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«Doris? Un cattolico con la speranza che manca al Pd»

Ennio Doris, un outsider sottovalutato. Forse anche a causa del suo temperamento tutt’altro che megalomane. A fargli giustizia arriva ora nei cinema un biopic incentrato sulla clamorosa restituzione nel 2008 di 120 milioni di euro a 11.000 risparmiatori che avevano investito nella Lehman Brothers. Tratto dall’autobiografia C’è anche domani (Sperling & Kupfer, 2014), prodotto da Movie Magic International, distribuito da Medusa, diretto da Giacomo Campiotti, interpretato da Massimo Ghini e Lucrezia Lante della Rovere, il film sarà nelle sale come evento speciale il 15, 16 e 17 aprile, prima di andare in onda in autunno sulle reti Mediaset.
Massimo Ghini, conosceva Ennio Doris prima di interpretarlo?
Ne conoscevo l’immagine pubblica, diffusa dallo spot della «banca costruita intorno a te» mentre lui traccia un cerchio per terra. Mi ha stupito che mi abbiano chiesto di essere lui: è stato come intraprendere un viaggio nella vita di un uomo particolare. Alla convention con 20.000 persone organizzata da Mediolanum a Torino ho letto un brano di una lettera nella quale sosteneva che chi lavora nella finanza, oltre a occuparsi di soldi, ha una responsabilità verso gli altri.
Cosa le è piaciuto di quest’uomo?
Il fatto che, pur essendo tra i più ricchi d’Italia, sia rimasto un uomo semplice, con uno spirito cattolico e un senso della famiglia molto forti. Conosco diverse persone molto facoltose e posso dire che un comportamento così non è nelle loro consuetudini. Sempre a quella convention ho detto che la parola chiave del mio confronto con Doris è «sorpresa». Come si fa a non essere sorpresi da un uomo che il sabato sera aveva l’abitudine di tornare in elicottero al suo paese d’origine per giocare a carte con gli amici?
Per impersonarlo non ha potuto far leva sulla somiglianza.
Era un omone alto e mi hanno sconsigliato di ricorrere alla cadenza veneta, così mi sono immedesimato nel suo temperamento. Alla fine, il complimento più bello è stato quello della moglie Lina: Massimo, mi hai emozionato perché hai saputo riproporre l’atteggiamento e la grinta che aveva Ennio quando faceva le cose.
Come definirebbe Ennio Doris?
Un uomo non ipocrita e generoso. Non ipocrita perché non fingeva di essere buono, ma era dotato di una generosità innata. Correggeva chi lo chiamava «dottore» perché era ragioniere. Ricordava di essere cresciuto in mezzo alle vacche e che suo padre era mediatore nei mercati agricoli.
Un visionario con i piedi per terra?
A differenza del grande amico Berlusconi, ha sviluppato il suo talento nella finanza portandosi dietro la cultura dalla quale proveniva.
Ha cambiato il modo di gestire le banche stando dalla parte dei risparmiatori?
Questo è un fatto bellissimo. Oggi la finanza è raccontata in modo negativo, non ci sono molti a spendersi per aiutare chi è in difficoltà. Non stiamo parlando di Padre Pio, ma di un uomo che, ricordandosi delle sue radici, ha fatto funzionare la banca e, contemporaneamente, tutelato i risparmiatori.
Era il banchiere di Silvio Berlusconi, non un bel biglietto da visita per un uomo di sinistra come lei.
All’inizio anch’io lo pensavo. Ora posso dire, e me ne assumo la responsabilità, che Berlusconi ha imparato da Doris. Quell’uomo gli insegnava a fare i soldi. Non a caso, tutto ciò che Berlusconi ha toccato è diventato suo, mentre la banca di Doris è rimasta di Doris. Berlusconi si è dimostrato intelligente rispettandone la genialità e lasciandolo lavorare.
Cosa pensa del fatto che quando ci fu il crollo di Lehman Brothers rimborsò di tasca propria i risparmiatori che avevano investito in quei titoli?
Non voglio fare paragoni con altre grandi famiglie, gli Agnelli tanto per dire. Questa vicenda mi ha lasciato a bocca aperta e penso che anche il pubblico rimarrà stupito quando la scoprirà dal film. Il figlio Massimo mi ha detto che è già nota, ma io credo non abbastanza. 11.400 investitori e le loro famiglie salvati da questa decisione. Dove si trova un uomo che dice «pago io»? Alla fine, Berlusconi gli è andato dietro, ma all’inizio, sia l’Abi (Associazione bancaria italiana ndr) che lui dicevano che era un pazzo. Ma Doris era deciso: ho i soldi e lo faccio anche da solo.
Il primo caso di restituzione spontanea di denaro ai risparmiatori fu un’azione di sinistra?
No, io ci vedo un’anima cattolica. Il fatto che ci siano uomini che devono essere salvati non ha bisogno di catalogazioni di destra o sinistra. Doris aveva questa formazione veneta, fortemente cattolica, e l’ha tirata fuori. Lo dico con piacere.
Che cosa le ispira il titolo del film tratto dall’autobiografia C’è anche domani?
D’istinto può ricordare il film di Paola Cortellesi, perciò il nostro s’intitola Ennio Doris – C’è anche domani.
Il libro di Doris è del 2014.
Infatti. È un titolo che dice che non serve indugiare sulle cose andate male, c’è sempre la possibilità di rimettersi in careggiata. Non è un pensiero di natura finanziaria, ma un’idea positiva di futuro.
Un’idea di speranza?
I nostri genitori hanno fatto le guerre, noi viviamo un momento di confusione che non aiuta a preparare il futuro dei nostri figli. Dobbiamo insegnare loro che il futuro si costruisce giorno per giorno.
La sinistra sa infondere questa speranza?
In questo momento no, non riesce a darla. Dobbiamo costruire un progetto comprensibile alle masse e alle persone comuni. Le continue divisioni interne sono una delle maggiori imbecillità del secolo.
Pur essendo di sinistra lei ha fatto cinema e televisione popolare. Cosa pensa del fatto che il cinema d’autore, finanziato dai fondi ministeriali, ha trovato raramente il favore del pubblico?
Se ho qualcosa di cui vantarmi è di aver fatto sia cinema popolare che impegnato. Il nostro mestiere serve a raccontare con professionalità storie che possono essere comiche o drammatiche. L’idea che dovremmo privilegiare i film d’autore perché siamo di sinistra mi sembra una stupidaggine. Ho recitato per registi internazionali e mi sono sempre rifiutato di pensare come alcuni colleghi, che se un film non sfonda è perché non è stato capito. Forse sei tu che non ti sei fatto capire.
Un pregio e un difetto del cinema italiano?
Il difetto è dividere sulla lavagnetta i buoni e i cattivi, i bravi e i non bravi. Ricordo che quando entrai negli uffici della Titanus, la prima casa di produzione italiana, c’erano le locandine dei musicarelli, dei film di Totò, di Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni. Non a caso ora il governo sta introducendo nuovi criteri di sostegno al cinema.
Il cinema italiano è romanocentrico?
È un’accusa esilarante. È come se dicessimo che il cinema americano è «losangelescentrico». I film di Paolo Sorrentino sono napoletani. Matteo Garrone ha raccontato i migranti africani, Mediterraneo ha vinto l’Oscar con una storia di guerra, Roberto Benigni è toscano.
C’è amichettismo anche nel cinema, il solito giro di attori e di registi?
Questa è una critica che serve ai giornali. Il cinema è nato a Roma, ma i registi e gli sceneggiatori sono romagnoli, milanesi, siciliani. Poi, siccome di soldi non ce ne sono e i produttori cercano di risparmiare, i film si fanno prevalentemente a Roma.
Quando vediamo i cast di Pupi Avati ci stupiamo perché recupera attori fuori dal giro?
Vogliamo dire, con tutto il bene che gli voglio, che Avati è «bolognesecentrico»? In America ci sono due poli produttivi, New York e Los Angeles, fine. Il criterio è uno solo: un film è bello o brutto, è interessante o no. Queste polemiche sono nate dalle film commission e dalla relativa distribuzione dei fondi. La prima film commission la proposi nel 1995 a Francesco Rutelli quand’ero consigliere comunale a Roma. Adesso ogni regione ha la sua film commission.
Prima consigliere comunale, ora membro della segreteria Pd del Lazio: mai pensato di impegnarsi seriamente in politica?
Me l’hanno chiesto, ma ho cercato di non rovinarmi la vita. Vivo il mio impegno come un volontariato perché mio padre è stato partigiano, combattente e internato a Mauthausen. Così, ho pensato di dare una mano anch’io.
Da romano come giudica l’amministrazione del sindaco Roberto Gualtieri?
Diciamo che potrebbe essere migliore.
Se dovesse dare un consiglio affettuoso a Elly Schlein cosa le direbbe?
Che abbiamo bisogno di persone che parlino al cuore della gente. Allora lei dovrebbe preoccuparsi meno del giudizio del salotto di Capalbio e di più di ciò che pensa chi vive nelle periferie.

 

Panorama, 10 aprile 2024

«Con me anche gli islamici rispetteranno le leggi»

