla reperibilità da garantire in assenza di un collega malato. «Come no, quando ce n’è motivo, volentieri», replica poco conciliante l’ex «avvocata» ora all’archivio della questura e, causa emergenza, spostata alla omicidi. Citando un vecchio gioco per bambini, verrebbe da commentare: fuochino. Non è tanto il fatto di ridere o sorridere, quanto di stare un attimo rilassati, togliendosi quel broncio stampato in volto. Insomma, il temperamento di Petra (Paola Cortellesi) che vive in una bellissima casa immersa nel verde, popolata di grilli «che servono per il ragno», è chiaro dopo due scene. E, verosimilmente, finirà per dividere il pubblico tra chi amerà questo cipiglio scorbutico e chi lo respingerà. Anche la sensazione che sia piuttosto complessa la quadratura del trapezio della nuova serie Sky original (con Cattleya e Bartleby film), quattro episodi lunghi tratti da altrettante storie di Alicia Giménez-Bartlett, da ieri su Sky Cinema, Sky Atlantic e on demand, è immediata. Sono tante infatti le variabili da mettere in equilibrio fra ambientazione, trama, personaggi e interpreti. Il primo azzardo è reinventare Cortellesi in un ruolo lontano dalla sua zona di conforto: una poliziotta anaffettiva, con due divorzi alle spalle, sempre in impermeabile nero, ispettrice senza mai aver indagato su un caso. La seconda scommessa è Genova, città trascurata dalla fiction nazionale, qui vista sempre di notte e prescindendo dal mare per sottolineare il gotico delle storie. Più semplice risulta l’alchimia tra gli opposti, Petra e il suo vice (Andrea Pennacchi), un vedovo arruffato, buona forchetta (Petra non cucina) e un filo moralista, al quale «non sta bene avere un capo donna» (che novità). Pian piano, però, la complementarità tra i due si afferma nelle indagini su una serie di stupri perpetrati nei carruggi da un giovane incappucciato che marchia le sue vittime sul braccio sinistro. Tra il ricomparire degli ex mariti di lei e il bilancio esistenziale di lui, l’intrigo noir della serie resta in secondo piano rispetto ai misteri privati dei due investigatori. Creare una nuova coppia italiana di profiler di ambientazione nichilista non è facile. Anche se, curiosamente, i dialoghi sfiorano le domande sulla felicità. Vuoi vedere che anche Petra ha un cuore? Sarà questo il tocco mediterraneo che dovrebbe differenziarla dai polizieschi nordici, tipo The Bridge e Bordertown?

 

La Verità, 15 settembre 2020

Skam racconta il difficile equilibrio dell’integrazione

Alla quarta stagione, finalmente Skam Italia ha trovato il suo equilibrio. Un equilibrio proiettato in avanti e che abbraccia anche i contenuti, aldilà del fatto che siano condivisibili o meno. Il teen drama rivelazione degli ultimi anni, accolto come il miglior remake dell’edizione norvegese, ha sempre avuto nella sceneggiatura, nella brevità degli episodi, che facilita la visione d’un fiato, e nella sensibilità con cui racconta l’universo dei liceali romani alle prese con amori, turbamenti e incertezze i suoi punti di forza. Merito di diversi fattori, dalla produzione alla libertà concessa da TimVision e Cross Productions. In particolare, merito del controllo di scrittura e cinepresa palesati dallo showrunner Ludovico Bessegato, sceneggiatore e regista delle prime due stagioni, e tornato, dopo la pausa nella terza, a condurre la quarta, disponibile dal 15 maggio sia su TimVision che su Netflix in forza della nuova collaborazione.

