Tag Archivio per: Sessantotto

«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024

«Io, un attaccabrighe: più che scrivere amo litigare»

Fra le tante interviste ad Antonio Pennacchi riproposte in occasione della sua morte, mi permetto di aggiungere anche la mia, pubblicata dalla Verità nel marzo 2018, che contiene un’istruttiva e gradevole passeggiata per il centro di Latina, città dello scrittore.

Camicia nera e cravatta rossa, tifoso del Milan?

«No, tifo Roma. Nessuna simbologia».

Pensavo al Fasciocomunista

«Ma no, uno si mette la camicia e la cravatta che gli pare».

Sarà. Anche la sciarpa butta sul rossonero. La coppola, invece, Antonio Pennacchi non la toglie neanche a pranzo. «Andiamo al ristorante Impero, dove andava Mussolini», aveva proposto, «così facciamo un giro per Latina. Se non l’ha mai vista, vale la pena». Sull’architettura mussoliniana, Pennacchi ha scritto Fascio e martello. Viaggio nelle città del Duce (Laterza), e sa di cosa parla. Latina, ex Littoria, ha edifici squadrati e piazze ariose anche se insidiate dai palazzoni degli anni Sessanta. Piazza del Popolo, «da quel balcone si affacciò il Duce per l’inaugurazione. Il giorno prima i lavori non erano ancora finiti e diluviava. Usarono i trattori per trainare i camion di cemento, ma uno s’impantanò. Allora scavarono una buca e lo interrarono. È ancora lì sotto. Il giorno dopo, quando arrivò Mussolini, la piazza era finita e c’era il sole». Piazza della Libertà, sede della Banca d’Italia, «dove, tra la ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli americani, Diomede Peruzzi e i suoi si calarono nel caveau e portarono via i lingotti con le carriole. L’ho raccontato in Canale Mussolini – parte seconda. Ci sono testimonianze, documenti…». Nato nel 1950, laurea in lettere da adulto, trent’anni di fabbrica – «ma adesso mi hanno tagliato la pensione perché si cumula con i diritti d’autore: solo per politici e magistrati il cumulo non vale» – esordio letterario dopo i 40, Premio Strega nel 2010 (Canale Mussolini), per alcuni critici il miglior scrittore italiano vivente, Pennacchi divenne popolare nel 2003 con Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi (Mondadori), che sarebbe lui. Daniele Luchetti ne trasse Mio fratello è figlio unico, incentrato sul rapporto conflittuale con Gianni, il fratello giornalista e notista politico al Giornale, anche lui con un passato nelle organizzazioni violente della sinistra. Ma a lui non piacque.

Elio Germano e Riccardo Scamarcio in «Mio fratello è figlio unico»

Elio Germano e Riccardo Scamarcio in «Mio fratello è figlio unico»

Siamo alla quarta edizione, non sta mai tranquillo questo Fasciocomunista?

«Mai. Però adesso basta».

Sono passati cinquant’anni dal Sessantotto e 25 dall’inizio della prima stesura. È cambiato lei o il libro è perfettibile?

«Entrambe le cose. Anche scrivere libri è un lavoro manuale, un testo s’impara a levigarlo. Da giovane hai l’intuizione. Poi il gusto si affina, cresce la capacità critica, lo scavo della parola si fa più preciso. Pensiero e parola vanno saldati e quindi è un lavoro lungo, almeno per me».

La forza della sua letteratura è la scrittura parlata, una lingua che si ascolta, febbrile, di tutti?

«È il volgare: una letterarizzazione del parlato, non proprio in presa diretta. Il mio referente sono i lettori, all’inizio i miei compagni di classe. Non scrivo per me stesso, mi considero ancora un intellettuale maoista al servizio del popolo».

Addirittura.

«Per la precisione un poeta narratore più che un intellettuale. Poiché credo nell’uguaglianza degli esseri umani e considero le differenze un prodotto della storia e non della nascita, le mie storie perseguono l’emancipazione di tutti gli esseri. Sono un cantastorie popolare, scrivo per essere capito. Scrivo chanson de geste in cui è fondamentale l’azione, non romanzi filosofici. Perciò uso la lingua delle masse che conosco io, la classe operaia, i parenti, gli amici della fabbrica, pur sapendo che non mi avrebbero letto, perché in fabbrica si leggono il Corriere dello Sport e i giornali porno. Glieli avrei letti io i miei libri. Il mio serbatoio sono il bar, il barbiere, i modi di dire. Questo non significa che sia naif, sto dentro la tradizione letteraria italiana. Da una parte c’è Francesco Petrarca che scrive per non far capire alla gente, dall’altra Dante Alighieri che usa il volgare fiorentino per le masse».