Nei formidabili Settanta Monfalcone era la Stalingrado d’Italia, ora è uno dei comuni a più alta densità islamica. Circa 7.000 cittadini di religione musulmana su un totale di 30.000 residenti. Stando alle parole di Paolo Mieli ospite di Quarta Repubblica di Nicola Porro, Anna Maria Cisint «è una Vincenzo De Luca moltiplicata per mille». In questi giorni, la sindaca leghista è accusata di impedire ai musulmani di pregare mentre la comunità islamica ha convocato una manifestazione nazionale a Monfalcone per il 23 dicembre, antivigilia di Natale.
Anna Maria Cisint, come devo chiamarla?
«Sindaco».
È primo cittadino dal 2016…
«Mi pare fosse il 5 novembre quando ho vinto la prima volta. Pier Luigi Bersani disse in tv di non aver dormito tutta la notte perché aveva perso Monfalcone. Nel 2022 sono stata rieletta al primo turno con quasi il 73%».
… perché ha aspettato il secondo mandato per mettere su questo casino?
«Non è un casino, è rispetto della legge».
Perché è diventato attuale adesso?
«I dirigenti dell’ufficio urbanistico e la polizia locale hanno appurato che le moschee non erano a norma».
Prima lo erano?
«No, perché il piano regolatore, che non ho fatto io, stabiliva che quei locali erano destinati a commercio e attività direzionali. Non si può dire che non lo si sapeva. Poi, ultimamente, si sono aggiunti due fatti: la forte crescita dei musulmani a Monfalcone e l’invito online delle associazioni ad andare a pregare nelle moschee».
Sono moschee, parcheggi, hangar, centri culturali?
«Quelle in questione erano moschee di fatto, finti centri culturali».
Che cosa la preoccupa?
«Sono preoccupata perché ho una responsabilità istituzionale nei confronti dei cittadini. Abbiamo fatto tutte le verifiche per dire che in quelle moschee c’era una presenza massiccia di islamici che andavano a pregare. Perciò si poneva sia un problema di legalità che di sicurezza pubblica».
In che senso?
«La legalità garantisce pari diritti e doveri per tutti. Un garage non può diventare una discoteca. Un vecchietto che ha costruito una tettoia e deve pagare il condono edilizio può chiedermi perché tollero che quei centri commerciali siano diventati luoghi di culto. Poi c’è il problema logistico, uscite di sicurezza, sistemi antincendio. Ma non solo…».
Vede pericoli di reclutamento terroristico?
«Dopo il 7 ottobre alcuni ragazzi bengalesi si sono arrampicati sul campanile e hanno gridato “Allah akbar. A morte Israele”. Qui nessuno ha condannato l’azione di Hamas. In quelle moschee non si prega in italiano e non si parla italiano, perciò non sappiamo che cosa predicano gli imam. Pochi giorni fa è stato espulso da Milano un terrorista protetto da oltre un anno dai capi di una moschea. Non alimento paure, sono solo preoccupata per la sottovalutazione di questi fenomeni e voglio capire se c’è un processo di radicalizzazione».
Ha segnali che lo fanno pensare?
«Le ho appena citato i ragazzi che si sono arrampicati sul campanile. Poi ci sono altri fatti. Prima di tutto l’aumento delle coperture integrali delle bambine, anche nelle scuole. Le preparano a diventare schiave. Ci sono già le spose bambine. Pochi giorni fa abbiamo risposto alla richiesta di soccorso di una ragazzina di 15 anni picchiata dai genitori che volevano mandarla a sposarsi in Bangladesh e contrastavano la sua volontà di frequentare un amichetto. Ci ha chiamato e l’abbiamo portata in un luogo protetto. La stessa cosa è successa due anni fa con una tredicenne che vive tuttora in luogo protetto. Abbiamo salvato due potenziali Saman (Abbas, la diciottenne pakistana uccisa perché si opponeva al matrimonio con il cugino voluto dai genitori ndr)».
Questi fatti li vede solo lei?
«Li vedono tutti. Anche la sinistra e la comunità musulmana che, nominalmente, mi danno ragione, ma non fanno nulla per fermarli».
Perché a Monfalcone gli immigrati sono in gran parte bengalesi?
«Perché c’è Fincantieri. Dal 2005 è stata fatta una modifica produttiva delocalizzando al contrario e portando la manodopera più povera a Monfalcone».
E sono arrivati soprattutto bengalesi?
«Sì. Va detto che in Italia è facile ottenere i ricongiungimenti. Se un bengalese ha il permesso di soggiorno grazie a un contratto di un anno e guadagna meno di 13.000 euro, può ricongiungere ben due persone. La conseguenza è che il welfare comunale è quasi tutto a beneficio degli immigrati».
Perché?
«Con i ricongiungimenti, dopo un anno sono in tre. Quando arriva la moglie la famiglia inizia a crescere, ma lavora uno solo. Così gli aiuti per la casa, la scuola, la mensa, i trasporti sono assorbiti da loro. I beneficiari del bonus bebè sono stati al 98% bengalesi».
Perché gli italiani non fanno figli?
«Perché loro ne fanno tanti. Su 7.000 bengalesi lavorano 1.700, di cui solo 7 sono donne, per loro la donna è una schiava».
E lei non vuole farli pregare.
«È una fake news. È sconvolgente che gli organi d’informazione che dicono di combatterle siano quelli che le promuovono. Mai detto che non possono pregare, ma che la legge va rispettata da tutti».
Trovare un altro luogo di culto per gli islamici?
«Il piano regolatore fatto dalle giunte di sinistra non lo prevede perché la città ne ha già e io non ho intenzione di modificarlo. Monfalcone non è un’isola alla fine del mondo».
I preti si sono schierati dalla parte dei musulmani?
«Altra cosa scritta da Repubblica che non mi risulta. Hanno fatto delle riflessioni condivisibili sulla libertà di culto».
A Monfalcone però sembra difficile praticarla.
«Ripeto: a Monfalcone c’è un piano regolatore. Non è colpa del comune se sono in 7.000. Rinvio la palla nel loro campo. Se andassi in un Paese islamico dubito che si preoccuperebbero di costruire la chiesa cattolica».
Mi dice una persona importante per la sua formazione?
«Mio padre, soprattutto. Operaio che ha costruito navi nelle aziende del territorio, morto di amianto dopo decenni di lavoro senza protezioni adeguate. Mi ha insegnato cosa significa avere la spina dorsale e mantenere la rotta in mezzo alle difficoltà».
Perché ha deciso di candidarsi e com’è diventata sindaco?
«Per 29 anni sono stata dirigente comunale, poi ho deciso di mettere la mia competenza amministrativa a servizio della comunità, prima all’opposizione e ora al governo della città».
Il suo modello è l’ex sceriffo di Treviso Giancarlo Gentilini?
«La devo deludere, le persone intelligenti governano inserite nei contesti in cui si trovano. A Monfalcone è imprescindibile la presenza di Fincantieri dove ci sono 8.000 persone che lavorano provenendo da fuori. È inutile parlare di modelli».
Il suo primo provvedimento qual è stato?
«Contrastare il degrado ereditato, c’era spazzatura ovunque, e recuperare vivibilità. Poi, essendomi insediata a novembre, organizzare il Natale secondo la nostra storia. Chi c’era prima aveva eliminato il presepio perché riteneva fosse un affronto a qualcuno. Adesso nella sala del comune c’è una mostra con 19 presepi realizzati da artisti locali e nella piazza principale troneggia il simbolo della nostra tradizione».
Nel 2018 ha fissato un tetto del 45% per bambini stranieri negli asili. Quanti ne sono rimasti esclusi e che asili hanno frequentato?
«In questi anni ho fatto costruire quattro scuole. Quando sono arrivata c’era una lista d’attesa per l’infanzia di 90 bambini. Come detto, gli stranieri sono molto prolifici. Era una situazione inaccettabile sia per loro, perché ghettizzati, sia per gli italofoni, perché perdono pezzi di programma. Il tetto è servito e serve a stabilire condizioni di equilibrio. Altrimenti un bambino italofono può trovarsi in una classe con 20 bengalesi che non vogliono scrivere la parola cane perché il cane è un animale impuro. Per i bengalesi abbiamo messo a disposizione gli scuolabus e hanno frequentato gli asili sul territorio dove, per altro, non c’erano bambini sufficienti a formare le classi».
La sinistra propone ogni settimana lo ius soli e lo ius culturae mentre lei mette delle soglie d’ingresso agli studenti stranieri: si stupisce che la contestino?
«La sinistra sta sempre dalla parte sbagliata. Tutti gli anni a fine gennaio si spertica per ricordare la Shoah, ma quando Hamas aggredisce barbaramente Israele strizza l’occhio alla Palestina. Dice di battersi per le donne e poi tace sulle situazioni che le ho illustrato. Per la sinistra e i suoi giornali la legge va rispettatat solo se si allinea alle loro idee».
Michele Serra ha proposto di identificarla.
«Sono a disposizione. Se verrà lo porterò a vedere i presepi vicino al Municipio».
Gorizia è terra di confine e di commistione fra culture diverse, l’integrazione è possibile?
«Effettivamente le etnie sono diverse. Con quella rumena, che è la seconda per importanza, non abbiamo mezzo problema. L’integrazione è un contratto biunivoco: con le comunità che pretendono di mantenere la loro cultura creando un’altra città nella città l’integrazione non si realizza».
Il tetto per i bambini stranieri, i vincoli urbanistici per pregare… i suoi provvedimenti sono tutti per frenare le altre etnie?
«Siamo in Italia. Ci sono una storia e una cultura da salvaguardare. Nessuno ha chiesto a nessuno di arrivare. È giusto chiedere rispetto del nostro Paese e delle nostre leggi».
Mi dice un suo provvedimento per promuovere positivamente la nostra etnia?
«Monfalcone era uno spogliatoio di Fincantieri e noi abbiamo messo al centro il rispetto della città. I provvedimenti sono innumerevoli, dal recupero del Natale con una serie di eventi fino alla valorizzazione della storia con le mostre sul Carso e le sue trincee».
Si candiderà alle Europee?
«Sono lusingata del fatto che il mio partito diretto molto bene da Matteo Salvini mi tenga in considerazione. Se potrò dare una mano alla Lega che ha le idee giuste per l’Italia e l’Europa lo farò. Ma sono orgogliosa di fare il sindaco di una delle città più difficili d’Italia, perciò la mia scelta sarebbe rimanere qua. Vedremo».
Si farà la manifestazione del 23 dicembre indetta dalla comunità islamica?
«Le manifestazioni sono libere, perciò penso che si farà. Ma la trovo una provocazione nei confronti dei cittadini che vogliono trascorrere un Natale tranquillo e dei commercianti che sperano negli incassi di quei giorni. Chiamare a raccolta 5.000 musulmani obbligando alla chiusura del centro storico mostra il volto di una comunità che se non riesce a fare ciò che vuole pone problemi. Martedì si riunirà il Comitato di pubblica sicurezza composto da prefettura e questura. Se vogliono parlare e confrontarsi, sono a disposizione».

 

La Verità, 16 dicembre 2023

«Gaber uomo libero, la sinistra doveva ascoltarlo»

Per una volta si può dire «il marito di». Riccardo Milani lo è di Paola Cortellesi e, anche se lui, giustamente, recalcitra con un sonoro «no» quando lo provoco, da lunedì competeranno al botteghino. Ha ragione: C’è ancora domani, diretto e interpretato da sua moglie alla prima regia, pluripremiato alla Festa di Roma, è in vetta agli incassi, mentre Io, noi e Gaber, pure passato a Roma, è «solo» un documentario (prodotto da Atomic con Rai Documentari e Luce Cinecittà, distribuito da Lucky Red) che andrà nelle sale come evento speciale il 6, 7 e 8 novembre.

Giorgio Gaber ci manca da vent’anni e ritrovarlo ora nei monologhi in tv e a teatro («Fisicamente non ce la faccio a essere di destra. Ma come mi fanno incazzare quelli di sinistra…», ai tempi della candidatura di Ombretta Colli in Forza Italia), al fianco di Enzo Jannacci, Mina e Celentano e nei ricordi di chi l’ha frequentato, è un regalo oltre che per i suoi cultori anche per il grande pubblico. Il cinema di Milani, da Buongiorno Presidente! a Come un gatto in tangenziale, ha l’ambizione di coniugare contenuti e linguaggio pop e dunque non c’era regista migliore per raccontare un artista che è stato coscienza critica e grande uomo di spettacolo.

Questo documentario è un’idea sua, della Fondazione Giorgio Gaber o di qualcun altro?