Dopo Eva (Ludovica Martino) nella prima, Martino (Federico Cesari) nella seconda ed Eleonora (Benedetta Gargari) nella terza, in questa stagione la storia è narrata con lo sguardo e i sentimenti di Sana (Beatrice Bruschi), una ragazza musulmana praticante, italiana di seconda generazione. Lo stile di vita del gruppo di amiche si rivela spesso incompatibile con le regole della sua religione. Conciliarle è tutt’altro che facile e in più di qualche occasione il prezzo che dovrà pagare Sana, raccontata intelligentemente non come la buona della situazione, sarà quello di una certa solitudine. A conferma della difficoltà di trovare l’equilibrio dell’integrazione ci sono anche le critiche piovute sulla serie per la piccola trasgressione in cui la ragazza accetta di mostrarsi senza l’hijab, atto proibito davanti a persone di sesso maschile, a due amici gay. Tematiche complesse, dunque. Per affrontare le quali Bessegato si è avvalso della consulenza alla sceneggiatura di una sociologa e scrittrice musulmana. Aldilà del merito, bisogna riconoscere il coraggio per il rischio, forse un po’ mancato nelle prime tre stagioni, lievemente claustrofobiche nel rappresentare amori (anche omosex), balli e sballi del gruppo di amici, tutto feste e Instagram. Una fotografia realistica della generazione zero, priva di punti di riferimento. Un universo sentimentale ben raccontato. Nel quale, curiosamente, gli adulti sono completamente irrilevanti. Non c’è traccia di sport e di politica. E i colpi di scena derivano dalle rivelazioni degli smartphone, scrigno inviolabile di segreti come in altre epoche erano i diari.

 

La Verità, 26 maggio 2020

Quei Diavoli che stanno in cima alla globalizzazione

La forza di Diavoli, la nuova serie in onda su Sky Atlantic, è nell’equilibrio. Nell’ampiezza della prospettiva e nella contemporanea capacità di tessere e mantenere tesi i fili del racconto. Tratta da I diavoli (Rizzoli) di Guido Maria Brera, un passato nel trading della finanza, un presente da scrittore e fondatore di La nave di Teseo, ben recitata da Patrick Dempsey, Alessandro Borghi, Kasia Smutniak, Lars Mikkelsen e il resto del cast, prodotta da Sky Italia e Lux Vide, in collaborazione con Orange studios e Ocs, diretta da Nick Hurran e Jan Maria Michelini (cinque episodi a testa), Diavoli ha l’ambizione di riscrivere l’estetica e il linguaggio della serialità, non solo di Sky, degli ultimi anni. Non una storia locale, seppur potente, un microcosmo emblematico che approda alla ribalta internazionale come abbiamo visto da Gomorra in poi, passando per Suburra per la produzione italiana, oppure da The Bridge a Fortitude per quella nordica, fino alla stessa Casa di carta per quella latina. Ma una vicenda che nasce proprio nel cuore della globalizzazione. Vuole rappresentarla e interpretarla. Dipanandosi tra Londra, New York e le capitali dell’alta finanza, con precise contestualizzazioni nella storia vera, l’arresto di Dominique Strauss-Kahn, la guerra libica e l’uccisione di Gheddafi, lo sprofondo della Grecia.

Siamo a Londra nel 2011 e al comando della New York London Investment Bank c’è l’ambiguo Dominic Morgan (Dempsey) che sta per scegliere il suo vice. Il candidato più accreditato è Massimo Ruggero (Borghi), talentuoso broker che ha anticipato l’evoluzione della crisi greca. Quando il suo rivale muore, apparentemente suicida, precipitando dall’ultimo piano nella hall della Nyl e i sospetti ricadono su di lui, la stella di Ruggero si offusca e l’intreccio narrativo decolla. Tutti i diavoli sono guerrieri o monaci votati al successo, con un lato oscuro. La novità della serie sta nel respiro del racconto che non perde mai compattezza tra i suoi fulcri narrativi. Il primo è il focus logistico: l’ammaliante sede della Nyl, il posto del potere, il quartier generale finanziario da dove si controlla il mondo, che ha nell’organizzazione anarchica Subterranea il suo antagonista. Il secondo è il thriller legato alle indagini sulla morte del rivale di Ruggero. Il terzo focus è quello sentimentale: le storie del cuore, che comprendono l’origine umile e il bisogno di riscatto di alcuni dei protagonisti. Tutto narrato con linguaggio internazionale, nella luce abbagliante della city. L’unico snodo che non si scioglie sono i complicati meccanismi delle borse. Ma qui siamo dalle parti dell’impossibile.