Nella sua postfazione si legge: «Penso che certe cose mi accadessero perché dopo le scrivessi». La letteratura nasce dal bisogno di scrivere o dall’intensità di ciò che si vive?

«Se non scrivessi mi sentirei in colpa rispetto alla mission. Scrivo per senso del dovere, non per piacere. Io, mio fratello, mia sorella, eravamo i primi laureati e qui ci sono solo operai, contadini poveri, servi della gleba che si sono fatti il mazzo».

Una missione senza piacere?

«Il piacere lo provo quando ho finito ed è venuto bene. Prima è fatica, beato chi non ne fa. Nella famiglia contadina quando venivi al mondo ti veniva assegnato un ruolo, un mestiere».

A lei che mestiere toccò?

«Essendo nato nei giorni di lutto per la morte dei nonni, uno a distanza di 20 giorni dall’altro, è come se mia nonna mi avesse detto: “Ti te ghe da racontar ’a nostra storia”, la storia del nostro podere, della nostra famiglia. Come Il mulino del Po. A lungo mi sono sottratto a questo compito perché a me piace leggere, studiare e andare in giro a litigare per Latina. Raramente le mie storie sono frutto d’invenzione. Se lo sono, partono sempre da vicende reali».

Come l’adesione al fascismo da ragazzo, che per lei era un movimento di sinistra.

«Alle origini certamente. Nel ventennio si combattono il fascismo bianco e il fascismo rosso. Alla fine quello di sinistra perde, purtroppo».

Era un estremista, un attaccabrighe sempre pronto a fare a botte?

«Mia madre diceva che più che un attaccabrighe, ero un cacabrighe, uno che le trovava».

Secondo me le attaccava pure: alle assemblee del Pci finiva gli interventi con «Viva il Duce».

«Rifiuto le verità preconfezionate. Alle pentole del diavolo mancano sempre i coperchi. Questo spirito di contraddizione muove tuttora la mia scrittura, difficile che racconti storie già raccontate. Ai convegni dei partiti e dei sindacati si alzavano e dicevano: “Concordo con la relazione di Tizio e Caio”, poi parlavo io e si alzava la canizza. Mi hanno espulso dal Msi perché sono andato alla manifestazione pro Vietnam. Ancora adesso molti intellettuali della sinistra radical chic mi considerano un revisionista, ma non sono mai stato politicamente corretto, né da una parte né dall’altra».

Simpatizzava per Stefano Delle Chiaie, poi negli anni Settanta per la lotta armata.

«No. Ho sempre cercato la falla delle verità precostituite».

Cosa pensa del protagonismo sui media degli ex brigatisti? Barbara Balzerani ha detto che quello della vittima è un mestiere.

«Certe esternazioni sono sgradevoli. Io nelle Br non ci sono entrato solo perché sono stato fortunato e ho perso l’attimo, non perché ero contrario. Ma i miei amici ci erano andati e non li ho più trovati. Quando Moro fu ucciso, mi sono definitivamente allontanato. Uccidere è sbagliato e chi l’ha fatto deve fare autocritica, non certi discorsi ambigui. Però non va dimenticato che il male e le colpe non stanno solo da una parte. La lotta armata non spuntò dal nulla. Prima c’erano state le bombe alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. La stagione degli anni di piombo è figlia delle bombe messe da manovalanza nera, ma decise dai servizi segreti».

Pennacchi: «Dopo l'uccisione di Moro mi allontanai da quegli ambienti»

Pennacchi: «Dopo l’uccisione di Moro mi allontanai da quegli ambienti»

Il Novecento è andato avanti con i conflitti tra destra e sinistra. Adesso?

«Dei battutisti sostenevano che fosse un secolo breve pensando fosse finito con la caduta del muro di Berlino. In Italia il Novecento si è chiuso il 4 marzo 2018».

Quindi è contento dell’esito delle elezioni?

«Prendo atto che i partiti come li avevamo conosciuti nel Novecento sono finiti. Matteo Salvini ha svuotato il vecchio Msi, i 5 stelle hanno svuotato il Pd».

Per chi ha votato?

«Per Liberi e uguali, ma senza entusiasmo. Non ci fosse stato l’ex magistrato sarei stato più convinto».

Pensavo le piacesse il M5s, attento ai poveri, che manda in archivio le vecchie categorie.

«Non manda in archivio niente. Non è che il declino dei partiti tradizionali ha annullato la distinzione tra destra e sinistra. La storia rimane un pendolo tra chi mette al primo posto l’individuo e chi sta con la collettività. Le ragioni della sinistra restano vive, perché nel pianeta ci sono più sfruttati che sfruttatori. Ma un conto è la realtà un altro la percezione e la propaganda. I 5 stelle dicono di non essere né di destra né di sinistra, ma di fatto occupano uno spazio a sinistra. Renzi si dice di sinistra, ma ne ha causato il harakiri e prende i voti ai Parioli».