«Con la figlia, Dalia Gaberscik, ci eravamo già sfiorati in passato, poi due anni fa mi ha chiamato: “Nel 2023 saranno vent’anni dalla morte di mio padre e vogliamo fare qualcosa. Sappiamo quanto gli vuoi bene, facci una proposta”. Da lì è partito tutto».

Lei è romano, Gaber milanese: come lo ha intercettato?

«Già da piccolo ascoltavo Goganga, Torpedo blu, La ballata del Cerutti, Il Riccardo. Poi il suo corpo con quel modo di muoversi si è abbinato a quelle canzoni orecchiabili. Più tardi, diciottenne, ascoltavo i testi del Teatro-canzone. Con quelle riflessioni e le loro durezze arrivavano tanti segnali che riguardavano la nostra vita, il movimento, la politica. Era un punto di riferimento. Provavo a far mia una sua costante: il coraggio, la capacità di seguire la propria strada, anche con una certa rabbia, se necessaria».

Era solo ascolto o anche rapporto personale?

«Era il rapporto di chi andava sempre ai suoi spettacoli quando veniva a Roma. Aspettavamo i suoi concerti e i suoi pezzi come si aspetta una parola importante. Su Gaber ci si divideva molto. Aveva amici, estimatori ma anche detrattori sia a destra che a sinistra. Io apprezzavo la sua semplicità di dire le cose senza filtri o strategie di comunicazione».

A sinistra c’erano anche altri cantautori di riferimento.

«Stimavo molto Francesco De Gregori, Fabrizio De André, Franco Battiato. Ma la parola di Gaber aveva un’autenticità diversa perché era diretto, mescolava ironia e rabbia. Polli di allevamento fu una mazzata sui denti: ci aveva detto che eravamo passati da movimento a moda».

L’omologazione di Quando è moda è moda.

«Fu quasi un’offesa personale, la denuncia che tutto aveva preso un’altra piega. Come sarebbero andate le cose se avessimo ascoltato di più Gaber? Avremmo imparato a giudicare un’idea per quello che era a prescindere dalla sua provenienza di destra o di sinistra, senza essere ideologici».

In quella canzone denunciava i vezzi delle élite, «le parole nuove sempre più acculturate… che per uno di onesti sentimenti quando ve le sente in bocca avrebbe una gran voglia che vi saltassero i denti».

«Un testo attualissimo».

Facciamo che l’io del titolo del documentario sia lei: chi è Gaber per Riccardo Milani?

«Un uomo libero. Credo sia la definizione più giusta».

Gliene sottopongo altre: un grande anticonformista, un benefico scocciatore dell’anima, la coscienza critica della sinistra.

«Tutte hanno qualcosa di giusto. Gaber è stato anche un musicista, un cantante, un conduttore tv, un uomo di teatro che ha inventato un genere. Un grande intellettuale. Che sapeva essere al tempo stesso colto e pop, un passo avanti e un passo indietro».

Il noi del titolo chi rappresenta?

«Tutti noi che dobbiamo fare i conti con lui. Le persone che poi ho incontrato nel mondo della tv, del cinema, del teatro e della politica. È un resoconto che possiamo fare adesso, per capire come il nostro Paese si è trasformato e si sono avverate certe sue previsioni».

Tipo il rimescolamento di destra e sinistra?

«Alcune abitudini che nella sua famosa canzone erano prettamente di destra sono diventate di sinistra e viceversa. Oggi il culatello è consumato anche a sinistra».

Il documentario rischia di mettergli il timbrarlo come uomo della sinistra?

«Non direi. È un lavoro attraverso il quale la sinistra può confrontarsi con lui e rivedere la propria evoluzione».

Ci sono Michele Serra, Fabio Fazio, Ivano Fossati, Claudio Bisio, Pierluigi Bersani, Mario Capanna, naturalmente Sandro Luporini…

«Tutte persone che si misurano con loro stesse e gli errori del passato».

Non ho notato grandi autocritiche.

«Già allora Gaber poteva farci aprire gli occhi. Adesso Fazio ammette che era ridicolo dividere il mondo in due e forse all’epoca non lo pensava. Poi ci sono lo sguardo di un cattolico come Massimo Bernardini, il pensiero di Paolo Dal Bon, Mogol che ricorda che quei militanti fecero piangere De Gregori…».

Mogol non fa autocritica da sinistra.

«Lui e Battisti erano etichettati come fascisti solo perché non facevano canzoni impegnate. Erano anni di follia generale. Io l’ho voluto dire nel cinema, ma vale per la musica, il teatro: la qualità di un prodotto si valuta senza affibbiare etichette».

Qual è il lascito di Gaber?

«Forse la critica al consumismo non legato all’essenziale. La difficoltà della generazione dei padri di trasmettere a quella successiva questa autenticità. E poi l’invito a non delegare, la famosa partecipazione, e ad avere un’identità forte».

Ma la sua generazione ha perso o no?

«Penso che da allora alcune istanze giuste siano arrivate. Se guardiamo alla società di oggi non possiamo non vedere una forte deriva consumistica».

Il lascito può essere anche il primato della sfera esistenziale su quella politica? È la persona nella sua totalità a giudicare anche la politica e non il contrario?

«Ho sempre pensato che nella sfera esistenziale ci dev’essere anche la politica. Viviamo in una comunità. Gaber metteva in guardia dal delegare troppo. Fino a qualche anno fa i votanti erano il 75%, ora siamo al 50%. Cioè, c’è un 25% che non esercita più nemmeno una sana delega».

Quali sono le sue tre canzoni preferite?

«C’è solo la strada, Quando è moda è moda e La libertà».

Ce n’è una o un verso che l’ha ferito di più?

«Mi ripeto “la strada è l’unica salvezza”. Penso che oggi sia fondamentale vivere la società in cui siamo in modo non personalistico, intimistico».

Da lunedì il suo documentario contenderà gli spettatori a C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi in vetta al botteghino.

«Ma nooo».

Certo, non ci può essere gara… Vi aspettavate questo successo o vi ha sorpreso?

«Paola è molto stupita e io sono molto felice per lei. Per il cinema italiano è qualcosa di importante. Il valore di un film è anche l’impatto che ha sul pubblico in un preciso momento. Il fatto che alla fine della proiezione il pubblico applauda in modo spontaneo significa che il film riaccende una scintilla di senso civico, rimasta sopita in molti di noi».

Paola ha recitato in alcuni suoi film: che esperienza è dirigere la propria moglie?

«Non so cosa dire, mi piace molto come attrice perché sa essere tante cose e arrivare al cuore e alla mente delle persone».

Aveva intravisto il suo talento di regista?

«Sì, avevo intuito che è in grado di dirigere un film. E che ha la cifra per parlare a un pubblico trasversale, di bambini e adulti».

Possiamo dire che difficilmente non vi portate il lavoro a casa?

«Invece possiamo dire che molto facilmente non ce lo portiamo. Non frequentiamo feste, terrazze e salotti. Andiamo alle anteprime solo degli amici e a teatro paghiamo il biglietto».

Le avrà chiesto consigli per la regia.

«Zero, non ho voluto sapere nulla. Quando abbiamo fatto film insieme ha visto sul set come lavoravo, stop. Così avrà fatto anche con gli altri registi con cui ha lavorato».

Non le ha chiesto faccio così o colà?

«Non sapevo nemmeno la storia, salvo che era in costume. Ho visto il film finito».

Stento a crederlo. Il successo di questo film dà ragione a Pierfrancesco Favino quando dice che dobbiamo credere di più nelle storie italiane interpretate da italiani?

«Ho sempre pensato che dall’estero arrivano grandi film, ma anche film brutti e sopravvalutati. La scelta degli attori dipende dai produttori e dai registi. Pierfrancesco ha fatto bene a porre un problema d’identità, invitando ad avere maggiore attenzione per la nostra creatività».

Che cosa pensa dei finanziamenti del ministero dei Beni culturali al nostro cinema?

«Penso che sanità, istruzione, ricerca e cultura siano i pilastri portanti di ogni Paese civile. Il cinema appartiene al nostro patrimonio e va trattato come tale. Poi è possibile che negli anni scorsi qualche errore sia stato commesso e qualche finanziamento sia stato sbagliato. Una volta individuate, le distorsioni vanno eliminate».

In un momento come questo converrebbe ridurre le produzioni e concentrare le risorse?

«Dev’esserci spazio anche per chi il cinema deve rinnovarlo. È giusto investire nel futuro. Altra cosa è disperdere le risorse in tanti film che incassano pochissimo. A volte si promuovono prodotti che un pubblico non l’avranno mai».

O hanno 29 spettatori in sala.

«Magari poi si riscattano sulle piattaforme. Bisogna individuare gli sprechi e anche qualche errore consapevole».

Il cinema italiano è autoreferenziale, espressione di un ristretto circolo di registi, registe, attori e attrici?

«Non lo so. Non ho mai fatto parte di nessun circolo. Amo il mio mestiere cercando di raccontare storie che trovino il pubblico. Qualità vuol dire anche essere popolari. L’autorialità a tutti i costi può rivelarsi dannosa».

Ha già in mente il suo prossimo lavoro?

«Sto montando il film con Antonio Albanese e Virginia Raffaele che uscirà a gennaio e s’intitola Un mondo a parte».

Quale sarebbe questo mondo?

«Un minuscolo paesino di montagna».

Gaber cantava: «Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva,
la pittura lo esigeva, la letteratura anche: lo esigevano tutti». Sbagliava?

«Non sbagliava. Penso che la qualità di un film non dipenda dall’appartenenza politica di chi lo realizza. Purtroppo ci sono stati anni in cui il cinema è stato giudicato con questo parametro. Ed è stato un errore».

 

La Verità, 4 novembre 2023

 

 

 

«L’islam conquista l’Europa con migranti e natalità»

Giornalista del Foglio, già collaboratore del Jerusalem Post e del Wall Street Journal, autore di saggi sulle religioni del Medio Oriente, Israele e mondo arabo, Giulio Meotti è uno dei maggiori esperti italiani di islam.

Il suo ultimo libro pubblicato da Cantagalli s’intitola La dolce conquista, sottotitolo: l’Europa si arrende all’islam. Perché sarebbe dolce questa conquista?

«Perché è più pericolosa delle bombe e delle uccisioni, ce ne sono state tante con centinaia di morti».

Sembra un controsenso.

«È più pericolosa perché non provoca una reazione dell’opinione pubblica e di coloro che dovrebbero proteggerci».

La dolcezza risalta a confronto con i precedenti tentativi di conquiste, quella dei Mori della Spagna, e quella dei Turchi passando dai Balcani?

«In parte sì. Il grande islamologo e arabista Bernard Lewis diceva che questa è la “terza conquista”, dopo che i musulmani sono stati fermati a Poitiers e alle porte di Vienna».

Di quali mezzi si serve?