 

La Verità, 24 aprile 2020

1994 e le storie degl’iscritti alla fiera delle vanità

Siamo dunque giunti all’ultima stagione della trilogia di Sky sul passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. E, come in ogni trilogia che si rispetti, il capitolo finale è compimento e apoteosi. Dopo quello della rivoluzione e quello del terrore, il 1994 è l’anno della restaurazione (regia di Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce, produzione Wildside di Fremantle, venerdì, ore 21,15, Sky Atlantic, Sky Cinema Uno e On demand). Nella terza stagione anche l’equilibrio narrativo si definisce, come se, aiutati dagli accadimenti reali più forti, sceneggiatori e registi avessero trovato la spinta giusta per consolidare i profili degli outsider, veri protagonisti della serie, con vicende ancora più drammatiche.

Dunque, ci sono la discesa in campo, il duello tv tra Silvio Berlusconi (Paolo Pierobon) e Achille Occhetto, il discorso dell’«Italia è il Paese che amo», il trionfo elettorale e lo sbarco a Roma di molte avvenenti onorevoli, la nomina di Irene Pivetti, presidente della Camera. C’è, soprattutto, lo scontro con Mani pulite con il decreto Biondi e il rifiuto di Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi) della poltrona di ministro dell’Interno. Poi il ruolo della Lega di Umberto Bossi, alleato infido, il vertice sulla criminalità di Napoli e l’invito a comparire al premier, con un cameo di Luca Zingaretti nei panni di Paolo Mieli, e la caduta del governo. In mezzo ecco snodarsi le storie di Leonardo Notte (Stefano Accorsi), l’uomo ombra del Cavaliere, Veronica Castello (Miriam Leone) che diventa miss Parlamento, e Pietro Bosco (Guido Caprino), il leghista rozzo e doppiogiochista. E sono proprio queste storie a dare ancor più sapore alla storia ufficiale, nota fin nei dettagli, compreso quello della spilla «incanta burini» sul bavero dell’abito di Berlusconi durante il duello tv (Enrico Deaglio scrisse accigliate pagine in Besame mucho). Le parabole di Notte, Castello e Bosco, con i loro punti di vista laterali, sono il backstage dell’ufficialità e della storia con la maiuscola. A ognuno di loro è intestato un episodio. Notte è l’uomo del lavoro sporco, frequentatore di corridoi, camere e camerini, latore di ambigui messaggi e ultimatum. Castello è la soubrette disposta a tutto per conquistare il suo posto al sole dove potrebbe scottarsi. Bosco è l’ingenuo animato da buone intenzioni che si dibatte in un gioco più grande di lui. In fondo, questo è il destino comune di tutti e tre i personaggi della finzione: iscritti alla fiera delle vanità e intrecciati a quelli che finiranno sui libri di storia, qui narrata come un thriller.

 