Quindi i grillini non le piacciono.

«Decide tutto Casaleggio. Dove hanno governato si sono dimostrati improvvidi. E non mi convince la democrazia virtuale e i social. La gente preferisco guardarla in faccia e litigarci al bar».

Pensa che Lega e M5s dureranno? Potrebbero dar vita a un unico movimento di destra sociale?

«La destra sociale è un ossimoro. Fino a ieri la Lega ha predicato la secessione, trattandoci come idioti. Se continui a investire al Nord, qui non porti mai lavoro. Anche il Pd facesse come gli pare. Sarebbe naturale che andasse appresso al nostro popolo, tra la gente, nelle periferie. Ma ci vorrebbe una consapevolezza dei problemi che non mostrano di avere. Una cosa positiva però c’è».

Almeno una, sentiamo.

«Le aperture dei nuovi arrivati verso la Russia di Putin. Nel mondo persiste l’imperialismo: ci sono le sanzioni contro la Russia, ma i nostri soldati sono in giro a fare le guerre degli americani. Per fortuna s’inizia a guardare con più attenzione a Putin».

Si torna. Ecco il Palazzo Emme, «l’iniziale di Mussolini», imponente. Mi parla dell’intellettuale maoista a servizio delle masse, ma poi si emoziona per queste costruzioni, butto lì. «Ma che sta a di’ Caverzan? Quand’ero bambino ci venivo a scuola, è la mia infanzia, la mia gioventù… Quella, invece è la Questura». Dove lei era di casa. Sorride, crollando la testa nella coppola.

 

La Verità, 25 marzo 2018

 

Baglioni, il ’68 e un pezzo di musica rimasta fuori

Se Sanremo è, o dovrebbe essere, il Festival della canzone italiana, allora ha ragione da vendere Maria De Filippi. Nel giorno della presentazione ufficiale del cast della 68ª edizione, la conduttrice di Amici e C’è posta per te, nonché dell’edizione numero 67 della kermesse al fianco di Carlo Conti, ha acceso una miccia che è filata sotto il palco del Casinò rivierasco: «Io penso che in generale Sanremo sbagli sempre quando non prende ragazzi dei talent, come Amici o X Factor, perché sono una realtà», ha detto la De Filippi intervistata dal settimanale Chi, «a meno che quelli che si sono presentati non fossero all’altezza».

Maria De Filippi, con Carlo Conti ha condotto l'edizione 2017 del Festival di Sanremo

Maria De Filippi, con Carlo Conti ha condotto l’edizione 2017 del Festival di Sanremo

Parole dirette, che meritano considerazione. Negli ultimi anni Sanremo ha sempre avuto concorrenti usciti dai talent show. Nel 2009, 2010, 2012 e 2013 qualcuno di loro l’ha anche vinto il Festival (in ordine cronologico: Marco Carta, Valerio Scanu, Emma Marrone, Marco Mengoni). Poi ci sono state le partecipazioni dei Dear Jack, Chiara Galiazzo, Lorenzo Fragola, l’anno scorso di Elodie e Michele Bravi; nel 2016 Francesca Michielin si è classificata seconda. Insomma, una presenza consistente e apprezzata sia dal pubblico televisivo che dalla critica. Quest’anno zero: una scelta, probabilmente, al netto della qualità scadente dei candidati che si sono presentati. Oppure, considerando il fatto che dei tre conduttori (Claudio Baglioni, Pierfrancesco Favino e Michelle Hunziker) nessuno è un volto Rai, si è temuto che altri innesti provenienti da programmi Mediaset e Sky diluissero ulteriormente il marchio di fabbrica della manifestazione. Chissà.

Tuttavia, la contemporaneità tra l’anticipazione di Chi e la presentazione della kermesse di Baglioni che, per lanciare il «Festival dell’immaginazione», ha rispolverato persino il Sessantotto, ha creato un corto circuito negativo. Se si vuole parlare di Festival democratico, ecumenico, buono e buonista, tanto da aver eliminato le eliminazioni, converrebbe cominciare a farlo almeno rappresentativo. Cioè, capace di mettere in vetrina tutte le realtà della musica. Escludere i cantanti dei talent vuol dire tagliar fuori un pezzo non trascurabile della scena musicale e creativa, rischiando di trasmettere un’idea lontana dallo spirito del tempo della canzone italiana. Peccato che ai vari Pippo Baudo, Fabio Fazio e Carlo Conti, così prodighi negli spot di consigli al direttore artistico su scalette e camerini, sia sfuggito quello più importante sul cast musicale.

La Verità, 10 gennaio 2017