«Della demografia perché il tasso di fertilità è di gran lunga superiore al nostro, dell’immigrazione e della dawa, che è la predicazione attraverso le moschee e la proliferazione dei simboli islamici».

È più l’Europa che si arrende o la religione islamica che è aggressiva?

«Un mix delle due cose. Da un lato c’è l’arrendevolezza dei politici europei e dall’altra la volontà di espansione che appartiene all’islam che, ricordiamolo, si distingue tra il dar al-islam, la terra dell’islam, e il dar al-harb, che è la terra della conquista, tutto ciò che non è islamico ma lo dovrà diventare».

Premesso che Francesco sottolinea che la missione si esprime attraverso il contagio, il proselitismo appartiene a tutte le religioni.

«Con la differenza che il cristianesimo nella vecchia Europa è in ritirata mentre l’islam è in una fase di grande avanzata. Il mix letale è scristianizzazione più islamizzazione».

Un travaso fra vasi comunicanti?

«A suo tempo il cardinal Giacomo Biffi disse che “l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà islamica”».

Sono proselitismi paragonabili?

«Non c’è nella storia dell’islam un Paese che si islamizza e preserva comunità religiose alternative. Nel più laico tra i paesi musulmani, la Turchia, gli ebrei sono una manciata e i cristiani stanno scomparendo».

Non ammettono la convivenza con altre confessioni?

«Boualem Sansal, autore di 2084. La fine del mondo, ha paragonato l’islamismo a un gas, “nel lungo periodo occupa tutto lo spazio”».

È corretto definire l’islam religione?

«Non è solo una religione, è un’ideologia e un modo legislativo di vivere: non bere alcolici, fai crescere la barba ma non i baffi, vela le donne. L’islam non ha capacità di separare il privato dal pubblico».

Prevede anche la poligamia, la guerra santa contro gli infedeli, l’assassinio degli apostati, la sottomissione delle donne?

«Nel Corano si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ma per come si è impostato nei secoli, l’islam è diventato una straordinaria macchina di conquista per cui, oggi, gli stessi musulmani sono oggetto di conquista. Lo vediamo in Europa dove le seconde e le terze generazioni sono più religiose dei loro padri».

In che senso?

«I padri sono venuti qui per lavorare alla Renault e alla Fiat e si sono laicizzati a contatto con le libertà e i diritti occidentali. Ora i figli si sono reislamizzati. Con l’affermazione degli ayatollah e dei Fratelli musulmani i giovani sono diventati oggetto di una nuova campagna di indottrinamento. Altrimenti come spiegarsi il fatto che, pur essendo in Occidente da decenni, ancora pensano al Profeta, al califfato, alla sharia?».

La jihad è solo un movimento religioso?

«Jihad significa sforzo quindi è anche militare ed economica. Lo si vede dall’esplosione del mercato halal, i ristoranti, i menù nelle mense, le catene alimentari, i pellegrinaggi organizzati dall’Europa verso La Mecca. E poi dalla quantità di denaro spaventoso che Qatar, Arabia saudita e Turchia investono in Europa».

Però esiste anche un islam moderato.

«Esistono i musulmani moderati, persone che vogliono vivere la loro vita in mezzo a noi, che non hanno in testa la guerra santa o la sottomissione. Ma guardando ai grandi poli dell’islam mondiale, cioè l’Arabia saudita, l’Iran, il Qatar, il Pakistan, la Turchia e i Fratelli musulmani non esiste una corrente che abbia fatto la riforma. Cioè, reinterpretato il Corano nel presente. Anche perché, per loro, il Corano è stato dettato da Allah e quindi va applicato letteralmente».

L’islam moderato conta poco?

«Il grande studioso Rémi Brague ha detto: “L’islamismo è un islam che ha fretta”. I musulmani moderati sono singole persone».

Tra queste Pietrangelo Buttafuoco, appena designato alla presidenza della Biennale di Venezia.

«È una persona che stimo, con cui ho lavorato per tanti anni al Foglio. La sua non è una conversione militante».

Ci sono margini per una convivenza armonica?

«Sì, se l’Occidente si fa rispettare e pone delle condizioni. La prima è che l’Europa è giudaico-cristiana. La seconda è che gli islamici accettino che la libertà di pensiero e di parola è un diritto sacrosanto. E la terza che la donna e l’uomo sono uguali».

Pensa che integrazione e multiculturalismo siano utopie?

«Lo ha detto Angela Merkel: “Il multiculturalismo è fallito”».

In cifre come si può quantificare questa espansione?

«Bruxelles, la capitale dell’Unione europea, è per il 30% islamica, con vere e proprie enclavi dove si arriva al 50%. Birmingham, la seconda città britannica, ha il 30% di cittadini musulmani. Le grandi città francesi, da Marsiglia a Lione, hanno comunità dal 30 al 40% di cittadini islamici. È possibile che nel giro di una generazione i musulmani saranno la maggioranza».

Cosa significa che in Gran Bretagna città come Londra, Birmingham, Leeds, Sheffield, Oxford e altre hanno sindaci musulmani nonostante la Brexit?

«Significa che hanno rinunciato all’operaio polacco per avere quello pakistano. Con la Brexit si sono sparati sui piedi, fermando i flussi dall’Est Europa e aumentando quelli dall’Asia. Gli unici Paesi che sono riusciti a fermare un po’ questa conquista, un po’ perché sono meno attraenti e un po’ perché hanno un’identità più forte, sono i Paesi dell’Est europeo».

Quanto concorre l’arrendevolezza della nostra civiltà a questa espansione?

«Per una buona parte, ma dobbiamo distinguere due categorie. I fifoni, che sono atterriti e intimoriti, ma sanno cosa c’è dietro questa strategia. E i collaborazionisti. Coloro che si sono prestati in cambio di voti a fare il gioco del cavallo di Troia dell’islam politico. Il partito socialista belga non esisterebbe oggi senza il voto degli immigrati».

Esempi di collaborazionismo italiani?

«Se fossi un esponente della sinistra, farei mio il progetto vincente del voto di scambio del partito socialista belga. In Francia Jean-Luc Mélenchon per non alienarsi l’80% del voto islamico difende i veli e non critica l’attacco di Hamas».

Prima accennava all’influenza dell’Arabia saudita e del Qatar.

«L’Arabia saudita è stata decisiva dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila e le grandi moschee di Roma, Bruxelles e Madrid sono tutte saudite. Dopo sono arrivati il Qatar e la Turchia, che oggi sono i costruttori delle moschee con i minareti in tutta Europa».

Con la forza del denaro.

«In Francia, dove ogni due settimane circa apre una nuova moschea, arrivano i soldi del Qatar attraverso le sue ong. Ma avviene così anche in Italia».

L’islam politico si è alleato con la cultura di sinistra attraverso l’ideologia green e Lgbtq?

«È riuscito a fare sue le parole d’ordine del progressismo: diversità, antirazzismo e lotta alla cosiddetta islamofobia».

Ma il movimento arcobaleno è agli antipodi dell’islam.

«Gli attivisti arcobaleno sono come i tacchini che festeggiano il giorno del ringraziamento. Infatti, siamo alla resa dei conti. In Belgio la sinistra ha portato il gender in tutte le scuole e i fondamentalisti islamici sono scesi in piazza a protestare anche con metodi aggressivi».

La cancel culture favorisce questa conquista?

«Prepara il terreno creando una società gelatinosa, senza storia e identità, perfetta per realizzare la sostituzione di civiltà. In Gran Bretagna, hanno abbattuto decine di statue di personaggi storici e a Birmingham hanno appena eretto una grande statua di una donna velata».

Perché ogni anno di questi tempi spunta qualche ente che vuole obliterare il Natale cristiano?

«Quest’anno tocca all’Istituto europeo di Fiesole. L’Europa è una società in metastasi, quasi masochista nell’automutilazione: non ho mai sentito i musulmani lamentarsi per il Natale».

Come valuta il magistero di Francesco?

«È il grande Papa post europeo. Dopo Benedetto XVI che ha provato a salvare l’Europa da sé stessa, è arrivato il Papa che dice che l’Occidente è fili spinati e schiavitù. Quindi è come se per lui l’Europa continente cristiano non fosse da preservare».

Come incidono in questo scenario i movimenti migratori?

«Persino Jacques Attali che è il grande intellettuale globalista di Emmanuel Macron ha detto che l’Europa è un colabrodo. Che altro vogliamo aggiungere».

Ora la guerra in Israele renderà tutto tremendamente più complicato.

«Favorisce il grande risveglio della coscienza islamica che, ricordiamo, è una umma, una comunità di 1,5 miliardi di fedeli che non sono divisi in Stati-nazione. La causa palestinese è il grande afrodisiaco dell’islam».

Si risveglia anche l’alleanza con la sinistra?

«La sinistra alimenta manifestazioni all’insegna di “Allah akbar”, “morte agli ebrei” e “Palestina libera”. La più grande strage di ebrei dopo la Seconda guerra mondiale ha dato vita alla più grande esplosione di antisemitismo in Europa».

Senza dimenticare le responsabilità di Israele.

«Ci sono in tutti i conflitti. Non vedo armeni accoltellare azeri, o ciprioti del sud accoltellare ciprioti del nord».

Il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha detto che gli attacchi di Hamas non sono nati dal nulla.

«L’Onu è diventato il teatro dell’assurdo di Ionesco per cui i grandi regimi della terra lo usano in nome dei diritti umani per imporre la loro visione del mondo».

Perché grande sostituzione e sostituzione etnica sono espressioni tabù?

«Perché sembrano preconizzare un complotto, mentre indicano un fatto della vita dei popoli europei di oggi. E perché siamo degli struzzi che non vogliono capire che se cambia la popolazione di un Paese cambia anche la sua cultura. Per quanto abbiano tutti gli stessi diritti, gli esseri umani non sono intercambiabili».

 

La Verità, 28 ottobre 2023

«La surrogata sdogana il nuovo schiavismo»

Femminista storica sebbene abbia frequentato le scuole delle suore Orsoline, già regista nella casa di produzione del Pci e fondatrice del collettivo Studio Ripetta di Roma, scrittrice e autrice di Basta lacrime. Storia politica di una femminista 1995-2020 (Vanda edizioni), Alessandra Bocchetti, esponente del «femminismo della differenza» è delusa dalla sinistra, Pd compreso, per l’ambiguità in tema di maternità surrogata e diritti civili: «Il mercato dei corpi», dice, «un tempo si chiamava schiavismo».

Alessandra Bocchetti, che cos’è il femminismo della differenza?

«È un femminismo che crede profondamente che una donna sia differente da un uomo per il corpo, per la sua esperienza e per la sua storia, di uguale uomini e donne hanno solo la dignità che spetta a tutti coloro che condividono la vita su questa terra, compresi gli animali. Con la coscienza della propria differenza la donna non è più a fianco dell’uomo ma di fronte. Uomini e donne si guardano finalmente, da questo si dovrà lavorare per un modo nuovo di stare insieme per governare i beni comuni. A questo cambiamento lavora il femminismo della differenza».