La Verità, 6 ottobre 2019

Con Non mentire la fiction di Mediaset cambia passo

È un significativo cambio di passo quello che fa registrare Non mentire, nuova serie in sei episodi e tre serate di Canale 5, remake della britannica Liar – L’amore bugiardo, ben diretta da Gianluca Maria Tavarelli e prodotta da Indigo Film. Non più le squadre antimafia e i tredicesimi apostoli della Taodue, né le soap finto torbide con Gabriel Garko, ma la storia di una violenza, presunta o reale, su una donna, trattata con linguaggio contemporaneo. È vero, siamo al tempo del Me too e l’idea potrebbe sembrare una concessione al mainstream da happy hour. Ma per quanto visto finora sembra che il racconto, i tempi, la tensione, la recitazione e l’ambientazione, una Torino luminosa e affascinante, riescano a evitarle la trappola del luogomunismo (domenica, ore 21,35, share del 15.48%). I protagonisti sono Laura Nardini (Greta Scarano), una professoressa di liceo appena separata dallo storico fidanzato (Matteo Martari), e Andrea Molinari (Alessandro Preziosi), un chirurgo affermato, vedovo e benestante, molto ambito dalle donne. È la sorella di lei (Fiorenza Pieri) nonché infermiera di sala operatoria al fianco di Molinari a farli incontrare. Dopo una cena con vista sul Po i due finiscono a casa di lei nell’attesa di un taxi che non arriva e, tra un calice e una confidenza, inevitabilmente a letto. La mattina dopo lui manda un sms gentile per la «bellissima serata», lei si sveglia confusa, sicura di esser stata stuprata. A complicare la situazione, il figlio di Molinari è uno studente della presunta vittima. Per entrambi, gli sguardi di colleghi e conoscenti si fanno sempre più insinuanti, soprattutto dopo che, non creduta dagli investigatori, Laura posta su Facebook la storia della violenza con tanto di nome del colpevole.

L’astuzia della narrazione imperniata su precisi rimbalzi dalla versione di lui a quella di lei, intercalate dai fatti realmente accaduti, fa ondeggiare il telespettatore da una parte all’altra. Se c’è un minimo appunto da fare è, forse, l’eccessiva circolarità dell’intreccio, in qualche caso a svantaggio della sua credibilità. Oltre al figlio di lui allievo di lei, l’ex fidanzato di Laura, un poliziotto che s’intromette nelle indagini, ha una relazione parallela con la sorella che si prodiga per aiutarla. Del resto, il titolo è Non mentire e tutto fa pensare che, inoltrandosi, di menzogne e doppiezze se ne scopriranno parecchie. Finora la bilancia pende dalla parte del bel chirurgo, ma al di là di questo ciò che più conta è capire se il racconto manterrà l’equilibrio della tensione o confluirà passivamente nel largo fiume del Me too.

 

La Verità, 19 febbraio 2019

Il terzo True Detective? Un gran bel noir sociale

Migliore della seconda, ma ancora lontana dalla qualità della prima, la terza stagione di True Detective, trasmessa in versione sottotitolata da Sky Atlantic in contemporanea con Hbo che la produce, colma un’attesa di quattro anni ma solo in parte il divario artistico dall’edizione con Matthew McConaughey e Woody Harrelson (qui produttori esecutivi con Nic Pizzolatto, ideatore e sceneggiatore della serie).

«Credevo che da queste parti ci fosse un prima e un dopo il Vietnam, invece ho scoperto che c’è un prima e un dopo il caso Purcell», confessa ai suoi superiori il detective di colore Wayne Hays (Mahershala Ali) che il 7 novembre 1980, «giorno della morte di Steve McQueen», aveva iniziato a indagare con il suo partner (Stephen Dorff) sulla scomparsa di due fratellini.

Siamo nell’altopiano dell’Ozark, America rurale di officine, store e pick up, sfiorata dalla marginalità, con veterani della guerra che girano in go-kart colmi di resti di spazzatura da rivendere e gruppetti di giovani disadattati che frequentano la Tana del Diavolo, luogo di riti satanici. Anche la professoressa di lettere del liceo (Carmen Ejogo) può far poco per migliorare le condizioni dei ragazzi. Tra lei e Hays scatta però la solidarietà dei neri nella comunità bianca, diffidente soprattutto quando l’investigatore pone le domande indispensabili per le indagini. Dieci anni dopo il caso viene riaperto a causa di nuovi elementi e, ora che Hays e la professoressa sono marito e moglie, i superiori interrogano il detective nel tentativo di chiudere definitivamente il caso che ha segnato la comunità. Anche questo interrogatorio però è narrato in retrospettiva perché, in realtà, ci troviamo nel 2015 quando, intervistato da una giornalista televisiva, l’ormai settantenne Hays tenta di riannodare i fili della memoria combattendo con i primi accenni di demenza senile.