In che cosa si diversifica da altre correnti femministe?

«Adesso si dice che ci sono tanti femminismi… che vuole che le dica… Senza l’idea di differenza, per me, non è dato femminismo. Comunque si, c’è il femminismo della parità, quello che io chiamo femminismo di Stato. Il cui punto di arrivo è fare avere alle donne quello che hanno già gli uomini. Questo femminismo vuole riparare un’ingiustizia ma là si ferma. È un progetto corto. Sinceramente, io voglio di più e meglio di quanto ha un uomo oggi e non do affatto valore ai privilegi di cui ancora gode, anzi. E poi ci sono i femminismi delle giovani donne con uomini accanto, e questi mi sembra che prendano energia e senso soprattutto dall’essere antagonisti, essere contro. Manca, a mio avviso l’idea di governo, manca un progetto. E poi c’è il transfemminismo, che guardo con stupore, dove quello che le donne possono fare non si deve nominare. Non si può parlare di partorire, di mestruazioni, di allattamento perché se no sei discriminante e poco accogliente. Fatto sta che il risultato è non nominare quello che un uomo non può fare. E l’uomo, con il suo corpo chiuso, resta la misura. Questo trovo sia il patriarcato peggiore, quello che buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché la sua verità è che le donne, quelle biologiche, le vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, definitivamente».

Molte sigle del femminismo internazionale hanno accolto con favore la proposta di legge di Fratelli d’Italia di proclamare il ricorso all’utero in affitto reato universale, lei che cosa ne pensa?

«Ho poca dimestichezza con le leggi. Su questa proposta se ne dicono tante: che non si può fare, che è anticostituzionale, che è ridicola… Per quanto mi riguarda mettiamola così: non vorrei che in nessuna parte del mondo una donna fosse costretta a fare del suo corpo un contenitore di figli altrui. E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri».

Come valuta il fatto che i partiti di sinistra e il Pd in particolare con una segretaria donna abbiano una posizione poco chiara su questi temi?

«Sinceramente non me lo spiego. Non riconosco la mia sinistra e non mi spiego come possa una femminista essere favorevole alla maternità surrogata. Senta, io sono stata comunista e ancora oggi penso che il comunismo abbia fallito non perché fosse una cattiva idea, ma perché era un’idea troppo alta, troppo nobile per il cuore umano, che nobile non è. Non siamo stati capaci di costruire una società dove tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno senza sfruttare nessuno, ne credo lo saremo mai e me ne rammarico. Ero una ragazza borghese, educata dalle orsoline fino a diciotto anni. Mi sono iscritta alla cellula della facoltà di lettere, perché mi era insopportabile l’idea dello sfruttamento dei corpi, del lavoro alla catena di montaggio. Sono scesa in piazza per il corpo dei metalmeccanici contro il lavoro alienante della fabbrica. Vuole che io possa essere favorevole all’utero in affitto? Esiste lavoro più alienato? Una donna che per bisogno mette a disposizione di coppie danarose il suo corpo, che convive per nove mesi, sentendolo crescere dentro di sé, con un perfetto sconosciuto – e guai se non fosse così – uno sconosciuto che non ha di suo neanche mezzo gamete e per questo lei deve essere imbottita di ormoni, per scongiurarne il rigetto, per tutto il tempo della gravidanza, ormoni, si sa, altamente cancerogeni. A lei mi dicono, arriveranno tra i 15 e i 20.000 euro, per i più cinici basta fare i conti, per nove mesi, 24 ore su 24: una miseria. Tutta l’impresa invece costerà circa duecentomila euro se non di più, soldi che finiranno in altre tasche. Ma non è questo il punto. Si fa mercato. C’è un contratto. Che invenzione il contratto, una vera magica potenza che può rendere lecito ciò che lecito non è. Ma quando si fa mercato di corpi, di cosa si tratta? Un tempo si chiamava schiavismo».

La soluzione potrebbe essere la Gpa solidale e altruistica ora promossa dalle famiglie arcobaleno? Si eliminerebbe il mercato…

«Non c’è che da leggere questa proposta con animo sereno. Il pagamento diventa “congruo compenso” e la povera donna rischia una mancia. Il mercato entra sempre, non si fa mettere da parte tanto facilmente. Di questi tempi l’interesse ha la meglio sui buoni sentimenti, ahimè, quasi sempre. Mi meraviglia che la Cgil caldeggi questa proposta, o forse no, non più di tanto, in fin dei conti la Cgil caldeggia anche la regolamentazione della prostituzione, altro bel lavoro alienato. È un lavoro come un altro, dicono. Ma allora è meglio farne un altro, dico io».

Perché ha suscitato scandalo l’impugnazione della Procura di Padova delle trascrizioni dei bambini figli di coppie composte da due mamme?

«L’impugnazione della Procura di Padova ha fatto scandalo perché se questo gesto non fosse tragico sarebbe ridicolo. Un risveglio improvviso della Procura, perfettamente a tempo con la discussione sulla gravidanza per altri come reato universale. Ai sindaci non era dato per legge trascrivere quegli atti di nascita con due genitori dello stesso sesso, lo hanno fatto lo stesso, chissà come gesto provocatorio, esemplare, coraggioso, gesto di sfida… Fatto sta che ne risulta un pasticcio che può provocare molto dolore. Personalmente, quando si fa politica sulla pelle della gente la politica mi fa orrore. La temo».

Di fronte alla decisione della Procura di Padova, facendo leva su un certo sentimentalismo, si è detto che si creano orfani per legge.

«Per far passare la maternità surrogata si mettono avanti i bambini e il loro già esserci, anche questo è puro cinismo. Ma questa strategia non riesce a farmi dimenticare chi questi bambini ha messo al mondo e in quali condizioni e perché. Si raccontano falsità su falsità, si tenta la via del patetismo. Non è vero che l’aspirante genitore non possa andare a prendere i bambini a scuola, basta un permesso e così per le visite in ospedale. È falso che i bambini con un genitore non abbiano diritto al pediatra, al rimborso delle medicine, alla scuola. Ma di una cosa questi bambini avranno sicuramente bisogno forse più degli altri, avranno bisogno di un amore speciale, che dia loro la certezza di essere ben accolti. Sarà duro per loro il racconto della nascita, racconto che spesso i bambini chiedono, una nascita “scomposta” fra due o tre soggetti attivi e diversi: ovulo, seme, utero, impossibili riunirli in una prossimità e la prossimità per un bambino è un grande valore».

La sentenza della Cassazione del dicembre scorso prevede in questi casi l’adozione in casi particolari: perché non va bene?

«La strada c’è ed è quella dell’adozione. Il genitore non biologico deve adottare, solo che la procedura per farlo è troppo lenta, come sempre e come tutto in questo Paese, e anche poliziesca per di più. L’aspirante genitore viene trattato come un indiziato e questo non va bene. Tutto questo deve essere semplificato, velocizzato e fatto con serenità».

Perché i genitori arcobaleno non accettano di percorrere questa strada e provano a mettere sotto accusa l’ordinamento italiano strappando dalla Corte europea, che per altro lo ha negato, il consenso alle trascrizioni e la liberatoria per la surrogazione?

«Perché il movimento ha scelto un confronto duro».

Ideologico, quindi?

«Assolutamente sì, non c’è nulla di nuovo. Arrivano a rifiutare l’adozione perché hanno scelto una linea dura. Non c’è altro da dire».

Ma così non si va da nessuna parte.

«Esatto».

La proposta della ministra Eugenia Roccella di applicare una sanatoria per i bambini nati con la maternità surrogata rischia di indebolire la proclamazione dell’utero in affitto reato universale?

«È una possibile mediazione, ma sono perplessa anch’io. L’iniziativa della sanatoria non mi convince, ma d’altra parte è necessario trovare una soluzione. Non so se lo sia la sanatoria. Ci troviamo in una situazione nella quale il movimento arcobaleno ha scelto una posizione rigida, non accettando nemmeno la stepchild adoption».

Come, a suo avviso, si potrà arrivare a una sintesi accettata dalla maggioranza dell’opinione pubblica su questi temi?

«La madre è una sola, è quella che ti ha fatto nascere, è quella che ha pronunciato quel sì necessario ad aprirti le porte del mondo. È quella da cui sempre ti aspetti il bene, anche se la odi, e se il bene non arriva, perché può succedere, allora sono guai per te e per la società dove vivi, probabilmente porterai la tua ferita per tutta la vita. Un tempo le donne facevano figli anche quando non volevano. Ma adesso, che le donne sono libere, per entrare nel mondo ci vuole il loro “sì”. Difficile cancellare la madre, essere due in un corpo solo lascia tracce indelebili. Due donne che vogliono essere madri dei figli che solo una di loro ha partorito, non mi spaventa, perché le donne sanno amare. Solo auguro loro che il loro amore reciproco sia durevole. Mi spaventa invece quando due uomini vogliono essere padri dei loro figli senza madre. Sono sincera. Temo che non basti entrare in sala parto e farsi mettere il bambino sul petto. Non basta rubare la scena per cancellare la madre. Che potrà succedere quando verrai a sapere che quel suo “sì” è stato pagato?».

 

La Verità, 24 giugno 2023

«La sinistra non propone nulla, sa solo dire no»

Due anni e mezzo fa, dopo un periodo di penombra da pensatoio, Marcello Pera aveva ritrovato visibilità e attenzione dei media. Ma quando lo intervistai chiedendogli se, di fronte allo stato dell’Italia, si sentiva come il poliziotto richiamato dalla pensione per risolvere un caso disperato, abbozzò: «Non sto rientrando in politica», disse. Invece, ora l’ex presidente del Senato, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo, siede a Palazzo Madama nelle file di Fratelli d’Italia. «Sì, ha avuto ragione lei», concede. «Solo sul fatto che fossi in pensione non ce l’aveva. In questi anni mi sono dedicato a studiare la riforma dello Stato, un tema che mi sta a cuore».

Dopo il confronto fra la premier e le opposizioni di qualche giorno fa, come procede la riflessione su presidenzialismo o cancellierato?

«Ho visto che proseguono le audizioni per iniziativa di Giorgia Meloni al fine di trovare un testo condiviso. Mi auguro che quanto prima lo si trovi».

Se oggi dovesse tenere il discorso sullo stato dell’unione dell’Italia che immagine userebbe?

«L’immagine positiva di un Paese che sta crescendo e che ha voglia di lavorare».

Qualcuno ha parlato di un Paese infiammato, in preda a un’infezione.

«Non vedo niente di tutto questo. Vedo invece una presidente del Consiglio sempre più autorevole, in Italia e fuori. Poi c’è la contestazione della sinistra che continuando ad agitare la bandiera scolorita dell’antifascismo si mostra incapace d’immaginare un programma di governo. Perciò cerca ogni occasione per innescare una manifestazione di protesta o l’altra. È la dimostrazione di grande debolezza».

Questa infiammazione viene accesa da chi paventa il pericolo del ritorno del fascismo?

«È un’arma sempre più spuntata. Quando la premier va in giro per il mondo e in Europa nessuno si attarda su questi problemi di retroguardia».

L’ultimo appiglio è la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia perché ritratta in una fotografia con un condannato per la strage di Bologna.

«È il tentativo di trasformare un piccolo caso nella dimostrazione di un teorema. A che serve una polemica che dura un giorno?».

È soprattutto il mondo intellettuale a ribadire queste accuse?

«Trovo che il mondo intellettuale di sinistra sia pigro, incapace di produrre idee nuove e invece molto ripetitivo di formule e parole d’ordine che non hanno seguito nella società civile. Nessuno in Italia si infiamma per la rinascita del fascismo. Ci sono temi ben più concreti. Per esempio, qualche giorno fa al Senato si è parlato del ponte sullo stretto di Messina e mi chiedo come il Pd abbia potuto votare contro una struttura che modernizza e unifica il Paese, liberando la Sicilia dalla condizione insulare».

Qualche esponente istituzionale come il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano o il presidente del Senato Ignazio La Russa potrebbe essere più misurato nelle sue esternazioni?

«Probabilmente sì. È anche vero che, insomma, sono persone sempre attese al varco e qualsiasi espressione usino viene sezionata e utilizzata per altri fini. Nelle sue iniziative, il ministro Sangiuliano si mostra sempre aperto alla discussione e non fazioso».

Sembra anche a lei che il conflitto sia più acceso sul terreno della cultura e dell’antropologia che su quello dell’attività di governo in senso stretto?

«Tra i due schieramenti ci sono differenze culturali e politiche non sanabili in materia di legislazione etica, sulla quale il governo pone giustamente dei confini che non possono essere superati. La ministra Eugenia Roccella fa bene a insistere su questo punto: un governo conservatore non può violare i principi della tradizione. Di più: non usare gli altri come mezzo di soddisfazione dei propri desideri è un principio laico. Che, nel caso della pratica dell’utero in affitto, viene palesemente violato dalla trasformazione delle donne in incubatrici».

Il dibattito non avviene in Parlamento perché la maggioranza è blindata e l’opposizione manca di leader all’altezza?

«L’opposizione mostra di non avere progetti concreti alternativi. Salvo alcuni no pregiudiziali, nulla viene elaborato e portato in Parlamento dalla sinistra. L’esempio più macroscopico è quello delle riforme istituzionali. Sulle quali il Pd è arretrato anche rispetto alle stesse posizioni del suo recente passato. È come se rinnegasse la necessità di fare queste riforme e avesse scelto come unica alternativa il dire no».

Come giudica la novità rappresentata da Elly Schlein?

«Personalmente trovo che questa novità non sia ancora sbocciata. Non si sia palesata. Non ho capito a che tipo di partito Elly Schlein stia lavorando. Ridurlo alle battaglie per i diritti delle minoranze, al gender, le famiglie arcobaleno e la maternità surrogata mi sembra troppo poco per un partito di opposizione di tradizione socialista. Davvero troppo poco».

Le è piaciuto il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni?

«Sì, mi è piaciuto. Ma mi ha anche un po’ stupito perché Mattarella ha parlato di diritti individuali diversi dai diritti delle etnie, cioè comunitari o sociali. Questa è una tipica e classica posizione liberale, che stavolta ho sentito propugnare da un uomo di cultura cattolica».

L’autore dei Promessi sposi era contrario alla difesa delle radici e della nazione?

«Non credo, è uno dei padri del Risorgimento italiano. Quindi, come per Manzoni anche per altre figure dell’epoca, la nazione e la patria erano punti fermi irrinunciabili».

In Marzo 1821 l’Italia è vista «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

«È l’elogio della patria, madre di tutti gli italiani. L’elogio della nazione italica, un tipico concetto risorgimentale».

La parola tabù è «etnia». Si può difendere la propria identità senza che significhi propugnare «una supremazia basata sulla razza»?

«Sarebbe come dire che una persona che ami la patria e sia perciò un patriota sia necessariamente un suprematista. Non è così. La parola etnia fa riferimento alla storia. Non c’è nulla che riguardi la razza. È come quando, per esempio, si parla, con espressione analoga, di genio italico. È un modo di far riferimento alla caratteristica di un popolo».

Perché parlando di cucina, di ristoranti, di musica, persino di arredamento, l’aggettivo etnico rappresenta un valore aggiunto?

«Perché indica la ricchezza di elementi che qualificano le specificità di un popolo che non hanno nulla di negativo in sé. Tuttavia, come accade, se si parte dal presupposto che una data persona è fascista, qualsiasi espressione usi se ne trova la conferma. Alla fine osservo che la discussione su questi temi è così misera da interessare solo qualche personaggio di bassa levatura».

L’infiammazione diffusa nell’organismo del nostro Paese attraversa le piazze e le istituzioni culturali. Che cosa pensa delle proteste dei giovani di Ultima generazione?

«Sono manifestazioni assai minoritarie che ci sono sempre state ora su un tema ora su un altro. Salvo condannarne le modalità e perseguire i reati quando siano commessi, il resto lo lascerei perdere».

Anche la discussione sulle cause dell’alluvione ha un retroterra ideologico: da una parte ci sarebbe il cambiamento climatico dall’altra l’incuria del territorio.

«È così. In molti dibattiti vedo più ideologia che scienza. Su questi argomenti sappiamo molto poco e tanti scienziati seri come il professor Franco Prodi si affannano a dire che non abbiamo evidenze specifiche forti. Purtroppo questo messaggio di prudenza scientifica non passa perché l’ideologia è prevalente. Oggi l’ecologia è una nuova religione, un atto di fede».

Un altro fronte è la protesta contro il caro affitti condotta dai giovani delle tende. Con i precedenti governi gli affitti erano a buon mercato?

«Non lo erano neanche allora e le famiglie si sono sempre arrangiate. I costi degli affitti per gli studenti sono un oggettivo problema delle nostre università. Occorrerebbero atenei con degli alloggi, ma questo desiderio si scontra con il fatto che le nostre università costano poco e non offrono molto in termini di servizi».

La contestazione di una trentina di attivisti ha impedito di presentare un libro al Salone del libro, il bellissimo Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, ma si ripete che il governo non tollera il dissenso.

«Cosa del tutto falsa, perché il ministro Roccella è persona preparata e che merita rispetto soprattutto quando espone le sue idee e chiede un confronto. In quell’occasione un gruppo minoritario e senza particolare valore ha rifiutato di confrontarsi. Ancora una volta mi hanno stupito quelle forze politiche che hanno utilizzato ciò che è avvenuto per dimostrare la natura fascista del governo. Eugenia Roccella porta un messaggio molto semplice e condiviso anche dai laici, e cioè che le donne dovrebbero essere rispettate e non usate».

La mancanza di tolleranza del dissenso da parte del governo sarebbe dimostrata dal tentativo di rimpiazzare l’egemonia culturale della sinistra.

«Se così fosse sarebbe un’operazione legittima, non vedo perché l’egemonia debba essere solo di sinistra. Ma anche in questo caso si ripropone il pregiudizio, ovvero che l’intellighenzia e la cultura siano solo di sinistra. Questo è un paradosso però, perché se sei un uomo di cultura non dovresti sottrarti al dibattito come ha proposto la Roccella».

Si riferisce all’intervento del direttore del Salone Nicola Lagioia?

«Si è comportato in maniera ambigua. Poteva essere più coraggioso e sentire meno il fiato che ha sul collo della cultura di sinistra di riferimento».

Lo spoil system e le nomine in Rai sono un modo per affermare questa nuova egemonia?

«Avevo ancora i pantaloni corti che già si parlava di spoil system».

L’attuale squadra di governo è in grado di reggere culturalmente questo tipo di conflitti?

«Suggerirei all’attuale classe di governo di essere più consapevole di sé e più coraggiosa. Bisogna elaborare posizioni e difenderle. Soprattutto liberarsi dall’idea, che è solo italiana, per cui essere conservatori equivale a essere nostalgici. Talvolta ho l’impressione che anche nell’ambito della destra quando si parla di cultura si individuino figure degne solo tra gli intellettuali di sinistra. E questo è un errore perché è falso».

 

La Verità, 27 maggio 2023

 

 

Vogue, il cinema: la sinistra si rifugia nell’immaginario

Ha ragione Carlo Freccero nella sua riflessione su Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti pubblicata da Dagospia: la sinistra ha perso, il cinema ha vinto. O forse pareggiato. Detta in sintesi, tralasciando tutto l’armamentario morettiano di canzoni canticchiate in auto, di tic linguistici, di mini lectio magistralis sul cinema (la lunga citazione di Breve film sull’uccidere di Krzystzof Kieslowski) è questa la tesi dell’ex direttore di Rai 2. Ma è chiaro che si tratta di una vittoria consolatoria, ecco perché, in sostanza, di un pareggio. Cioè, di una fuga, una ribellione, un rifiuto della realtà che solo il cinema può permettere. In qualche modo, lo aveva teorizzato Bernardo Bertolucci riproposto dal suo allievo più fedele, il Luca Guadagnino di Chiamami col tuo nome e la serie We are who we are, capisaldi della gettonatissima cinematografia woke, in un’intervista concessa a Marco Giusti: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Ecco, c’è tutto: il motore, la sorgente dell’arte non è la realtà, ma il cinema stesso. È così anche in quest’ultima prova dell’autore di Caro diario.

Come sottolineato dai critici più accorti, l’ispirazione del Sol dell’avvenire è 8 e ½ di Federico Fellini. Anche qui il protagonista è un regista in crisi che stenta a trovare il bandolo. Ma nel lavoro del più autarchico dei nostri cineasti, l’autoreferenzialità si dispiega in tutta la sua potenza, dalla voce monocorde ed esortativa che abbiamo imparato a conoscere con Michele Apicella, alle ridondanze della propria filmografia (il giro per il quartiere Prati in monopattino, il pallone calciato verso il cielo, le comparsate amichettistiche, l’amore per i dolci, la pallanuoto, i sabot…). Tuttavia, ciò che più conta è la ribellione, l’insurrezione ideologica: «La storia non si fa con i se… e chi l’ha detto?». È il punto di svolta del film. Freccero cita il Giorgio Gaber di «La mia generazione ha perso», ma Moretti non ci vuole stare, e con lui il suo alter ego, il regista che sta girando un film sulla storia della sinistra, quella nella quale per un certo periodo il Moretti militante, il Moretti cittadino, provò a entrare con i girotondi: «Con questi leader non vinceremo mai». La stessa sinistra su cui si era macerato in Palombella rossa e Aprile: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra». A Fabio Fazio che gli chiedeva se pronuncerebbe di nuovo quella frase, il regista ha risposto: «Sudo, sudo». Nel Sol dell’Avvenire c’è questo sudore, questo impaccio. Come sarebbe stata diversa la storia se, nel 1956, al momento dell’invasione di Budapest, i dirigenti del Pci si fossero ribellati all’Orso sovietico. Se avessero tirato su la testa, rifiutato di allinearsi, stracciato l’acquiescenza. Tutto sarebbe andato diversamente e il mondo progressista sarebbe andato incontro al futuro radioso rappresentato dal Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo con tutti i suoi attori sorridenti, inebriati, sognanti, estasiati.