La storia si svolge, dunque, su tre piani: la presa diretta delle indagini, la parte più avvincente e riuscita, soprattutto nell’ambientazione socio-culturale, la prima ricostruzione con l’interrogatorio del detective, e la terza, con l’esercizio di memoria e il saldo esistenziale di Hays anziano. Grazie all’invecchiamento del carismatico protagonista e all’ottima scrittura, i rimbalzi temporali, facilmente intelligibili, si snodano in un thriller che tocca senza manierismi patinati i temi del razzismo, dell’integrazione e della ricerca psicologica. Svolgendoli in un racconto lento e ricco di pathos che tuttavia non ha, e forse non può avere, il carattere innovativo della prima, inarrivabile, stagione.

 

La Verità, 16 gennaio 2019

Il cinema di Costanzo migliora L’amica geniale

C’è la lezione del neorealismo, c’è la sensibilità letteraria, c’è la capacità di definire i caratteri, c’è, infine, il cinema scolpito di Saverio Costanzo. Un cinema tridimensionale, che usa i corpi e la fisicità, e valorizza le pareti delle case, la polvere e i selciati delle strade della Napoli dei Cinquanta. È tutto questo e molto altro L’amica geniale, i cui primi due episodi, di otto, sono stati anticipati al cinema in questi giorni (dopo la presentazione ufficiale alla Mostra di Venezia). Perché, poi, c’è innanzitutto la storia di Lila e Lenù, le due amiche rivali cresciute insieme dalla prima elementare all’età adulta attraverso sessant’anni di cambiamenti e sconvolgimenti e rivoluzioni, narrata da Elena Ferrante nella sua quadrilogia.

La serie che andrà in onda in contemporanea su Rai 1 e sulla piattaforma di Timvision, oltre che su Hbo (si attende la definizione della data) schiera le nostre migliori eccellenze in materia essendo prodotta da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside e da Domenico Procacci per Fandango, realizzata in collaborazione con Hbo, Rai Fiction, Timvision e Umedia, scritta dalla stessa Elena Ferrante, Francesco Piccolo, Laura Paolucci e Saverio Costanzo (Paolo Sorrentino e Jennifer Schuur sono produttori esecutivi). Il risultato è un prodotto di qualità e respiro internazionale, che ha tutte le carte per diventare l’evento della stagione.

Lenù e Lila, magistralmente impersonate da Elisa Del Genio e Ludovica Nasti, eterea e sognante la prima, scugnizza e olivastra la seconda, si conoscono sui banchi di scuola davanti alla maestra Oliviero (Dora Romano) che ne coglie subito i talenti, e diventano complici contro le bande dei maschi, in classe e fuori. Una complicità che le abilita a sfidare le tante insidie quotidiane, compreso lo strapotere di don Achille. Attorno a loro, «il rione» cerca di dimenticare le tragedie della guerra. Le famiglie numerose, il clan prepotente che osteggia gli umili, le mogli sottomesse e maltrattate, le bambine che non possono avanzare negli studi per dedicarsi alle faccende domestiche sono tratteggiati senza ridondanze. Indovinata anche la voce narrante di Alba Rohrwacher che accompagna il telespettatore nei pensieri di Lenù, la protagonista che ricostruisce la storia, nata dalla misteriosa scomparsa dell’amica. E che riesce anche a restituire la qualità letteraria del testo originale (a volte migliorandolo: «fermezza» invece di «determinazione»). Operazione nella quale Costanzo si è sempre mostrato abile.

 

La Verità, 4 ottobre 2018