Non è andata così e non è un dettaglio. Un’oligarchia si era già impadronita dei sogni di riscatto del proletariato. E, nonostante il revisionismo cinematografico di Moretti (e del Veltroni di Quando), il Pci obbediva alla nomenklatura del Cremlino. Per definire l’epopea sovietica di quegli anni non va scordato che al sostantivo «socialismo» si abbinava l’aggettivo «reale». I sogni stanno a zero. Non è la sinistra ad avere perso, ma la realtà. Dodici anni dopo l’invasione di Budapest altri carri armati invasero Praga per stroncare la Primavera di Dubcek. E fu in seguito a quella repressione che Jan Palach scelse di immolarsi davanti alla statua di San Venceslao.

Se la realtà fa obiezione non resta che rifugiarsi nel cinema. Anche in Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores c’è un regista in crisi (interpretato da Toni Servillo). Si fa cinema sul cinema. O televisione sul cinema. Come in Call my agent, la serie imperniata su un’agenzia alle prese con i tic e le ossessioni degli attori. Il cinema è la bolla della realtà, nella quale si può dar libero sfogo all’invenzione. «Il cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale», scrive Freccero. E così può diventare il doppione riveduto e corretto della storia. Il luogo dei sogni, dell’utopia, dell’immaginario. La riserva nella quale metabolizzare le sconfitte. Si vive nell’immaginario e dell’immaginario. Lo si scambia, lo si confonde, con il reale. È così che si fa politica. È così che si fa comunicazione. È così che si mantiene l’egemonia. Quando Elly Schlein, che ha debuttato in società in una cena a casa Baglioni tra registi e cantautori, incarnando trent’anni dopo la trama della Terrazza di Ettore Scola, concede la sua prima intervista da segretaria del Pd a Vogue – non al Manifesto o a Repubblica o a Micromega (Rinascita chiuse nel 1991) – afferma ciò che è realmente. Delinea il suo universo di riferimento, le classi sociali a cui si rivolge, il suo modo di fare politica e di parlare a quella che considera la sinistra. Non c’è da scandalizzarsi per la frequentazione del lusso, né da stracciarsi l’eskimo in preda a rigurgiti novecenteschi e pauperistici. C’è solo da prendere atto che il cerchio si è chiuso. E che la simpatica Elly è diventata ciò che è: «un personaggio perfetto di un film di Guadagnino».

 

La Verità, 1 maggio 2023

«Sono impaziente, però dico sempre la verità»

È il Signornò della politica italiana. Mai che qualcosa gli vada bene, che gli si senta promuovere qualcuno o qualcosa. Nei talk sbuffa, manifesta insofferenza, tutti lo temono. In questa intervista con Panorama, Massimo Cacciari parla dei 100 giorni del governo Meloni, dello sprofondo del Pd, della Chiesa post-Ratzinger e dei giovani di Ultima generazione, bocciati anche loro come le sardine.

Professor Cacciari, è una mia impressione o è più critico con il Pd che con Giorgia Meloni?

È una sua impressione. Sul Pd ho critiche radicali, con la Meloni una distanza culturale complessiva, il che non significa che non sappia apprezzare il valore storico di una donna per la prima volta presidente del consiglio in Italia, e il valore della persona per avercela fatta.

Siamo arrivati a 100 giorni di governo, sta per finire la luna di miele con gli italiani?

Le lune di miele finiscono per legge di natura. La durata del governo dipenderà da come saprà affrontare i nodi della crisi, ben oltre la stessa finanziaria.

Le sembra che si pratichino troppe correzioni di rotta?

Rispetto alle promesse elettorali. Nella sostanza si procede sul «binario Draghi» – e si sapeva bene che non poteva essere diversamente. Su quei binari mi sembra si proceda con l’accelerato.

Sapersi correggere è anche una dimostrazione di forza?

Certamente sì. Ma, le ripeto, si è corretto ben poco. Sulle accise? Ma, appunto, ogni persona ragionevole sapeva già distinguere promesse da possibilità reali. Le vere questioni riguardano come «garantire« un debito che si aggrava di giorno in giorno, e come realizzare il Pnrr.

Perché c’è poca attenzione anche da parte delle opposizioni al Pnrr?

Perché neppure loro avrebbero saputo come portarlo avanti. Soprattutto per il Sud, dove andrebbero investite il 40% delle risorse messe a disposizione.

Pandemia, guerra in Ucraina, inquinamento e riscaldamento globale: si passa da un’emergenza all’altra?

È lo «stato dell’emergenza». Questa è la questione davvero epocale. Che mette in crisi i funzionamenti elementari dello Stato democratico. Tutto sembra avvenire, come per la pandemia, per cause «naturali» – e allora è necessario siano gli «scienziati» o i «competenti» a decidere, e che le decisioni siano rapidissime -così ogni confronto e discussione si trasformano in «perdita di tempo». La verità è che occorre reinventare la nostra democrazia. Meglio però far finta di nulla e sopravvivere, come fa la nostra politica.

Gli Stati nazionali decidono sempre meno?

Sopravvivono. Contano ancora, eccome, perché nessun organismo sovra-nazionale funziona davvero, a partire dall’Onu. Ma sulle questioni globali e di fronte allo strapotere delle multinazionali e degli scambi finanziari sono, singolarmente presi, del tutto impotenti. La nostra chance è sempre quella: l’unità politica europea. Unità che si allontana sempre più.

Perché ha stupito quando ha detto che questo governo ha meno bisogno di ingraziarsi la Chiesa perché su questioni come la famiglia e l’aborto c’è già una sintonia di fondo?

Perché è ovvio sia così; sulla carta, almeno. Poi, questo governo, se vuole mantenere buoni rapporti col Vaticano, dovrà radicalmente cambiare tono su altre questioni, a partire dalla tragedia degli immigrati.

Anche sull’inverno demografico c’è intesa?

Certo. La Chiesa non può che essere per una famiglia «che generi». E così penso dovremmo essere tutti consapevoli che una civiltà che non genera più è destinata a scomparire, a prescindere dalla nostra fede o dalle nostre filosofie.

Perché le sue affermazioni spiazzano i suoi interlocutori e anche lei si irrita di fronte a certe domande?

Perché ho questo grave difetto: l’impazienza. Me ne scuso con i miei interlocutori. Per quanto riguarda le mie idee, penso che spiazzino soltanto gli ipocriti: spesso non faccio che affermare come stanno le cose puramente e semplicemente.

In un’altra occasione ha detto che Giorgia Meloni è un’esponente di destra ma non è la Le Pen, sempre spiazzando i suoi interlocutori.

La destra francese ha caratteri propri che vengono da molto lontano. Non ha da «farsi perdonare» regimi fascisti perché non ce l’ha fatta a formarli – in compenso ha pienamente collaborato coi nazisti, come i repubblichini nostrani. Ma per certi versi – integralismo, nazionalismo, anti-semitismo – è stata anche peggio di quella italiana. Io credo che Giorgia Meloni mostri di aver pienamente superato tutta questa ideologia, a differenza della Le Pen.

C’è discrepanza tra i sondaggi su Giorgia Meloni, per ciò che valgono, e l’atteggiamento prevalente dei media?

Forse. Ma i sondaggi valgono ancora meno dei media che ormai, forse con l’eccezione della tv, non formano in alcun modo l’opinione pubblica. Gli italiani da vent’anni vanno cercando qua e là un’offerta politica decente. Assaggiano Renzi, poi i 5 Stelle, poi Salvini, ora la Meloni. I voti, fuorché residui zoccoli duri, come per il Pd il quadrilatero emiliano, sono mobili qual piuma al vento.

Ha avuto qualche contraccolpo a livello di visibilità e nei rapporti personali per le posizioni critiche assunte nel pieno della pandemia?

Di visibilità e popolarità, glielo assicuro, non me ne importa nulla. Ho criticato la gestione politica della pandemia, e non certo i vaccini. E credo che i fatti mi abbiano dato ampia ragione. Ora per fortuna abbiamo svoltato, e non ha più senso parlarne.

Studiosi e intellettuali come Giorgio Agamben e Carlo Rovelli ora sono visti con diffidenza, mal tollerati?

Agamben è il filosofo italiano più conosciuto al mondo. Non ha certo bisogno della tolleranza dei media italici.

La crisi della sinistra italiana è tutta figlia di quella europea o ci mette anche del suo?

Ci mette del suo, perché la sua è una storia del tutto particolare. Non si tratta della storia di una socialdemocrazia, come più o meno in tutti gli altri Paesi europei, ma di quella di forze diverse e per un lungo periodo anche divise; non solo Pci e Psi, ma anche sinistra Dc. Comporle non era difficile, era semplicemente impossibile. Il Pd poteva nascere soltanto da un nuovo progetto, e cioè dal riconoscimento da parte di tutti i soci della conclusione delle loro rispettive esperienze. È mancata ogni analisi storica e critica, e di conseguenza ci si è arrangiati a sopravvivere sull’eredità. Ciò ha condotto a una crescente subalternità, prima culturale e poi anche pratica, alle potenze economiche e politiche che guidano i processi di globalizzazione.

Dopo la sconfitta elettorale Enrico Letta ha detto: non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa. Secondo lei come può avvenire questa riconnessione?

Come si può credere a un segretario che esce con simili battute dopo una generazione che se le sente dire da tutti coloro che hanno ragionato sull’involuzione del suo partito?

Guardando al cammino intrapreso per il congresso le sembra che il Pd sia sulla buona strada?

Faccia un congresso aperto, serio, con tutto il gruppo dirigente dimissionario, con un programma che preveda un partito a struttura federale, che punta a un nuovo rapporto col territorio. Faccia tutto quello che non si sta facendo.

Per chi voterà tra i quattro candidati?

Non andrò a votare. Avrei votato Gianni Cuperlo se si fosse impegnato in questi anni in una battaglia interna dura e esplicita, formando una sua corrente.

A che cosa si deve il fatto che quasi tutti gli ultimi segretari del Pd o hanno lasciato la politica o hanno lasciato il Pd: Veltroni, Renzi, Martina, Epifani, Bersani.

In alcuni casi ai raggiunti limiti di età. Renzi non ha lasciato nulla, anzi, credo che ne sentiremo parlare ancora a lungo. Veltroni ha sbagliato tutto lo sbagliabile, lasciamo perdere. Martina mi sembrava in gamba. Ha forse i limiti caratteriali di un Cuperlo, non ama battersi.

Aprire al ritorno di D’Alema e Bersani è una buona mossa?

Non torna nessuno, mi creda.

Che cosa perde la Chiesa con la morte di Joseph Ratzinger?

La grande speranza della nuova evangelizzazione d’Europa e quella ancora più grande di una pace tra cristianesimo d’Oriente, russo, e d’Occidente.

Che cosa pensa delle proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

Ci sono sempre stati movimenti giovanili. Emergono e affondano come le sardine… primavere senza estate. Le forme stesse della comunicazione inducono tale precarietà. Non sta a me dare consigli – odiosissimo mestiere – ma direi loro: organizzate gruppi di discussione, di studio, date vita all’interno di scuole e università a iniziative autonome. Senza pensiero critico non ci si oppone al politichese regnante.

Conserva qualche elemento di speranza o è totalmente scettico sul futuro dell’Italia?

Disperare è impossibile. Anche il suicida, diceva Giacomo Leopardi, spera qualcosa; magari di distruggere la vita di chi gli sopravvive.

Approva il presidenzialismo?

Non sono mai stato contrario al presidenzialismo in sé. Sono contrario a riforme spot, ora le Regioni, domani il Parlamento, dopodomani il presidenzialismo. Una riforma istituzionale è di sistema o non è. Mi dicano che cosa col presidenzialismo deve mutare per Parlamento, Regioni e autonomie, e poi discutiamo.

Può essere un modo per irrobustire il processo decisionale e resistere alla globalizzazione degli stati di emergenza?

Potrebbe esserlo, sì. Ma alle condizioni che ho detto.

Ha mai pensato di tornare in politica?

Forse nell’aldilà, ormai.

 

Panorama, 25 gennaio 2023

«Il Pd? Un missile che perde i suoi tre stadi»

Claudio Velardi ha preso le distanze: dalla politica e da Roma. Privilegia la famiglia, la sua fondazione Ottimisti & Razionali e la vita sana a Napoli. Ogni tanto però, l’ex Lothar di Massimo D’Alema, ora più vicino al mondo renziano, lancia un sasso dal suo blog Buchineri.org confermando la proverbiale lucidità analitica. Per esempio, nel post d’inizio 2023 si chiede: «Moriremo meloniani?».

Corre questo rischio, Velardi?

Il rischio c’è, perché, al momento, nello scenario italiano, Giorgia Meloni mi sembra la persona più ragionevole, saggia e misurata. In un contesto più generale, questo rischio non c’è perché sono globalista, mercatista, iper-laico.

Come mai le opposizioni, il Pd soprattutto, chiedono alla Meloni di avere quelle soluzioni che in tanti anni governo loro non hanno trovato?

È un atteggiamento tipico di quando si passa dal governo all’opposizione. Nel caso del Pd si nota di più perché è un partito di iper-governo. Non è stato per poco nella stanza dei bottoni. Detto questo, da molto tempo sono pregiudizialmente dalla parte del governo, di qualsiasi governo.

Perché?

Perché chi si mette in animo di governare il nostro Paese è un pazzo. Fare opposizione è più facile. Si possono dire un sacco di fregnacce, che poi, una volta al governo, non si potranno realizzare. Basta pensare al video della Meloni contro le accise nei carburanti. Governare è il mestiere più difficile del mondo, basta pensare alle riunioni di condominio.

La legge di bilancio fatta in un mese e con l’obbligo di abbattere i costi delle bollette è così brutta?

Assolutamente no, è stata un percorso obbligato dalla crisi energetica. Poi contiene qualche contentino alle categorie di riferimento, ma questo avviene in tutte le manovre.

C’è anche qualche provvedimento che apprezza?

Certo. Trovo positivi i ritocchi al reddito di cittadinanza e l’allentamento della politica dei sussidi a pioggia.

Lo spoil system va fatto o no?

Metterlo in dubbio è una sciocchezza. Chi va al governo ha diritto a scegliere persone di cui fidarsi alle quali far realizzare ciò che ha in testa. In questa polemica si combinano due fattori. Il primo è che la casta della pubblica amministrazione si ribella per principio allo spoil system; il secondo è che questo apparato è in gran parte di area Pd. Matteo Renzi portò a Palazzo Chigi Antonella Manzione, la capa dei vigili urbani di Firenze, che naturalmente non aveva i requisiti formali per quel posto. La battaglia contro la burocrazia e il deep state è il primo banco di prova di ogni governo.

Ha ragione il ministro della Difesa Guido Crosetto quando dice che di burocrazia si può morire?

Non c’è dubbio. Lui imbraccerebbe il machete, Renzi preferiva il lanciafiamme.

Luca Ricolfi ha scritto che, contestando il governo anche quando riprende idee care alla sinistra, tipo il perseguimento del merito, il Pd finisce per contraddire sé stesso.

Quando, tra i primi, il ministro Luigi Berlinguer parlò di merito fu massacrato dai sindacati. Nel Pd credo siano scioccati dalla perdita del potere. E siccome intuiscono che non sarà un fatto temporaneo, perdono anche di lucidità. Invece, il saggio dice che quando si perde, conviene non agitarsi troppo per non peggiorare la situazione e procurare piacere all’avversario.

Che cosa prevede per il congresso Pd?

Difficile farne. Il Pd è come un missile a tre stadi. Il primo stadio è la testa, costituita dal mega-apparato, le burocrazie, gli amministratori locali, i professionisti della politica. È la struttura di potere del partito, indifferente ai posizionamenti, in possesso di una buona cultura democratica e di un formale ossequio dello Stato e delle sue procedure, almeno fino a quando non si toccano i suoi interessi.

Il secondo stadio del missile?

È la pancia del partito. Cioè i militanti, sempre da galvanizzare con discorsi de sinistra, non perché ci credano, perché sanno che spesso vincono spostandosi a destra e digerendo Lamberto Dini, Romano Prodi e Matteo Renzi che pure li prendeva a schiaffi. Ma sono in perenne attesa della rivincita, votati a una causa storicamente sconfitta. Per capirci: nelle sezioni i ritratti di Lenin stanno a fianco di quelli di Enrico Berlinguer e Aldo Moro.

Il terzo stadio?

Sono gli elettori, il popolo ingenuo e speranzoso, che fiuta ciò che accade fuori e aspetta il leader messianico. È la componente che porta i voti che sono il carburante.

Come si può far ripartire il missile?

Sincronizzando testa, pancia e cuore. Mica facile. Con la testa si conquista il centro del potere, con la pancia si muovono le truppe e con il cuore ci si mette in sintonia con il mondo reale. Volendo essere generosi, si può dire che Bonaccini è la testa, la Schlein la pancia e Gianni Cuperlo forse l’unico a tenere insieme i tre elementi. Se fossi del Pd sceglierei lui.

Dario Franceschini sta con Elly Schlein.

È un uomo di apparato che prova a congiungersi alla pancia. Il suo è il calcolo cinico di un professionista della politica.

Ha detto che una come Elly Schlein arriva ogni dieci anni.

E meno male.

La parodia di Enrico Letta proposta da Maurizio Crozza dice: «Noi della direzione abbiamo molto sentito parlare di questo esterno… Come se davvero esistesse qualcosa fuori da noi…».

La testa del Pd è una gigantesca rete di apparati. Perdere il contatto con la vita reale è un dramma reale.

Infatti il numero degli iscritti precipita.

Gli iscritti crollano perché iscriversi non dà nessun potere in più. Se ti iscrivi sei carne da macello di un capocorrente e nei momenti cruciali sei scavalcato da quelli che votano nelle primarie.

Stefano Bonaccini è seguito dall’agenzia Jump Communication di Marco Agnoletto, la stessa che cura la comunicazione di Che tempo che fa, Elly Schlein dall’agenzia Social changes che ha gestito le campagne di Barack Obama.

Rispondo da comunicatore. Quando si fa politica la comunicazione deve svolgere solo una funzione di servizio perché i soggetti della politica sono i leader non i comunicatori. Quando un politico si affida a un comunicatore è già a rischio. Lo diceva Abramo Lincoln: «Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre».

La convince di più l’azione del cosiddetto Terzo polo?

Secondo me hanno troppa fretta. Sul piano delle proposte li trovo coerenti. Calenda ha presentato un programma di pochi punti. Renzi quando interviene in Parlamento mostra un’intelligenza superiore alla media. Alcuni dirigenti stanno crescendo, come Luigi Marattin. Ripeto: non devono avere fretta. Invece Calenda ha dato sei mesi di vita al governo e Renzi ha dato appuntamento al 2024, non si sa in base a cosa. Io dico: calma e gesso, facciamo governare la Meloni perché è questo che vogliono gli italiani.

Perché dalla fine della Dc nessuno è in grado d’interpretare la maggioranza silenziosa?

Probabilmente, i cosiddetti moderati lo sono un po’ meno perché, a causa delle difficoltà di questi anni, hanno cominciato a incazzarsi.

I ceti medi sono un po’ meno medi?

Le difficoltà di natura sociale li hanno avvicinati alle forze populiste. Ora, dopo l’ondata di rabbia con i 5 stelle e dintorni, vedo più ricerca di condivisione, più ripensamento. Tendenze che il Terzo polo e Forza Italia dovrebbero riuscire a interpretare.

Renzi e Calenda sono attrezzati a farlo?

Una leadership bicefala non dà troppe certezze. Da inguaribile romantico auspico un passo indietro di entrambi. Calenda potrebbe recuperare il suo profilo di amministratore, Renzi ha doti da leader che prescindono dalla necessità di governare. Facendo un passo indietro potrebbero favorire nuove leadership. Altrimenti, quanto resisterà la fedeltà dell’elettorato di riferimento?

Che impressione le ha fatto la foto di Giuseppe Conte in un hotel di lusso a Cortina d’Ampezzo dopo quella nella mensa dei poveri?

Non me ne frega niente, faccia quello che vuole. Conte continua a fare il populista, ma saranno i cittadini dello Zen di Palermo a mandarlo a casa quando vedranno che non riuscirà a difendere il loro reddito di cittadinanza. La gente normale capirà di essere stata turlupinata.

Cosa prevede per le elezioni nel Lazio e in Lombardia?

Al netto di un possibile ma difficile exploit di Alessio D’Amato nel Lazio, vincerà il centrodestra.

E lei aspetterà ancora l’Araba fenice della politica italiana o si ritirerà a vita privata come il suo amico Fabrizio Rondolino?

Non proprio come Rondolino. Continuerò ad aspettare l’Araba fenice, ma dando alla politica un’importanza sempre minore. Mi diverto di più a studiare le tendenze in atto nel mondo, che sono più positive di quanto ci raccontiamo.

 

Panorama, 18 gennaio 2023